domande e dibattito - Provincia di Lucca
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LE DOMANDE E IL DIBATTITO (D. 1) Studente Ho seguito con attenzione. Non gli sembra un po’ impegnativo che, ogni volta che andiamo ad acquistare un prodotto, ci informiamo sulla sua storia? Come facciamo? Come progetto mi sembra un po’ irraggiungibile. (D. 2) Studente Secondo lei, noi che siamo consumatori dobbiamo pensare noi a tutelare i lavoratori? Il compito di un’azienda è di guadagnare. Non dovrebbe essere lo Stato a tutelare i lavoratori? Lo scopo, se io fondassi una società, è guadagnare. Se no, ognuno perde gli obiettivi. Ognuno dovrebbe fare i suoi interessi. (R. 1) F. Gesualdi La prima domanda punta l’attenzione sulla necessità di informazioni. Innanzitutto le informazioni non ce le dà chi ha interesse a nascondercele. Quindi, non aspettiamoci le informazioni dalle imprese possiamo. Purtroppo non possiamo aspettarcele nemmeno dalle istituzioni pubbliche, anche se devo dire che, sia in un ambito che nell’altro, cominciano ad esserci delle eccezioni per le pressioni che vengono dal basso. E’ di questi giorni la notizia che la Levi’s , impresa che produce jeans che tutti i giovani conoscono, multinazionale di origine statunitense, ha pubblicato la lista di tutti i suoi fornitori. Badate bene che, fino ad ieri, era una notizia misteriosa, perché le imprese si guardavano bene dal dire quali erano le loro appaltate per il mondo che producevano per loro. Ma perché la Levi’s, oggi, è venuta fuori pubblicando la lista dei suoi fornitori? Perché un’altra impresa prima di lei, due mesi fa, ed è la famosa Nike, ha già, per prima, pubblicato la lista di tutti i suoi fornitori. Ma perché Nike ha deciso di pubblicare la lista di tutti i suoi fornitori? Perché da dieci, quindici anni c’è un tutto movimento di consumatori, di società civile, di associazioni, che tieni gli occhi puntati su come si comportano le imprese che esportano la produzione all’estero, che ha sempre fatto una grande richiesta di trasparenza, perché la trasparenza è il primo passo per riuscire a capire cosa succede. Quindi, oggi, abbiamo ottenuto questo risultato che, naturalmente, ci facilita nell’avere le informazioni, ma non possiamo aspettarci che le informazioni ce le diano le imprese, anche se le imprese cominciano a pubblicare anche i cosiddetti rapporti sociali ed ambientali. Tantissime imprese non pubblicano più soltanto un rapporto finanziario, ma pubblicano anche, ogni anno, un rapporto che si concentra sugli aspetti sociali ed ambientali della produzione, con temi legati ai diritti dei lavoratori, allo stato di salute dell’ambiente e alla salute dei lavoratori. Ecco, queste sono delle conquiste che abbiamo ottenute attraverso il nostro impegno. Ci aiuta, se le imprese ci danno le informazioni, noi non ci accontentiamo, ma ci danno una pista per proseguire nelle indagini. Non dobbiamo aspettare da loro che ce le diano in maniera soddisfacente, ci dobbiamo organizzare da noi. Ecco l’importanza che la società civile assuma una certa consapevolezza e poi si organizzi per riuscire ad ottenere un certo tipo di risultato. Devo dire che nel mondo gruppi che hanno dato la dimostrazione che è possibile sapere in quale condizione si ottengono i prodotti, che è possibile anche sapere quali sono i comportamenti più generali delle imprese, ce ne sono stati tanti. Il primo gruppo che ha cominciato questo tipo di esperienza è stato americano, nei lontani anni anni ’60. Tra l’altro, era partito da un’altra esigenza. Erano soprattutto degli investitori. Eravamo ai tempi della guerra del Vietnam, si rendevano conto che c’erano dei grandi intrecci tra imprese di armi e imprese di altri settori. Delle Chiese, che avevano soldi a disposizione e che compravano titoli in borsa, cominciarono a porsi il problema: non è per caso che noi stiamo comprando titoli azionari di imprese che producono bombe al napalm e che poi vengono utilizzate in Vietnam? Così cominciò tutto un movimento di ricerca sul comportamento sociale ed ambientale delle imprese per dare le informazioni agli investitori e ai consumatori. Partirono di lì, la notizia è poi approdata in Europa, anche in Italia. Questa è una delle attività che noi facciamo al Centro di Vecchiano. Facciamo attività di ricerca sul comportamento sociale ed ambientale delle imprese con l’obiettivo di dare le informazioni alla gente. Abbiamo già prodotto due guide: la Guida al consumo critico, che è un libro dove si trovano tutti i comportamenti delle imprese che incontriamo comunemente al supermercato nell’ambito della nostra spesa quotidiana: dalla CocaCola alla Unilever alla Henkel e tante altre; abbiamo prodotto una guida nel settore bancario e ora stiamo lavorando ad una guida nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, che è un settore che interessa i giovani in maniera particolare, e ne vengono fuori di cotte e di crude. Queste nostre esperienze sono la dimostrazione che è possibile avere le informazioni sulle imprese e sulla storia dei prodotti e in molti settori i consumatori che vogliono possono trovare le informazioni che ricercano. Naturalmente, sarebbe interessante che si coagulasse un numero di forze sempre più ampio intorno a questo tipo di progetto, perché i settori da indagare sono tantissimi, ovviamente. Noi consideriamo dalle scarpe fino alle automobili, ai servizi. In Inghilterra ci sono dei gruppi che non fanno nient’altro che ricerca sul comportamento delle imprese, pubblicano mensilmente una rivista e ogni volta si concentrano su un settore: questa è la dimostrazione che, se si vuole, si può. Quindi, diciamo che già in Italia ci sono queste esperienze, che l’informazione sta cominciando a non essere più un problema. Anche se c’è ancora molto da fare, diciamo che questo non è più un ostacolo. Non so se è (questo) stato sufficiente come risposta (R. 2) F. Gesualdi La seconda domanda... Intanto, forse, ci sarebbero delle affermazioni di principio da fare, perché tu dici: in fin dei conti il ruolo delle imprese è quello di guadagnare. Beh, effettivamente gli viene riconosciuto in questo contesto. D’altra parte, questa è un sistema che è stato costruito ad immagine e somiglianza delle imprese; questo è tutto un sistema che è stato costruito attorno al loro interesse. Oramai più nessuno ha la pretesa di mettere in discussione il profitto. Sapete bene, invece, che c’è stato un altro momento storico in cui Marx ha cominciato a porre in discussione la natura del profitto, ha dimostrato che il profitto è lavoro non pagato e, quindi, non gli riconosceva legittimità: ma oggi questo sembra un discorso tramontato e tutti accettano che le imprese abbiano la legittimità di perseguire il loro profitto. Però, comunque, ci devono essere delle regole da rispettare. Tu dici: le regole non se le devono mettere le imprese, le regole le devono mettere le istituzioni pubbliche, le deve mettere il potere politico. Intanto, se e analizziamo la connessione delle cose, troviamo dei fatti curiosi: troviamo che il potere politico è sempre più succube del potere economico. E’ sempre stato così. Non l’ho qui con me, ma recentemente mi è arrivato, (tanto per dirvi come di fatto le cose funzionino così e come noi viviamo in una democrazia che è sempre più apparente e sempre meno sostanziale), mi è arrivato un rapporto, che mi ha mandato un mio amico che lavora alla Confindustria (a volte le talpe servono!); mi ha mandato un dossier dove stava scritto come fare lobby, un corso organizzato dalla Confindustria per i loro funzionari, dove c’erano descritte tutte le tecniche per fare lobby. Che vuol dire “fare lobby”? Lobby è un termine inglese che vuol dire anticamera. All’inizio, quando il sistema politico cominciava a strutturarsi in maniera rappresentativa, le imprese stavano fuori dall’ufficio della persona che contava, del capo di governo, del ministro e magari di altri rappresentanti del governo locale, fino a quando non li avesse ricevuti per presentare la propria petizione. Le industrie fanno un’attività di lobby che non finisce più. Si dice che a Bruxelles ci siano 15000 uffici dove siedono unicamente rappresentanti di imprese europee, rappresentanti di imprese multinazionali con un unico obiettivo: fare pressione sulla Commissione europea e sul Consiglio dei ministri affinché faccia delle direttive che siano favorevoli ai loro interessi. E molto spesso ci riescono, perché loro sono gli unici che hanno certe informazioni, hanno dei contatti diretti con i funzionari e, alla fine, le direttive non si scrivono all’interno della Commissione europea, si scrivono negli uffici dei lobbisti. Questa è la realtà delle cose. Quindi, abbiamo una situazione in cui il potere economico è cosi forte, che riesce a condizionare il potere politico e, alla fine, le regole che vengono scritte, sono regole che vengono fatte ad immagine e somiglianza degli interessi delle imprese. Abbiamo visto, in ambito internazionale, l’Organizzazione internazionale del commercio, che è questa struttura che sta riscrivendo le regole, di come deve essere organizzato il commercio a livello mondiale: spesso sono regole che dettano proprio le grandi imprese, le grandi multinazionale in tantissimi ambiti, dall’agricoltura, ai brevetti ai e servizi. Quindi abbiamo questo tipo di paradosso, che complica terribilmente le cose...Però, detto questo, riconoscendo che il potere politico deve scrivere le regole, io dico che, a questo punto, poi, le regole devono essere rispettate. E quali sono i meccanismi attraverso i quali si rispettano le regole? Fondamentalmente ce ne sono due. Il primo è quello del terrore: per cui, io ti faccio le regole, poi ti metto tutta una schiera di poliziotti e, se non bastano i poliziotti, ti metto un esercito per obbligare la gente a rispettare le regole; quindi: galera, la paura, il terrore, la minaccia. Oppure c’è un’altra via, che è quella dell’interiorizzazione delle regole. Le regole, se sono corrette, devono diventare nostro patrimonio culturale e devono cominciare ad essere assimilate indipendentemente dall’esistenza di una regola scritta o, quantomeno, la regola scritta serve solo da supporto per una regola che già la gente sa che deve rispettare, perché fa parte del suo patrimonio legale, del suo patrimonio morale. Allora, io dico che dobbiamo toglierci assolutamente di mezzo queste idee che le imprese hanno diritto assoluto di fare profitto. No, non esiste, non esiste. E’ come se tu dicessi che hai diritto assoluto di libertà. No, la tua libertà finisce quando cominci a calpestare la libertà altrui. Questo è un dato di fatto assodato e tu lo accetti. Tu scuoti la testa: tu ti senti libero di fare quel che ti pare, solo perché ti dà noia? Fammi capire, oppure dici: la libertà sì, però ammetto che, quando “ho i cinque minuti”, non mi permetto la libertà di dare uno schiaffo a un altro. Replica dello studente (D. 2) Non penso che, volendo guadagnare, un’impresa levi la libertà ad altre persone, perché, se pensiamo un attimo a tutti quei genitori e a quegli stessi figli che vengono - che venivano, non lo posso sapere - pagati poco, comunque sia, penso che sia meglio che non pagarli affatto. Questa gente si troverebbe nei campi a coltivare. Magari starebbe meglio, ma, sicuramente, se vanno lì (a lavorare presso le imprese) e non nei campi, vorrà dire che un certo profitto ce l’hanno lo stesso. Il problema è dello Stato, che dovrebbe, a sua volta, secondo me, non farsi condizionare, non essere fragile; perché lo Stato è quella struttura che dovrebbe, comunque sia, portare avanti l’interesse comune e non di parte, non dovrebbe essere governato da nessuno. E’ lo Stato che dovrebbe dare leggi per la tutela di tutti e nessuno dovrebbe influenzare questa struttura. Il fatto che (lo Stato) sia influenzato, è un difetto, è una carenza che ha. E la colpa non è sicuramente delle imprese. E’ logico che, se io oggi apro un’impresa, il mio fine non è quello di rispettare, perché per rispettare, per dare altre possibilità, c’è lo Stato, che pensa, che regola quello che posso fare o non posso fare. Se per uno Stato, (ad es.) l’Afghanistan, il salario minimo è di 1 euro e 50, in un mese io pago l’operaio 1 euro e 50: perché devo pagarlo 3 euro? Non ha senso. Che non sia giusto, non lo metto in discussione, ma, se è così, perché dobbiamo dare la colpa alle imprese? Le imprese fanno quello che è il loro guadagno, quello che per loro è la loro vita. Se no, aprirebbero le fabbriche qui in Italia, dove pagano gli operai 800 euro; venderebbero i pantaloni invece che a 70, a 100 euro, come fa la Levi’s, a 180, 200 euro. Magari pagano di più gli operai, ma un operaio che prende 800 euro al mese, non può permettersi un paio di pantaloni che costa 200 euro. Quindi, il fatto che li facciano laggiù e (gli operai) vengano pagati 1 euro e 50, 2 euro o 10 euro, 60 euro al mese, è anche un fatto positivo, perché poi in Italia, dove non tutte le persone possono guadagnare 2000, 5000 euro al mese e permettersi uno stile di vita così agevole, possono acquistare un buon tipo di prodotto a un prezzo per loro accessibile. (R) F. Gesualdi Se la metti così, libertà delle imprese di porre il profitto al primo posto, ti dico: è una questione di valori; ti dico: no, non lo dobbiamo più consentire. Se questo è il prezzo da pagare, diciamo no, nella maniera più assoluta. Qui dobbiamo stabilire il tipo di società, dobbiamo stabilire che volto vogliamo dare alla società nella quale vogliamo vivere. Tu mi prospetti una società che è una società di avvoltoi. Se a te sta bene, tienitela pure, ma non possiamo più accettare che ci siano vittime. Questo tipo di società di avvoltoi ha prodotto 3 miliardi di poveri assoluti nel mondo, 3 miliardi di persone che, per consentire a pochi di potersi arricchire all’inverosimile, ha costretto miliardi di persone allo stato di larve umane. Questa è la realtà delle cose. Il mondo oggi vive così e l’abbiamo costruito noi; l’abbiamo costruito noi nell’arco di cinque secoli, perseguendo codesta logica per cui…se codesto deve essere il prezzo da pagare, risolviamo il problema alla radice e diciamo: no, basta. Probabilmente non siamo in questa prospettiva e dobbiamo comunque mettere delle regole e io dico che le regole devono cominciare ad essere interiorizzate. Anche le imprese devono entrare nell’ordine di idee che devono esserci dei limiti alle strategie che utilizzano per fare profitto. Noi, fino ad oggi, stavamo parlando di condizioni di lavoro, ma potremmo parlare di altri ambiti, potremmo parlare di tasse… Conosciamo anche degli imprenditori famosi…Tanto per parlare fuori dai denti, Berlusconi, che sta subendo un sacco di processi per il tentativo di evadere le tasse, All Iberian ecc. ecc., processi che poi naturalmente non si fanno, perché si è fatto una legge ad personam. Ecco, l’intreccio fra politica e potere economico, che in Italia è diventato veramente un aspetto paradossale. Dico che dobbiamo cominciare a chiederci, tutti quanti, imprenditori e lavoratori, che tipo di società vogliamo costruire. Io chiedo che ci si ponga come obiettivo quello di costruire una società dal volto umano e quindi non può più assolutamente esserci posto per situazioni che, in nome del profitto, calpestano qualsiasi tipo di diritto. Studente Lei può avere ragione, però se pensa un attimo la cosa… Lei ha parlato prima di 3 milioni di persone che stanno sotto la soglia di povertà, ma questi tre milioni di persone, che lei accusa essere causata dalla nascita e dall’espansione delle multinazionali, pensiamo a come stavano prima… F. Gesualdi Prima stavamo meglio… Studente Se prima stavano meglio, perché allora vanno a lavorare dalle multinazionali? F. Gesualdi Prima li hai ridotti in povertà, poi dici: vieni a lavorare per me come schiavo, bella libertà! Studentessa Non credo che il discorso sia far lavorare o non far lavorare. Il problema è che, anche se danno lavoro, non c’è nessuna libertà. Sono tutti sottomessi alle multinazionali. E non è che stanno meglio, perché gli danno quei 30 centesimi all’ora. Il dovere della multinazionale non è farli stare meglio con 30 centesimi all’ora, il dovere della multinazionale dovrebbe essere dare lavoro, ma con quelle libertà sindacali che dovrebbero essere garantite a tutti. (D. 3) Studente Avrei bisogno di un chiarimento: Lei con questa sua esposizione dei fatti mira più a guardare ai diritti dei lavoratori nei paesi poveri o a boicottare le multinazionali americane? (D 4.) Cecilia Carmassi Vorrei aggiungere un’altra domanda, (e se qualcuno ne vuole fare altre le raccogliamo, perché questo è l’ultimo giro di domande e risposte), anche per tornare a quello che poi è l’obiettivo del nostro lavoro. Siccome, a volte, questi temi sembrano molto lontani: si parla di problemi che ci sono dall’altra parte del mondo. Attraverso le domande alcune cose sono già emerse, ma ti chiedo di approfondire pensando che abbiamo davanti delle classi che possono lavorare su alcune cose, per conoscere e per capire - ti chiedo qual è il lavoro che si può fare per saperne di più. Qualcuno diceva prima: non può essere il singolo a sapere tutto, quando va a comprare. Anche se mi veniva da pensare, quando venivano fatte queste domande, che, in realtà, abbiamo imparato, quando andiamo al supermercato, a leggere sul prodotto alcune cose, delle componenti, della data di scadenza, cose che, una volta, non erano pensabili. Cioè, abbiamo imparato che abbiamo dei diritti come consumatori di alcuni alimenti e cerchiamo di non farci avvelenare. In realtà, maturano, come dicevi, si introiettano dentro alcuni elementi. Che tipo di lavoro può essere fatto per conoscere, per approfondire e, quindi, qual è il ruolo di responsabilità di un cittadino, qui, e di gruppi di cittadini rispetto a questo? Ricollego questo al fatto che - c’è qui Massimo Rovai, del Commercio Equo e solidale - ci sono realtà che hanno fatto tutt’altre scelte. Qualcuno dice: i prodotti del commercio equo e solidale sono più cari. Vorrei che questa fosse anche l’occasione per capire che alcune scelte fanno i conti anche con logiche diverse di mercato. (D. 5) Studente A proposito di lobbing e di direttiva europea, in questi giorni si parla di “Bolkstein”, su cui ci sarà, fra poco, una grossa manifestazione a Roma. Ci può spiegare di cosa si tratta? (D. 6) Studente Mi sembra di avere capito che le multinazionali fanno a gara fra di loro per imporre il prezzo più basso per vendere il più possibile. E per imporre il prezzo più basso hanno bisogno di una mano d’opera più economica. Ma se facciamo questo ragionamento, le imprese che non utilizzano questa mano d’opera così economica sono costrette a imporre un prezzo più alto. Quindi, il consumatore, che per sua natura è sempre portato a spendere di meno e a comprare il prodotto più economico, va a comprare il prodotto delle multinazionali. Come pensa di poter convincere i consumatori a spendere, a comprare un prodotto più caro, sapendo che da un’ altra parte c’è un prodotto molto più economico? (D. 7) Studentessa Rifacendomi più o meno anche all’ultima domanda, come possiamo anche noi giovani sensibilizzare i consumatori ad essere più critici, oltre queste cose che ci sono e visto anche che negli ultimi tempi si usano molte percentuali e numeri, perché magari fanno più scalpore, però i risultati sono sempre gli stessi. Perché (le percentuali e i numeri) impressionano lì per lì, poi però i consumi sono sempre gli stessi. Cosa possiamo fare? Grazie. (D. 8) Studente Lei ha detto che sono i consumatori che hanno il potere di imporre le regole alle imprese. Ma la società di oggi io la vedo come una società abbastanza materialistica, dove noi siamo abbindolati dalle reclame. Io credo che una persona pensa che, per migliorare socialmente, debba avere Mercedes e la maglia di Richmond. Allora, invece dei consumatori devono essere altri che devono porre delle basi perché i consumatori facciano questo passo, questa trasformazione. Forse, non so, la scuola, la famiglia può fare qualcosa? F. Gesualdi (dopo aver ricapitolato i tipi di domande e averle divise in tre blocchi: D.3; D. 4, 6,7,8; D. 5) Ti ringrazio (n.r. rivolto a Cecilia Carmassi) per aver fatto la domanda, perché mi dispiace se si è creato un po’ un clima da stadio: non è bello. In una scuola bisogna invece puntare a cercare di capire dove sta la verità delle cose. Io, tra l’altro, vengo da una scuola, che è la Scuola di Barbina, che della verità aveva fatto il suo massimo obiettivo. La scuola deve essere il luogo non dove si fanno le tifoserie, ma il luogo dove tutti insieme si tenta di capire dove sta la verità delle cose; poi cerchiamo, dopo averlo capito, di immaginare quale deve essere il comportamento più corretto da assumere. Questo è il messaggio che io mi sono portato dietro e credo che questo debba continuare ad essere il ruolo che la scuola deve continuare a svolgere e quindi credo che sia importante la sollecitazione che dava Cecilia e mi auguro che tutti questi discorsi che qui si sono avviati, e che si sono avviati un po’ a battute, siano poi ripresi e siano approfonditi. Risposta alla Domanda 3. Da questo punto di vista, anche se così mi rendo conto che la mia posizione può essere una posizione preconcetta, nei confronti delle imprese, io dico, assolutamente no. Noi puntiamo a tentare di salvaguardare i diritti delle persone, puntiamo a salvaguardare lo stato di salute dell’ambiente, puntiamo a tentare di creare una società che sia veramente una società dal volto più umano. Ci rendiamo conto che purtroppo viviamo in un sistema, a nostro avviso, contorto, a nostro avviso che ci sta portando fuori strada e, quindi, siamo costretti a dover prendere di petto coloro che sono espressione di questo tipo di struttura: e le imprese, che sono le grandi dimenticate, sono quelle che poi vengono alla ribalta. Sappiamo molto bene che oggi siamo in un momento in cui le imprese che hanno più potere sono le grandi imprese multinazionali, che fra l’altro controllano 2/3 del commercio mondiale. Non è che parliamo delle multinazionali per partito preso, ma ne parliamo per cognizione di causa: le multinazionali sono le imprese che riescono a controllare la maggior parte dell’economia; sono loro che stabiliscono le linee politiche ecc. ecc. Noi, ogni volta che organizziamo una campagna, la organizziamo sempre motivandola tantissimo, facciamo un grande lavoro di ricerca, portiamo bene in luce quali sono le ragioni per cui organizziamo un certo tipo di lotta e poniamo poi delle rivendicazioni ben precise. Alla fine degli anni ’90, per esempio, inizi 2000, abbiamo organizzato una campagna nei confronti della Del Monte, non quella che produce banane, ma quella che produce ananas (sono due multinazionali completamente distinte). Questa Del Monte aveva una piantagioni in Africa, dove lavoravano qualcosa come 5000 persone, fatte lavorare in queste condizioni, in condizioni ancora più penibili. Noi abbiamo organizzato una campagna nei confronti di questa impresa, impresa che, tra l’altro, aveva una grossa relazione anche con Coop. Coop era il maggior cliente di Del Monte che aveva la piantagione in Kenya. Noi abbiamo organizzato una campagna che contemporaneamente prendeva di mira Del Monte e Coop, per chiedere che venissero migliorate le condizioni di lavoro nella piantagione. E ciò che dicevamo era così vero che, alla fine, l’impresa ha ceduto, Coop ha dovuto spingere anche lei Del Monte a cambiare il suo comportamento. Ecco, questa è la dimostrazione che noi non facciamo delle battaglie di carattere ideologico, ma facciamo delle battaglie finalizzate a ottenere il miglioramento, prima di tutto, delle condizioni di vita dei lavoratori, prima di tutto, ma poi un pochino di tutti noi, perché ogni scelta che si fa in una parte del mondo, ha delle ricadute anche nella nostra parte di mondo. Prima dicevo che il lavoro da noi sta diventando sempre più precario, sta diventando un lavoro pagato sempre peggio. I giovani non hanno più prospettiva: i giovani non si sposano più, i giovani continuano a rimanere in casa dei genitori fino a 30, 35 anni. E’ un problema serio. Ma la grande domanda è quale tipo di società vogliamo costruire, partendo da un presupposto che, nella nostra attività, dobbiamo essere sempre capaci distinguere gli obiettivi dagli strumenti. Se noi parliamo di mercato, il mercato è un volgare strumento; se noi parliamo di pubblico, il pubblico è un volgare strumento. Quello che conta è l’obiettivo, che cosa vogliamo realizzare. Rispetto a questo dobbiamo avere le idee chiare: vogliamo realizzare un mondo che garantisca i diritti a tutti. A partire di lì, cominciamo a chiederci quali strade perseguiamo. Se il mercato può essere la soluzione, lo accettiamo; ma se mi rendo conto che il mercato mi crea un ostacolo in certe situazioni, lo regolamentiamo e diciamo no, adottiamo altri strumenti. Credo che questo sia un passaggio importante. Non ideologizziamo più l’economia: l’economia vediamola soltanto ridotta ad una serie di strumenti che stanno dentro ad una cassetta. A noi la capacità di utilizzare uno strumento o l’altro a seconda degli obiettivi. Chiarezza sugli obiettivi; barra dritta sugli obiettivi. Poi, una volta che avremo stabilito gli obiettivi, cercheremo le strategie più adeguate. Certe strategie dovranno essere riviste, con grande dispiacere di che invece ci sguazzava perché ci faceva grandi affari, ma noi dobbiamo cominciare a dire che l’interesse privato deve essere secondario all’interesse generale. Bisogna fare delle grandi scelte, non c’è niente da fare. Quindi, ecco, credo di avere dato una risposta esauriente rispetto a questo. Risposta alle domande 4, 6, 7, 8. Come possiamo riuscire a convincere i consumatori? Il ruolo che possono giocare i giovani. Altre strutture possono giocare un ruolo? Partendo da queste ultime, sono profondamente convinto che molte altre strutture, oltre ai consumatori, debbono dare un contributo per creare questo tipo di sensibilità. Cioè, quand’è che un consumatore diventa un consumatore responsabile? Lo diventa quando si sono realizzate tutta una serie di altre condizioni: intanto, ha maturato, ha interiorizzato tutta una serie di concetti riguardo al suo essere cittadino. Una persona che non ha la pretesa di partecipare, non sarà mai un consumatore responsabile, non c’è niente da fare. Quindi la scuola, quanto meno, deve porsi l’obiettivo di riuscire infondere nei giovani, nelle persone che stanno sui banchi di scuola, questa grande pretesa, la pretesa di essere persone dignitose, che vogliono assolutamente partecipare in maniera democratica alla costruzione della società nella quale viviamo. Se riusciamo a creare questa situazione, se riusciamo a dare gli strumenti per leggere la realtà, potremo anche creare la condizione che consente poi di essere dei consumatori responsabili. Credo che la scuola giochi un ruolo fondamentale, tanto più che oggi siamo in un contesto in cui le sollecitazioni, i condizionamenti sono enormi. Non si sa se la scuola la fa la televisione o se la scuola vera è quella dove andiamo la mattina. Perché la televisione è diventata la padrona delle nostre giornate. La prima cosa che si fa la mattina, si accende il televisore. Il primo messaggio che riceviamo al mattino, prima ancora di aver detto buongiorno a mamma e a papà, è un messaggio pubblicitario; l’ultimo messaggio che ascoltiamo, prima di dormire, è un altro messaggio pubblicitario. La televisione è diventata una padrona assoluta. Chi può tentare di tutelarci? Direi che la scuola dovrebbe avere questo ruolo di compensare, di fornire tutti gli strumenti per sapersi anche difendere. Quindi la scuola senz’altro sì, ma, contemporaneamente, anche le famiglie.Il che vuol dire che tutti noi adulti dobbiamo essere delle persone riflessive, che si informano e che poi danno delle risposte ai propri ragazzi. E potremmo continuare con tutti gli altri momenti associativi. Sempre riguardo i giovani, in concreto che cosa poi possiamo fare? Ci sono sempre più livelli: c’è un livello individuale e c’è un livello invece associativo e di movimento. Io penso che bisogna valorizzare e l’uno e l’altro. Non bisogna mai pensare di non poter giocare un ruolo anche come persone singole. Nell’arco della mia vita mi sono convinto che i comportamenti individuali sono fondamentali, perché la società è il frutto, oltre che di regole, anche della sommatoria dei comportamenti individuali, ricordandoci che i comportamenti individuali danno il proprio contributo a costruire un certo tipo di società. Tanto per dire: a noi tutti piace vivere in una città pulita. La città pulita si fa nella misura in cui ciascuno di noi ha interiorizzato certe regole, per cui non sputiamo per terra, non buttiamo le bucce di banana per terra, non facciamo la pipì al primo angolo di marciapiede. Quindi, ecco, nella misura in cui noi tutti abbiamo assimilato questo tipo di comportamento, avremo la città pulita. Quindi il comportamento individuale è fondamentale. Sapendo che il comportamento individuale, oltre a essere importante perché contribuisce a costruire questo tipo di società, ha anche un ruolo pedagogico. Cioè, la gente che ti sta accanto e che ti vede comportare in una certa maniera, si interroga: può darsi che lì per lì ti derida; può darsi benissimo, perché è un comportamento difforme, però poi, a lungo andare, si interroga, ti chiede. Può darsi che ti avvicini e chieda perché lo fai; sicuramente ti stima, perché le persone che vanno contro corrente sono stimate, perché tutti si rendono conto che è più faticoso muoversi in una direzione opposta piuttosto che andare nella corrente del fiume. Quindi sono stimate le persone che si comportano, argomentando, in una maniera diversa. Quindi c’è anche la dimensione pedagogica, che possiamo svolgere in tutti i luoghi: nella scuola, naturalmente, dove voi state, in famiglia, nei momenti aggregativi, all’interno del gruppo, delle associazioni. Io credo che questo sia un ruolo che debba essere valorizzato. Sembra che dia pochi risultati, perché poi tu come singolo, in fin dei conti, hai contatti con poche persone, ma prova ad immaginare se questo atteggiamento fosse moltiplicato, replicato per migliaia. Questo del comportamento individuale credo che sia un ambito che si debba assolutamente rivalutare, senza che sia l’unico spazio. Non va sottovalutato ma, nel contempo, partecipiamo, partecipiamo a tutti i momenti possibili pubblici, cerchiamoli, creiamoli anche all’interno del territorio. Esiste il commercio equo, esiste l’organizzazione ambientalista: partecipiamo e, se ci rendiamo conto che sono delle lacune, cerchiamo anche di compensarle creando qualche altra iniziativa. L’ultimo aspetto: come riuscire a convincere i consumatori che, in fin dei conti, sono tutti addestrati per guardare unicamente al proprio interesse? E’ davvero la parola d’ordine: che ognuno badi ai cavoli suoi, ognuno per sé, dio per tutti (dove questo “dio per tutti”, non si sa dove stia di casa!). Mi rendo conto che questa è una difficoltà. Una strategia possibile può essere quella di cominciare, forse, anche ad affrontare il tema dal punto di vista dell’interesse. Davvero è interesse di tutti noi comprare il prodotto che costa meno di tutti? Comincio a credere che sia giunto il momento di mettere in discussione questo luogo comune, perché, se questo vuol dire che creiamo una situazione in cui perdiamo i diritti, perdiamo posti di lavoro, sono le famose vittorie di Pirro. Dovremo fare un lavoro per tentare di far riflettere le persone sulle ripercussioni più generali, a partire proprio da questo aspetto, che sembra essere l’unico dilagante, che è l’interesse individuale. Mi rendo conto che non si riesce a scalfire tutta una serie di credenze, di luoghi comuni nel giro di poco tempo, però credo che questo possa essere un modo per tentare di cominciare a dialogare con le persone. La comunicazione è un aspetto fondamentale. Quindi, ecco, il fatto che tu abbia posto questa domanda è importantissimo. Forse, possiamo proprio partire da questo fatto, cioè che ognuno pensa al proprio interesse personale, per tentare di creare un aggancio per cercare di fare tutta una serie di riflessioni e capire che, magari, quello che sembra l’interesse immediato, nel lungo periodo è invece qualcosa che si ritorce contro di noi, e cominciare a discutere. Risposta alla domanda 5. Ultimo aspetto, la Bolkstein: difficile da introdurre così, di punto in bianco. Nell’ambito dei beni, del commercio dei prodotti che si vendono, i servizi hanno una fetta rilevante: si stima che il 60 % del Prodotto Interno Lordo sia rappresentato dai servizi, e quando parliamo dei servizi, parliamo di cinema, di spettacolo; parliamo di scuola, parliamo di sanità, di acqua, di energia, di trasporti, parliamo di un sacco di cose. Credo siano 160 i sottosettori compresi nei servizi. Siccome è un settore fondamentale per tante imprese, stanno facendo il grande sforzo per cercare di crearsi un contesto, in un mondo globale, che consenta di poter realizzare profitti indipendentemente dai confini. E questo è un po’ l’obiettivo che si sta ponendo la Bolkestein: creare un contesto che consenta a tutte le imprese europee di poter fare affari, in qualsiasi punto del mondo, secondo la logica di sempre, cioè cercare di guadagnare il più possibile, calpestando i diritti. Ecco, la Bolkestein ha una serie di regole assurde, che consentono alle imprese che vanno a fare investimenti nell’ambito dei servizi in un certo paese, di non sottostare alle regole di quel paese, ma di prendere come riferimento le regole del paese di provenienza. Ecco, questo, ancora una volta, è un tentare di tirare ancora più giù il livello dei diritti, ancora una volta a favore dei profitti: questa ancora una volta è la ragione per cui una larga fascia della popolazione europea si sta rivoltando contro questo tipo di direttiva e vorrebbe invece che si cominciasse ad anteporre i diritti al profitto. Cecilia Carmassi So che altri vorrebbero continuare a intervenire e a fare domande. L’idea del progetto è che questi incontri aprono la discussione, il confronto, non lo chiudono. Per chiudere, ringraziando ancora Francesco Gesualdi per la sua disponibilità e per la passione con cui ancora una volta ci racconta una scelta che è una scelta di vita, di impegno continuato su queste tematiche, ho chiesto a Massimo Rovai di fare un piccolo intervento, perché la realtà di Equinozio, il Commercio equo e solidale, è un impegno, una realtà che, fra tante altre, le persone possono scegliere. Sul nostro territorio un gruppo di giovani, perché sul nostro territorio è sostanzialmente un gruppo di giovani, ha scelto di dedicare tempo, energie per pensare un altro tipo di mercato, equo e solidale. Quindi pregherei Massimo Rovai di spiegare in sintesi queste cose e con il suo intervento ci lasciamo.