Mungu ibariki Africa - Terra e Popoli ONLUS
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Mungu ibariki Africa - Terra e Popoli ONLUS
Mungu ibariki Africa Di Cristina Iura In aeroporto di notte. Una bizzarra ragazza che ha viaggiato con me dal Cairo a Dar es Salaam. Così il primo piede in Africa. La prima sensazione del giorno, è stata quella di tanti passaggi veloci, che non riguardavano soltanto il tempo. Ero incuriosita da ogni particolare che catturava la mia attenzione, subito dopo capivo però che intanto davanti ai miei occhi, di particolari ne erano passati moltissimi, che mi sfuggivano così velocemente e restavo inerme, cercando di capire quanto più possibile. Sapevamo già che l’indomani ci aspettava un altro viaggio, quindi la permanenza è stata breve, ma abbastanza intensa per riuscire a cogliere degli odori nuovi, immagini di qualcuno che ti guarda perché sei così bianco e così sperduto da essere sempre osservato, soprattutto da chi vuole portarti in taxi o venderti qualcosa. Mi ritrovavo un po’ spaesata, in mezzo ai rumori di una città con un ritmo costante che a tratti mi appariva precipitoso. La mattina seguente alle 6, eravamo pronti per lasciare la città che già a quell’ora si muoveva come sveglia da un pezzo. Lo spostamento tra un posto e l’altro, è un viaggio. Un autobus pieno come un barattolo di palline colorate. I diversi colori si distinguono per i vestiti, per le borse di ognuno, colme sempre di qualcosa: pomodori, patate, mango, anche qualche gallina impaurita. I sedili sono stretti e odorano di lunghi tragitti. L’autista, una volta occupato il suo posto, raramente concede una sosta ma non manca occasione per poter comprare qualcosa durante le brevi fermate. In quei momenti se lo sguardo va oltre il finestrino, si può vedere uno sciame di persone, le più svariate che tentano di vendere cibo locale e bevande. L’impressione è quella di un’unica voce a più tonalità che ripete nello stesso momento più parole, che si tratti di qualcosa da vendere o un prezzo. L’approccio è diretto, forse con un po’ di invadenza però se si riflette, chissà da quanto tempo aspettano l’arrivo di un autobus, quanti ne vedono passare e quanti altri ancora ne aspetteranno per giornate intere con i loro cestini in testa. Fuori dal finestrino l’aria che passa è piacevole, cambia, ti accompagna in ogni passaggio di villaggio in villaggio, metti fuori la testa per sentire il vento quasi come per curiosare meglio. Gli alberi immobili, qualche animale si riesce a vedere in lontananza, l’aria che accarezza le tue dita, il tuo braccio, rende tutto più vero e vicino. Il fascino di questo viaggio non è facile da descrivere e trova il vero senso nella sua destinazione, Songea per poi arrivare al villaggio. Quando sono arrivata al villaggio, era notte, tutto dormiva. La percezione di ogni cosa era ridotta però ricordo benissimo la luna e la sua grande e bianca luce in mezzo alle nuvole, riusciva ad illuminare la stradina piena di buche, una luce molto più forte dei deboli fari della motocicletta che ci avrebbe fatto arrivare a Nambehe. Ricordo bene anche il silenzio interrotto solo da un milione di pensieri che giravano e facevano rumore nella mia testa. Tutto è stato immediatamente diverso dalla città, una strana aria familiare, come di casa, le sensazioni che ho provato si sono accavallate da subito (dal canto del gallo la mattina, che rimarrà in assoluto una delle cose che più mancherà, fondamentale per l’inizio di ogni giorno, armonioso, una sveglia senza ticchettio, un canto che si modella perfettamente con tutto quello che ti circonda). Come sempre quando arrivi in un posto nuovo, la curiosità si muove da sola verso qualsiasi cosa appartenga a quel luogo e a quella gente. Un posto in cui i ritmi sono del tutto diversi, più lenti, scanditi…più tempo per salutare una persona cara, più tempo per godere di un cielo stellato senza luci intorno, calpestare le foglie cadute dagli alberi che ancora danzano con le stagioni. Non è semplice descrivere un sorriso sincero, un saluto cordiale, una donna che ti aiuta a portare un secchio d’acqua, la vera ospitalità, quella semplice, la saggezza di un anziano, una porta che si sbatte per il vento africano, un’emozione che non riesci a gestire davanti a dei bambini che cantano e pensare che è qualcosa che ti fa sentire felice. E’ bello sapere che bianco e nero sono due facce della stessa medaglia, sono la stessa cosa mischiate solo per fantasia di colori. Ritrovare, anzi scoprire una felicità che si trova nei gesti più semplici, quelli più veri. Il mio contatto con quei gesti è stato facilitato dalla mia ignoranza per quanto riguarda la lingua locale, una difficoltà non indifferente che spesso mi ha fatto pensare a quanto in più avrei potuto dare o esprimere conoscendo la lingua. Subito dopo capivo che in quel modo forse avrei sottovalutato moltissimi gesti e anche la pazienza di chi si fermava a parlare con me, usando i modi più svariati per farsi capire. Comunicare non è solo una parola dopo un’altra, anche un sorriso, o un disegno sulla sabbia sono un ricordo speciale. Però a volte mi sono fermata a pensare cosa mi mancava dell’Italia, difficilmente avrei immaginato di pensare e sentire invece che tornando a casa, la mancanza era forte di quello che avevo lasciato al villaggio. Il rientro, ha avuto un forte impatto su di me. Schiacciata dal peso di questa occidentale ossessione del tempo, di un benessere sterile. La fortuna però di non riconoscersi in qualcuno che è sempre alla ricerca di una felicità che troverà mai...cosa può rendere l’uomo felice se ha perso i sentimenti? Ognuno di noi dovrebbe avere il coraggio di trovare il coraggio per osare, per avere un altro posto dove andare, per essere qualcuno da voler ricordare. Cosa è l’Africa? Me lo sono chiesta spesso. È stato come vivere in un fuoco in mezzo ad una tempesta che non accenna a spegnersi, anzi si mantiene caldo…come il caldo torrido che senti mentre batti i tuoi piedi sulla sua terra rossa. La tempesta era la mia mente, tutto il resto è Africa.