l`amore servizievole ai poveri
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l`amore servizievole ai poveri
BERNARDETTA E L’AMORE SERVIZIEVOLE AI POVERI 1 Cor 13,1-8 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Dopo aver istruito i Corinti sul come comportarsi nelle riunioni di culto e durante la celebrazione della cena del Signore (cfr 1Cor 11,2-34), Paolo affronta il tema relativo al discernimento dell’azione dello Spirito all’interno della comunità. Tra i doni che lo Spirito aveva effuso abbondantemente in quella comunità cristiana, i Corinzi erano tentati di apprezzare soprattutto i più spettacolari e di usarli in un'atmosfera un po' anarchica e semipagana. Così soprattutto i doni di carattere intellettuale diventavano occasione di vanto e di rivalità, e le riunioni, troppo incentrate sul sentimento e sull'esperienza, somigliavano talvolta ai riti orgiastici di Dioniso: «quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti, secondo l'impulso del momento» (1Cor 12,2). Anzitutto l’Apostolo cerca di far capire in generale che è l’unico Spirito a produrre le diversità dei doni (cfr 1Cor 12,1-31), i quali non si contrappongono l’uno l’altro, ma convergono verso la crescita dell’unico corpo che è la Chiesa. Come infatti il corpo umano, nella diversità di membra e di funzioni, ha bisogno di ogni suo elemento per vivere e crescere, così solidarietà, condivisone, comunione, crescita sono gli effetti prodotti dall’opera dello unico Spirito all’interno della Chiesa, mistico corpo di Cristo. Certo tra i vari doni dello Spirito, alcuni hanno un'importanza maggiore, perché stanno a fondamento della Chiesa. C'è quindi una gerarchia tra i doni: prima vengono quelli che sono indispensabili per l'esistenza stessa della Chiesa (apostoli, profeti, maestri) e solo dopo quelli dei miracoli, delle guarigioni, di assistere, di governare, delle lingue. Non tutti hanno lo stesso dono, ma poiché ciascuno aspira ai doni più grandi, Paolo mostra che ce n’è uno superiore a tutti, l’amore (agapê) e spiega che il dono non è una affermazione personale di se stessi, ma strumento di edificazione della comunità. Dunque, al vertice di tutto sta la carità (agàpe, amore), senza la quale i carismi finirebbero per non essere più un dono, ma una disgrazia per la Chiesa. Alla carità/amore Paolo tesse uno splendido inno, presentandolo non come un carisma tra i tanti, ma come «la via migliore» che tutti devono cercare di percorrere. Paolo parla di questo nel c. 13 che si divide in tre parti: la prima (vv. 1-3) descrive la superiorità dell’amore, la seconda (vv. 4-7) le opere dell’amore, infine (vv. 8-13) si canta l’eternità dell’amore. Vediamo il testo nel suo insieme. CARISMI E CARITÀ (1COR 13,1-13) A. Solo l’amore importa: superiorità della carità/amore (vv. 1-3) v. 1 Se anche parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho l’amore sono un bronzo sonante o un cembalo squillante v. 2 e se anche ho la profezia e conosco i misteri tutti e tutta la scienza; e se anche possiedo tutta la fede, sì da trasportare le montagne, ma non ho l’amore, non sono niente v. 3 e se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho l’amore, non mi giova a nulla. B. Solo l'amore trionfa: le opere dell’amore (vv. 4-7) v. 4 l’amore porta pazienza, l’amore è benevolo, non invidia, l’amore non si vanta, non si gonfia, v. 5 non compie azioni di cui vergognarsi, non cerca le proprie cose, non si inasprisce, non calcola il male ricevuto, v. 6 non gode dell’ingiustizia, ma gioisce insieme alla verità v. 7 tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta C. Solo l'amore dura: eternità dell’amore (vv. 8-13) v. 8 L’amore non viene mai meno, invece sia le profezie verranno abolite, sia le lingue cesseranno e sia la scienza sarà abolita v. 9 poiché noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo v. 10 ma quando sarà venuta la perfezione, quello che è solo in parte sarà abolito v. 11 quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino v. 12 poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto. v. 13 Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza e amore; ma la più grande di esse è l’amore. A. Solo l’amore importa: superiorità della carità/amore (vv. 1-3) In questa prima parte Paolo sottolinea in modo sorprendente che la via maestra e superiore a tutte è quella dell’amore, anzi senza di esso nulla ha valore. L’amore viene confrontato con nove carismi, di cui cinque già ricordati poco prima in 1Cor 12, 8 - lingue, profezia, sapienza, scienza, fede – che i Corinti desideravano possedere e li stimavano come il vertice della santità. Il termine agapê può essere reso con “carità”, seguendo il senso del vocabolo latino che però ha perso di valore nella comune accezione; meglio dunque renderlo con “amore”, seppure anche questo concetto sia di non facile definizione. L’agapê, infatti, ha una enorme valenza nella Bibbia, in quanto evoca tutta la storia della salvezza che è nata dall'amore di Dio (cf. Gv 3,14; Rm 5,5-8) in vista della risposta d'amore dell'uomo. La «carità/amore» ha quindi due aspetti complementari: è amore di Dio accolto, corrisposto e condiviso, è dono e insieme risposta, è il dono divino per eccellenza che muta dall'interno l'esistenza del credente e diviene quindi presenza del Regno nella vita e nella storia. La presenza o l'assenza di questo amore determina l'essere o il non essere del cristiano, il suo valore o dis-valore! v. 1 Se anche parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho l’amore sono un bronzo sonante o un cembalo squillante Il primo termine di confronto dell’amore sono “le lingue degli uomini e degli angeli”. Paolo pensa in prima istanza al fenomeno della glossolalia, ma i termini sono così ampi da indicare qualunque tipo di linguaggio umano e celeste. Se uno avesse la facoltà di parlare con chiunque perché comprende e sa rispondere, ma non avesse l’amore il suo sarebbe solo un blaterare, un “bla, bla, bla” insignificante. Le locuzioni “bronzo risonante” e “cembalo squillante” non vogliono essere una disistima della musica, ma di fatto hanno un’accezione negativa, ad indicare un rumore più o meno assordante e scollegato, come poteva avvenire in qualche rito pagano in cui questi strumenti erano impiegati. Sulla base della esperienza avuta all’aereopago, forse l’Apostolo vuole ironizzare sull’arte del linguaggio come retorica chiusa in se stessa, incapace di aprirsi al mistero di Dio, mentre l’amore è in grado di penetrarlo fino in fondo. Dunque anche il miglior suono della terra o del cielo, senza l’amore, non è che un rumore. v. 2 e se anche ho la profezia e conosco i misteri tutti e tutta la scienza; e se anche possiedo tutta la fede, sì da trasportare le montagne, ma non ho l’amore, non sono niente. Ora il confronto viene fatto con dei carismi ancor più rilevanti: la profezia, seconda solo all’essere apostoli (cfr 12,28) non è un suono chiassoso e incomprensibile; analogamente anche l’accesso ai misteri e a tutta la scienza, che significa giungere a conoscere verità che solo Dio può rivelare, pone in una situazione di privilegio; infine lo stesso possesso di tutta la fede, capace di operare i miracoli (cfr Mc 11,22s), unita agli atri doni appena presentati, fa ritenere giusti e importanti coloro che ne sono in possesso. L’insistenza sulla totalità di questi doni (i misteri tutti, tutta la scienza, tutta la fede) fa sì che il confronto con l’amore non ammetta riduzionismi. Ebbene Paolo afferma che tutti coloro che hanno i doni ritenuti i più grandi e li hanno al massimo grado, ma sono privi dell’amore, non solo non sono importanti, di fatto sono semplicemente niente, e questa affermazione non vuole certo essere retorica. v. 3 e se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho l’amore, non mi giova a nulla. Il confronto è ora con la prassi dei credenti, almeno con quello che può essere comunemente visibile e stimabile, riguardo alle opere di misericordia e di dedizione agli altri. Se il giovane ricco era stato incapace di condividere i propri beni (cfr Mc 10,17-22), Paolo prende qui in considerazione la possibilità che uno elargisca tutte le proprie sostanze, giungendo persino a vendere se stesso come schiavo per venire in soccorso del bisognoso. A questo allude, infatti, l’espressione “dare il corpo per essere bruciato”, con un probabile riferimento alla prassi di porre un sigillo a fuoco sugli schiavi. Si tratta dunque di un credente veramente eroico che accetta di divenire schiavo in favore di un altro! Certo a noi rimane difficile comprendere come si possa giungere fino spendere tutto se stesso e non avere l’amore, eppure ogni azione, anche quella apparentemente più nobile, può di fatto essere viziata dall’amor proprio, dalla ricerca della propria immagine. Paolo è contro il pragmatismo dell’apparire e dell’efficienza senza amore, in ogni storia occorre entrare con amore e rispondervi con libertà di cuore, altrimenti anche i comportamenti più eroici finiscono per risultare inutili, perché solo l’amore attribuisce valore a ogni altro dono cristiano. Pensiamo, ad esempio, a quanto afferma Matteo a proposito del giudizio universale (cap. 25): tutto in quel contesto pare essere ricondotto a delle opere concrete come dare da mangiare, da bere ecc., ma con esse non sembra venga richiesto un cuore capace di amare. Di fatto, però, non è così. L’affermazione di Paolo risulta davvero frutto di una profonda intuizione mistica ricevuta dal Signore: Dio è Amore, Lui solo. Per questo l'amore è il primo e il più importante di tutti i doni, senza il quale nulla ha valore. Sorge allora spontanea la domanda su che cosa sia dunque l'amore, e a questa vogliono rispondere in modo indiretto i vv. 4-7. B. Solo l'amore trionfa: le opere dell’amore (vv. 4-7) Noi amiamo di solito le definizioni, pensando che una volta concettualizzato un pensiero sia di fatto posseduto, tuttavia questo modo di fare conduce facilmente tutto ad un’astrazione. La Bibbia si comporta in modo diverso, essa di solito non ama definire, quanto piuttosto narrare: ecco allora che si descrive Dio che crea, che libera dall’Egitto, che riconduce il popolo da Babilonia nella terra promessa… Su questa linea Paolo preferisce descrivere l’amore, lo personifica, dicendo che cosa fa e che cosa non fa, perché l’amore non si può definire o delimitare, ma solo vivere. Per fare questo l’Apostolo si serve, in modo significativo, di quindici verbi (7+7+1). Se il numero sette è il simbolo della perfezione essa è qui raddoppiata e ulteriormente enfatizzata con l’aggiunta del + 1, come spesso avviene nell’uso biblico. Delle 15 opere descritte tre sono positive (l’amore porta pazienza, è benevolo l’amore, gioisce insieme), otto negative (non invidia, non si vanta, non si gonfia, non compie azioni di cui vergognarsi, non cerca le proprie cose, non si inasprisce, non calcola il male ricevuto, non gode dell'ingiustizia), e infine 4 ancora positive (tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta). Colpisce che dell’amore si sottolinei maggiormente quello che “non fa” o meglio quello che “fa non facendo”, ed anche le sette opere positive di fatto sembrano implicare un patire più che un agire. Dunque amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono. Messo alla prova l'amore vero tollera, pazienta, sopporta. Con quindici verbi Paolo tenta così di descrivere questo amore come forza operante e trasformante. È un amore che ha un cuore grande e sa sopportare e soffrire, che apre gli occhi sui bisogni e le necessità degli altri e va loro incontro; non vuole avere tutto e non pretende d'avere su di sé tutti gli sguardi degli altri, né mette davanti a tutti i propri pregi o li accresce per averne stima, perché per lui tutti valgono e meritano rispetto; è un amore che teme di ferire e di umiliare, non usa la violenza per difendere le cose sue e i suoi interessi, ma passa sopra e dimentica le offese; non conosce la gioia triste del male altrui, mentre gode di ciò che è vero e giusto. Sa scusare tutto, è senza secondi fini, non perde mai la fiducia, non si spaventa di fronte al male che capita. v. 4 l’amore porta pazienza, l’amore è benevolo, non invidia, l’amore non si vanta, non si gonfia La prima caratteristica dell’amore è l’essere instancabile, cioè paziente, l’avere un “animo lungo” che sa attendere e non si misura sulla propria giustizia, accettando che l’altro entri nella propria vita così come egli è. Si fa giustamente notare che questa è la prima caratteristica dell’amore di Dio nei riguardi del suo popolo di ”dura cervice” (cfr Lc 18,7; 2Pt 3,9; Rom 2,4; 9,22) ed è la prima caratteristica richiesta all’amore dell’uomo nei confronti del fratello; la pazienza di cui si tratta, infatti, non è quella che si esercita nei confronti delle circostanze della vita o di se stessi, ma nei riguardi del prossimo. L’amore paziente è quello che non valuta i tempi dell’altro in base ai propri, ma è disposto ad accettare i ritmi di crescita e le sensibilità altrui, fiducioso nella forza stessa dell’amore. La seconda qualità dell’amore, anch’essa riferita nella Scrittura a Dio o allo Spirito santo (cfr Gal 5,22), in parallelo con la prima, è la benevolenza. L’amore non solo sa pazientare, ma va anche positivamente incontro all’altro, si espone e si propone agendo con bontà e spirito di servizio, fa del bene a colui che fa torto. Queste prime due caratteristiche dello agapê vanno tenute insieme come aspetto passivo e positivo-creativo dell’amore per evitare riduzionismi o protagonismi. È interessante notare che è stato lo stesso Paolo a coniare questo verbo greco (chrêsteuomai, è benevolo), infatti è la prima ricorrenza di essa nel NT e nella letteratura greca. Non invidia, l’amore non si vanta, non si gonfia: l’invidia è l’incapacità di gioire del bene altrui, rattristandosi nel vedere negli altri quegli aspetti positivi di cui ci si sente mancanti. L’amore non può tollerare questo sentimento, proprio perché per sua natura vuole il bene dell’altro. Vantarsi e gonfiarsi sono poi manifestazione della superbia, dell’amore sfrenato del proprio io, tipico di chi vuole affermare se stesso sugli altri, di chi intende ridurre gli altri a sgabello del proprio trono, così da usare e abusare del prossimo come esibizione di stessi e della propria immagine. Ma il vero amore insegna “a non valutarsi più di quello che è conveniente”(Rom 12,3), preoccupandosi di darsi agli altri e non di affermare se stesso. Poco prima Paolo aveva rimproverato i Corinti di “gonfiarsi di orgoglio” e tale espressione compare sei volte nella lettera (4,18. 19; 5,2; 8,1; 13,4), una volta in Col 2,18 e mai più nel NT, segno che era davvero un problema di quella comunità, minata da un forte spirito di parte (“sono di Apollo, di Pietro, di Paolo…”) dovuto e alimentato dall’esaltazione personale. Queste prime tre qualità negative dell’amore sono di fatto sinonimiche e hanno in comune una lettura falsata ed esagerata di se stessi che porta a vantarsi e ad esaltarsi, a gonfiarsi appunto come palloni pieni d’aria trasportati dal vento del proprio io, che implica sempre un giudizio negativo sugli altri, una svalutazione e un abbassamento della loro dignità e del loro valore. L’amore di Dio invece non giudica, ma perdona, non abbassa, ma esalta alla dignità di figli di Dio. v. 5 non compie azioni di cui vergognarsi, non cerca le proprie cose, non si inasprisce, non calcola il male ricevuto. Il primo verbo di questo versetto, (aschêmoneô), ha come senso di base “ciò che non è fatto secondo la forma dovuta” (schêma) e può essere tradotto come abbiamo fatto noi con “non compie azioni di cui vergognarsi”, oppure con “non si comporta in modo sconveniente” o “non manca di rispetto”. Si tratta insomma di evitare tutto ciò che è disonorevole, indecente in senso ampio, non solo in riferimento alla sfera sessuale, anche se è questo il senso in cui ricorre nell’unica altra attestazione (1Cor 7,36). L’amore, dunque, oltre a non gonfiarsi evita di compiere azioni che non rispettino la dignità dell’altro, trattandolo come se non ne avesse alcuna. non cerca le proprie cose: l’amore non è come prima cosa preoccupato del proprio interesse, del proprio tornaconto. Il tratto distintivo è il disinteresse e la gratuità, il non usare l’altro per i propri fini. È vero che l’interesse di chi ama è l’amore stesso, nel senso che questo è nutritivo, ma è ugualmente vero che l’amore si dimentica, è gratuito, ed è proprio questo aspetto che Paolo mette al centro della sua descrizione dell’amore. Ora la caratteristica della gratuità è sembrata così eccessiva e strana, che alcuni manoscritti antichi hanno inserito nel testo il monosillabo “non” (mê) con la conseguente traduzione: “ l’amore non cerca quel che non è suo ”, cosicché l’amore viene di fatto a coincidere con la virtù della giustizia. Certo “l’amore non reca torto al prossimo” (Rom 13,10), quindi non è contro la giustizia e tuttavia la sorpassa, perché rinunzia a “farsi giustizia da sé” (Rom 12,19). Paolo si muove sulla linea dell’insegnamento di Gesù: «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, mostragli anche l'altra» (Mt 5,39), solo un amore gratuito e disinteressato sa essere universale e non misurato su se stessi, proprio come l’amore di Dio che “non fa parzialità” (Rom 2,11; Gal 2,6). Le preferenze del cristiano, se ne ha, andranno agli umili (Rom 12,16), a quelli da cui non ci si può attender nulla in contraccambio (cfr 14,1314) e se gli viene comandato in modo specialissimo di amare i nemici (cfr 1Cor 4,12; Rom 12,20-21; Mt 5,44-48; Lc 6,27-36), la ragione è questa: che nessun amore è più di questo gratuito e disinteressato, più simile a quello di Dio stesso e di Cristo, che non ha «tenuto per sé, con animo geloso, l'eguaglianza con Dio, ma si è annientato» (Fil 2,6-7) che «da ricco si è fatto povero, per arricchirci con la sua povertà» (2Cor 8,9) e «ci ha amati quando noi eravamo ancora empi, peccatori», cioè «nemici» (Rom. 5,6-10). non si inasprisce: raggiunto il vertice dell’amore, collocato nella sua dimensione di gratuità, Paolo riporta alla concretezza dell’esperienza dove si tratta di confrontarsi con i propri sentimenti e impulsi. L’amore non è permaloso, suscettibile nel senso che non si lascia provocare dal moto di ira e quindi non agisce mai sotto l'impulso di sentimenti istintivi e irriflessi o moti di rabbia. L’amore insegna a tenere a freno parole e gesti inconsulti, insegna cioè a ristabilire al più presto possibile il dominio della ragione sull'istinto, a non permettere che «il sole tramonti sulla nostra ira» (Ef. 4,26). non calcola il male ricevuto: si parla di solito di memoria di elefante che non dimentica mai i torti subiti e che al momento opportuno presenta il conto, ma l’amore non può mantenere un registratore di cassa per i debiti degli altri e i torti subiti, non può vivere di rancore e in attesa di vendetta. Non tenere il registro del male significa perdonare, solo questo amore-perdono è capace di dissolvere alla radice il male, di generare speranza e di capovolgere le situazioni negative. v. 6 non gode dell’ingiustizia, ma gioisce insieme alla verità: di fronte ad alcune disgrazie o a comportamenti ingiusti subiti dagli altri, è piuttosto comune sentire dire frasi come: “ben gli sta”, “se lo meritava”, espressioni che denotano un certo compiacimento per quello che accade di ingiusto soprattutto a coloro dai quali si è ha subito un torto. Ora l’amore non può gioire dell’ingiustizia morale, chiunque sia colui che la subisce, anzitutto perché l’altro non può essere valutato come un nemico, anche se ha offeso, e perché l’amore non defrauda e non può tollerare la falsità dell’ingiustizia, dell’immoralità. Complementare al non godere dell’ingiustizia è il gioire insieme alla verità: l’amore non può gioire quando la verità è negata, nenache quando da tale negazione ne può ricevere un vantaggio. Certo per i credenti la verità non è solo la cosiddetta “oggettività delle cose” colte alla luce della ragione, la verità è Gesù, “Io sono…la verità” (Gv 14,6) e la sua verità rende liberi, perché liberati (cfr Gal 5,1.13), la verità è onesta è trasparenza. v. 7 tutto sostiene, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta Dopo aver rimarcato ciò che l’amore non fa, si passa ad analizzare l’azione positiva dell’amore. Anzitutto l’amore non frammenta, non spezza, ma è contrassegnato da totalità, interezza, completezza; l’amore o è tutto o è niente, non divide, ma unifica. Per quattro volte infatti l’aggettivo tutto appare a dare ritmo all’agire dell’amore. tutto sostiene: il verbo (in greco stegei) è ritenuto dai più parallelo a quello dell’inizio del v. 3 (“è paziente”) formando con esso una inclusione tematica. L’amore è capace di soffrire e dunque di sostenere l’altro, come viene ribadito anche dall’ultima qualità attribuitagli. È possibile, però, cogliere nel verbo stegô un’altra sfumatura: esso infatti, significa “coprire” e da esso deriva appunto il sostantivo “tetto” (stegê). L’amore, dunque, nasconde, non mette alla gogna il male e i difetti altrui, come afferma anche 1Pt 4,8. Ciò non vuol dire che l’amore sia cieco, ma piuttosto che esso è misericordioso, sa che non può giudicare, per la incapacità di conoscere la profondità del cuore altrui. Ecco, allora, l’attitudine a coprire, a proteggere per aprire alla speranza, come Gesù che copre e protegge Giuda dall’atteggiamento inquisitorio degli apostoli. Insomma l’amore non mette in piazza le debolezze altrui, per non esporre l’altro ad ulteriore male. tutto crede: il primo atteggiamento dell’amore non è la diffidenza, ma la capacità di dar credito e fiducia, senza tuttavia essere superficiale o sprovveduto, confidando nella sua potenza interna, che è in grado di vincere ogni simulazione e diffidenza. L’amore non si fa abbindolare dalla menzogna di un qualsiasi mascalzone, ma è sempre pronto a concedere il beneficio del dubbio, senza perdere mai la fiducia. Il terreno in cui vive l’amore è la fede, con essa sa che tutto è possibile. tutto spera: fede e speranza, la prima è la roccia del presente, la seconda ha lo sguardo rivolto al futuro con ottimismo, perché ha già il pegno di amore. Con la speranza l’amore è immesso in una dinamica di crescita, non si tratta di un ottimismo irrazionale, ma di sapere che la forza dell’amore con il quale Cristo ci ha amato è più forte di ogni negazione (cfr Rom 8,31-39). tutto sopporta: in attesa nel compimento futuro l’amore sa attendere con perseveranza. Il verbo greco hypomenô tradotto con “sopportare” non denota una rassegnazione passiva, una semplice capacità di resistenza eroica, ma una forza d’animo attiva e positiva, il sopportare, infatti, trae con sé un senso di attesa fiduciosa e di speranza certa, che produce una pazienza operativa per uscire vittoriosi dalle sofferenze d’amore. Un amore siffatto sa davvero scusare tutto, essere senza secondi fini, non perdere mai la fiducia, e non spaventarsi di fronte al male che capita. C. SOLO L'AMORE DURA: ETERNITÀ DELL’AMORE (vv. 8-13) v. 8 L’amore non viene mai meno, invece sia le profezie verranno abolite, sia le lingue cesseranno e sia la scienza sarà abolita L’amore non viene mai meno: alla lettera “non cade mai”. Tale espressione suggerisce l’immagine di un muro che crolla di un edifico che collassa. Nell’edifico dell’amore, però, questo non avverrà mai, l’amore genuino resisterà sempre ad ogni tempesta ad ogni assalto di morte. Dobbiamo, però, chiederci di quale amore si tratta: di quello umano o di quello divino? In assoluto tutto questo vale solo per Dio, solo lui è capace di un’amore invincibile, durevole, senza limiti di tempo e di condizione, ma il suo amore viene riversato sulla creatura umana che è resa capace di questa infinità divina: “le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,7). Lasciandosi amare da Dio la creatura fa esperienza del suo amore e lo Spirito elargito rende capaci di rispondere all’amore con amore. Un amore così non avrà mai fine, mentre verrà il tempo in cui tutti gli altri carismi cesseranno la loro funzione. Invece sia le profezie verranno abolite, sia le lingue cesseranno e sia la scienza sarà abolita: mentre l’amore permane, tutti gli altri doni, elevati e buoni sono destinati a scomparire. La profezia intesa come conoscenza indiretta di Dio mediata dal profeta, non avrà più ragione di esistere, perché saremo davanti a Dio; le lingue, intese come linguaggio mistico indecifrabile del glossolalo, cesseranno, perché ci sarà direttamente la Parola, Gesùrivelazione, comunicazione specifica per tutti; la scienza (gnosis) o la conoscenza, quale accesso per gli iniziati alle misteri segreti di Dio, sarà abolita perché Dio sarà conosciuto e accessibile nella sua trasparenza e luminosità. v. 9 poiché noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo v. 10 ma quando sarà venuta la perfezione, quello che è solo in parte sarà abolito La vita umana è inevitabilmente sotto il timbro della parzialità e, per quanto geniali siano la conoscenza e l’ingegno dell’uomo, essi sono limitati e non riescono a racchiudere il tutto. L’amore invece è il tutto e quando esso comparirà nella sua interezza, la parzialità si dissolverà come nebbia al sole. Dobbiamo notare che il sostantivo perfezione è enfaticamente determinato dall’articolo (to teleion) e, come spesso nell’uso paolino (cfr 2, 6; 14, 20), non indica una qualità, ma la totalità: il confronto, dunque, non è tra il buono e il migliore, ma tra la parte e il tutto: l’amore è l’intero e il completo. v. 11 quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino v. 12 poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto. Quanto affermato nei due precedenti versetti viene ora sviluppato ed esemplificato mediante due paragoni. Il primo si muove sul rapporto di continuità e di differenza tra il bambino e l’adulto: entrambi pensano, ragionano, parlano, agiscono, ma chiaramente l’adulto cessa lo stadio della fanciullezza di cui integra i valori specifici ad un altro livello, quello della maturità e della pienezza. Il secondo esempio prende le mosse da un dato esperienziale: a Corinto venivano fabbricati degli specchi che, a differenza dei nostri, non riflettevano un’immagine nitida e chiara, dal momento che erano in bronzo lucidato oppure di vetri opachi, secondo la generale manifattura del vetro dell’epoca. Con tale paragone, Paolo intende dunque significare che la conoscenza di se stesio e delle cose è ora simile a quella opaca e diffusa dell’immagine di uno specchio, ma alla fine sarà diretta e senza mediazione. L’amore dunque è l’unica realtà definitiva e totale, è conoscenza diretta e trasparente, è stato adulto di maturità, l’amore non verrà mai meno. v. 13 Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza e amore; ma la più grande di essere l’amore. Questo versetto si presta a diverse interpretazione a motivo del valore da attribuire a “ora dunque” e al verbo “durano”. La prima espressione può avere un significato temporale o conclusivo: nel primo caso si afferma che fede, speranza e amore ora costituiscono la vita del credente, ma poi alla fine della storia rimarrà solo l’amore; nel secondo significato si introduce una apertura escatologica, affermando che nell’eternità vivremo ancora di fede, speranza e amore, ma quest’ultimo sopravanzerà su tutto. Alla fine di questo inno ci rendiamo conto che nel parlare dell’amore in tutte le sue componenti, positive e negative, Paolo non si è lasciato trasportare da un’impulso poetico, ma si è fatto scorrere nel cuore e nella mente il comportamento di Dio e in particolare della figura di Cristo: il suo agire, il suo vivere e morire danno alle parole di Paolo il timbro della verità. L’amore per gli uomini ha portato Gesù alla morte, “nessuno ha un amore più grande…”, ci amati davvero in modo totale e completo, fino all’estremo limite e quando sulla croce dice “tutto è compiuto” è come se dicesse ho dato tutto, ed ora sto amandovi e perdonandovi per rendervi capaci di amare a vostra volta. L’amore di Cristo ha reso amabili gli uomini e li ha fatti preziosi in modo tale che nessuno può rivolgersi al fratello con disprezzo e senza considerazione, perché il fratello è amato da Dio che lo ha considerato al punto che suo Figlio si è dato per lui. Gesù insegna che non si ama il fratello per quello che ha o può dare, ma solo per quello che è davanti all’amore di Dio. PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA “Se anche parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho l’amore sono un bronzo sonante o un cembalo squillante”: secondo l’esempio di Paolo solo l’amore è capace di fare di un suono una dolce armonia. Chiediamoci allora se le azioni e i gesti che compiamo, se le parole che pronunciamo, se le relazioni che viviamo, sono solo un rumore indistinto, o se invece sono attraversate dall’amore? Siamo solo “bronzi risonanti” nei nostri atteggiamenti? “Cembali squillanti” nei nostri rapporti con i fratelli e con il Signore? Oppure lasciamo davvero che sia l’amore a plasmarci e a plasmare tutto quello che facciamo, così da dare ad ogni cosa un significato e un valore profondo? Se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho l’amore, non mi giova a nulla”: Paolo ci interroga oggi anche sul nostro modo di essere “cristiani impegnati”, sul nostro spenderci, fosse anche per il fine più nobile, per il bene dell’altro. Quante volte di fatto la nostra generosità di tempo, di sostanze, di attenzioni per gli altri sono in realtà viziate dal nostro amor proprio, dal desiderio di apparire, di ricevere gloria e riconoscimento, anche se spesso non siamo disposti ad ammetterlo neppure a noi stessi? Chiediamoci, dunque, con sincerità e onestà: quali sono di fatto le motivazioni profonde che animano il nostro agire? Paolo descrive l’amore attraverso quello che fa e quello che non fa, identificandosi di fatto con una persona che compie delle azioni concrete. Posso allora confrontare le azioni e il modo di essere dell’amore con il mio, per mettere in atto un autentico esame di coscienza della mia vita. Come l’amore descritto da Paolo porto pazienza? Sono benevolo? Provo invidia? Mi vanto? Mi gonfio? Compio azioni di cui vergognarmi? Cerco le mie cose? Mi inasprisco? Calcolo il male ricevuto? Godo dell’ingiustizia? So gioire insieme alla verità? Sostengo tutto? Credo tutto? Tutto spero? Tutto sopporto? Da un tale confronto è inevitabile uscire mancanti, perché l’unica persona che si può totalmente identificare con l’amore e che può di fatto definirsi “amore fatto persona” è Cristo, che si è incarnato proprio per farci vedere cosa dobbiamo fare e come per poter diventare anche noi personificazioni di tale amore. Non possiamo quindi non domandarci quanto di fatto poniamo Cristo come modello della nostra vita, nel nostro modo di pensare, di relazionarci con gli uomini e le donne del nostro tempo, nel nostro rapporto filiale verso il Padre, nel nostro modo di amare? Quanto spazio diamo a Lui e alla sua Parola? A quanti e quali altri modelli lasciamo che si attacchi il nostro cuore? Noi siamo quello che amiamo, ma se l’oggetto del nostro amore è Cristo, sarà Lui stesso a conformare il nostro amore umano a quello divino, cioè al suo. TESTI PER LA RIFLESSIONE 1. Dal “Quaderno di note intime” di S. Bernardetta Soubirous Anche se, per essere degna di servirvi nei poveri, occorresse rifondere il mio carattere, combattere incessantemente e distruggere le mie inclinazioni, lacerare il mio cuore con le violenze più penose alla natura, io sono pronta ad intraprendere tutto, ben persuasa che il prodigio che voi avete operato per ricompensare la fede della nostra santa patrona non è che l’annuncio della risurrezione gloriosa che vi degnerete di accordarmi, se io rispondo alla mia vocazione. Essere più caritatevole in avvenire verso il prossimo, per le miserie corporali e spirituali. 2. Presente ai poveri La sua accoglienza verso i poveri è cosciente e spontanea allo stesso tempo: - Sono gli amici di Dio – diceva. Le dispiaceva di non aver niente da offrire loro; si sarebbe privata Lei per aiutarli. - Lavorava volentieri per loro. Poiché avevo l’incarico di andarli a visitare, mi chiedeva spesso loro notizie. Li amava come membra sofferenti di Nostro Signore. 3. Fate amare loro il buon Dio Amava in modo speciale i fanciulli e i poveri. Disse a Suor Basile Laurezal al momento della partenza: “ Come siete fortunata di aver l’incarico di prodigare le vostre cure alle orfanelle. Curate bene queste povere fanciulle e fate loro amare il buon Dio “. (Suor Basile Laurezal) 4. Andare a curare i malati Suor Marie-Bernard mi insegnò alcuni medicamenti e mi disse il suo grande desiderio di andare a curare i malati negli ospizi. “ Temo – mi disse – che il mio stato di salute sia la causa per cui non vi sia mandata, ma mi sottometto alla volontà del buon Dio per fare di me quel che a lui piacerà. E voi, cara sorella, accettate con generosità il lavoro che le nostre madri ci affideranno una volta uscita dal noviziato, anche se non è di vostro gradimento. Il buon Dio vuole che compiamo in tutto la sua volontà “. (Suor Clèmence Chassan) 5. Più il povero è ripugnante, più bisogna amarlo A Lourdes, quando ero in classe con lei, io e le mie compagne abbiamo notato che preferiva andare con le bambine povere. So che avrebbe desiderato servire i poveri. Mi ha detto che la vocazione di Suora di carità è preziosa, giacchè offre l’occasione di curare i poveri. “ Se vieni inviata in un ospedale, non dimenticare di vedere Nostro Signore nella persona del povero, e più il povero è ripugnante, più bisogna amarlo “. (Suor Vincent Garros) 6. Amare con dolore I nostri poveri sono grandi. Ci danno molto di più di quanto non diamo noi a loro. Da loro abbiamo potuto imparare molte cose. Non hanno bisogno della nostra commiserazione, né del nostro pietismo. Hanno bisogno del nostro amore e della nostra tenerezza. Non dobbiamo amarli dall’alto della nostra abbondanza. Dobbiamo amarli fino a patire. … Chi sono i poveri più poveri? Gli indesiderati, i non amati, i dimenticati, gli affamati, gli ignudi, quelli che non hanno casa, i lebbrosi, gli alcolizzati. Nell’ Eucaristia, vediamo Cristo sotto l’apparenza del pane, mentre nei poveri lo vediamo sotto l’aspetto sofferente della povertà. L’Eucaristia e il povero sono il medesimo amore. (B. Teresa di Calcutta) 7. Dividere con i poveri L’amore, per essere autentico, deve far male. Se veramente volete amare i poveri, dovete condividere con loro. SE volete che la povertà sparisca, condividetela. Un giorno, un signore mi disse: “ Che cosa dovremmo fare per eliminare la povertà? “. Gli risposi: Dobbiamo imparare a condividere con loro. Questo è anche quanto desidero dirvi: non possiamo condividere se la nostra vita non è piena dell’amore di Dio, e se il nostro cuore non è puro, poiché Gesù ha detto: “ Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio “. Se non saremo capaci di vedere Dio nell’altro, ci sarà molto difficile amare. E Gesù ci ha detto: “ Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati “. Egli ci ha amato nella sofferenza. L’amore di Gesù è così profondo che voi ed io possiamo amarlo ed avere la vita. Possiamo amare Gesù nell’affamato, nell’ignudo, nell’oppresso, perché la verità della preghiera è la fede, e io credo di essere capace di amare. Se io amo, sarò disposto a servire. Incontrerò Gesù nell’immagine sofferente dei poveri. (B. Teresa di Calcutta) 8. I poveri sono ricchi d’amore Questa mattina, durante la meditazione, mi si presentò con evidenza schiacciante, il pensiero di Maria come Prima Dama della Carità. Ma prima di farsi Dama della carità, Maria si svuotò di se stessa e si offrì come schiava del Signore. E quando si sentì piena di grazia, subito si mise in cammino, “ in fretta “, per offrire Gesù a Giovanni e ai suoi. Penso che questo è quanto voi fate come Dame della Carità, cioè come messaggere dell’amore di Dio. Questo è anche il nostro compito di Missionarie della carità. Voglia il Signore che un giorno possiamo divenire messaggere dell’amore di Dio in tutto il mondo. La meravigliosa opera che svolgete con i poveri e a servizio dei poveri è per voi un privilegio, e quasi un regalo. Se ben ricordo, San Vincenzo de’ Paoli diceva spesso ai suoi giovani: “ Non dimenticatevene: i poveri sono i nostri padroni. Serviteli con amore e obbedienza “. Sono convinta che se ci avviciniamo ai poveri con questo desiderio di offrire loro Dio, di donare loro la gioia di Cristo che è la nostra forza, di portare Cristo nelle loro case, se offriamo loro la possibilità di guardarci e di poter scoprire in noi Gesù, con il suo amore e la sua bontà, presto il mondo traboccherà d’amore e di pace. I poveri sono grandi e affettuosi. (B. Teresa di Calcutta)