scuole secondarie superiori - Architetti nell`Altotevere Libera
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notiziario bimestrale di architettura anno VI numero 33-34 agosto-novembre 2009 € 20,00 POSTE ITALIANE S.P.A. S P E D I Z I O N E I N A . P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) Art.1 c.1 – DCB – ROMA Architetture SCUOLE SECONDARIE SUPERIORI n.33-34 agosto-novembre 2009 direttore scientifico: carlo mancosu vice direttore: enrico milone direttore responsabile: fabio massi comitato di redazione gian luca brunetti (informatica) giovanni carbonara (restauro) enrico carbone (spor t e architettura) valerio casali (cultura) luigi mauro catenacci (informatica) francesco cellini (architettura contemporanea) furio colombo (politica e cultura) luca d’eusebio (ambiente) roberto dulio (cultura) ida fossa (urbanistica) paolo vincenzo genovese (cultura) gioacchino giomi (sicurezza) stefano grassi (legislazione urbanistica) massimo locci (architettura) carlo mancosu (direzione) fabio massi (attualità) eugenio mele (giurisprudenza) antonio maria michetti (strutture) alberta milone (ambiente) enrico milone (notiziario e deontologia) renato nicolini (politica e cultura) maurizio oddo (architettura) mario panizza (architettura contemporanea) alessandro pergoli campanelli (restauro) plinio perilli (cultura) maria giulia picchione (beni culturali) fulco pratesi (ambiente) francesco ranocchi (architettura) antonino saggio (innovazione tecnologica) paola salvatore (eventi) gustavo visentini (legislazione tributaria) responsabile di redazione: paola salvatore redazione: valentina colavolpe collaboratori rosetta angelini, giovanni bartolozzi, antonino di raimo, laura guglielmi, marcella del signore, marta moccia, giorgio mori, maurizio petrangeli, beatrice vivio impaginazione e grafica: luciano cortesi, roberto di iulio, fabio zenobi editore: gruppo mancosu editore s.r.l. 00136 roma, via alfredo fusco 71/a tel. 06 35192255 fax 06 35192260 e-mail: [email protected] www.mancosueditore.eu responsabile trattamento dati: carlo mancosu pubblicità: mancosu architectural book 00136 roma, via alfredo fusco 71/a tel. 06 35192251 fax 06 35192260 e-mail: [email protected] distribuzione librerie: joo distribuzione – milano abbonamento: 6 numeri – € 60,00 tel. 06 35192251 fax 06 35192264 stampa: grafica artigiana – roma in copertina: olli pekka jokela, scuola secondaria superiore “sampo” a uimalankatu, tampere, finlandia Autorizzazione del tribunale di Roma n. 235 del 27.05.2004 ISSN 1824-0526 Gli articoli firmati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la redazione, la quale è disponibile a riconoscere eventuali diritti d’autore per le immagini pubblicate, non avendone avuto la possibilità in precedenza. I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono. La rivista è consultabile anche sul sito: www.mancosueditore.eu Le copie sono distribuite a tutti gli iscritti agli ordini degli architetti d’Italia, agli ingegneri edili, enti e istituzioni varie Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana in questo numero in questo numero notiziario bimestrale di architettura numero 33-34, anno VI, agosto-novembre 2009 redazione 00136 roma, via alfredo fusco 71/a tel. 06 35192249-59 fax 06 35192260 e-mail: [email protected] www.mancosueditore.eu SOCIETÀ E / È COSTUME Consevare, demolire, ricostruire di renato nicolini BENI CULTURALI Interventi di restauro: procedure tecnico-amministrative nella normativa di tutela di maria giulia picchione RESTAURO Lacuna architettonica e ricostruzione post-bellica. Esperienze recenti di beatrice vivio PERCORSI LECORBUSIERIANI La “Mano Aperta” di valerio casali ITINERARI E PERIFERIE Una scommessa persa? di ida fossa SUD CHIAMA NORD Numero zero di maurizio oddo INFORMATICA La posta elettronica certificata a professionisti e imprese di luigi mauro catenacci ARCHITETTURE a cura di francesco cellini, mario panizza, carlo mancosu Scuole secondarie superiori ON&OFF a cura di NITRO – antonino saggio Nuove forme della progettazione e dell’IT SPAZIOSPORT a cura di CONI Servizi – enrico carbone Il risanamento artistico dei mosaici di giorgio mori TECNOLOGIA E MATERIALI Quale architettura “passiva” per i climi mediterranei? di gian luca brunetti APPROFONDIMENTI DI GIURISPRUDENZA La programmazione dei lavori pubblici e il responsabile del procedimento nello schema di regolamento di eugenio mele CONCORSI / EVENTI a cura di paola salvatore Schmdit Hammer Lassen: dalle idee ai fatti 4 6 10 18 22 28 30 33 69 86 90 94 98 Conservare, demolire, ricostruire A lato: il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi illustra a Barack Obama la ricostruzione dell’Aquila durante l’ultimo G8 (fonte ANSA) società e/è costume a cura di Renato Nicolini Alcune delle nuove case consegnate ai terremotati abbruzzesi 4 Studenti della new university, piuttosto che della vecchia Università dell’Aquila. Il metodo della ricostruzione? Diamoli in adozione, questi scomodi monumenti… Trasformando il G8 in qualcosa di simile all’esposizione dei mobili di IKEA, con giri di pietà col piattino in mano… Tutto, ma non il centro… Il centro dell’Aquila è stato sottratto ai cittadini, negato come tale più ancora che rinviato come problema da risolvere… Aspettiamo la bacchetta magica di Harry Potter! Il centro risorgerà / Quando e come non si sa. Nel frattempo, progettiamo case provvisorie per venti zone fuori l’Aquila, belle e ordinate, peccato che siano state scelte anche zone non in regola dal punto di vista della sicurezza idrogeologica. Persino Le Corbusier, con tutto il suo temperamento da “orologiaio svizzero” (Bruno Zevi) sapeva che le città non possono risorgere altro che dal proprio centro. Come abbiamo fatto a dimenticarlo? Luigi Pellegrin. Luigi Pellegrin è stato uno dei migliori architetti italiani, a cui non è stato forse reso pieno merito. La sua stagione migliore coincide con gli anni Cinquanta e Sessanta, quel periodo che è diventato gli anni dimenticati dell’architettura italiana. Gli ultimi anni dell’international style, gli ultimi dell’influenza operativa di Bruno Zevi e della sua architettura organica… Gli anni delle Olimpiadi di Roma (che resta, nonostante il Giubileo 2000, l’ultimo vero grande evento di Roma capitale, capace di incidere in modo non occasionale, il recupero dell’EUR ecc.) sulla forma della città… Il complesso scolastico “Concetto Marchesi” a Pisa progettato da Luigi Pellegrin n.33-34 2009 L’Aquila. Colpisce la ricorrente fantasia delle new town, nell’immaginario del Governo (ahimè, non solo…) italiano. Ricominciare da capo, il nuovo inizio. Pratiche esorcistiche. Adolf Loos avrebbe detto da selvaggi. Per Rousseau il buon selvaggio è la prima forma, naturale e incorrotta, della socialità. I conti tornano, in una paradossale regressione al preilluminismo, che forse anche Marie Antoinette avrebbe gradito, con tutti i pastori e le pastorelle della sua corte. La tabula rasa è il modo in cui un bambino si trae d’impaccio quando perde il controllo del gioco che sta facendo. Butta giù tutto. Chiamare new town le tendopoli, tende tutte verdi, allineate e coperte, significa trasformare il sisma in un gioco. Il vezzoso terremoto, con l’amabile suo moto... Poi al loro posto non sorgeranno le baracche, ma qualcosa di nuovo certificato dal buon Bertolaso sempre in tuta da ginnastica, casette di legno, destinate nel futuro agli studenti… Gli inizi del post-moderno… Tutto però lontano dall’enfasi comunicativa, autoreferenziale, autopubblicitaria che avrebbe dovuto segnare gli anni delle archistar… Un periodo di grande stile, che per eleganza rifiuta di dichiararsi tale… Non è certo un caso che proprio gli architetti degli anni Cinquanta e Sessanta siano i preferiti per operazioni di sconsiderata demolizione, un’attitudine che nasce dall’ignoranza della qualità di ciò che si vuole cancellare. Ne è quasi rimasto vittima Luigi Cosenza – con la sua (incompiuta) ala nuova della Galleria Nazionale d’Arte Moderna… Ne è rimasto vittima un architetto molto apprezzato da Bruno Zevi, schivo e discreto come Cesare Ligini: il cui Velodromo è stato fatto saltare in aria proprio mentre la Sopraintendenza stava per apporvi il vincolo, e le cui Torri del Ministero delle Finanze stanno per essere demolite per lasciare il campo a un mezzo grattacielo residenziale… Sta per esserne vittima Luigi Pellegrin. Pellegrin è stato uomo di grande spirito. Capace di apprezzare, da giovanissimo,Armando Brasini che costruiva il Buon Pastore con perizia artigianale; e di allestire una mostra, nell’anno del Giubileo, quando tutti si stracciavano le vesti sui ponteggi che ricoprivano gli edifici di Corso Vittorio Emanuele, di Via Nazionale e del centro storico di Roma, per dimostrarne invece la bellezza. Proprio il dominio dell’angolo retto in quelle impalcature consentiva di far emergere, dalla ridondante Roma eclettica, il fantasma di una possibile Roma moderna… Un vero architetto non si confina nel moralismo, ma sa cogliere l’occasione per esercitare la propria immaginazione… Sapendo, senza ipocrisie, che senza ponteggi non si sarebbe potuto attuare il piano del colore messo a punto con la collaborazione di Roma 3, di Paolo Marconi e di Alberto Racheli, che prevedeva anche la possibilità di appoggiare alle impalcature immagini pubblicitarie, e di finanziare così il costo della restituzione agli edifici di Corso Vittorio del loro colore originario… Pellegrin ha costruito a Pisa un complesso scolastico di grande impegno e qualità, intitolato al nome di un grande dimenticato della cultura italiana, Concetto Marchesi… Oggi è condannato dal Comune di Pisa alla demolizione, qualcosa che colpisce anche dal punto di vista simbolico, far fuori in un solo colpo l’architettura moderna italiana e la memoria di Concetto Marchesi. Senza nemmeno tentare motivazioni, ma col basso profilo di una semplice variante al regolamento edilizio. Al suo posto, nuova residenza, nello sfascio in cui Argan. Si è insediato a Roma il comitato nazionale per il centenario della nascita di Giulio Carlo Argan. Sarebbe opportuno procedere – come ha proposto in quest’occasione Cesare De Seta – a un’edizione nazionale delle opere di Argan, come si è fatto per il De Santis o per Gramsci. è ridotta in Italia l’edilizia popolare costruita da privati su aree pubbliche, e posta sul mercato a bassi canoni d’affitto (almeno per qualche anno…). Il complesso, Istituto per Geometri e Liceo Scientifico, costruito nel 1972, è uno degli esempi migliori della lunga ricerca di Pellegrin sugli edifici scolastici (la scuola materna prefabbricata per la Benini, l’Istituto Professionale di Rifredi, l’Istituto Tecnico Industriale e Liceo Scientifico Buon Pastore di Roma), con un occhio alla modernità e alla prefabbricazione, e l’altro al valore civile di una chiarezza strutturale che non teme l’espressività. La migliore lezione di un moderno che non si chiude nella tautologia delle formule. Il fatto è che la struttura di Pellegrin è stata fraintesa da subito, male costruita, gestita peggio e lasciata decadere. Così quello che potrebbe essere considerato il più straordinario arricchimento architettonico che Pisa ha avuto nel dopoguerra rischia di sparire pagando le colpe di coloro che l’hanno trascurato. Proprio per lucidità teorica Argan non si è rifiutato alla politica, come sindaco di Roma e come senatore della Repubblica. Sempre ha avuto in mente un’idea di Italia come Paese d’eccellenza, sia per la ricchezza della propria tradizione culturale, sia per la sua capacità di immaginare e inventare il nuovo. Chissà cosa direbbe oggi, di fronte al triste spettacolo del ministro Bondi che lascia tagliare il bilancio del proprio ministero senza nessuna reazione. Nel 2011 è stato calcolato che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali non avrà nemmeno i soldi per pagare i propri dipendenti. Se Bondi dovesse restare fino ad allora, scommetto che il suo ossequioso servilismo lo spingerà fino a fargli aprire e chiudere di persona il portone del ministero. R.N. Dettaglio laterale del complesso scolastico “Concetto Marchesi” a Pisa progettato da Luigi Pellegrin A lato: l’ex sindaco di Roma Giulio Carlo Argan Sopra: il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi n.33-34 2009 5 Interventi di restauro: procedure tecnico-amministrative nella normativa di tutela G culturali a cura di Maria Giulia Picchione li immobili di proprietà privata che siano stati oggetto di dichiarazione, ovvero abbiano avuto il riconoscimento dell’interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. a) o lett. d) del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42,1 Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e siano quindi dichiarati “beni culturali”, sono assoggettati a un particolare regime giuridico. La particolare tutela voluta dal legislatore per gli immobili ai quali sia stata beni In alto: Banca Monte dei Paschi di Siena a Piazza Salimbeni, Siena A destra: Palazzo Massimo alle Colonne, Roma n.33-34 2009 6 Villa Regina Margherita Savoia, Bordighera (Imperia) riconosciuta la valenza di “bene culturale” mediante l’emanazione di un apposito provvedimento amministrativo (cosiddetto “decreto di vincolo”) prevede, infatti, che qualsiasi intervento debba essere sottoposto alla preventiva approvazione della soprintendenza. Tale particolare regime giuridico forma poi oggetto di riserva specifica nella regolamentazione urbanistica degli interventi sui beni, che subordina la legittimazione edilizia dei lavori al rispetto della stessa normativa di tutela.2 Il Codice fa ricadere in due sezioni distinte del Capo III la disciplina degli interventi: - la sezione I – titolata Misure di protezione – che regolamenta in generale i lavori da effettuarsi su immobili vincolati; - la sezione II – titolata Misure di conservazione – attinente prettamente la disciplina degli interventi di manutenzione e restauro. Misure di protezione Nella sezione del Codice così titolata trovano posto gli articoli che disciplinano l’iter tecnico-amministrativo degli interventi di qualunque genere da effettuarsi sugli immobili vincolati, che può essere ricondotto alle seguenti fasi. Presentazione e approvazione del progetto L’art. 21 comma 4 del Codice stabilisce che l’esecuzione di opere di qualunque genere su beni culturali (quindi anche di manutenzione e restauro) è subordinata all’autorizzazione del soprintendente al fine di ottenerne la preventiva approvazione. L’istanza per ottenere l’approvazione del progetto va presentata alla soprintendenza territorialmente competente, a firma dell’interessato, e va corredata di: - tre copie del progetto definitivo,completo di grafici, rappresentante la situazione prima e dopo l’intervento; - computo metrico estimativo dei lavori da effettuare, da dove siano distinguibili gli importi per le singole categorie di opere (ad esempio opere di consolidamento, restauro dei paramenti, adeguamento igienico-funzionale, impiantistica di sicurezza ecc.); - relazione storico-artistica sull’immobile tutelato dalla quale siano anche rilevabili, laddove sia possibile, i precedenti interventi effettuati nel tempo; - relazione tecnica degli interventi di cui si chiede l’approvazione. Per gli interventi di consolidamento statico, la relazione dovrebbe essere accompagnata dal quadro fessurativo e dalla relativa relazione diagnostica; - documentazione fotografica. I grafici del progetto definitivo, le relazioni storico-artistica e tecnica, nonché il computo metrico estimativo devono essere a firma di un architetto, secondo la normativa che disciplina le competenze professionali. L’art. 53, comma 2, del RD 23 ottobre 1925 n. 2537 riserva infatti a tale categoria professionale la competenza sulle opere di edilizia civile che riguardino immobili di rilevante carattere artistico nonché il restauro e il ripristino degli edifici sottoposti a vincolo storico-artistico, sebbene «la (sola) parte tecnica possa essere realizzata – evidentemente in necessaria e imprescindibile stretta collaborazione con l’architetto – tanto da un architetto che da un ingegnere» (parere del Consiglio di Stato n. 386 del 23 luglio 1997). Approvazione del progetto L’art. 22 del Codice stabilisce che i proprietari, possessori o detentori, a qual- Banca Commerciale in Piazza della Scala, Milano siasi titolo, dei beni culturali hanno l’obbligo di sottoporre alla soprintendenza i progetti delle opere di qualunque genere che intendano eseguire, al fine di ottenerne la preventiva approvazione. L’approvazione del progetto deve essere rilasciata nel termine di 120 giorni dalla presentazione della richiesta. Tale termine può essere sospeso, fino al ricevimento della documentazione, qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio. Se la soprintendenza ritiene di procedere ad accertamenti di natura tecnica, il termine dei 120 giorni viene sospeso fino alle risultanze degli accertamenti d’ufficio e comunque non oltre 30 giorni. Decorso tale termine, previa diffida all’amministrazione a provvedere entro i successivi 30 giorni dalla data di ricevimento della diffida, le richieste di approvazione si intendono accolte.3 Nella fase della presentazione del progetto è importante tener conto che, in omaggio al principio della semplificazione dei procedimenti, l’art. 31 del Codice stabilisce al comma 2 che con l’autorizzazione dei lavori di restauro e gli altri interventi conservativi il soprintendente si pronuncia, a richiesta dell’interessato, sull’ammissibilità dell’intervento ai contributi statali, certificandone eventualmente il carattere necessario ai fini della concessione delle agevolazioni tributarie previste dalla legge, unificando, così, in un unico provvedimento le risultanze di procedimenti precedentemente distinti e generalmente successivi all’approvazione del progetto e all’esecuzione dei lavori. Dopo l’approvazione da parte della soprintendenza il progetto segue le procedure previste, per la tipologia d’intervento, dalla disciplina urbanistica, che deroga in via generale, per quanto riguarda i beni vincolati, alle procedure semplificate.4 Le disposizioni in materia di procedure urbanistiche semplificate prevedono, infatti, sempre la deroga per i beni sottoposti a tutela (come ad esempio l’art. 22 del TU per l’edilizia sulla DIA). Si tratta in realtà di una cautela generale voluta dal legislatore al fine della verifica dell’abilitazione ai lavori in sede di tutela specifica, mediante l’emanazione del provvedimento autorizzatorio (il cosiddetto “nulla osta”) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. La legislazione urbanistica, infatti, aggrava il procedimento di controllo sugli interventi in funzione dell’interesse artistico e storico dell’immobile, allo scopo, naturalmente, di tutelare tale interesse;5 ma una volta assicurate tutte le garanzie ai fini della conservazione e dell’integrità del bene culturale, la legislazione di tutela dispone oggi che non vi siano più aggravi urbanistici derivanti dagli stessi fini culturali. Procedure edilizie semplificate Oggi l’art. 23 del Codice stabilisce, infatti, che qualora gli interventi necessitino anche di titolo abilitativo in materia di edilizia è possibile il ricorso alla DIA (procedura appunto semplificata per moltissime tipologie d’intervento – cfr. art. 22 del DLgs 380/01) previa naturalmente l’acquisizione dell’autorizzazione (nulla osta) della soprintendenza, corredata del relativo progetto con su scritto “approvato”. Solo su questo grafico o progetto (e relativi elaborati come sopra indicati) è possibile poi adire alla procedura edilizia semplificata. Si tratta di un’innovazione importante della recente legislazione di tutela. Prima del Testo Unico del 1999 (art. 36), e oggi del Codice (art. 23), non era possibile ricorrere alle procedure urbanistiche semplificate per i lavori sugli immobili vincolati. La normativa urbanistica richiedeva, infatti, prima del 1999, il rilascio della concessione, in luogo della autorizzazione o della denuncia d’inizio attività n.33-34 2009 7 (o ancora della semplice comunicazione dei lavori) prevista per gli altri edifici, per gli interventi di restauro e risanamento conservativo malgrado avessero già ottenuto l’autorizzazione ministeriale: e questo proprio in virtù della deroga prevista nella legislazione urbanistica relativamente agli immobili sottoposti a tutela. Resta fermo il fatto che se l’opera rientra tra gli interventi soggetti, oggi, a permesso di costruire dalla normativa urbanistica, la procedura segue il regime urbanistico ordinario. Lavori provvisori urgenti Nel caso si tratti di lavori di assoluta urgenza, possono essere eseguite, ai sensi dell’art. 27 del Codice, le opere provvisorie indispensabili per evitare danni notevoli al bene tutelato, purché ne sia data immediata comunicazione alla soprintendenza, alla quale devono essere inviati, nel più breve tempo possibile, i progetti dei lavori definitivi al fine di ottenerne la necessaria approvazione. Sospensione dei lavori Qualora gli interventi vengano iniziati senza aver ottenuto la necessaria approvazione del progetto, ovvero vengano eseguiti in difformità da essa, il soprintendente ne può ordinare la sospensione, secondo quanto previsto dall’art. 28 del Codice. La sospensione dei lavori può essere ordinata anche nel caso di immobili non vincolati ai sensi dell’art.13, ma che presentano l’interesse particolarmente importante o sotto il profilo storico-artistico (art. 10, comma 3, lett. a) o a causa del loro riferimento alla storia politica, militare, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere ecc. (art. 10, comma 3, lett. d). In questo caso, però, l’avvio del procedimento di dichiarazione, ovvero del Palazzo delle Poste di Adalberto Libera, Roma A pagina seguente: Palazzo Mondadori di Oscar Niemeyer, Segrate (Milano) n.33-34 2009 8 l’apposizione del vincolo, deve essere comunicato all’interessato non oltre 30 giorni dall’ordine di sospensione. Se oltre tale termine non viene effettuata la comunicazione, l’ordine di sospensione da parte del soprintendente si intende revocato. Misure di conservazione Nella Sezione II del Capo III del Codice, sono disciplinate le misure di conservazione. L’art. 29 definisce cosa si intende per prevenzione, manutenzione e, al comma 4, per restauro. Riproponendo nella sostanza la prima definizione data dalla legislazione di tutela dall’art. 34 del Testo Unico del 1999, normativizza il restauro come «l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale». La formula definitoria di “restauro”, data nel già citato art. 34 del TU del 1999, costituisce un’assoluta novità della normativa in materia, finalizzata a rendere più organiche le varie disposizioni relative agli interventi di natura positiva sui beni culturali e ad accentuare l’importanza del restauro nella complessiva politica di tutela. L’aver introdotto la disciplina della conservazione con la definizione del termine restauro risponde, infatti, a una serie di obiettivi: individuare le categorie di lavori legati all’erogazione dei contributi e alle agevolazioni fiscali disciplinati oggi dagli articoli 35, 36 e 37 del Codice, definire l’ambito delle misure conservative imposte dalla legge al Mi- nistero e/o dal Ministero al proprietario possessore o detentore del bene culturale, ai sensi dell’art. 32 (interventi coattivi); chiarire il contenuto del restauro ai fini storico-artistici rispetto a quello definito dalla normativa urbanistica; rendere inscindibili, quali sono, concetti fondamentali come tutela, conservazione, restauro.6 Tale normativizzazione del termine nella legislazione di tutela risponde, inoltre anche alla necessità di distinguere dal punto di vista giuridico quali siano gli interventi classificabili come restauro ai fini storico-artistici rispetto a quelli compresi nelle definizioni date, ai fini edilizi, dall’art. 3 del DLgs 380/01 del TU dell’edilizia (ex art. 31 della legge n. 457 del 1978), e sottrae il restauro operato sui beni culturali da quello attinente alla disciplina urbanistica. La mancanza di una definizione di restauro nella normativa di tutela ha spesso causato negli anni confusione ed è stata alla base dell’erronea tendenza a far confluire gli interventi sui beni culturali nel regime di quelli urbanistici. Non solo la nozione di restauro e risanamento conservativo, ma anche le altre definizioni contenute nella normativa edilizia citata, seppur esemplari data la precedente inesistenza di una normativa in materia, hanno lasciato negli anni spazio a interpretazioni diverse e a incertezze applicative tali da non poter essere considerate compatibili con le caratteristiche storico-artistiche e morfologico-strutturali degli immobili soggetti a tutela. Dopo aver definito cosa si intende per conservazione e quindi per restauro, la normativa disciplina gli obblighi a carico dei privati. Obblighi conservativi I privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione (art. 30). Interventi conservativi volontari Il restauro e gli altri interventi conservativi su beni culturali a iniziativa del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo sono autorizzati ai sensi dell’art. 21. In sede di autorizzazione, il soprintendente si pronuncia, a richiesta dell’interessato, sull’ammissibilità dell’intervento ai contributi statali previsti dagli articoli 35 e 37 e certifica eventualmente il carattere necessario dell’intervento stesso ai fini delle agevolazioni tributarie previste per legge (ad esempio la detraibilità di quota parte dall’IRPEF). Intervento di restauro coattivo Il Ministero, al quale spetta vigilare sulla conservazione dell’immobile tutelato, può provvedere direttamente agli interventi necessari per assicurare la conservazione e impedire il deterioramento dello stesso bene culturale,o può imporli al proprietario, possessore o detentore del bene, ponendone la spesa a carico di quest’ultimo (art. 32 del Codice). In tale ipotesi, il procedimento, disciplinato dall’art. 33 del Codice,7 è il seguente: - il soprintendente redige una relazione tecnica e dichiara la necessità dei lavori da eseguire; - la relazione tecnica viene comunicata al proprietario, possessore o detentore del bene, che può far pervenire al soprintendente, nel termine di 30 giorni dall’avvenuta comunicazione, le sue osservazioni in merito; - qualora il soprintendente non ritenga di procedere direttamente all’intervento assegna al proprietario, possessore o detentore dell’immobile un termine per la presentazione del progetto esecutivo dei lavori da effettuarsi, da redigere in conformità alla relazione tecnica; - il progetto presentato è approvato dal soprintendente con le eventuali prescrizioni e con la fissazione del termine per l’inizio dei lavori. Il progetto viene trasmesso dal soprintendente al Comune interessato, che può esprimere nel merito parere motivato entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione (si tratta anche qui di una semplificazione procedurale introdotta nel 1999 dal Testo Unico); - se il proprietario, possessore o detentore dell’immobile non presenta il progetto o non provvede a modificarlo secondo le prescrizioni del soprintendente nel termine da questi fissato, ovvero se il progetto presentato viene respinto, il soprintendente ricorre all’esecuzione diretta; - nel caso in cui l’intervento rivesta carattere d’urgenza ai fini della conser- vazione del bene, il soprintendente può adottare immediatamente le misure conservative. Quando l’intervento viene effettuato direttamente dal Ministero, la riscossione della somma da porre a carico del proprietario avviene nelle forme previste dalla normativa in materia di riscossione coattiva delle entrate patrimoniali dello Stato (iscrizione al ruolo delle entrate fiscali). Sostegno finanziario dello Stato per gli interventi di restauro Lo Stato può concorrere nella spesa per gli interventi di restauro effettuati dal proprietario per un ammontare non superiore alla metà della stessa (si ricorda che con l’approvazione del progetto il proprietario può richiedere che il soprintendente si pronunci anche sull’ammissibilità dell’intervento al contributo statale). Qualora si tratti di interventi imposti al proprietario ai sensi dell’art. 32, lo Stato può concorrere fino all’intero ammontare della spesa se l’immobile riveste particolare interesse o se gli interventi sono eseguiti su beni in uso o godimento pubblico.8 In tal caso determina l’ammontare dell’onere che intende sostenere e ne dà comunicazione all’interessato. Il contributo è concesso dal Ministero a lavori ultimati e collaudati sulla spesa effettivamente sostenuta dal proprietario. Se si tratta di interventi imposti dallo Stato (ai sensi dell’art.32) possono essere erogati acconti sulla base di stati di avanzamento. I lavori devono essere regolarmente certificati. Per la determinazione della percentuale di contributo da erogare, il Ministero tiene conto di altri eventuali contributi pubblici erogati per lo stesso immobile. Per la realizzazione degli interventi di restauro approvati a norma dell’art. 21 del Codice, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali può concedere anche contributi i conto interessi9 accordati da istituti di credito ai proprietari, possessori o detentori degli immobili (art. 37 del Codice). La concessine del contributo è fissato nella misura massima corrispondente agli interessi calcolati a un tasso annuo di sei punti percentuali sul capitale concesso a mutuo. Il mutuo deve essere assistito da privilegio sugli immobili ai quali si riferisce. L’amministrazione corrisponde il contributo direttamente all’istituto di credito secondo modalità da stabilire con apposite convenzioni. Lavori effettuati su beni dello Stato dati in uso ad altre amministrazioni Particolari forme di cooperazione, nel rispetto del principio della leale e proficua collaborazione tra pubbliche amministrazioni, sono state introdotte dal Testo Unico (all’art. 46) nei casi i cui gli interventi di restauro riguardino immobili appartenenti al demanio storico-artistico dati in uso ad altre amministrazioni. Infatti: - il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali provvede ai lavori sentita l’amministrazione che li ha in uso o in consegna, la quale può, previo accordo con il Ministero provvedere anche alla progettazione e all’esecuzione degli interventi. Resta ferma naturalmente la competenza del Ministero all’approvazione del progetto e alla vigilanza sui lavori. Per l’esecuzione di tali lavori, il Ministero, ai fini urbanistici, trasmette il progetto al Comune interessato e alla città metropolitana; - quando gli interventi coattivi riguardano immobili di enti pubblici territoriali, il Ministero dispone gli interventi da effettuare, salvo casi di assoluta urgenza, in base ad accordi o previe intese con l’ente interessato (art. 40); - gli interventi su immobili tutelati che coinvolgono più soggetti pubblici e privati e che possono implicare decisioni istituzionali e impegnare risorse finanziarie dello Stato, delle Regioni e degli enti locali sono programmati, di norma, secondo le procedure previste dall’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142, dall’art. 2, comma 203,della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e dagli articoli da 152 a 155 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 11210 (accordi di programma). M.G. P. n.33-34 2009 9 Lacuna architettonica e ricostruzione post-bellica Esperienze recenti R icondurre all’attualità le riflessioni del secondo dopoguerra italiano sul problema della reintegrazione delle lacune architettoniche può risultare un utile approfondimento della questione teoretica, già accennata nel nostro precedente articolo («L’architetto italiano», n. 30), specialmente se si mettono a fuoco alcune esperienze contemporanee considerate quali validi paradigmi. restauro a cura di Giovanni Carbonara e Alessandro Pergoli Campanelli Il laboratorio della città di Berlino A seguito dell’abbattimento nel 1989 del muro che divideva la città comunista dalla Berlino occidentale, si è sviluppata una fertile riflessione sulle modalità di riqualificazione della capitale tedesca, che sembrano aggirarsi, oggi, intorno alle proposte di reintegrazione tipologica di una parte delle sue architetture. Il Senatsbaudirektor della città Hans Stimmann ha illustrato efficacemente i modi in cui, dopo ogni guerra o cataclisma, il tentativo di rendere lo spazio urbano più funzionale alle esigenze del traffico moderno si abbini spesso alla tentazione di fare tabula rasa: dai calcoli statistici da lui riportati, il 90% della città di Berlino è risultato devastato non tanto dalla guerra o dalla successiva ruderizzazione e abbandono, quanto dagli interventi improntati alla cancellazione delle tracce del nazismo con il pieno consenso dei cittadini, la cui sfiducia verso i simboli del regime si è via via tradotta in un’assenza totale di nostalgia (Senatsbaudirektor Senatsverwaltung für Stadtentwicklung. Die Rekonstruktion in Berlin Mitte, nel convegno Antico e nuovo. Architetture e architettura, IUAV, Venezia 2004). Ad esempio, nella Berlino Est, l’area della Kroll Oper, sede nazional-socialista con origini ottocentesche colpita dalle A sinistra: Berlino, Kroll Opera (1844), rimaneggiata più volte, anche da Oscar Kaufmann (1922-1923), era divenuta sede del parlamento del Reichstag e venne bombardata nel 1943. Il teatro è stato del tutto demolito e il sito sistemato come parco urbano Sculture di Joseph Kroll inserite nel Tiergarten, unica sensibile testimonianza della scomparsa Kroll Opera House A destra: Berlino, Bethlehemskirchsplatz, pavimentazione riportante il n.33-34 disegno planimetrico 2009 della chiesa demolita (foto J.L. Vertiz) 10 bombe nel 1943 e definitivamente demolita nel marzo 1951, è stata sistemata nel 1999 come parco urbano, senza ricostruzioni di sorta. Così pure i resti della Bethlehemskirche, sebbene rimasti in piedi nel 1948, sono rientrati poi nella programmatica distruzione delle testimonianze ecclesiastiche promossa dall’amministrazione comunista e, nel 2001, appaiono ormai sostituiti dal disegno planimetrico della chiesa, realizzato sulla pavimentazione del piazzale risultante dalla sua demolizione. Nel lato ovest della città, le scelte di piano degli anni Ottanta sono passate da esperimenti di recupero che propongono la rivisitazione moderna dei profili volumetrici preesistenti, com’è il caso della Pariser Platz, a interpretazioni rispettose del tracciato urbano preesistente elevato con altimetrie e dimensioni contemporanee, come nel caso della Leipziger Platz. Eppure, in nessun caso si è riscontrato il beneplacito della cittadinanza. I concorsi progettuali promossi dall’Internationale Bauausstellung nel 1984 al fine di ricucire le ferite ancora aperte dei danni bellici, dello spianamento delle rovine e delle ricostruzioni moderne, hanno costituito forse il primo tentativo pianificato d’integrazione della nuova Berlino con i suoi frammenti storici significativi. Eppure gli architetti sono stati convocati in base a due sole modalità d’intervento: la ricostruzione urbana, o Stadtreparatur, e l’occlusione degli spazi vuoti, o Lückenfüllung. Con estrema apertura, le scelte di piano hanno puntato sulla reintegrazione delle mancanze con un linguaggio contemporaneo, richiedendo il solo rispetto dell’allineamento sul fronte stradale e delle logiche dimensionali esistenti, in altezza, volumetria o ingombro planimetrico dei fabbricati. Da sinistra: Pariser Platz presso la porta di Brandenburg, in un’immagine precedente alla guerra e dopo la recente ricostruzione Per quanto le intenzioni siano state quelle di affermare la convivenza fra gli stili eterogenei dei nuovi complessi insediativi, dall’impostazione meramente morfologica e dall’assenza di una risposta attenta all’analisi della preesistenza deriva un eclettismo linguistico che nessuna premessa postmoderna aveva mai immaginato così ostico. In uno stesso quartiere, se non in una stessa piazza, sono spuntate opere di Mario Botta, di Vittorio Gregotti, di Oscar Mathias Ungers, di Peter Eisenman, di Léon e Robert Krier, di Giorgio Grassi, di Aldo Rossi, di Nicola Di Battista, di Gino Valle, oppure di Renzo Piano, Arata Isozaki, Hans Kollhof, Rafael Moneo, Richard Rogers e Lauber e Whör, che sembrano voler parlare ognuna una lingua diversa, in una incomunicabilità che non riesce ad essere superata dalle sole omologazioni dimensionali. Babele di cui Rossi farà, anni dopo, un’esplicita citazione nel variopinto complesso della Schützenstrasse (1995-1997). «La storia non si può cancellare», fa notare Hans Stimmann, per cui neanche le nuove variegate architetture riescono a riflettere un’identità collettiva: paradossalmente, «i peggiori progetti del periodo dittatoriale staliniano risultano migliori delle ricostruzioni della democrazia». Così, il Senatsbaudirektor della ricostruzione si fa portavoce della tardiva inclinazione dei pianificatori alla progettazione basata, sull’analisi tipologica e sul recupero imitativo dei linguaggi storici. Ma la cittadinanza non sembra convinta dall’antecedente della ricostruzione à l’identique dello Schloss Charlottenburg, residenza estiva dell’imperatore riedificata nel 1956 proprio su richiesta dei cittadini: resuscitare il passato dalle ceneri prodotte in sessant’anni di abbandono è senz’altro un’operazione più complessa dell’immediata restituzione filologica di un’opera subito dopo la sua scomparsa. Al primo posto fra le proposte di ripristino polemiche è il Berliner Schloss, costruzione del XV secolo degli architetti Schlüter ed Eosander che dall’isola di Spree, antico centro d’identità della città, era stato punto di riferimento di forma, stile e dimensioni per lo sviluppo del tessuto della capitale. Demolito nel 1950 con tutti gli ampliamenti ottocenteschi perché simbolo del nazionalismo prussiano e destinato il sito alla creazione di uno spazio per manifestazioni politiche e parate militari, non resta dell’edificio altro che un portale realizzato tra il 1706 e il 1713, traslato successivamente nel prospetto del nuovo palazzo per il Consiglio di Stato (1962-1964). L’area resta in realtà sub-utilizzata fino al 1970, quando, all’apice del regime filo-sovietico della Repubblica Democratica Tedesca, vi viene eretto il Palazzo della Sotto: Leipziger Platz e i nuovi edifici eretti sulla planimetria ottagonale originaria. Con l’erezione del Muro, nel 1961, vengono eliminati anche gli ultimi edifici non distrutti in guerra, eccetto i resti del Grandhotel Esplanade e della Weinhaus Huth, riassorbiti nel nuovo impianto. Dal 2001, sono tutelate come monumenti le tracce superstiti del Muro nell’area prossima di Postdamer Platz e una sottile striscia di blocchetti ne traccia il percorso sul selciato In alto a destra: edifici dai forti contrasti di colore nel quartiere della Schützenstrasse (Aldo Rossi, 19951997) Sopra: Schloss Charlottenburg, pedissequamente ricostruito nel 1956 A lato: area dello Schloss all’isola di Spree, di fronte al canale, prima della n.33-34 demolizione 2009 avvenuta nel 1950 11 Palazzo della Repubblica (1976) costruito all’isola di Spree in luogo del castello del XV secolo (foto F. Panichella) In basso: ipotesi di ricostruzione dello Schloss allestita sui ponteggi della facciata. (da «Lotus International», 1994, 80) Repubblica (1976), fallito tentativo di cancellazione di due secoli di storia. Il grande casermone del popolo, bonificato dall’amianto e privato dei suoi rivestimenti in marmo, specchi, tappeti e lampadari, è oggetto di un concorso bandito nel 1993 e vinto dall’architetto Bernd Niebuhr che prevede la ricostruzione di tre dei quattro prospetti esterni dell’originario castello insieme a una delle due corti interne, con il resto del lotto riqualificato da forme contemporanee. L’anticipazione della simulazione di un tratto del prospetto principale in trompe-l’œil su tela (1993), a scala reale, persuade gran parte dell’opinione pubblica della convenienza del ripristino. Eppure, in prossimità dell’abbattimento, la polemica fra sostenitori e detrattori della demolizione si fa accesa. n.33-34 2009 12 A differenza dei rifacimenti di Dresda e di altre città tedesche, destinati a ricucire le ferite della guerra, la ricostruzione storica decisa all’interno del “fenomeno promozionale” della città berlinese assume le sembianze di uno strumento scenografico di attrazione per scopi commerciali. Così, a fianco all’ampia promozione della replica come «restauro di un gioiello architettonico» da parte del gruppo imprenditoriale di Wilhelm von Boddien, ci sono urbanisti e intellettuali come l’architetto Philipp Oswalt che difendono l’edificio moderno quale testimonianza delle vicissitudini degli anni Settanta e dichiarano: «Ricostruire il castello o meglio la sua facciata sarebbe un falso, una parodia della Storia» (P. Valentino, Le ruspe contro il “palazzo di Honecker”. Ma il muro della Storia divide i berlinesi, in «Corriere della Sera», 11 gennaio 2006, p. 16). Il nonsense di un ritorno stilistico è enfatizzato da Lisa Junghanss, curatrice dell’ultima mostra organizzata nei resti del Palast, che colloca l’esigenza di spazi per artisti al di sopra della necessità di «un castello prussiano per intrattenere i turisti» (C. Nickerson, A Communist citadel stirs German passions, in «International Herald Tribune», 3 gennaio 2006). Una pacata riflessione sulla legittimità delle scelte da operare è suggerita dalla studiosa Irmela Spelsberg in un saggio in cui snocciola i riflessi della doppia identità tedesca sulle problematiche del patrimonio architettonico (Berlino. Restauro e progetto: fra commemorazione storica e decontaminazione politica, in S.Valtieri, a cura di, Della Bellezza ne è piena la vista! Restauro e conservazione alle latitudini del mondo nell’era della globalizzazione, Nuova Argos, Roma, 2004, pp. 262-278). Secondo la Spelsberg, i casi orientati verso il ripristino dell’immagine storica con parziale riedificazione in linguaggio moderno dimostrano che, nonostante i dubbi di principio, il cammino della Germania sia talmente segnato dalla modernità e dalla consapevolezza del momento attuale da non poter concepire una posizione retrospettiva senza includervi comunque una componente contemporanea. Più che di ripristino, si tratta allora di una sorta di “ri-documentazione critica” delle stratigrafie che invano si era tentato di eliminare. Fino al 1990, scrive, «la demolizione del passato e la successiva costruzione di nuovi edifici moderni da destinare a sede del governo della Germania riunita sembrava la conditio sine qua non per espellere gli spettri. Dopo un’intensa discussione pubblica e il consulto con gli esperti, la classe politica è arrivata invece alla conclusione che tale damnatio memoriae avrebbe significato una falsificazione della storia nazionale e che una neutralizzazione di qualsiasi messaggio fatale delle pietre si sarebbe potuta ottenere meglio attraverso un restauro ponderato e un progetto sensato». Così, invece di rinnegare il passato con la demolizione, le forme nuove o il ripristino di stati precedenti, si è compresa la potenzialità implicita nell’accettarlo mettendone in evidenza la stratificazione storica, come fondamento da cui ripartire per esorcizzare le colpe del nazismo. Il Neues Museum all’Isola dei Musei di Berlino La neutralizzazione di un passato fin troppo pesante, dunque, può essere cercata in un lucido riappropriarsi della storia stratificata della città, improntato alla reintegrazione delle mancanze con linguaggio contemporaneo, senza forzature per la ricostituzione dell’unità dell’opera, ma piuttosto superando l’abusata rinuncia al compromesso mediante una stretta dialettica fra le parti conservate e i nuovi inserimenti. È proprio questo il criterio che soggiace al recente restauro del Neues Museum all’Isola dei Musei (1997-2009). L’esperienza metodologica percorsa da David Chipperfield e dal suo team ha proposto lo studio di precise simulazioni d’intervento, mirate alla salvaguardia della complessa storia dell’edificio, sia del periodo precedente alla distruzione della guerra che di quello successivo (G. Zampieri, Il Neues Museum dell’Isola dei Musei, Berlino, in M. Palazzo, a cura di, La Sala delle Cariatidi nel Palazzo Reale di Milano. Il cantiere di studio, Atti del Convegno, Milano 8 marzo 2005, Edizioni Et, Milano, 2006, pp. 47-53). L’edificio, progettato in origine da Friedrich A. Stüler e Johan H. Strack, aveva subito perdite integrali nell’angolo sud-est e nell’ala nord.Tenuto conto del fatto che si trattava proprio del nucleo iniziale di tutto l’impianto dell’isola, le parti sopravvissute sono state minuziosamente analizzate. L’esplorazione di stato di fatto e possibilità di intervento ha facilitato le scelte di restauro, col discernimento preciso del degrado presentato dalla decorazione di superficie, dal dettaglio architettonico e dalla conformazione strutturale; individuando, di conseguenza, le due opposte possibilità di sostituire le mancanze con copie analogiche o con forme distinguibili. Le soluzioni desunte dai confronti progettuali ipotetici hanno condotto al ristabilimento della volumetria e dei profili originari, mediante la riconnessione dei frammenti, rigorosamente consolidati e protetti, completati con elementi nuovi da essi disgiunti fisicamente e visivamente mediante una differenziazione sia materiale che formale. I vuoti volumetrici e le perdite di elementi consistenti, come le scale dello Stüler o l’abside della corte dell’ala sud, sono stati risarciti mediante la restituzione degli ambienti e della sequenza spaziale, in una riduzione disadorna dei corpi mancanti limitata a sistemi strutturali, proporzioni, ritmo e tettonicità degli elementi compositivi. Invece, per le grandi superfici decorate, si sviluppano diversi livelli di restauro, basati su un arrangiamento che privilegia la conservazione delle porzioni autentiche superstiti senza alcuna monumentalizzazione. L’obiettivo, in sintesi, è stato quello di restituire una vita funzionale all’edificio, completando l’esistente senza imitazioni né intenti scenografici e trasformandone il degrado in caratteristica acquisita, quindi accogliendo sia il nuovo che i segni di danneggiamento come ulteriori testimonianze stratigrafiche, in un arrangiamento finale che è come una parafrasi delle antiche partiture architettoniche. Berlino, Neues Museum (David Chipperfield, 1997-2009). Reintegrazione della facciata in laterizio In basso a sinistra: lo spazio centrale diruto e la ricomposizione dello scalone dello Stüler Sopra: Neues Museum. Parete occidentale della cappella nord al secondo piano: stato di fatto e simulazione delle risarciture (fotomontaggio D. Chipperfield Architects). Si è scelta una pulitura dai depositi incoerenti rispettosa della patina del tempo acquisita dalla superficie e una reintegrazione meramente conser vativa limitata ai materiali a rischio n.33-34 2009 13 Il caso italiano della Sala delle Cariatidi al Palazzo Reale di Milano Il Palazzo Reale di Milano, fondato su un Broletto del XII secolo, ha subito ripetute trasformazioni che accompagnano le vicende storiche della città. Dal 1919 l’intero palazzo venne acquisito tra le proprietà dello Stato e nel aperto al pubblico come Museo d’Arte Applicata all’Industria (1922). La sala da ballo detta Sala delle Cariatidi si fa risalire a un progetto di Francesco Croce e la sua realizzazione si colloca nel XVIII secolo, precisamente tra il 1774 e il 1778, nell’ambito degli adeguamenti del palazzo al gusto neoclassico eseguiti dal regio architetto Giuseppe Piermarini. Durante i bombardamenti subiti dalla città nel 1943, la sala fu colpita da uno spezzone incendiario che causò l’incendio del sottotetto e bruciò lentamente l’orditura lignea della copertura. Le grosse capriate crollarono, travolgendo la volta e il ballatoio perimetrale, il pavimento bruciò, l’elevata temperatura surriscaldò gli stucchi e ne alterò non solo il colore ma anche la materia costitutiva. In alto: la Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale di Milano, prima del bombardamento del ’43 (da M. Palazzo, “La Sala delle Cariatidi: il luogo e la storia”, in “Palazzo 2006”, pp. 57-64) Al centro: resti della sala alle intemperie, subito dopo il bombardamento e a seguito della rimozione delle macerie (da “Palazzo 2006”) n.33-34 2009 14 In basso: la mostra allestita con il celebre “Guernica” di Picasso (1953) Per sessant’anni la sala rimase nelle vesti di un relitto in attesa di riparazione, con i partiti decorativi gravemente danneggiati, in specie nelle parti aggettanti. Nell’immediato dopoguerra essa venne utilizzata per mostre ed eventi culturali, talvolta proprio per la suggestione dei danni bellici e per la perfetta ambientazione di sapore neorealista. È il caso dell’esposizione del Guernica di Picasso (1953), o di quella sugli Etruschi allestita nel 1955, in una perfetta sintonia tra i ruderi dell’ambiente e la frammentarietà degli oggetti in mostra. La cultura del consumismo opta piuttosto per occultare l’aspetto drammatico con occasionali scenografie provvisorie, così da evitare qualsiasi confronto con la memoria e sfruttare lo spazio come mero contenitore (L. Corrieri, La Sala dopo il 1943: una nuova scenografia architettonica, in Palazzo 2006, pp. 65-71). Oggi, il distacco temporale contribuisce a ridurre la partecipazione emotiva e a maturare un equilibrio propizio per orientare per l’auspicato restauro della sala. Gli studi intrapresi a tal fine dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio di Milano hanno registrato un ritardo di almeno due anni nel rifacimento della copertura crollata, tempo in cui l’ambiente rimase totalmente esposto agli agenti atmosferici, con aggravarsi delle condizioni del cornicione di coronamento, delle parti residue del ballatoio, dei partiti decorativi, delle statue e del pavimento. Inoltre, l’alienazione e la svendita dei materiali accatastati ovunque, convenuta per far fronte allo sgombero delle macerie dal palazzo, fu causa di perdita di elementi residuali che sarebbero stati oggi preziosi per la conoscenza delle fattezze originarie della sala da ballo, come ad esempio i frammenti della ringhiera neoclassica e i cerchi e braccetti dei girandò dell’illuminazione. Quando nel 1947 si allestì un ponteggio per il rifacimento della volta, le decorazioni si presentavano ormai quasi irrecuperabili. Il ponteggio stesso venne allestito con grandi scassi alla muratura, la volta rifatta con una geometria leggermente diversa dall’originale – decorata poi con una rievocazione semplificata delle partiture originarie – e il pavimento rinnovato con una tecnica alla veneziana di grossolana fattura. Da un’attenta analisi, si scorge con stupore che lo stato di conservazione è peggiorato gravemente nel corso degli anni, a causa delle disattenzioni e del discutibile uso della preesistenza alla stregua di un padiglione fieristico. I danni maggiori sono forse quelli causati dalla sostituzione degli infissi di quercia alle finestre, che ha lasciato i quattro spigoli sul fronte interno di ogni vano segnati dagli scassi dell’asportazione delle cornici che li riquadravano. Ma inoltre, l’uso dell’ambiente malridotto come sala espositiva ha provocato un’usura avanzata della parte bassa di tutte le pareti e una successione ininterrotta di manomissioni deturpanti, quali insensate demolizioni dell’apparato decorativo per l’alloggiamento di impianti. Dall’anno 2000 si è iniziato a rimuovere l’annerimento dell’incendio del ’43 e sono emerse le mancanze in tutta la loro consistenza, tanto da stabilire la necessità di un cantiere di studio preliminare all’intervento, promosso dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia con la collaborazione della Direzione Musei del Comune di Milano, progettato e diretto tra il 2004 e il 2005 dall’Istituto Centrale del Restauro e dalla Soprintendenza di Milano. Allestito su un tratto della parete destra della sala per un’estensione di due campate dell’ordine decorativo, il cantiere è servito ad approfondire la conoscenza dell’opera e a sperimentare le metodologie di restauro più idonee, nel tentativo di stabilire la finitura da restituire alle superfici e la presentazione finale dell’ambiente, per un riuso più rispettoso e consapevole dei suoi valori storico-artistici. Il discernimento delle tecniche da mettere in atto è stato mirato alla valutazione di massima di un successivo restauro dei quattro prospetti della sala. In sintesi, il criterio operativo individuato varia in funzione dello stato lacunoso delle superfici e sembra rispondere a una graduale intensificazione delle opere di reintegrazione, a partire dalla parte bassa fino in cima ai prospetti. Nell’ordine inferiore, interessato dalla presenza di specchi e finestre, ci si è trovati a dover restituire, infatti, anche parti di arriccio che avevano talvolta lasciato la muratura a vista, riproponendo una superficie non completamente finita ma almeno reintegrata fino allo strato dell’intonaco esterno, senza coloritura. Il rifacimento delle decorazioni si è limitato a riproporre quelle di tipo seriale, ma soltanto nel caso di brevi tratti in cui la discontinuità si presentava circoscritta e d’intralcio alla percezione dei frammenti delle cornicette originarie, rese riconoscibili dal nuovo tono grigio accostato alla doratura scurita dalle forti temperature dell’incendio. In alto da sinistra: particolare dell’“Incoronazione di Ferdinando I a Re del Regno Lombardo-Veneto”, 1838 (Archivio Achille Bertarelli, Milano) La copertura in cemento armato, ricostruita con profilo cur vilineo leggermente ribassato rispetto alla precedente volta e partizioni semplificate dell’antica decorazione (foto M. Ranzani) Sotto a sinistra: le cornici lignee dei vani finestra del registro superiore dell’apparato decorativo, prima e dopo essere state smurate per il rifacimento degli infissi, con profonde lacerazioni degli spigoli del vano (Archivio Achille Bertarelli, Milano) Particolare dei danni causati dall’inserimento n.33-34 degli impianti 2009 all’interno delle murature della sala 15 Porzione del cantiere di studio da cui si evince lo stato di fatto precedente ai lavori (ICRSoprintendenza per i BBAA e per il Paesaggio di Milano, 2004) A destra: le prove hanno esplorato i limiti di reintegrazione degli strati di finitura e dell’apparato decorativo (cornici e decori di tipo seriale) Sotto: prova di rievocazione del ballatoio al di sopra dei mensoloni aggettanti preposti a sostenerlo Nella fascia di separazione dei due ordini decorativi, sono state lasciate chiaramente leggibili le risarciture dell’intonaco, con una restituzione parziale degli strati che non ha raggiunto il livello dell’intonachino superficiale e ha soltanto reso affine il colore naturale della malta al finto marmo rosa sopravvissuto in ampi tratti dell’architrave. Proseguendo verso l’attacco della volta, si è potuto ridurre il grado di reintegrazione restituendo le modanature in maniera sempre più semplificata e ammettendo la presenza di sensibili lacune, ad esempio, nelle scanalature delle semicolonne. Il cornicione sommitale è stato uniformato da un trattamento minimo, con lieve accenno dei livelli del profilo originario senza restituzione di alcun decoro seriale. Radicalmente conservativo, infine, è stato il restauro dei manufatti artistici, come statue, stemmi e cariatidi. In essi si è provveduto a consolidare e proteggere il materiale originario, cercando l’armonia finale nella sola riequilibratura cromatica risultante dalle operazioni di pulitura superficiale e velatura. All’interno del cantiere di studio è stata affrontata in maniera preliminare anche la problematica del ballatoio perduto, mancanza che altera notevolmente le proporzioni dei due ordini decorativi sovrapposti. Una prima ipotesi di “restituzione scenografica” raffigura un tratto della ringhiera che potrebbe suggerire l’idea generale, ma restano al vaglio dei responsabili altre ipotesi di restituzione dell’ingombro mediante reinterpretazioni contemporanee minimali. Intanto, dalla prova eseguita emerge lo stretto rapporto che intercorreva fra le pareti e il sistema di mensole, oggi apparentemente estraneo all’ornato, allora mediato dalla decorazione presente all’intradosso dell’aggetto ligneo. La conseguenza più importante della ritrovata volumetria del ballatoio, in ogni caso, sembra essere la possibilità di una percezione più consona dello spazio. Di recente, gli esiti del cantiere pilota sono stati sottoposti alla valutazione di una speciale commissione incaricata di estendere l’area del restauro. Il ponteggio, in fase preliminare, è stato allestito sui due prospetti interni trasversali e su quello longitudinale che include le campate già trattate. Oltre al pre-consolidamento per la messa in sicurezza dei materiali a rischio, sono state previste indagini conoscitive in punti ben conservati – come ad esempio le finestre dipinte e la cornice sommitale integra dell’angolo sud-ovest – che potranno offrire riscontri sulla natura costruttiva degli elementi originari. In vista della flessibilità di demarcazione delle reintegrazioni e della possibilità di intervenire per strati, sembra chiaro che la riuscita del restauro debba risultare dall’oculata articolazione degli effetti estetici di ognuna delle operazioni: equilibrio delicato che richiederà un raffinato senso dell’armonia complessiva. Con la restituzione integrale di questo gioiello architettonico, all’interno del complesso già ampiamente restaurato, si completerà l’opera di valorizzazione che fa del Palazzo Reale, ancora una volta, un riferimento nodale della vita culturale milanese. Beatrice Vivio percorsi lecorbusieriani a cura di Valerio Casali La “Mano Aperta” n.33-34 2009 18 L Le Corbusier, “Composition avec une poire”, 1929 e particolare e Corbusier attribuisce alla mano un ruolo importante, quello di celare – e dunque poter rivelare – le più recondite caratteristiche della personalità degli uomini: «La mano che contiene tante linee interne e tanti significati nel suo contorno, nel suo tessuto; essa contiene la personalità dell’individuo, il che vuol dire che le cose più nascoste, più segrete, più soggettive, più inafferrabili possono benissimo essere rivelate da una linea della mano, dai muscoli della mano, dal profilo della mano».1 La mano è altresì un formidabile mezzo di conoscenza: Gli utensili nella mano Le carezze della mano La vita che si gusta attraverso il tocco delle mani, La vita che è nella palpazione.2 Le Corbusier, “La main et le silex vert”, 1930 -32 Inoltre la mano è – insieme alla testa – coprotagonista del processo creativo di opere d’arte: disegni, pitture, scultu- re, architetture; il processo si origina nel cervello, ove l’opera viene concepita e da qui passa alla mano, incaricata di tradurre in pratica ciò che la mente ha ideato: «Testa-e-mano da cui esce tranquillamente l’opera umana carnee-spirito».3 Ma la mano non è solo una mera esecutrice; essa introduce nelle opere che disegna degli apporti autonomi, al punto che i ruoli possono addirittura scambiarsi e, in certi momenti, la mano si trova ad essere protagonista della creazione: «Facevo passare dalla mia mano alla mia testa…»; 4 e: «Talvolta è la mia mano che precede il mio pensiero…».5 La mano nell’opera plastica di Le Corbusier Nell’opera grafica e pittorica del maestro, la mano è elemento che ricorre con grandissima frequenza, rivestendo una particolare importanza; le innumerevoli mani che Corbu disegna – accor- dando loro particolare attenzione, attribuendo loro una dimensione maggiorata in rapporto ai corpi rappresentati e facendone sempre elementi di primaria importanza nel contesto dell’opera – costituiscono una vera e propria “corrente”,6 che percorre trasversalmente tutta la creazione artistica lecorbusieriana. La mano comincia ad apparire nei quadri tardo-puristi 7 sotto forma di guanto; Le Corbusier stesso chiarisce – nel 1951 – che il guanto deve essere considerato come riferimento alla mano, in quanto «un guanto vuoto prova che una mano è passata di là».8 La troviamo per la prima volta in Guitare et mannequin del 1927 e poi in numerose pitture dello stesso anno e degli anni seguenti, ove la mano prende un’importanza crescente, come, ad esempio, in Composition avec une poire, del 1929, ove compare ancora sotto forma di guanto – fino a divenire addirittura protagonista in La main et le silex Le Corbusier, “Trois bagneuses”, 1935, e particolare Sotto: “Les dents du midi”, cartolina Le Corbusier, disegno della “petite maison” a Vevey, 1945, sullo sfondo “Les dents du midi” e particolare del 1930, il primo quadro interamente dedicato alla mano, per poi continuare a giuocare un ruolo basilare nel monumento a Paul Vaillant Couturier del 1937, o in Les lignes de la main del 1939, ancora interamente consacrato all’immagine di una mano. In un quadro del 1935, Trois bagneuses, la cui zona baricentrica è occupata da due grandi mani intrecciate, si trova, in posizione secondaria, il disegno di una mano che presenta una totale analogia con quello che sarà il primo disegno della Mano Aperta, una vera Mano Aperta ante litteram. Dieci anni dopo, nel 1945, disegnando in occasione di una visita alla madre una serie di schizzi della piccola casa che aveva costruito tanti anni prima a Vevey in Svizzera per i genitori, Le Corbusier rappresenta una montagna – Les dents du midi – dalla caratteristica cima dentata, come una mano aperta emergente dal Lago Lemano. L’idea della “Mano Aperta” La Mano Aperta nasce, come concetto e al contempo come segno, nel 1948: 9 «La Mano Aperta è un’idea nata a Parigi, spontaneamente, o più esattamente come conseguenza a delle preoccupazioni e a dei conflitti interiori venuti dal sentimento angosciante della disarmonie che separano gli uomini così spesso e ne fanno dei nemici».10 Ma, come se da sempre abitasse il subconscio del maestro, pur senza esplicitarsi, l’immagine è già presente in scritti risalenti a epoche molto precedenti; nel 1929 il sito di Rio de Janeiro è paragonato a una gigantesca mano aperta: «Les hauts plateaux seraient comme le dos d’une main s’écrasant grand ouverte, au bord de la mer; les montagnes qui descendent sont les doigts de la main; ils touchent à la mer; entre les doigts des montagnes, il y a les estuaires de terre, et la ville est dedans»; 11 e: «D’avion, j’ai dessiné pour Rio-de-Janeiro, une immense autostrade reliant à mi-hauteur les doigts des promontoires ouverts sur la mer»;12 nel 1935, osservando come a New York non esistano alberi se non a Central Park, nel Le Corbusier, la “Mano Aperta” In alto: Le Corbusier, la “Mano Aperta” con cinque donne, 1948 n.33-34 2009 20 corso della entusiastica descrizione di una creatura vegetale, afferma: «Jeu mathématiquement mesuré des branches démultipliées à chaque printemps d’une nouvelle main ouverte»;13 e parlando di New York: «New York, forte, fière d’elle-meme, en “prosperity”ou en “depression”,est comme une main ouverte au-dessus des tetes. Une main ouverte qui cherche à pétrir la substance d’aujourd’hui».14 Dapprima la Mano Aperta nasce come concavità – un elemento capace di contenere – e la si trova curiosamente accostata a una composizione formata da un gruppo di cinque donne, disposte come dita di una mano: «Un primo schizzo apparve, spontaneamente – una specie di conchiglia galleggiante sopra l’orizzonte: ma delle dita divaricate mostrano una mano aperta come una vasta conca»;15 poi come profilo di una mano aperta ma piatta, non formante concavità: «Più tardi, l’anno seguente, in un albergo della Cordigliera delle Ande, l’idea ritorna, prendendo una forma differente; non è più una conca, ma uno schermo, una silhouette. È il valore silhouette che si svilupperà nel corso degli anni».16 La Mano Aperta è il segno – per Le Corbusier un “segno” è un’immagine particolarmente pregnante, capace di rimandare immediatamente a un concetto – più importante della mitologia lecorbusieriana e rappresenta la mano stessa del maestro, che nella lunga ricerca per la definizione del segno medesimo esplora a più riprese la strada dell’autoritratto della mano. La Mano Aperta è simbolo di un atteggiamento duplice – prendere e offrire – ed esprime dunque la capacità di assorbire l’immenso patrimonio disponibile – «le ricchezze create»17 – per conseguire un grande arricchimento Le Corbusier, la “Mano Aperta” Sotto: Le Corbusier, la “Mano Aperta” ne “Le Poème de l’Angle Droit” e particolare interno e quella di mettere il frutto di questa ricchezza a disposizione di tutti gli uomini. È esattamente ciò a cui Corbu ha consacrato la sua vita: apprendere sempre, comunque e in ogni situazione, e offrire la propria opera, il proprio pensiero (l’unica cosa capace di essere eterna),18 nati da questa sostanza assorbita. Ne Le Poème de l’Angle Droit in cui alla Mano Aperta è consacrato un intero capitolo, Le Corbusier afferma: Aperta per ricevere Aperta anche perché ognuno Venga a prendervi;19 e conclude mirabilmente: A piene mani ho ricevuto A piene mani dono.20 V. C . Le note sono consultabili sul sito: www.mancosueditore.eu (alla voce riviste) Cantieri a Dubai itinerari e periferie a cura di Ida Fossa Una scommessa n.33-34 2009 22 persa? D ifficile distinguere il miraggio dalla realtà. Dubai, una città dove ogni sua parte è progettata con l’intento di suscitare meraviglia, nella svariata coniugazione di un unico connubio: lusso e stravaganza. Avveniristici grattacieli, arcipelaghi artificiali, progetti faraonici hanno fatto dell’emirato una palestra per architetti e urbanisti all’insegna del “tutto è possibile”. Nata dal nulla, non avendo le risorse petrolifere di Abu Dhabi, non il gas del Qatar, ma da una scommessa, quella di diventare la capitale del business e del turismo del mondo arabo. La sua storia inizia nel 1833, quando Al Maktoum bin Butti guidò un migliaio di persone della tribù Bani Yas alla conquista di Bur Dubai, una zona desertica affacciata sul Golfo Persico. Da qui ha origine la storia di Dubai e del potere degli Al Maktoum, che da allora hanno governato e creato la città. Sono stati addirittura paragonati ai Medici, che con la loro abilità e potenza economica hanno finanziato il Rinascimento a Firenze. È infatti lo sceicco Maktoum bin Hasher Al Maktoum, nel 1894, a concedere una totale esenzione fiscale per i commercianti stranieri, dando il via a una enorme espansione economica, e sarà 30 anni dopo lo sceicco Rashid bin Said Al Maktoum a fare di Dubai il più importante porto franco di importazione e riesportazione. Nel 1971 diventa la capitale di uno dei sette Stati che compongono gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Nel 1990 il figlio Maktoum bin Rashid Al Maktoum prende il potere investendo nel commercio e nel turismo, e nel 2006 prende le redini il fratello Mohammed che, con il 99,67% della Dubai Holding controlla l’impero economico. L’88% degli abitanti è composto da immigrati, di 130 etnie diverse, per lo più provenienti da India, Pakistan e Bangladesh. Fino alla fine degli anni ’80 quasi sconosciuta, la città si è affacciata al nuovo secolo come un hub finanziario e turistico di richiamo mondiale. Uomini d’affari, miliardari, celebrità della moda e dello spettacolo di tutto il mondo si incontrano qui in cerca di affari e stravaganze (dalla partita a golf nel campo sospeso nel vuoto del Burj Al Arab alla gara di sci nelle piste innevate, al sandboarding nel deserto). Esagerata e ambiziosa, è sempre a caccia di primati. Burj Al Arab, l’albergo più lussuoso, l’unico al mondo ad avere 7 stelle, è diventato il simbolo della città. Su un’isola artificiale, alto 351 m, si protende sul mare come un’enorme vela gonfiata dal vento. Al suo aspetto esterno che ci sorprende per l’eleganza e l’essenzialità corrisponde un interno assolutamente kitsch: varcando la soglia il luccichio di 8.000 mq di foglia d’oro a 22 carati ci abbaglia nella pesantezza delle decorazioni, in un’orgia di marmi pregiati, cascate d’acqua e zampilli.Tra le stravaganze campi da tennis sospesi nel vuoto a 321 m d’altezza, ristoranti immersi in un acquario, e nelle toilette per signore dispenser di creme Hermes. Burj Dubai. Arch. Adrian Smith (SOM), società che ha sviluppato il progetto Emaar Properties. Appena inaugurato – con il nome di Burj Khalifa –, in notevole ritardo rispetto alle previsioni, risulta essere l’edificio più alto del mondo con i suoi 828 m. È composto da tre corpi che si avvolgono a spirale su una colonna centrale. È stato costruito con il sistema autorampante SKE. Qui Armani ha voluto il suo primo hotel: 160 tra stanze e suite, ristoranti gourmet, centro benessere in oltre 40.000 mq e 114 residenze private da 100 a 200 mq all’interno della torre più alta del mondo, di quello che ormai è il simbolo di Dubai. Emirates Towers, sono il cuore pulsante del business district; arch. Hazel WS Wong Norr, alti una 354 m, l’altra, sede dell’Hotel Jumeirah, due in meno. Dal ristorante panoramico all’ultimo piano si ha una vista che smentisce clamorosamente la sensazione percepita dal basso, dove il rispecchiarsi dei grattacieli nelle facciate ci faceva sentire a Manhattan, mentre dall’alto l’effetto è quello del film The Truman Show: una modesta serie di grattacieli allineati, e dietro… il niente, in questo caso non un teatro di posa, ma il deserto. Dubai International Financial Centre (DIFC), zona franca, è una vera e propria città destinata a ospitare non solo le sedi delle società finanziarie e i loro uffici operativi, ma anche hotel, appartamenti, gallerie d’arte, palestre, ristoranti, centri commerciali. Il Gate ospita l’authority del mercato finanziario, con la sua forma cubica ad arco di trionfo sembra simboleggiare la solidità economica; ai suoi piedi il gruppo Gensler ha collocato delle enormi formiche dorate, forse un incitamento al risparmio. Palma Jumeirah è attualmente la più grande isola artificiale al mondo; come una palma stilizzata formata da un tronco centrale e da 16 rami disposti simmetricamente, circondata da una serie Burj Al Arab: esterno e interno Burj Dubai Lago artificiale sotto il Burj Dubai, The Old Tower Island n.33-34 2009 23 Gli arcipelaghi artificiali di Dubai visti dall’alto In basso: Hotel Atlantis a Palma Jumeirah, vista dall’alto e interno A destra: un acquario ad Aquaventure di isole che formano una corona circolare. La sua costruzione è iniziata nel 2001 e avrebbe dovuto terminare a fine 2008.Alcune parti sono ultimate, altre in fase di completamento, altre interrotte, altre mai iniziate. È un’opera faraonica che comprende lussuosi hotel, ville e appartamenti in case a schiera che si affacciano sul mare, un mare simile a una piscina, profondo meno di due metri e con l’acqua stagnante che inizia a imputridire, accessibile da un lembo di sabbia con il cemento sottostante che riaffiora qua e là. Le costruzioni sono diversificate nello stile (dal palladiano al mo- resco, al razionalista) ma lo squallore è caratteristica comune, nonostante l’abbondante uso del colore. L’hotel più folle è l’Atlantis, un palazzone rosa formato da due torri unite da un enorme arco orientaleggiante che ospita le suite più lussuose. Offre 1.539 camere dagli arredi d’ispirazione marina, come gli spazi comuni con decorazioni che vanno dal simil-cretese al simil-pompeiano. Sotto il resort ci sono corridoi trasparenti che conducono a camere con pareti in vetro che si affacciano su un gigantesco acquario con 65.000 specie marine. Dall’albergo si può accedere al l’Aquaventure, 17 ettari di piscine, scivoli, onde, squali e un delfinario. Palma Jebel Ali, formata anch’essa da un tronco centrale e da 17 fronde e circondata da un insieme di isole che formano una barriera semicircolare. Sarà destinata sia ai residenti, nelle numerose ville e appartamenti di varie dimensioni, che ai turisti, nei numerosi hotel. Comprenderà sei porti turistici, un villaggio marino, un parco acquatico. La sua costruzione iniziata nel 2002 è tutt’ora interrotta. Palma Deira è la più grande delle tre Palme. La sua estensione sarà di 14 km Businessdistrict. Emirates Tower di lunghezza per 8,5 km di larghezza con una superficie di 80 kmq. Dal tronco centrale si aprono 41 fronde e ha una corona circolare e una barriera a mezzaluna lateralmente. Sarà composta da immobili residenziali, porti turistici, centri commerciali, impianti sportivi, club. L’area residenziale si trova sulle fronde e conterrà 8.000 case a due piani in tre stili diversi, ville con vista rifinite lussuosamente e appartamenti. I lavori, iniziati nel 2004, sono stati interrotti. The World è un arcipelago di 300 isole costruite approssimativamente a forma delle masse terrestri, a 4 km al largo della costa. Il progetto è stato originariamente concepito dal sovrano Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, sviluppato dalla società Nakheel Properties. Si estende su una superficie di 14.000 mq, 9 km di lunghezza per 6 km di larghezza, circondata da un’isola ovale frangiflutti. Qui è stata realizzata la più rivoluzionaria operazione di delocalizzazione di corallo che sia mai stata effettuata; 22.500 colonie di corallo sono state localizzate, unitamente a 30 specie di pesci, nel Golfo Persico, nonostante l’alta temperatura dell’acqua (che spesso arriva ai 35°) ne renda la vita difficile. L’operazione è stata compiuta dal Dipartimento di Scienze Naturali della Zayed University con la Nakheel. La distanza fra le varie isole è in media di 100 m. La sua realizzazione è iniziata nel settembre 2003 ed è stata interrotta all’inizio del 2009. Waterfront, pensato con l’intento di creare il migliore litorale al mondo. Attualmente è solo una proposta che non è stata finanziata. A forma di una mezzaluna che circonda Palm Jebel Ali. Se costruito, il complesso dovrebbe ospitare 1,5 milioni di abitanti su un’area di 400 kmq (sette volte Manhattan), creando altro spazio per hotel, villaggi turistici, centri di villeggiatura, centri commerciali. È composto da 10 settori chiave, tra questi il Medinat Al Arab, destinato a diventare il nuovo centro economico di Dubai, su progetto di un consorzio internazionale di architetti. Situato nei pressi del nuovo aeroporto, sarà facilmente accessibile sia a scala nazionale che internazionale; sono previste grandi opere infrastrutturali, per ora è iniziata solamente la costruzione di un breve tratto, rimasto interrotto, dell’Arabian Canal, che partendo dalla base della mezzaluna si dovrebbe inoltrare nel deserto per 70 km. Hidropolis, hotel sottomarino su progetto di Joachim Hauser, interamente costruito in Germania, è una specie di sottomarino in acciaio, cemento e plexiglas che verrà ancorato al fondo marino a una profondità di 20 m, a distanza di 300 m dalla costa. Dovrebbe avere 220 suite panoramiche, tre ristoranti, terme, bar, centro commerciale, il primo museo sottomarino al mondo e in superficie due strutture trasparenti ospiteranno un teatro e una spiaggia ombreggiata da nuvole artificiali. Dovrebbe essere collegato alla terraferma da un tunnel trasparente. Non è stato realizzato. Dubai Marina, la prima fase di questo progetto è stata completata. Si estende su 25 ettari su una piattaforma sul mare, comprende sei torri (Al Messa, Fairooz, Murjan, Mesk, Al Anbar,Yass) con appartamenti, 64 ville sul lungomare. Al termine della seconda fase i grattacieli saranno 200. Molte le copie già realizzate, tra cui le “Torri Gemelle” e il “Chrysler”. È la zona della città più frequentata dagli europei e soprattutto dai giovani che lavorano per le società imprenditrici e finanziarie. Solo a Dubai Marina è possibile passeggiare sul lungomare e accedere al porto, sul quale affacciano negozi, giardini, bar e ristoranti; soltanto in questa area c’è quella quotidiana vita pedonale che caratterizza le città di quasi tutto il mondo. n.33-34 2009 25 Dubailand: il parco divertimenti più grande del mondo Enorme complesso turistico su una superficie di 278 kmq, comprende 45 megaprogetti e 200 progetti minori. Annunciato nel 2003, è diviso in sei aree tematiche (mondi): Attrazioni ed esperienza del mondo, Sport e outdoor world, Ecoturismo del mondo, Tempo libero e vacanze nel mondo, Retail and entertainment world, Downtown. Tra questi: Parco Sahara, su 460.000 mq. Il tema è il folklore arabo e le storie delle Mille e una notte, con spettacoli dal vivo e virtuali. È stato realizzato. Sports City è un complesso che ospiterà impianti sportivi su una superficie di 7,5 kmq.Avrà quattro stadi: uno per il rugby, il calcio e l’atletica leggera con una capacità di 60.000 spettatori, uno per il cricket con 25.000 posti, uno co- Una scommessa persa o un’occasione da non perdere? Non si vedono il condominio-Torre Eiffel, né la Torre di Pisa, né la Grande Muraglia cinese emergere tra le dune che circondano Dubai, lì dove dovrebbe sorgere Falcon City, all’interno di Dubailand, il più grande parco divertimenti del mondo. I cartelli pubblicitari che annunciavano con accattivanti rendering le faraoniche realizzazioni sono sbiaditi, lacerati, colpiti dal sole e dal vento con l’impeto della crisi che si è abbattuta anche qui, dove sembrava che tutto poteva essere possibile. Si dice che molte gru si siano fermate, che l’uomo d’affari irlandese John Dolan, che aveva acquistato le isole Irlanda e Inghilterra dell’arcipelago The World, si sia suicidato per le sopraggiunte difficoltà finanziarie, che vengano cancellati 1.764 visti di residenza al giorno… nel Paese dell’esagerazione anDubailand che la crisi sembra esagerata! perto multifunzionale con 10.000 posti e uno per l’hockey su prato per 5.000 spettatori. Sarà dotata di strutture sportive e ricreative, centri residenziali, sociali e commerciali con tutti i servizi correlati. Può ricevere 70.000 persone al giorno. La prima struttura completata è il campo da golf di 18 buche Club Els. La fine dei lavori era prevista per il 2010 ma attualmente sono interrotti. Dubai Science World comprende numerosi progetti fantasmagorici nell’ambito del tema Attrazioni ed esperienza del mondo, ma attualmente sono interrotti. Ski Dome, immenso complesso per sport invernali interamente coperto; realizzato con 6.000 tonnellate di vera neve. Composto da diverse piste di varia difficoltà, sentieri, piste per snowboard, pinguinarium, acquari, bagni termali a differenti temperature. La sua realizzazione non è iniziata. Sembra che lo sceicco Rashid bin Said Al Maktoum abbia esagerato nel promettere un mondo dorato, nei suoi eccessi creativi, nel costruire opere sempre più impegnative attirando capitali da tutto il mondo e usarli per ancora altri complessi senza avere portato a termine e venduto i precedenti. Sembra che i meccanismi che avevano alimentato la crescita abbiano portato il governo e le principali società a un livello di debiti insostenibile, e che a questo punto la vicina Abu Dhabi sia intervenuta! Come dice Walter Siti ne Il canto del diavolo «Dubai è una città dove l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura». È una città che,prendendo esempio da Disneyland e Las Vegas, propone una miscellanea “vera” di tutto ciò che è “falso”. In questa città senza una sua anima, che non trova una sua identificazione né nelle metropoli occidentali formate dal sovrapporsi dell’esistere, né nei valori delle tradizioni mediorientali, questa crisi può essere un’occasione… Economisti e giornalisti traggono le conclusioni più diverse, ma i residenti vedono positivamente il cambiamento. La situazione fa riflettere. Nello sconquasso delle grandi compagnie internazionali, fino allo scorso anno unica fonte di riferimento, ora lo spirito imprenditoriale locale sta trovando il suo spazio cercando di stabilire nuovi modelli di produzione culturale e sociale. Quando la crisi ha cominciato a lambire le sue coste, la città si è finalmente resa conto di essere un insieme di frammenti dove la ricchezza celebrava la sua potenza, ma senza veri contenuti. È stata creata l’Authority per la Cultura e le Arti, che sta promuovendo la creazione di alloggi economici, di posti di lavoro part-time, di programmi di sostegno finanziario e la creazione di musei e, soprattutto, promuovendo attività che utilizzano le risorse e i talenti locali. Si sono attuati progetti per creatori, artisti, designer che sono già entrati nel mercato internazionale (la prima serie di mobili contemporanei disegnati e prodotti a Dubai esporrà al prossimo Salone del Mobile di Milano). Nei 93.000 mq dell’Entrepeneur Business Village, nelle sue torri variopinte lasciate deserte dagli impiegati stranieri, si sono installati nei loro uffici i giovani ricercatori e gli imprenditori più brillanti della città. Con la crisi globale e l’avvenuto “scoppio” della bolla immobiliare nell’emirato, oggi si stanno rivedendo i programmi. Sui mercati finanziari è scattato l’allarme… Il futuro di Dubai è a rischio o si riuscirà a vincere la scommessa? I. F. L’innovativo bordo per piscina Dolphin Florim mette ancora una volta a frutto il proprio know-how tecnico e propone al mercato una nuova e rivoluzionaria tipologia di bordo piscina nel formato 30 x 60 cm: Dolphin. Costituito da un’anima in materiale ultraleggero impermeabile, rivestita da prodotti ceramici antisdrucciolo, questo innovativo prodotto è un inedito pezzo speciale che abbina in maniera esclusiva i vantaggi di una forma ergonomica ed esteticamente accattivante con una flessibilità d’uso che lo rende adatto ad essere utilizzato in vasche private, pubbliche, alberghiere, termali e dedicate al wellness, con sfiori di tipo skimmer o traboccante (over flow channel). Il bordo Dolphin è in grado di assicurare tutta una serie di vantaggi che lo rendono la scelta ideale per il progettista, potendo offrire I nuovi pali a bassa invasività di Kappazeta Aktiv Aktiv, la nuova divisione aziendale della storica Kappazeta dedicata alle tecniche di palificazione, propone una gamma di pali attivi a bassa invasività con i quali è possibile intervenire nei casi più svariati e complessi di cedimento in fondazione. Geoup e Georound, infatti, sono speciali tipologie di palo che rivoluzionano i tradizionali interventi di consolidamento eseguiti con queste metodologie: sono meno invasivi, più veloci e più economici dei sistemi fino ad ora disponibili sul mercato. Entrambi i prodotti sono immediatamente attivi, in virtù del precarico effettuato su ogni singolo palo prima del collegamento finale alla struttura. Le macchine e l’operatività necessarie per l’installazione, inoltre, non richiedono estrazione di fanghi o realizzazione di getti, né produzione di terreno di risulta, vibrazioni o rumori, quindi si differenziano notevolmente dalle tradizionali modalità di palificazione, risultando decisamente meno invasive. Geoup, in particolare, è uno speciale palo pressoinfisso ideale per la stabilizzazione e il sollevamento di strutture e pavimentazioni esistenti, mentre Georound è uno speciale palo a elica indicato per stabilizzare e sollevare fondazioni di strutture esistenti, modularità a base 60 cm (per abbinarsi ai prodotti sia da esterno sia da interno vasca), facilità di posa, leggerezza, sicurezza contro lo scivolamento, costanza dimensionale, adattabilità a vasche di qualunque forma, ergonomia che facilita l’appiglio manuale, conformazione che limita le tracimazioni d’acqua, isolamento termico, massima igiene, totale impermeabilità. La novità rappresentata da Dolphin sul mercato è garantita anche dal fatto che si tratta di un elemento per il quale è stato effettuato il deposito di domanda di brevetto. La continua spinta verso la ricerca e l’innovazione, l’esperienza accumulata in più di 40 anni di storia e oltre 30.000 piscine realizzate in tutto il mondo, la professionalità dimostrata dallo staff tecnico a supporto dei professionisti del settore, infatti, fanno da sempre di Florim uno degli interlocutori più affidabili per i progettisti di impianti natatori e centri benessere. Florim Ceramiche – Fiorano Modenese (Modena) – www.florim.it per la realizzazione di tiranti ed è applicabile anche nelle nuove costruzioni. Un approfondito apparato teorico e migliaia di casi brillantemente risolti in tutto il mondo attestano l’affidabilità e l’efficacia di questi innovativi sistemi. La possibilità di collaudare ogni singolo palo, l’attivazione immediata della fondazione e il recupero delle quote, qualora questo sia l’obiettivo da perseguire, sono soltanto alcune delle interessanti caratteristiche di Geoup e Georound. Kappazeta – Loc. Alberi (Parma) – www.kappazeta.it Numero N zero sud chiama nord a cura di Maurizio Oddo el varare una nuova rubrica, all’interno di una rivista dedicata all’architettura italiana, non è facile definirne in maniera netta il campo di azione, soprattutto se rapportato alla cultura internazionale e, contemporaneamente, ai ristretti ambiti regionali dell’Italia meridionale e della Sicilia in particolare, lontana – anche se questo non è necessariamente uno svantaggio – dai maggiori centri del dibattito architettonico. Nonostante l’approfondimento storiografico prodotto di recente, le trattazioni generali sull’architettura contemporanea riservano uno spazio non sufficientemente adeguato alla vicenda n.33-34 2009 28 siciliana degli ultimi settant’anni. Nella maggior parte dei casi, infatti, le analisi interpretative assegnano, anche agli aspetti formali dei progetti presi in esame, un’attenzione del tutto marginale, mostrando gravi carenze che si accentuano e diventano evidenti se ci si sposta nel campo più generale rispetto allo specifico architettonico. Cosa è successo? Senza dubbio, i motivi sono tanti. Alcuni legati a ragioni di critica militante; altri di natura storiografica. Distante dal centro, vittima di circostanze sfavorevoli – a partire dalla imposizione di scelte illogiche, dettate da un aberrante conservatorismo di maniera o da una utenza poco incline al contem- poraneo – e da ingiustificabili ritardi vincolati alle ipoteche ideologiche di una ristretta cerchia di “studiosi” locali che incessantemente e senza valide motivazioni ricercano il primato dell’architettura antica e moderna, l’architettura contemporanea è qui di norma trascurata. A testimonianza della sua esistenza – per inciso, le architetture realizzate, senza contare quelle solamente progettate, sono in numero superiore rispetto a quanto ci si possa immaginare – passeremo in rassegna alcune opere di quelle ritenute più significative, a partire dalla seconda metà del secolo scorso fino ad analizzare quelle del tempo presente, all’interno di un quadro anche diacronico. Senza dimenticare, ovviamente, che se nelle regioni meridionali, quali per esempio la Sicilia, come ha evidenziato in più di una occasione Luigi Prestinenza Puglisi, si trovano ottimi progettisti, le loro opere rappresentano una sparuta eccezione rispetto a tutto ciò che viene costruito. Una precisazione. Come avviene di norma in queste occasioni, è inevitabile che una nuova selezione di argomenti e di opere di architettura – nel mare magnum disponibile, generato dal sistema mediatico dell’architettura, delle riviste patinate e alla moda – provochi incertezze e avventate perplessità, soprattutto tra i lettori più avveduti. È per questo che, in questo numero zero, avverto la necessità di indicare le linee portanti che caratterizzano alcune scelte di fondo e le prese di campo che saranno mantenute, numero dopo numero, nonostante la diversità dei lavori presi in esame, scelti anche per evidenziare in che modo essi siano in grado di generare differenze e specificità. Quest’ultima, soprattutto quando è riferita al luogo, costituisce uno dei perni critici attorno ai quali è organizzata la rubrica, rivolta a cogliere i caratteri essenziali di una identità locale piuttosto che ricercare quelli di una corrispondenza astrattamente globale. Ritornando ai criteri di scelta usati per la selezione, nonostante alcune sostanziali discrepanze di natura generazionale e di indirizzo culturale, motivo cardine è mostrare una prima ricognizione di opere che, non ponendosi l’imperativo della completezza, attestino lo stato di salute dell’architettura contemporanea costruita, progettata o semplicemente “ricercata” all’interno degli atenei, presenti su questa ampia porzione di territorio italiano. Compito della rubrica è quello di riportare tali opere all’interno di un reale interesse, cercando di non cadere nel provincialismo bieco, lontano dal centro – quale centro? Anche se la cultura architettonica siciliana, come il resto del Paese, è spesso indirizzata a ricercare linguaggi elaborati altrove piuttosto che a interrogarsi sulla propria identità, lasciando a critici superficiali ed esterofili la facoltà di esprimersi – o nella routine catastrofica cui certa critica cerca continuamente di incasellare tali opere. Insomma, un repertorio ampio composto non soltanto dai soliti progettisti noti o appartenenti a una determinata scuola. Parimenti, non si tratterà di tessere elogi inconsulti ma di recuperare un ricco patrimonio che corre il rischio di disperdersi, se non criticamente confrontato all’attualità delle ricerche dell’architettura. Analizzando i progetti, alcuni dei quali si muovono nella dialettica tra continuità e discontinuità, nell’orizzonte framptoniano del regionalismo critico, la rubrica si occuperà anche delle conseguenze prodotte dalle influenze straniere – come la scuola portoghese – e dei Maestri del Contemporaneo – da Alvaro Siza a Franco Purini e a Francesco Venezia – che hanno prodotto opere nel Sud, mettendo in luce esperienze ed episodi brillanti, sottolineando temi legati al landscape e al paesaggio urbano. Come già anticipato, contro l’interesse dilagante per l’internazionalismo e nella convinzione che l’architettura non può che essere specifica e locale, la rubrica concentra l’attenzione sulle particolarità e sulle circostanze imposte dalle realtà meridionali in grado, però, di mostrare, legandoli a una tradizione millenaria, evidenti principi architettonici di valenza generale. COLLANA MISCELLANEA: F. COLOMBO, La città è altrove F.L. WRIGHT, Architettura e democrazia A. WOGENSCKY, Le Mani di Le Corbusier M. PAZZAGLINI, Architetture e paesaggi della città telematica F. RANOCCHI, Los Angeles. L’architettura della società dello spettacolo U. BOCCIONI, Taccuini futuristi D. MARTELLOTTI, L’architettura dei sensi M. COSTANZO, Adalberto Libera e il Gruppo 7 A. MUNTONI, Architettura nell’era elettronica F. BUCCI, Magic city. Percorsi nell’architettura americana S. GABRIELLI, Genova. Architettura città paesaggio B. DOLCETTA e D. MITTNER, Venezia. Architettura città paesaggio M. DEZZI BARDESCHI, Firenze. Architettura città paesaggio A.L. ROSSI, Napoli. Architettura città paesaggio M. DEZZI BARDESCHI, F. BUCCI, R. DULIO, Milano. Architettura città paesaggio P. GIORDANI, G. GRESLERI, N. MARZOT, Bologna. Architettura città paesaggio M. COSTANZO, M. DE PROPIS, Sant’Elia e Boccioni. Le origini dell’architettura futurista F. COLOMBO, Architettura come difesa E. DE LEO, Paesaggi cimiteriali europei. Lastscape realtà e tendenze M. PAZZAGLINI, Architettura italiana negli anni ’60 e seconda avanguardia F. ZAGARI, Questo è paesaggio. 48 definizioni G. LAGANÀ, Asfalto: materia paesaggio M. COSTANZO (a cura di), Architetture di pace, ospedali di guerra. Le strutture sanitarie di Emergency L. ALTARELLI e R. OTTAVIANI, Il sublime urbano. Architettura e new media COLLANA ARCHITETTI: MARCELLO GUIDO DANTE O. BENINI GIOVANNI D’AMBROSIO STUDIO SCHIATTARELLA ta riscuotendo un notevole successo di mercato la collana “Grandi Tascabili di Architettura”, edita dalla nostra casa editrice e diretta da Carlo Mancosu. L’ambizione della casa editrice è quella di colmare una grossa lacuna nell’informazione e nella formazione degli studenti di architettura, vessati (spesso) da un’editoria specializzata troppo costosa. Al prezzo di € 9,00 per ciascun volume, si potrà godere della lettura di Wright, anziché Le Corbusier, oppure un classico di Leonardo ancorché una riproposta dei Taccuini Futuristi di Boccioni o meglio un saggio di Furio Colombo sull’architettura contemporanea, o infine trattati sull’architettura contemporanea americana. Reperibili facilmente in tutte le migliori librerie italiane; stampati interamente a colori, su carta patinata, risultano essere i tascabili economici di miglior qualità al più basso prezzo. È data la possibilità di sottoscrivere l’abbonamento annuo a 24 numeri a un prezzo ancora più vantaggioso. S informazioni: 06.35192251 • fax 06.35192264 e-mail: [email protected] Maurizio Oddo La posta elettronica certificata a professionisti e imprese informatica a cura di Luigi Mauro Catenacci Il n.33-34 2009 30 primo dei decreti legge “anticrisi”, quello del 2008 convertito con la legge n. 2 del 28 gennaio 2009, prevede che entro il 28 novembre 2009 i professionisti iscritti in un albo e le imprese si dotino obbligatoriamente di una casella di posta elettronica certificata (PEC), uno strumento che permette l’invio di messaggi e-mail che hanno lo stesso valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno. Speriamo quindi che la PEC contribuisca a semplificare le comunicazioni fra professionisti, imprese e pubbliche amministrazioni, e a ridurne tempi e costi. Dovrebbe sostituire gran parte delle comunicazioni cartacee inviate per raccomandata, invio di documentazione, richieste, concorsi, gare, notifiche di atti giudiziari ecc. Cosa dice il decreto Dovrebbero. Nel nostro Paese il condizionale è sempre dovuto, anche quando è legge. Questo strumento, in circolazione già da qualche anno, non è molto comune, anzi. La causa è dovuta all’inerzia delle pubbliche amministrazioni e forse anche a una scarsa propensione di noi italiani verso le nuove tecnologie,quando non servono a telefonare o a guardare la TV. Questo obbligo è tale per la pubbliche amministrazioni già dal novembre 2007 (Codice dell’Amministrazione Digitale, marzo 2005). Nel 2008 il Governo ribadisce il concetto per quelle amministrazioni ancora indietro nell’attuazione della riforma. Sempre all’art. 16: «Le amministrazioni pubbliche […], qualora non abbiano provveduto ai sensi dell’articolo 47, comma 3, lettera a), del Codice dell’Amministrazione Digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, istituiscono una casella di posta certificata per ciascun registro di protocollo e ne danno comunicazione al Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA), che provvede alla pubblicazione di tali caselle in un elenco consultabile per via telematica». Il famigerato elenco delle pubbliche amministrazioni che si sono dotate di un indirizzo di posta elettronica certificata (www.indicepa.gov.it) è piuttosto scarso in quanto a indirizzi PEC. Un altro tentativo: la legge 69/2009 che all’art. 34 recita: «Entro il 30 giugno 2009, le amministrazioni pubbliche che già dispongono di propri siti sono tenute a pubblicare nella La norma che interessa noi professionisti è contenuta nell’art. 16, che parla di «riduzione dei costi amministrativi a carico delle imprese. […] I professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge». Quindi entro il 28 novembre 2009. Si stabilisce inoltre l’obbligo, per le imprese di nuova costituzione, di dotarsi di una PEC. Le altre hanno tre anni per mettersi in regola (28 novembre 2011). Ma i Comuni lo sanno? R IFERIMENTI • Posta Elettronica Certificata: www.cnipa.gov.it/site/it-IT/Attività/Posta_Elettronica_Cer tificata__(PEC)/ • Legge n. 2 del 28 gennaio 2009: www.parlamento.it/parlam/leggi/09002l.htm • DPCM 6 maggio 2009, “Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini”: www.cnipa.gov.it/html/docs/21-gu n.119-dpcm-rilascio casella pec ai cittadini.pdf • Elenco caselle di posta della PA: www.indicepa.gov.it Cos’è la PEC Una casella di posta elettronica certificata, alias PEC, è una normale casella di posta elettronica, con un paio di optional che la rendono uno strumento legale: 1. per ogni e-mail inviata si ricevono due ricevute, una di invio avvenuto e una di consegna al server di posta del destinatario; 2. il fornitore della nostra casella PEC conserva traccia di queste operazioni nel caso un magistrato ne faccia richiesta. Queste due semplici aggiunte fanno sì che una e-mail inviata da una casella PEC a un’altra casella PEC sia equivalente a una raccomandata A/R, ma rendono la PEC uno strumento piuttosto scomodo da usare come casella di posta tradizionale. Conviene usarla solo per quelle comunicazioni che prevedono o consigliano l’uso della raccomandata. Vanno sottolineate alcune differenze sostanziali rispetto a una raccomandata tradizionale. Una molto importante è la certezza del mittente. A ogni PEC corrisponde un titolare, certificato presso il Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA) con nome, cognome e fotocopia di un documento di riconoscimento. Fine dell’anonimato sul Web: attenzione a quello che viene inviato. Un altro aspetto importante. Nella “ricevuta di consegna” viene conservato anche il messaggio inviato. Quindi si certifica mittente, destinatario, data e ora dell’invio, ma viene certificato anche il contenuto. Nessuno potrà più raccontarvi che gli era arrivata una “busta” vuota. Infine, se tutto funziona correttamente, la consegna al destinatario è praticamente immediata.Come per una raccomandata normale, non si tiene conto del fatto che venga letta o meno, ma nel caso della PEC la reperibilità è garantita all’istante. Non c’è la possibilità di ritardare il ritiro di una notifica all’ufficio postale. Pertanto eventuali termini che dovessero decadere dal momento della consegna vanno calcolati, di fatto, qualche secondo dopo dall’invio. Per questi motivi la PEC va controllata spesso, o vanno adottate tecniche per poter essere costantemente avvisati in caso di ricezione di un messaggio. pagina iniziale del loro sito un indirizzo di posta elettronica certificata a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta ai sensi del presente codice». Niente da fare: ad oggi (novembre 2009), neanche il sito web del Ministero della Pubblica Amministrazione e Innovazione riporta un indirizzo PEC. C’è una scritta “Posta Elettronica Certificata”, ma rimanda a un convegno di presentazione della PEC presieduto dall’on. Brunetta. Quando si dice che “governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Ma si tratta di un obbligo di legge, possiamo e dobbiamo far valere i nostri diritti. Gli albi degli indirizzi PEC Come già detto, la comunicazione ha il valore di una raccomandata A/R solo se sia il mittente che il destinatario hanno una casella PEC. Se anche una delle due caselle non è una PEC, non ha valore legale. Per questo diventa importante la costituzione degli elenchi degli indirizzi. Per le PA abbiamo già visto. Per le imprese ci vorranno altri due anni («Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata»). Per le nuove imprese, invece, l’obbligo è già scattato. Ai professionisti dovranno pensare gli ordini professionali. Dice l’art. 16: «Gli ordini e i collegi pubblicano in un elenco consultabile in via telematica i dati identificativi degli iscritti con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata». È una piccola grande rivoluzione. Non solo gli albi dovranno pubblicare in via telematica (= Internet) i nostri indirizzi di casa o di studio, ma anche i nostri indirizzi di posta elettronica certificata. E che nessuno cominci a lamentarsi di violazioni della privacy. Gli albi esistono perché il professionista deve essere rintracciato. Un indirizzo PEC non è la nostra e-mail personale. Il legislatore si è anche preoccupato di specificare che l’accesso a questi elenchi non debba costare nulla. Comma 10: «La consultazione per via telematica dei singoli indirizzi di posta elettronica certificata nel registro delle imprese o negli albi o elenchi costituiti ai sensi del presente articolo avviene liberamente e senza oneri». L.M.C. n.33-34 2009 31 architettureidee Gilles Cusy e Michel Maraval Liceo Professionale “Pierre Mendès-France”, Montpellier, Francia Cronologia: 2006 (progetto di concorso) Progettista associato: Agence ARTS (Jacques Ferrier) Paesaggista: Agence TER DI MAURIZIO PETRANGELI Il progetto di concorso per il nuovo Liceo Professionale “Pierre Mendès-France” si inserisce in un contesto scarsamente costruito, caratterizzato da numerose masserie e da estesi fondi agricoli punteggiati da gruppi di alberi. In particolare il lotto di intervento è situato in una zona che sarà presto interessata dalla futura espansione urbana di Montpellier, di forma simile a una “L” per la presenza, all’interno dell’isolato urbano, della “Mas des Brousses”, un complesso di edifici rurali circondati da un’ampia area verde. Sui rimanenti lati del perimetro corrono invece l’autostrada A9 e alcune strade di nuova costruzione. Queste differenti condizioni a margine determinano alcune precise scelte planimetriche. Un’area verde e una zona di parcheggio riservata ai professori vengono infatti interposte tra il complesso scolastico e l’autostrada, in maniera da creare una barriera all’inquinamento acustico indotto idee Un “recinto” abitato Dall’alto: Lo spazio filtro tra l’autostrada e la scuola con il “muro” perimetrale sullo sfondo Planimetria generale dell’intervento architetture 35 idee dalla presenza dell’infrastruttura viaria, mentre sui rimanenti lati il liceo si confronta con le strade circostanti in maniera sempre diversa; infatti se su di un fronte l’intervento arretra per configurare uno spazio libero di ingresso, dalla parte opposta l’edificio si attesta quasi a ridosso del filo stradale a costituire il punto di inizio della futura quinta edilizia. In assenza di tracciati storici e di riferimenti urbani, il progetto si confronta con l’impianto della masseria suddividendosi in due episodi spaziali. Il primo, un edificio a forma di forcina, è costituito da un basamento quadrangolare che ospita alcuni ambienti polivalenti su cui impostano tre livelli, in forte aggetto, destinati a convitto e alloggi di servizio. Per collocazione e dimensione questo volume si relaziona con uno dei manufatti agricoli esistenti e, in virtù dell’articolazione planimetrica, determina un doppio portico d’ingresso che cinge una corte aperta passante: prende così forma un luogo dove incontrarsi e sostare, che costituisce un ampio pronao di ingresso alla scuola. Il secondo episodio, molto più grande e complesso, recupera la tipologia degli insediamenti rurali e si struttura in maniera da determinare un’ampia area architetture 36 Dall’alto: Pianta del piano primo Prospetto esterno e prospetto-sezione verso lo spazio centrale Pianta del piano terra L’area centrale definita dal “recinto” perimetrale idee insegnamenti generali, scientifici e artistici insegnamenti tecnologici e professionali attività sportive spazi per docenti, attività parascolastiche e di orientamento accoglienza, amministrazione, servizi medico-sociali mensa formazione continua alloggi studenti e di servizio spazi di distribuzione, depositi e servizi igienici ambienti di manutenzione spazi verdi 37 architetture Legenda: centrale libera da costruzioni, da destinare alle attività sportive e di relazione. Questa condizione di spiccata introversione costituisce l’idea portante del progetto: un lungo nastro perimetrale, una sorta di recinto o di “muro abitato” chiuso sul lato prospiciente la strada, si srotola liberamente all’interno dell’area di intervento e contiene gli ambienti di servizio e di distribuzione, chiusi verso l’esterno e rivolti verso lo spazio centrale. La soluzione distributiva viene enfatizzata dall’andamento della copertura che si alza e si abbassa liberamente seguendo geometrie inclinate, cui si contrappongono i prospetti coperti da pannelli di cemento tinteggiati color terra disposti con passo regolare. Da questo elemento si distaccano a pettine alcuni blocchi destinati ad accogliere gli spazi per l’insegnamento generale, scientifico e artistico, oltre agli ambienti più specificamente dedicati alla formazione professionale. In antitesi con la “pelle esterna” questi corpi, in parte in aggetto sul basamento, sono rivestiti da pannelli vivacemente colorati che presentano finestre dalle strombature fortemente accentuate. All’interno di ciascun volume si trovano patii, vuoti e affacci che, oltre ad articolare la pianta fornendo aria e luce agli ambienti, costituiscono un importante sistema di relazioni spaziali. Le aree all’aperto sono trattate in maniera da riproporre i caratteri del paesaggio circostante. Gli spazi tra i volumi a pettine risultano fittamente alberati e garantiscono importanti zone d’ombra che influiscono sul comportamento bioclimatico dell’edificio, mentre il “campo” centrale è piantato con essenze d’alto fusto isolate. Il progetto, che contiene numerosi spunti di interesse, non ha convinto la commissione giudicatrice che ha preferito premiare la proposta di Nicolas Crégut e Laurent Duport organizzata su un impianto a maglia regolare. architettureopere Una scuola a corte aperta opere DI architetture 38 MAURIZIO PETRANGELI Il complesso scolastico di Freising, a una trentina di chilometri a nord di Monaco di Baviera, si inserisce in un tessuto residenziale a bassa densità edilizia. L’area, pianeggiante, è delimitata da due strade – una più grande che serve il quartiere, l’altra più piccola e tranquilla che conduce ad alcune residenze – mentre un percorso pedonale e una pista ciclabile corrono sul terzo lato. A nord si trova invece una fattoria a cui era originariamente annesso il terreno sul quale è sorta la scuola. L’intervento è scomponibile in tre elementi. Un lungo corpo di fabbrica a prevalente sviluppo longitudinale, composto di tre piani fuori terra che accolgono le funzioni didattiche, si colloca sul limite nord del lotto in posizione ortogonale alla strada, mentre la palestra – parzialmente interrata – si attesta di fronte all’edificio principale. Questi volumi, diversi per forma e dimensioni, sono connessi da due pensiline che definiscono una corte passante, aperta sulla via e sul terreno circostante la scuola. Infine, più distaccata, si trova l’abitazione del custode che si sviluppa su due livelli. Sull’area insistono alcuni campi da gioco (pista da atletica, corsia per il salto in lungo, campo polivalente), che costituiscono una dotazione di attrezzature sportive all’aperto utilizzabili anche dalla piccola comunità di Freising. Questo semplice impianto planimetrico costituito da pochi elementi primari, chiaramente definiti e immediatamente leggibili, presenta tuttavia due aspetti di interesse. In primo luogo la soluzione propone un dialogo serrato tra i volumi della composizione, che si offrono a un linguaggio Dall’alto: Veduta generale del complesso La corte dal portico d’ingresso Il cortile centrale definito dal corpo delle aule e dalla palestra Schulz & Schulz Architekten GmbH (Ansgar Schulz, Benedikt Schulz) didattica in posizione ortogonale alla strada, consente di percepire di scorcio l’uniforme scansione degli infissi del prospetto e di stemperare la ripetitività del modulo aula, mentre il grande volume della sala per le attività sportive, parzialmente interrato, risolve in maniera equilibrata i rapporti di volume e di gerarchia tra le parti. Si evita in tal modo «l’incombenza sproporzionata della palestra in rapporto all’edificio lineare e si permette all’intero complesso di attestarsi sulla strada principale con un profilo a basso impatto architettonico»,1 dove la pensilina di copertura del parcheggio La lama delle aule soprastante il nucleo dei laboratori Il volume delle aule dai campi sportivi 39 architetture austero e pacato privo delle tensioni e delle contraddizioni che, a volte, connotano gli edifici per l’istruzione. La lunga stecca di oltre 100 m, costituita da un solido di due piani tinteggiato di bianco con testate cieche e pareti longitudinali chiuse da vetrate arretrate rispetto al sottile bordo che le cinge, è scandita dalla uniforme sequenza degli infissi in metallo. Questo corpo, che contiene le aule, poggia su un piano pilotis articolato in due elementi diversi – l’uno trasparente, l’altro opaco – tra loro connessi da un breve passaggio. Verso la corte, l’ingresso ingloba i pilastri e propone una facciata vetrata che riprende il ritmo dei serramenti dell’antistante palestra, laddove il volume dei laboratori presenta invece una superficie opaca arretrata rispetto alla struttura resistente. Sul retro, viceversa, entrambi gli elementi sporgono rispetto al blocco superiore delle aule: il punto di attacco tra la parete della lama e la copertura dei due corpi estrusi è risolto con un lucernario vetrato che corre lungo tutta la dimensione longitudinale e segna lo scarto tra le differenti giaciture, determinando sottili asole di luce che rendono percepibile lo slittamento volumetrico anche dall’interno. Le coperture dei due elementi del piano terra, come pure di quello della palestra, propongono un tetto verde visibile dalle aule e dai corridoi di distribuzione. In secondo luogo l’impianto complessivo, pur nella sobrietà della soluzione proposta, costruisce un’immagine urbana calibrata e convincente. La scelta di disporre il blocco della opere Scuola secondaria a Freising, Germania Committente: Municipalità di Freising Cronologia: 2000 (progetto) – 2003 (realizzazione) Strutture: Engineering Office Schönbeck Superficie: 8.197 mq Costo: 14,93 milioni di euro Foto: Stefan Müller-Naumann; Jörg Hempel 41 Il corridoio di distribuzione alle aule Due aule per la didattica architetture Nota 1 Laura Iermano, Scuola secondaria a Freising, Germania in «L’Industria delle Costruzioni», n. 280, 2004, p. 40 opere per le biciclette garantisce una migliore connessione urbana e introduce un elemento di forte orizzontalità sull’asse di Moosstrasse. In questo calibrato gioco di rimandi si inserisce la corte aperta che connette i due corpi di fabbrica – della scuola e della palestra – e funge da spazio di ricreazione, luogo di relazione ed elemento di identità per gli studenti: inteso come un atrio a cielo aperto che precede quello posto all’interno dell’edificio, favorisce la permeabilità e l’integrazione tra la strada e l’istituto scolastico. Il corpo lineare si compone di quattro livelli, tre fuori terra e uno interrato. Al piano di ingresso si trova la hall, un grande forum da utilizzare per gli eventi scolastici. Su di esso aprono infatti lo spazio polivalente, la sala per l’educazione musicale e alcune gradinate che possono essere usate come sedute durante gli spettacoli e le rappresentazioni. Dall’atrio si accede agli uffici amministrativi e alle sale dei professori e, in posizione enucleata ma connessa da un passaggio vetrato, al nucleo dei laboratori. Un’unica scala conduce sia al livello interrato, dove si trovano i locali tecnici e di deposito, sia ai piani superiori dimensionati per accogliere 14 aule normali e 6 speciali. Qui il nucleo della distribuzione verticale e dei servizi igienici divide la lunga stecca in due parti. Da un lato vi sono gli ambienti tematici destinati alle scienze naturali e all’educazione artistica mentre, sull’opposto lato, si trovano gli spazi per le classi. Tutti gli ambienti per la didattica guardano a nord, mentre un corridoio dell’ampiezza di 3 m è rivolto a sud e si relaziona con la corte e con le aree esterne alla scuola. Alle opposte testate sono collocate le scale di sicurezza che consentono di sbarcare direttamente all’aperto. A differenza del carattere sobrio ed elegante dei prospetti, per gli interni vengono utilizzati materiali e colori caldi. Per rompere l’uniforme serialità della facciata, alcuni infissi delle aule sono in legno, mentre il lungo corridoio di distribuzione è reso più accogliente dalla parete colorata a tinte vivaci e trattata come un volume a lama da articolare in pieni e vuoti. Nelle nicchie, alternativamente rivolte verso la distribuzione o verso le aule, sono così ottenuti spazi di diversa misura dove riporre le giacche e i cappotti, inserire le bacheche informative, alloggiare i lavandini, ricavare gli armadietti per i materiali didattici. Il corpo della palestra, enucleato e accessibile dalla grande corte aperta, costituisce il secondo edificio in cui si articola il complesso scolastico. Attraverso uno spazio di distribuzione vetrato anche a soffitto, che rimanda nella forma e nella scansione degli infissi all’antistante atrio di ingresso della scuola, gli studenti accedono direttamente agli spogliatoi e ai servizi igienici. Di qui, utilizzando un ballatoio che affaccia sui tre campi da gioco, raggiungono le scale che conducono alle attrezzature sportive sottostanti. Gli spettatori possono usufruire di un ingresso indipendente che consente di assistere agli allenamenti e alle competizioni semplicemente affacciandosi dalla balconata, mentre chi si trovasse a passare dalla strada può osservare l’interno attraverso le ampie vetrate che circondano per tre lati il volume della palestra. opere La quadratura del cerchio architetture 42 DI LAURA GUGLIELMI 3XN Ørestad Ginnasio, Copenaghen, Danimarca Committente: Municipalità di Copenaghen Cronologia: 2003 (progetto) – 2007 (realizzazione) Strutture: Søren Jensen A/S Superficie: 12.000 mq Costo: 27 milioni di euro Foto: Adam Mørk Pagina a fianco: In questa pagina: Scorcio del liceo dal canale artificiale che scorre sotto il tracciato della metropolitana sopraelevata e vista notturna Planimetria di progetto e vista panoramica 43 architetture formare gli allievi rispetto alle opportunità realmente offerte dal mondo del lavoro, la scuola promuove forme di cooperazione con le istituzioni locali e con le imprese che operano nel campo della comunicazione. Profondamente innovativa è anche la concezione architettonica dell’edificio, pensato per una didattica alternativa, che riflette appieno il carattere “sperimentale” di Ørestad City. La scuola si situa all’angolo tra l’Ørestad Boulevard – la spina dorsale della nuova espansione urbana che corre da nord a sud a fianco della metropolitana sopraelevata – e la Arne Jacobsen Allé, la strada che conduce al centro commerciale Field’s, il più grande della Scandinavia, situato a poche centinaia di metri dall’intervento. Esternamente l’edificio si presenta come un volume compatto, un grande contenitore con i prospetti disegnati dall’alternanza delle fasce orizzontali dei solai e delle superfici vetrate che, anticipando la complessa articolazione interna, si interrompono in corrispondenza degli spazi interni a doppia e tripla altezza per lasciare il posto a vetrate continue. opere Ørestad è un nuovo agglomerato urbano situato pochi chilometri a sud di Copenaghen, sull’isola di Amager. Pianificato fin dai primi anni Novanta, il quartiere si è sviluppato soprattutto dopo la costruzione dell’Øresundsbroen, il tunnel-ponte lungo 16 km che dal 2000 collega la Danimarca con la Svezia. L’area – suddivisa nei quattro distretti di Ørestad Nord, Amager Fælled, Ørestad City e Ørestad Sud – è servita da una metropolitana senza conducente che viaggia su viadotto senza interferire con il tracciato delle strade e dei percorsi ciclabili, e presenta un mix funzionale costituito dalle consuete destinazioni residenziali e commerciali cui si affiancano ampi spazi destinati alla ricerca, alla didattica e alla cultura. Man mano che si procede con le realizzazioni, l’area sta assumendo sempre più le caratteristiche di un vero e proprio “laboratorio” di sperimentazione architettonica, dove vengono testate soluzioni innovative e tecniche costruttive all’avanguardia nel tentativo di costruire una nuova centralità urbana che possa rappresentare un’alternativa al nucleo storico di Copenaghen. L’Ørestad College, progettato dagli architetti 3XN vincitori di un concorso internazionale di idee bandito nel 2003, riflette le ambizioni del contesto in cui si colloca. La scuola, che per prima ha recepito le riforme introdotte nel 2005 nel sistema educativo danese riguardo l’importanza degli scambi e delle sinergie interdisciplinari, fornisce una preparazione specifica nel campo delle scienze naturali, sociali e umanistiche, attraverso percorsi formativi che danno grande rilevanza all’uso dei sistemi multimediali e delle tecnologie informatiche. La Rete è il principale strumento di lavoro degli studenti che dispongono di postazioni computer, stampanti, scanner, videoproiettori, pannelli LCD e sistemi digitali per l’elaborazioni delle immagini e dei video. Inoltre, al fine di 9 4 3 7 3 3 9 1 2 7 6 8 7 5 9 Pianta piano interrato Pianta piano terra 10 11 11 7 11 11 11 13 10 10 13 11 10 14 11 10 13 11 7 12 7 10 10 12 Pianta piano secondo Pianta piano primo 12 10 14 11 10 13 10 11 11 10 13 11 11 opere 10 architetture 44 7 11 11 11 Pianta piano terzo 10 Pianta piano quarto Legenda: 1. atrio 2. spazio mensa/teatro 3. palestra 4. amministrazione 5. biblioteca 6. sale musica 7. servizi 18. spogliatoi 19. magazzini 10. spazi ricreativi e di studio 11. aule 12. sale polifunzionali 13. sale studio 14. sale professori opere Quello che all’esterno appare come un edificio squadrato, all’interno rivela invece uno spazio fluido e continuo, costituito da un intreccio di linee curve e ambienti aperti che comunicano tra loro. La scuola si compone infatti di cinque piani fuori terra e di uno interrato, configurati a forma di boomerang e ruotati l’uno rispetto all’altro a riprodurre il movimento dell’otturatore di una macchina fotografica. L’asse di rotazione è rappresentato dal nucleo centrale della scala che, con andamento a spirale, si snoda verso l’alto fino a raggiungere la Sezione trasversale Vista interna con in primo piano la scala che si avvolge su se stessa architetture 45 opere architetture 46 copertura. La disposizione dei piani determina un grande vuoto animato da ambienti che aggettano gli uni sugli altri, secondo un dispositivo architettonico molto lontano dai modelli scolastici “a blocco” che rimanda, invece, alla tipologia dei grandi centri commerciali. L’ingresso principale alla scuola è situato lungo l’Ørestad Boulevard, in questo tratto fiancheggiato da un canale artificiale; un secondo ingresso è posto al primo piano e si apre su una piazza ricavata sulla copertura di un parcheggio pubblico che, come la maggior parte delle autorimesse del quartiere, è contenuto all’interno di un volume costruito anziché essere interrato o a raso. Il piano terra dell’edificio ospita l’amministrazione, la biblioteca, le sale per la musica e la cucina, con la mensa allestita al centro dell’ambiente, lungo la gradonata che scende al piano seminterrato: l’organizzazione dello spazio fa sì che studenti e insegnanti, pranzando insieme, contribuiscano ad aumentare quel processo di interazione tra saperi, attitudini e personalità auspicato dal programma didattico. Quando non è utilizzata per la refezione, la struttura a gradoni diventa un punto di ritrovo e il luogo da cui assistere allo svolgimento di conferenze, spettacoli teatrali o concerti allestiti dalla scuola. In modo analogo anche la scala non viene intesa solo come semplice elemento di collegamento tra i vari piani ma diviene uno spazio di relazione dove stare seduti, osservare ed essere visti. Scorci interni opere Il volume a doppia altezza della palestra è incastrato tra il piano terra e il livello interrato, dove una sala fitness, alcuni spogliatoi e i servizi igienici completano la dotazione di attrezzature sportive; sotto le gradinate dell’anfiteatro-mensa sono invece collocati i locali di deposito e di conservazione dei libri. Tre cilindri cavi, due grandi e uno di dimensioni minori, costituiscono la struttura primaria dell’edificio, cui si affiancano una serie di pilastri che non seguono una griglia regolare ma si dispongono liberamente in base alle esigenze strutturali. All’interno delle strutture cilindriche si trovano i servizi igienici, le scale accessorie e due ascensori che conducono fino al terrazzo di copertura, pavimentato con doghe di legno e attrezzato per la ricreazione. I quattro livelli superiori, destinati alla didattica, sono progettati in modo da avere pochi elementi fissi e consentire, di contro, un’ampia flessibilità organizzativa e d’uso. Lungo le pareti perimetrali sono infatti collocate alcune aule di forma tradizionale definite da pareti attrezzate e pannelli vetrati mentre, verso il centro dell’edificio, all’interno di uno spazio liberamente attrezzato per consentire lo studio individuale e per piccoli gruppi, si incontrano ambienti circolari a “isola” utilizzati per proiezioni e riunioni. Questi differenti ambiti funzionali fluiscono gli uni negli altri senza separazioni né barriere e hanno l’obiettivo di educare gli studenti a lavorare singolarmente e in team, secondo modalità di apprendimento che ritroveranno nell’università e, soprattutto, nella futura attività professionale. La libertà espressiva che informa la concezione architettonica, la soluzione spaziale e le scelte distributive e funzionali si riflette nella disposizione degli arredi e delle attrezzature: gli armadietti disegnano piccoli recinti accessibili su entrambi i fronti, mentre gli spazi per il relax, raggiungibili con scale che si avvolgono attorno ai volumi cilindrici, sono collocati sulla copertura dei sottostanti meeting space, Queste vasche piene di cuscini colorati strizzano l’occhio agli arredi dei lounge-bar e rappresentano il luogo preferito dagli studenti, “isole” felici in cui ci si può abbandonare ad atteggiamenti anche informali. L’illuminazione interna è sapientemente calibrata: la luce proveniente dalle vetrate perimetrali è filtrata da brise-soleil a movimentazione meccanica, costituiti da lamelle verticali in vetro colorato serigrafato con ideogrammi che producono, nei diversi ambienti, gradevoli effetti cromatici. La luce naturale piove anche dall’alto, attraverso un lucernario che ricalca lo sviluppo della scala e da altri tre elementi di forma cilindrica che si mimetizzano tra i corpi illuminanti circolari. La tradizione scandinava affiora nella scelta dei materiali: intonaco bianco per le pareti, magnesite grigio-scura per i pavimenti, legno di frassino per il rivestimento della scala e delle attrezzature: a questo raffinato accostamento fanno da contrappunto le note colorate delle sedute e i riflessi prodotti dalle lamelle esterne. Le sedute informali ricavate sopra i volumi circolari dei meeting space La spirale della scala vista dal basso e lo scorcio interno: il gioco di luci e colori determinato dalle lamelle in vetro serigrafato che ritmano la facciata architetture 47 Olli Pekka Jokela Scuola secondaria superiore “Sampo” a Uimalankatu, Tampere, Finlandia Committente: Municipalità di Tampere Cronologia: 2002 (progetto) – 2005 (realizzazione) Strutture: Insinööritoimisto Ainsinöörit Oy Superficie: 11.420 mq Costo: 14,7 milioni di euro Foto: Jussi Tiainen DI MAURIZIO PETRANGELI opere Una galleria urbana architetture 48 L’Istituto Scolastico “Sampo”, inaugurato a Tampere in Finlandia nell’autunno del 2005, presenta un’organizzazione funzionale e un impianto distributivo che discendono da un programma articolato, che prevede l’utilizzazione dell’edificio per l’intero arco della giornata. La scuola funziona infatti su un doppio turno di frequenza: la mattina accoglie gli studenti della secondaria superiore, mentre il pomeriggio è aperta a chi già lavora ma intende comunque conseguire un diploma di maturità, offrendo la possibilità di strutturare il piano di studi in relazione ai reali interessi e alla professione svolta. La scuola assicura un’istruzione che completa e approfondisce quella di base, integrata da discipline complementari che negli istituti finlandesi variano a seconda delle sedi e che, nel caso specifico, sono rappresentate dalle attività fisiche. L’edificio ospita inoltre la biblioteca civica Pellervo che, insieme agli spazi destinati all’apprendimento on-line e alle attività integrative, costituisce un polo culturale di particolare importanza nel panorama della piccola Tampere. Il complesso è situato a est del centro cittadino, in un’area caratterizzata da una bassa densità edilizia: circondata su tre lati da ampi spazi verdi in cui si trovano una piscina e un complesso per uffici pubblici, è delimitata sul quarto da una strada extraurbana scarsamente trafficata. Una grande hall centrale a tutta altezza prolunga all’interno della scuola lo spazio pubblico posto di fronte all’ingresso e divide l’edificio in due parti, ciascuna costituita da blocchi alti tre piani. Traslazioni, rotazioni e slittamenti danno forma a un impianto planimetrico articolato che non deriva dalla lettura dei tracciati a margine o dalla riproposizione delle giaciture del contesto, ma discende dalla volontà di dar forma a uno spazio dinamico che possa costituire una nuova centralità urbana. Per questa ragione sulla grande piazza coperta affacciano e si espandono numerosi ambienti aperti all’uso dei cittadini, che presentano proposizioni spaziali, soluzioni distributive ed elementi di arredo che ne rimarcano la valenza collettiva. Il fronte d’ingresso opere architetture 52 In senso orario: La galleria urbana a tutta altezza Lo spazio centrale attrezzato verso l’ingresso La hall dalla passerella soprastante l’ingresso In alto: Il blocco della biblioteca pubblica Il percorso al piano primo aperto sulla galleria In basso: Il corridoio di distribuzione alle aule opere 53 architetture uffici amministrativi e dal grande vuoto della sala per le attività sportive. Il rivestimento in pannelli di legno trattati a mordente conferisce a ciascun blocco una differente tonalità e apporta sottili sfumature a uno spazio altrimenti uniforme. Il piano secondo, simile nell’organizzazione spaziale e distributiva al livello più basso, ospita le aule destinate alla normale attività didattica. Mentre dai percorsi si colgono spettacolari viste sul parco circostante, gli ambienti destinati all’insegnamento affacciano volutamente sui distacchi tra gli elementi a pettine, in modo da favorire la concentrazione e lo studio degli alunni. La chiarezza dell’impostazione planimetrica e la gerarchia tra le parti costituiscono il leitmotiv del progetto, che si riflette sia nelle relazioni tra i volumi che nel disegno dei prospetti dove la destinazione funzionale è sempre chiaramente espressa. Il corpo centrale, caratterizzato da una grande vetrata a tutta altezza, risulta serrato tra i volumi della biblioteca civica e delle aule a destinazione speciale, trattati in maniera diversa e connotati da una griglia metallica frangisole che determina effetti chiaroscurali sulle retrostanti superfici. Anche gli elementi a pettine esibiscono in testata una soluzione che denuncia lo stretto rapporto tra l’organizzazione distributiva dell’interno e la connotazione dell’esterno: la facciata piena viene sagomata dalla vetrata della scala di sicurezza a forma di “L” e assume una configurazione zoppa che risulta fortemente incisa dall’alta e stretta finestra che dà luce al corridoio delle aule. © N. Chorrier Echi mediterranei opere di Laura Guglielmi architetture 54 Il Liceo “Jean Jaurès” di St. Clément de Rivière, un piccolo comune a circa un’ora da Montpellier, costituisce una importante sperimentazione in materia di edilizia ecosostenibile e una realizzazione esemplare dell’approccio HQE (haute qualité environnementale), il sistema di certificazione che in Francia assicura la compatibilità ambientale delle costruzioni. Rispetto alla griglia di valutazione del marchio HQE – comprendente 14 obiettivi raggruppati in quattro temi: bioedilizia, ecogestione, comfort e salute – il progetto di Pierre Tourre ha privilegiato alcune finalità: l’integrazione dell’edificio con l’ambiente circostante; l’ottenimento di condizioni di vita confortevoli, salubri e sicure; la riduzione dei costi di gestione e manutenzione del complesso; la sinergia tra ricerca espressiva e strategia bioclimatica. L’inserimento ambientale e le relazioni con l’intorno hanno condizionato fortemente la definizione dell’impianto Dall’alto: Vista dall’alto Lo spazio aperto all’interno della scuola articolato in terrazzamenti delimitati da muri di pietra a secco Scorcio di due dei quattro edifici riservati alla didattica che si sovrappongono al basamento in pietra con una giacitura ruotata di 90° Pierre Torre Liceo HQE “Jean Jaurès”, St. Clément de Rivière, Francia Committente: Regione Linguadoca-Roussillon Cronologia: 2001 (progetto) – 2003 (realizzazione) Strutture: Cabinet Delorme Superficie: 15.000 mq Costo: 19,37 milioni di euro Foto: H. Abbadie alloggi degli insegnanti architettonico e i caratteri formali dell’organismo edilizio. L’area su cui sorge la scuola presenta, infatti, caratteristiche topografiche e ambientali inusuali per un complesso didattico: fuori dal centro abitato, è situata sulla sommità di una collina di gariga e di pini, in un anfiteatro naturale posto ai piedi del picco Saint Loup da cui si colgono ampie viste panoramiche. Il lotto, della superficie di 50.000 mq, si sviluppa in lunghezza secondo l’asse nordest-sudovest, con una pendenza del terreno abbastanza accentuata nella direzione ortogonale alla principale. Il progettista ha cercato di conservare l’andamento orografico naturale, limitando al minimo gli sbancamenti e modellando il suolo secondo una serie di terrazzamenti definiti da muretti che, realizzati a secco con pietra calcarea locale, servizi generali edifici per l’insegnamento ristorante Planimetria opere convitto 55 architetture Scorci del complesso attrezzature sportive opere recuperano le modalità insediative del paesaggio mediterraneo. L’organismo architettonico è stato scomposto in corpi di fabbrica distinti, diversificati nella forma e nei materiali in relazione alle attività che vi si svolgono, e distribuiti sul terreno terrazzato secondo giaciture diverse. I volumi veri e propri della scuola, costituiti da una serie di elementi lineari disposti su una architetture 56 In senso orario: Il volume tronco-conico della sala polivalente all’ingresso della scuola Particolare delle “mensole di luce” che deviano i raggi solari all’interno delle aule schermando, al tempo stesso, le finestre rivolte a sud dall’eccessiva insolazione Passerelle aeree collegano gli edifici scolastici con i terrazzamenti esterni Legenda: 11. insegnamento scientifico, 11. sanitario e sociale 12. amministrazione 13. biblioteca 14. auditorium 15. caffetteria 16. insegnamento terziario 17. insegnamento artistico 18. insegnamento generale 19. aule studio 10. convitto 11. ristorante Negli spazi interni si ritrova lo stesso contrasto cromatico che caratterizza gli esterni degli edifici Pianta del piano primo 57 architetture griglia ortogonale incidente rispetto alla strada, occupano la quota più bassa del terreno e si sviluppano su due livelli. Gli ambienti posti al piano terra hanno un andamento prevalente nord-sud che prosegue il disegno delle terrazze e un rivestimento in pietra che li rende simili a concrezioni naturali del terreno. Gli edifici destinati alla didattica, situati al piano primo, si sovrappongono al basamento con una giacitura ruotata di 90°, e sono disposti secondo fasce parallele, slittate per consentire alla vista di spaziare sul paesaggio circostante. Sulla rimanente porzione del lotto sorgono altre costruzioni strettamente legate alla scuola. Il limite est dell’area è chiuso dagli alloggi degli studenti che occupano il terrazzamento più alto, a diretto contatto con il ristorante, da un lato, e con il volume dei servizi generali dall’altro, mentre a nord, immersa nel verde, si sviluppa l’area delle attrezzature sportive all’aperto e, più oltre, la zona riservata alle residenze opere Piante del piano terra Il sistema dell’illuminazione Schema della ventilazione diurna estiva opere Schema della ventilazione notturna estiva architetture 58 Schema della ventilazione diurna invernale L’interno del ristorante opere 59 architetture degli insegnanti, costituite anch’esse da elementi lineari organizzati, però, secondo una radiale. A sud sono collocati gli stalli dei parcheggi, raggruppati in piattaforme “sparse” sul terreno in maniera volutamente disordinata. L’ingresso alla scuola avviene da ovest, attraverso una scala che interrompe un basamento in pietra e conduce alla quota d’imposta degli edifici, un metro più alta della strada. L’accesso è segnato da un gigantesco brise-soleil costituito da un telaio in acciaio galvanizzato poggiato sul volume della didattica a destra e sul cono rovesciato dell’auditorium a sinistra. Simile a una istallazione d’arte contemporanea, è costituito da lamelle metalliche colorate alternate a pannelli fotovoltaici montati nello spessore della struttura. Unificato da un rivestimento in pietra che lo pone in continuità con la natura rocciosa del terreno, il piano terra si sviluppa lungo il lato sud-ovest e ospita l’amministrazione, la biblioteca e i servizi: l’auditorium e il cybercafè – analogamente alla sala ristorante situata in cima al complesso – si sottraggono alla griglia cartesiana dell’impianto proponendo geometrie curvilinee e rivestimenti in doghe di legno. Su questo basamento poggiano i quattro edifici a lama destinati alla didattica, raggiungibili dal piano terra attraverso scale interne e connessi ai terrazzamenti da un sistema di rampe e passerelle aeree che attraversano lo spazio in tutte le direzioni, dando forma a un’articolata sistemazione esterna. La posizione rilevata e il cemento bianco della struttura trasformano questi blocchi e l’anfiteatro tronco-conico in elementi paesaggistici in grado di denunciare la presenza della scuola nell’ambiente circostante. La suddivisione in volumi funzionali risulta la configurazione morfologica più adatta a coniugare la complessità dell’impianto planimetrico con la modellazione a terrazze del terreno, ma anche la soluzione ottimale ai fini della progettazione bioclimatica del complesso. Considerato la scuola si trova in una zona connotata da un clima mite durante l’inverno, ma con picchi di temperature estive piuttosto elevati, la strategia ambientale ha privilegiato soluzioni formali e costruttive che evitassero il surriscaldamento degli ambienti nel periodo estivo e garantissero, al tempo stesso, un elevato livello di illuminazione naturale. A tal fine i quattro volumi della didattica sono stati disposti in modo da avere l’asse orientato in direzione est-ovest con le aule rivolte a nord e a sud. Tale configurazione risponde all’esigenza di assicurare in ogni stagione un orientamento delle facciate ottimale rispetto all’irraggiamento e all’illuminazione naturale, riducendo i consumi energetici e aumentando, parallelamente, il comfort ambientale. Le aule rivolte a nord ricevono un’illuminazione diffusa attraverso ampie superfici vetrate che non necessitano di alcuna protezione solare, mentre quelle orientate a sud sono schermate dal forte aggetto della copertura e da un dispositivo chiamato “mensola di luce”. Questo elemento metallico orizzontale, montato a metà della superficie vetrata, ha la faccia superiore riflettente: la luce solare viene deviata verso il soffitto bianco della classe, per poi essere uniformemente diffusa all’interno. Al contempo la mensola scherma la superficie inferiore della finestra, impedendo ai raggi solari di surriscaldare gli ambienti. Una funzione importante è anche svolta dal corridoio di distribuzione: più alto delle aule, presenta lunghe finestre a nastro attraverso cui la luce penetra, batte su appositi schermi riflettenti e filtra all’interno delle classi rivolte a sud attraverso le vetrate poste nella parte alta dei tramezzi che le dividono dal percorso. Per garantire nei mesi estivi la giusta temperatura all’interno degli ambienti, il progetto agisce su due fronti: riduce gli apporti termici esterni prima che investano l’edificio attraverso l’uso di schermature e di vetri selettivi; dissipa il calore in eccesso grazie a un sistema di ventilazione naturale raffrescare ulteriormente le aule che, in tal modo, riescono d’estate ad avere una temperatura inferiore di circa 3-6° rispetto a quella esterna senza dover ricorrere all’uso di condizionatori. D’inverno l’aria fresca viene preriscaldata all’interno del doppio solaio ed entra nelle aule a una temperatura più alta dell’esterno senza creare disagi agli utenti e garantendo, comunque, i necessari ricambi d’aria. I materiali del progetto rispondono ai requisiti di durevolezza, facilità di manutenzione e sostenibilità del ciclo di vita, considerato nella sua interezza, contribuendo a connotare la ricerca espressiva che, pur lontana da suggestioni vernacolari, recupera i caratteri dell’architettura opere ispirato alle torri del vento orientali che sfrutta i moti convettivi dell’aria, l’inerzia termica della costruzione e l’effetto camino innescato dalla configurazione morfologica dell’edificio. L’aria esterna viene prelevata attraverso asole praticate in corrispondenza del corridoio di distribuzione del primo piano; circolando all’interno di una intercapedine ricavata nel solaio, si raffresca e filtra nelle aule per mezzo di griglie metalliche. L’ambiente viene attraversato dal flusso dell’aria che, riscaldandosi progressivamente, sale verso l’alto e, passando attraverso delle fessure praticate sul soffitto, fuoriesce verso i camini di estrazione del corridoio. Il sistema resta in funzione anche durante la notte continuando a architetture 60 Sullo sfondo: l’ingresso alla scuola con a sinistra il volume dell’auditorium Il muro di contenimento in grossi blocchi di pietra a secco riprende una tradizione locale opere mediterranea. La pietra locale del basamento è così associata alle doghe in legno che rivestono i volumi curvilinei e al cemento bianco delle “scatole” delle aule, al cui interno spicca, per contrasto, il rosso intenso delle pareti intonacate. Vista notturna architetture 61 architettureselezione DI LAURA GUGLIELMI Lo spirito Arts and Crafts selezione progetto di Walters and Cohen architetture 62 Fondata nel 1893 da John Haden Badley secondo principi progressisti, la Bedales School è uno dei collegi più prestigiosi del Regno Unito; fu infatti il primo a prevedere classi miste e ad affiancare alle tradizionali materie di insegnamento le attività artistiche (pittura, musica e teatro) e manuali (tessitura e giardinaggio), nella convinzione che andassero formati non solo «la testa, ma anche la mano e il cuore degli alunni». Il campus scolastico si trova nei pressi di Petersfield, nello Hampshire, e occupa un terreno di 120 acri su cui sorgono edifici eterogenei: alcuni risalgono ai primi del Novecento come la Memorial Library di Ernest Gimson, considerato uno dei capolavori del movimento Arts and Crafts, altri sono stati realizzati nel corso dei successivi anni come l’Olivier Theatre di Feilden Clegg Bradley, ultimato nel 1997. Il master plan elaborato dallo studio Walters and Cohen, a seguito del concorso di progettazione vinto nel 2003, prevede l’inserimento di nuovi edifici e il recupero e la valorizzazione del carattere rurale del luogo, che aveva costituito il tratto distintivo della originaria sistemazione paesaggistica di Edward Hutchinson, in parte manomessa dai successivi interventi di espansione. Il nuovo piano di assetto, pur evitando la proposizione di un ingresso formale, estraneo allo spirito della scuola, individua un punto di accesso principale, raggiungibile con una strada carrabile che attraversa i campi circostanti e termina in un parcheggio pavimentato in ghiaia. Sull’area a “frutteto” di fronte al parcheggio sorge il nuovo complesso edilizio che accoglie spazi per la didattica e per l’amministrazione – Dall’alto: Panoramica del campus scolastico Vista del nuovo edificio in rapporto alla Memorial Library vivi, animati dalla presenza degli studenti i quali possono usufruirne liberamente anche in orari extrascolastici. Innovativa è anche la scelta strutturale scaturita dalla richiesta di contenere i consumi energetici e provvedere di conseguenza a considerevoli quantità di massa termica: scartata l’opzione di una struttura completamente in legno è stata messa a punto una soluzione ibrida costituita da un telaio interno in cemento armato e da una struttura di pilastri e travi in legno come sostegno del rivestimento esterno. I solai in cemento armato insieme alle pareti interne realizzate con blocchi di cemento costituiscono la massa termica necessaria a stabilizzare le temperature interne, mentre la finitura esterna è costituita da un curtain wall in doghe di larice siberiano montate in verticale che, opportunamente distanziate e disposte in orizzontale, vanno a disegnare i brise-soleil delle finestre esposte a sud. Integrazione selezione con l’ambiente e la cultura locali, onestà strutturale, qualità dei materiali, cura dei dettagli: i valori del movimento Arts and Crafts, che ispirarono e guidarono la fondazione di Bedales, rivivono nell’opera di Walters and Cohen in un modo completamente contemporaneo che Bradley avrebbe senza dubbio approvato. architetture 66 Dall’alto: Lo spazio interno dell’atrio d’ingresso caratterizzato dall’intelaiatura in c.a. lasciata a vista Le aree di studio e di relax ricavate nello spazio di distribuzione alle aule del primo piano A lato: l’interno di una delle aule del secondo piano Per la realizzazione del presente articolo si è tratto spunto da «Architects’ Journal» vol. 222, n. 14, 20 ottobre 2005, pp. 26-39 e da «Architectural design» n. 1, gennaio-febbraio 2007, pp. 112-117 NUOVE FORME DELL’INFORMATION TECHNOLOGY E DELLA PROGETTAZIONE CONTEMPORANEA a cura di NITRO Antonino Saggio 70 Navi mobili e immobili 72 Nuove relazioni nella città 75 Il virus dell’informale 78 Un equilibrio generato da uno squilibrio 79 Artefatti cognitivi 82 Spazi pubblici mediterranei avi mobili e immo bili N Sottolineiamo indi tre aspetti di questo costruendo museo a Manhattan: a) autonomia e automantenimento di gestione; b) riconfigurabilità degli spazi; c) elettronica (ricorderete il loro progetto Blur!) combinata in questo caso alla meccanica portuale per affrontare il nodo stesso del progetto. A proposito di Elizabeth Diller e Zaha Hadid all’inaugurazione del MAXXI di Roma di Antonino Saggio Elizabeth Diller, completando la sua conferenza inaugurale in onore del museo MAXXI, ha lanciato un siluro all’architettura-corazzata di “Zaha” al Flaminio di Roma. Ha detto, più o meno: ebbene cari amici, anche se veramente non dovrei perché è solo allo stato di concept, vi faccio vedere il nostro nuovo museo a New York. Si basa su tre principi. Il primo è che si deve autosostenere finanziariamente. Vuol dire che le attività commerciali, quelle più direttamente produttive e quelle espositive, non si sovvenzionano con soldi pubblici, ma appunto cercano nell’interesse delle loro attività presso il pubblico le fonti economiche di sostentamento. Secondo principio: le tre attività occupano ciascuna circa un terzo della superficie e poi, e l’ha detto come se niente fosse, ecco il terzo principio: «Spazi e funzioni si devono riconfigurare». Ma come fare per riconfigurare spazi e funzioni? Beh, semplice: si prende una tecnologia ben funzionante, quella dei carri ponte e dei container dei porti e la si adatta al caso specifico! Il nuovo museo di Diller&Scofidio + Renfro risulta di conseguenza composto da tre scatole, che stanno l’una dentro l’altra come a formare una enorme matrioska e che si aprono, si chiudono e slittano reciprocamente riconfigurando spazi interni ed esterni. Ha mostrato una prospettiva e alcune sezioni e, per finire, ha detto: la forma architettonica verrà, adesso non è questa la cosa l’importante. 70 La riconfigurabilità è in relazione alla massima flessibilità d’uso. Qui non c’è una weltanschanung digitale o post-meccanica, ma al contrario una tensione che affronta con coraggio le necessità del programma e a partire da queste elabora progetti moderni. L’estetica in architettura è una conseguenza, non la base di partenza. Con Diller&Scofidio e la loro High-line abbiamo iniziato On&Off («L’architetto italiano» n. 15) e con la monografia di Antonello Marotta, prima in Italia, è ricominciata la collana Rivoluzione Informatica nel 2005. Che l’équipe del MAXXI li abbiano invitati ci dà un piccolo credito culturale, anche se il siluro di Elizabeth d’un colpo fa apparire il MAXXI vecchio, costosissimo, inadeguato alle sfide culturali ed economiche da affrontare, assurdo climaticamente, tradito nella concezione urbana e forse poco funzionale. E che sia bello, guizzante e asimmetrico, meandricamente piranesiano ci fa felici, sì, ma solo per un attimo. Cerchiamo di fornire un contributo alle prossime realizzazioni italiane, senza paura di formulare le critiche sulle opere appena realizzate. Naturalmente della Hadid siamo ammiratori (e aborriamo l’architettura da presepe che hanno invece in mente i molti detrattori) ma per spirito di parte in Italia si tende a non fare le critiche se si è dallo stesso lato, è uno sbaglio gigantesco. Ecco dunque alcune osservazioni pratiche e ci auguriamo costruttive sull’inaugurando museo del XXI secolo: a) costi e realizzazione. Come era già avvenuto per la chiesa di Meier alla periferia di Roma, la via italiana alla costruzione delle opere “dinamiche” e “a-tettoniche” della recente architettura internazionale è assurda (il che potrebbe non far nulla), ma è soprattutto antieconomica (150 milioni di euro il costo finale). Realizzare pareti portanti in cemento armato porta a un lievitazione dei costi e a fare in maniera complessa, costosa e lunga cose che possono essere più semplici. Queste opere così dinamiche “domandano” una realizzazione a ossatura d’acciaio triangolata e poi rivestita in pannelli. È il sistema usato al museo Guggenheim di Bilbao. L’altra strada è quella seguita nella realizzazione della bella chiesa di Alessandro Anselmi alla periferia di Roma (la Chiesa San Pio di Petralcina nel quartiere di Malafede). Qui le forme dinamiche sono rese congrue a un sistema di curvilinee travi in acciaio che creano audacia e bellezza strutturale rare (oltre a un costo contenuto). Insomma alle soluzioni costruttive bisogna lavorare con attenzione, e la necessità del contenimento dei costi spesso aguzza l’ingegno dei bravi architetti e dei loro compagni ingegneri. Nel MAXXI la costruzione sembra essere stata dettata dalle esigenze della ditta che, logico o meno che sia l’approccio, i suoi lavori alla fine li contabilizza! Nella fase della costruzione si legge l’inesperienza dello studio Hadid e lo strapotere della impresa e dei suoi interessi; b) l’opera di Hadid sarebbe importante urbanisticamente per promuovere i flussi di attraversamento nel quartiere. Avere recintato il museo in un lotto chiuso da palizzate, come ci auguriamo non resterà ma invece temia- mo, è uno sbaglio che snatura la forza stessa dell’architettura. Se l’area museale per insipienza gestionale rimarrà sbarrata tra Via Guido Reni a sud e Via Masaccio a nord il museo perderà il suo potenziale urbano e la sua architettura diventerà, suo malgrado, “monumentale” perché da guardare e non da vivere! Il successo come attrezzatura “pubblica” e come spazio cittadino del vicino Auditorium dovrebbe servire come esempio positivo; c) lo spazio interno del MAXXI appare monotonamente indifferenziato dal punto di vista dell’uso espositivo (la grande variazione degli squarci visivi infatti non ha nulla a che vedere con la potenzialità d’uso). E dal punto di vista dell’intelligenza ambientale l’edificio è sordo presentandosi come una macchina da riscaldare e raffreddare con tecniche tutte artificiali senza gli accorgimenti spaziali oggi possibili per attenuare l’impatto climatico. Ci fermiamo e pensiamo ai semplici principi di Elizabeth Diller. Accontentarci del poco, dicendo che è meglio di niente, nel caso del MAXXI vorrebbe dire arrenderci. 71 uove relazio ni nella città N di Rosetta Angelini «Se fai le vacanze in motocicletta, le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente». Robert M. Pirsig da Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. a La Villette. Riether sostiene che l’intero universo è costituito da instabili sistemi flessibili in relazione parametrica gli uni con gli altri. Questa tesi trova un chiaro riscontro nelle sue opere come nella Wilder Wein, Mapping the Unpredictable, collocata a Spitz, in Austria. Questa installazione si struttura su una serie di rapporti fondamentali: la relazione tra l’installazione con il contesto-sito, l’interazione tra l’utente e il materiale artificiale e tra l’utente e l’elemento natura. Queste relazioni a loro volta, proprio perché siamo in un sistema aperto, non sono fisse e predefinite, ma conti- Gernot Riether, installazione, Wilder Wein, Mapping the Unpredictable, Spitz, Austria È la stessa sensazione che si prova quando si lavora su un’immagine raster e un’immagine vettoriale. L’interazione-percezione è completamente diversa. Di un’immagine raster, non possiamo modificare la forma dei pixel, possiamo solo ridurla o ingrandirla e l’interazione è minima, siamo degli spettatori. Mentre, un’immagine costruita vettorialmente ha una struttura viva che possiamo modificare quando e come vogliamo, siamo dentro la scena. È proprio la ricerca di un’architettura flessibile fatta di strutture interne parallele che emergono dalla interazione e dai rapporti intensi tra sistemi naturali e artificiali che struttura i lavori di Gernot Riether. Si tratta di un artista e un architetto che lavora su installazioni e progetti a livello internazionale, che ha insegnato in diverse università in Europa e negli Stati Uniti ed è attualmente docente presso il Georgia Institute of Technology e presso l’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris nuamente modificabili dall’utente e dall’elemento naturale. Wilder Wein è costituita da una griglia regolare realizzata con tubi elettrici e fissata al corpo scala dell’edificio. Ogni nodo della griglia è mobile, è infatti costituito da una semplice chiusura a “zip” che consente all’utente di manipolarlo facilmente e quindi di deformare in qualsiasi momento la dimensione o la posizione delle aperture di ogni campo all’interno della griglia stessa. È come essere su uno screen vettoriale, dove con lo strumento delle manigliette del software Adobe Illustrator possiamo spostare i vertici della nostra griglia e modificare a piacimento il nostro disegno ottenendo nuove e imprevedibili configurazioni che variano al variare delle informazioni-parametri contenuti nei nostri elementi-vettori. L’installazione è costituita da elementi che contengono “informazione”, i fili elettrici contenuti nei tubi dell’installazione sono portatori d’informazione, i Dentro lo screen di Gernot Riether 72 nodi-vettori sono elementi vivi, quindi modificabili in base a nuovi parametri assegnati, e ancora l’elemento natura che entra nella griglia attraverso una pianta rampicante che cresce lentamente e liberamente alla continua ricerca del sole è portatrice di elementi vitali, di linfa, di ossigeno e quindi, di nuovo, d’informazione. La continua ricerca di nuove relazioni spinge spesso Riether a concentrare la sua attenzione sui dettagli o a scegliere per le sue opere scenari apparentemente poco stimolanti come nel caso della Junction Space, che si trova nel quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, New York. L’idea è qui di far affiorare nuovi rapporti tra frammenti architettonici apparentemente autonomi e poco significativi come le scale antincendio, le finestre, le recinzioni nei cortili del quartiere. L’architetto inventa nuove interconnessioni tra questi elementi apparentemente trascurabili del paesaggio urbano, e genera linee e superfici che creano spazi nuovi e imprevedibili. Infatti mediante l’utilizzo di fili di gomma sintetica, un materiale leggero ma estremamente robusto che consente di sfidare le leggi di gravità e di mantenere l’installazione ben tesa e sospesa, queste nuove riconnessioni tra elementi poco significativi se presi singolarmente danno vita a un nuovo scenario la cui forza espressiva si amplifica soprattutto di notte quando scompare il contesto e rimangono vive solo le interconnessioni caratterizzate dai fili tesi di un colore codificato che fanno riflettere la luce. Allora vengono evi- denziati non più gli elementi singoli ma solo i legami che, un po’ come nella vita, restano indissolubili, nonostante il tempo e il luogo in cui ci si trova. Un’altra opera in cui la ricerca di nuove interconnessioni e di interazioni sociali è molto forte è Cloud, realizzata per la Eyedrum Gallery di Atlanta. Cloud è un’installazione che ha origine da tre elementi principali: un sistema generato da moduli digitali, un sistema sociale e uno spazio fisico. Utilizzando infatti MEL, il linguaggio di scripting del software di modellazione 3D Maya, è stato creato uno Gernot Riether, installazione, vista dalla terrazza, Junction Space, quartiere di Williamsburg, Brooklyn, New York Gernot Riether, installazione, vista d’insieme, Junction Space 73 tamenti sociali mettendo in evidenza, a seconda delle sue configurazioni, se i visitatori stanno collaborando in gruppo o stanno facendo un lavoro individuale. In un sistema aperto e riconfigurabile, lo spazio circostante con i suoi confini assume un ruolo fondamentale in cui l’obiettivo è quello di rendere sempre più fluida e continua la relazione tra il sistema artificiale e quello naturale alla ricerca di quella fluidità che caratterizza i comportamenti dei sistemi viventi come gli stormi di uccelli, gli sciami delle api o i banchi dei pesci. La ricerca di una sovrapposizione-fusione tra relazioniconnessioni artificiali, attraverso elaborazioni virtuali e relazioni naturali, mediante lo spazio fisico e l’interazione dei visitatori, si fa più intensa e tangibile in Doubled Space, un’installazione realizzata per la Arthur Ross Gallery di New York. In questo caso lo spazio fisico, naturale della galleria è stato registrato, elaborato e ricostruito come un modello virtuale che può essere modificato in modo interattivo. Infatti, attraverso l’uso di videoproiettori ad alta risoluzione, lo spazio virtuale è stato proiettato sulle pareti di quello reale, in questo modo lo spettatore viene simultaneamente portato all’interno dello spazio virtuale come se occupasse quello reale e questa sovrapposizione di mondi virtuale-reale è enfatizzata dall’utilizzo del suono, dalle luci e dal colore che deformano, distorcono e cambiano il rapporto tra reale e virtuale in un flusso in continua evoluzione, dove il confine tra percezione artificiale e naturale si fa sempre più sottile fino a fondersi in un continuum fatto solo di emozioni. Gernot Riether, installazione, Cloud, Eyedrum Gallery, Atlanta Gernot Riether, installazione, Cloud, vista d’insieme della nuvola Gernot Riether, installazione, Doubled Space, Arthur Ross Gallery, New York 74 script per generare 1.500 variazioni di un unico modulo. Ciascuno dei moduli, pur avendo una caratteristica specifica di forma e i tre stessi principi di connessione, ha una dimensione diversa. Una volta che i moduli di polipropilene sono stati generati dallo script e tagliati al laser, il visitatore viene invitato a interagire con le caratteristiche del modulo stesso capace di sviluppare diverse possibili combinazioni di connessioni. Ogni volta che l’installazione-nuvola viene assemblata la sua forma cambia in modo imprevedibile a seconda dell’interazione tra il sistema artificiale di fabbricazione digitale e i diversi comportamenti dei visitatori che dipendono dalla personalità di ogni singolo utente, dalla sua cultura o dalle dinamiche di gruppo che si innescano durante l’interazione. Quindi, l’installazione-nuvola è in grado di registrare i compor- «Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie». Italo Calvino da Le città invisibili Nella riflessione che accompagna la lettura della città contemporanea, e le complesse dinamiche di trasformazione che la investono, emerge sempre più la problematica relativa all’uso dei suoli e la condizione di antitesi, separazione e frammentazione tra spazi aperti e spazi costruiti. Nelle vaste aree metropolitane, le componenti urbane, siano esse insediative, produttive o infrastrutturali, si susseguono e si alternano in maniera indifferenziata e senza soluzione di continuità, e la scansione degli spazi è dettata dai rigidi ritmi imposti dalla zonizzazione funzionale: all’interno delle maglie stereometricamente definite esistono però dei territori di indeterminatezza che, se da un lato rappresentano elementi di disturbo e di instabilità per il sistemacittà, dall’altro costituiscono luoghi importanti di progettazione, nodi di connessioni materiali e immateriali tra la città pianificata e la metropoli spontanea. Le smagliature della città costruita, i cosiddetti “vuoti urbani”, sono il risultato di pianificazioni inattese, dismissioni o, in alcuni casi, lacerazioni drammatiche e possono diventare oggi l’occasione per l’elaborazione di una nuova idea di città fondata su principi di “densificazione leggera” e di riciclaggio architettonico. Prodotti inconsci e residui dello sviluppo urbano, i vuoti affiorano dall’analisi dei tessuti degli agglomerati contemporanei come spazi alieni ai sistemi di strutturazione territoriale, come negativi potenziali in cui delineare nuovi paesaggi operativi, funzionali e programmatici. Questi spazi sono intrisi di movimento in divenire e portano agli estremi la definizione stessa di paesaggio duale: da una parte scenari passivi, spazi liberi e residuali e dall’altra territori definiti e attivizzati dai molteplici e imprevedibili processi che li abitano. Si tratta di luoghi che chiedono senso, ma non un senso stabile e ordinato, figlio della firmitas vitruviana, piuttosto invitano alla definizione di significati provvisori, flessibili, strutturati per rinnovarsi e pronti a modificarsi ancora. Occorre allora riflettere sul ruolo dei vuoti, considerando l’opportunità di trasformarli in ambiti urbani paralleli a quelli esistenti, come nuovi layer dinamici che si sovrappongono alla città costruita offrendo innovativi spazi di vita, gioco, socialità e sostenibilità. La lezione della Convertiblle City tedesca, messa in atto negli ultimi anni prevalentemente nella città di Berlino, è a questo proposito estremamente calzante. A differenza delle maggiori capitali europee, verso la fine del secolo scorso, Berlino ha visto moltiplicarsi la quantità di aree libere all’interno della città a causa delle trasformazioni politiche e infrastrutturali di cui è stata protagonista. Le dismissioni dei grandi complessi industriali, l’abbattimento del Muro, gli squarci creati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale rappresentavano una grande opportunità di trasformazione per la città e reclamavano un intervento di pianificazione responsabile da parte dell’amministrazione cittadina. Parallelamente ai tradizionali processi di pianificazione urbana, si sviluppa rapidamente un fenomeno spontaneo di uso creativo e temporaneo degli spazi abbandonati della città che porta con sé una crescita fiorente di nuove forme micro-economiche e sociali sostenibili. Gli usi innovativi e auto-organizzativi hanno successo laddove i sistemi di riqualificazione tradizionali sono risultati fallimentari: questo perché tutto il meccanismo viene gestito da vere e proprie agenzie di mediazione (tra utilizzatori temporanei e proprietari dei luoghi) in grado di seguire il processo di trasformazione delle aree a lungo termine, colmando in maniera proficua quel vuoto temporale tra sviluppo classico del progetto e processi spontanei di utilizzo dello spazio fisico. L’esempio di Berlino sottolinea l’importanza dell’affermazione di nuove strategie urbane per la riconquista dello spazio costruito che si inquadrino in un più ampio discorso di processi di trasformazione urbana partecipata e di prospettive “dal basso”. In quest’ottica, l’occasione offerta dalla diffusione dei mezzi informatici e tecnologici è sicuramente di grande importanza da molti punti di vista. Cerchiamo di illustrarne le ragioni attraverso la presentazione di tre importanti piattaforme collaborative che fanno del Web 2.0 lo strumento per l’innesco di processi di attivazione delle energie presenti negli ambiti urbani. La prima è Urban Drift (www.urbandrift.org) piattaforma teorica trans-culturale per le nuove tendenze in architettura, design e urbanistica nata grazie all’impegno della giornalista e curatrice Francesca Ferguson. Si tratta di un laboratorio di idee per la pratica architettonica I l virus dell’infor male La rigenerazione urbana a partire dal Web 2.0 di Marta Moccia 75 e le strategie urbane contemporanee che coinvolge interlocutori internazionali nella creazione di un network interdisciplinare. Al suo interno architetti, artisti, teorici, scrittori e registi si interrogano sulle trasformazioni della città contemporanea e partono dal “caso Berlino” per elaborare nuove tattiche di pianificazione per gli spazi pubblici, le zone periferiche e residuali e i vuoti urbani. Lo scopo è quello di allargare i confini del discorso architettonico a un pubblico ampio e massimizzare il potenziale dei processi interdisciplinari, creando un legame tra teorie innovative e pratica architettonica. La piattaforma informatica si lega poi a una serie di attività culturali (esposizioni, convegni, simposi, workshop, pubblicazioni) in cui le realtà urbane sono poste sotto una nuova luce sociale ed economica e indagate per farne emergere le identità multiple. Altro interessante spunto per l’elaborazione di nuove strategie di riqualificazione urbana ci viene offerto dall’interessante esperienza didattica “UrbanVoids – Microprogetti sostenibili”, condotta dal prof. Antonino Saggio, con molti collaboratori alcuni del gruppo Nitro, alla Facoltà di Architettura “Ludovico Quaroni” dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma all’interno del Laboratorio di Progettazione Architettonica e Urbana IV. UrbanVoids (http://urbanvoids.blogspot.com/) è un progetto collaborativo che sviluppa una nuova e fertile declinazione dei vuoti urbani rovesciando il sistema urbanistico prescrittivo calato dall’alto a favore di un approccio “dal basso”, realista e situazionale, che attraverso l’applicazione di una strategia progettuale interstiziale interviene su tutti i livelli presenti sul territorio, non solo quelli fisici, funzionali, infrastrutturali e morfologici ma anche, e soprattutto, su quelli sociali e culturali. Per fare questo, UrbanVoids si avvale di una piattaforma sistemica intelligente basata sulle tecnologie informatiche collaborative offerte dal Web 2.0 (nel caso specifico Google Maps, Google Earth, social networking, blog, YouTube e SketchUp): a partire dalla localizzazione georeferenziata di tutte le aree di intervento nel territorio di Roma in Google Maps è possibile accedere al blog e al sito del corso, ai blog individuali dei singoli studenti e ancora ai blog o ai siti delle realtà presenti sul territorio, coinvolte nel progetto a titolo di collaborazione, consulenza o addirittura “committenza virtuale”. Il terreno su cui si muove questa esperienza di didattica e ricerca è rappresentato da una rete di vuoti urbani individuati in un ambito urba- 76 no complesso della città, il settore sud-est compreso tra il Parco Archeologico della Caffarella e il Parco di Centocelle. Il processo di riqualificazione urbana elaborato, per quanto rimanga nella sfera della ricerca e della didattica, sviluppa in parallelo la ricostruzione sociale e fisica della città, agendo nei nodi critici presenti sul territorio con operazioni terapeutiche di “agopuntura” urbana. Le azioni progettuali innescate hanno interesse dal punto di vista del programma sociale e della sostenibilità ambientale e propongono una strategia dinamica di riappropriazione degli spazi residuali della città attraverso l’attivazione di spinte auto-generative dei soggetti e delle comunità coinvolte. Un processo simile è sviluppato all’interno di CriticalCity (www.criticalcity.org), il primo progetto di piattaforma collaborativa per la riqualificazione urbana ludica e partecipata sviluppato in Italia. In questo caso, ci si confronta con il territorio della città di Milano e il lavoro per la rivitalizzazione ricostruisce e recupera il rapporto di identità tra la città residuale e coloro che la vivono attraverso approcci creativi e vivi tesi a risvegliare le potenzialità assopite della metropoli. CriticalCity giunge a questo obiettivo sviluppando un approccio sistemico di e-democracy: attraverso una community on-line di giocatori vengono lanciate delle vere e proprie “missioni” che intervengono nei nodi critici dell’ambiente urbano e ne affrontano le problematiche. Le modalità partecipative sono quelle del gioco, inteso come uno dei percorsi indispensabili per il coinvolgimento degli individui nella definizione di nuovi scenari urbani. Il progetto, attraverso un’interfaccia tecnologica appositamente creata, è in grado di attivare i cittadini all’interno del territorio in cui vivono, permettendo loro di esprimere, interpretare e valorizzare i vari e nuovi linguaggi metropolitani. Premiato da diverse realtà istituzionali come miglior progetto creativo di sviluppo locale e come migliore startup innovativa (Innovation Circus – Comune di Milano, Kublai Awards – Ministero dello Sviluppo Economico, 100 Talents – Comitato delle Regioni Europee, TechGarage 2009 – Premio della Giuria, Public Choice Award, Wired Greek Award, Premio Piazza Mercanti – Camera di Commercio di Milano) CriticalCity ri-crea il reale e sviluppa un’interpretazione del social networking che si traduce in partecipazione attiva e modalità fattive per la mutazione dei contesti esistenti. In un caso una piattaforma teorica, in un caso un approccio didattico, in un altro un gioco urbano: vengono messi insieme ricerca, tecnologia, sguardo alla realtà ed esperienze ludiche per attivare processi collaborativi nei quali gli attori presenti sul territorio diventano i veri e propri protagonisti della rigenerazione urbana. Il capitale di azione impiegato non è, infatti, inteso in termini finanziari ma è rappresentato dalla creatività, dall’impegno sociale, dalla creazione di network di relazioni, dalla partecipazione. Le tattiche progettuali, in tutti e tre i casi, sono strutturate sulla metafora del virus, ovvero sul concetto che un’entità attiva sul territorio è in grado di generare gradualmente nuove potenzialità urbane, favorendo la crescita socio-culturale ed economica. E il virus, come nell’informatica o nella biologia, non costituisce di per sé un’entità indipendente e autosufficiente ma infetta il sistema-città, ne interpreta i meccanismi, vi si inserisce e li riproduce dinamicamente. Ecco quindi che l’informale riesce a confrontarsi con l’idea tradizionale e consolidata della trasformazione della città: incarnato dagli strumenti di partecipazione del Web 2.0, l’informale può migliorare il futuro delle nostre città e generare profitto, finalmente inteso in termini di benessere e vivibilità. Pagina a fianco: Valentina Pennacchi, unità low-cost mutanti e in crescita per il risiedere e il lavorare. Una ipotesi negli interstizi urbani nella periferia sud di Roma, 2009 Sopra: CriticalCity, concept e schema di funzionamento della piattaforma partecipativa, Milano, 2009 77 U n equi librio ge nerato da uno squilibrio La mostra di Alexander Calder di Giovanni Bartolozzi In alto: Cascading Flowers (1949), The “Y” (1960) A destra dall’alto: Big Red (1959), Glass Fish (1955), La Grande Vitesse (1969) 78 La mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma su Alexander Calder (sino al 14 febbraio 2010) è occasione unica per scoprire la compiutezza di un messaggio artistico dinamico, immediato, alla portata di tutti. Già le prime sale presentano le sculture in bronzo e le wire sculptures, sculture rivoluzionarie realizzate col fil di ferro, che stupiscono per la tormentata tridimensionalità; si passa poi ai dipinti che in più fasi hanno accompagnato l’opera dell’artista e, attraverso il grande mobile sospeso sul doppio volume d’ingresso, si passa alle opere della fase matura, i mobiles appunto che invadono lo spazio delle ultime sale e gli stabiles. I mobiles sono certamente le opere più note di Calder, ma la mostra romana espone una quantità sorprendente di lavori a testimonianza di un percorso di ricerca che si è mosso con disinvoltura, senza sbavature o capricci linguistici, lontano dalle inquietudini esistenziali dei suoi contemporanei, poiché aveva un obiettivo dichiarato nella spazialità del movimento. Come molti artisti del secolo scorso, Calder ha utilizzato i materiali grezzi (fil di ferro, tondini metallici, piastre, lamiere, legno, catene) forniti dall’industria e attraverso la sua impronta li restituisce all’arte. Con le wire sculptures ha ribaltato il tradizionale concetto di scultura per masse piene, e con l’immaterialità del fil di ferro ha sfidato lo spazio, ha reso il suo segno subito tridimensionale: il passo successivo non poteva che essere il movimento nello spazio. La tecnica di costruzione dei suoi mobiles si fa via via più complessa e al principio fisico dei bracci di leva e dei bilancieri si sommano sempre ulteriori livelli di complessità: le aste si estendono e spesso si incurvano, le piastre poste all’estremità a fare da contrappeso risolvono il problema della forma, come fossero macchie di colore o meglio masse di colore sospese nello spazio. L’intera struttura si articola, si ramifica in sottostrutture per ritrovare, come dice Argan, una “morfologia arborea”, ma rimane fedele alla sua legge di fondo, l’equilibrio complessivo tra le aste e la possibilità di movimento delle singole stanghe. Il moto non coinvolge mai l’opera in maniera uniforme, ma si propaga, si rafforza o si smorza in base alle condizioni, alle sollecitazioni aeree. «Un giorno mentre stavo parlando con Calder nel suo atelier – scrive Jean Paul Sartre, in un articolo riportato sul catalogo della mostra – un mobile che fino a quel momento era rimasto tranquillo fu colto da violenta agitazione, diretto contro di me. Feci un passo indietro credendo di mettermi al di là della sua portata; ma improvvisamente, quando aveva smesso di agitarsi e sembrava ripiombato nell’inerzia, la sua lunga coda maestosa, che non si era ancora mossa si mise indolentemente in moto, come a malincuore, fece una giravolta in aria e mi passò sotto il naso». Calder lavorava per asimmetrie e sbilanciamenti, esaltava il dettaglio grezzo, ricercava il non programmato – tutte caratteristiche presenti nelle sue opere – e soprattutto, come dimostrano quelle sue grandi e articolate sculture che si nutrono dei movimenti dell’aria, ha sempre ricercato un’immagine complessiva, un ritmo, un equilibrio generato dallo squilibrio. Un battito d’ali di un uccello che si posa su un ramo e il conseguente dondolio è da sempre un’immagine benevola della natura, che oggi però apre spunti di riflessione e scoperte concrete per l’architettura. La presenza degli strumenti informatici e un sempre maggiore sviluppo delle ricerche verso nuovi materiali e tecnologie sposta infatti queste suggestioni dal mondo dell’intuizione romantica a quello dell’attuazione concreta. È quanto succede quando l’architettura e gli artefatti via via più sofisticati che in questi anni si producono come prototipi della trasformazione tecnologica e culturale della Rivoluzione Informatica incomincia a scoprire la ricchezza e la diversità del mondo e soprattutto delle sue forme viventi. Per esempio Fred Guttfield, membro dell’Interactive Architecture Workshop, alla The Bartlett – Faculty of the Built Environment – School of Architecture, guidato da Stephen Gage professore della Unit 14 attualmente insieme a Richard Roberts, nel suo progetto per il diploma è attratto dal fatto che gli uccelli si posano continuamente sui rami, cercando cibo, volando, migrando e ritornando ancora, quasi fossero dei pensieri. Progetta un filo, provvisto di punti di attracco per questi animali. Questi sono degli artefatti ibridi fra meccanica e information technology, che funzionano come punto di appoggio e di rifornimento per il cibo. In realtà sono dei contrappesi che essendo incernierati alla corda, finiscono per dondolare ogni volta che un uccello si posa a una sua estremità: le vibrazioni prodotte dal movimento dei volatili sono così trasferite all’oggetto che oscilla come un ramo assecondandole. Viene individuata così nel progetto la sostanza dell’interazione sebbene in una prima fase sia ancora caratterizzata dalla natura meccanica. Se tuttavia, la consapevolezza che l’ecologia, dalla biosfera quale massimo ecosistema fino a quello più elementare, è anzitutto interazione continua fra le forme viventi e non, perché il progetto dovrebbe formularsi su di essa? Guttfield concepisce l’elemento come un sensore le cui capacità sono fornite da un accelerometro. Registrando in maniera precisa i movimenti che gli uccelli causano quando si posano cercando il cibo, questi vengono riproposti attraverso un potenziale dinamico fornito da un piccolo motore e un’elica. Di notte un sistema LED ne permette un’ulteriore riproposizione, esaltandone così le traiettorie sullo sfondo buio: si è aperto con questa installazione un dialogo fra artefatto e mondo vivente. Usiamo il termine artefatto proprio per esaltarne le caratteristiche evidenziate dalla psicologia cognitiva, che consistono nell’aver presupposto a monte del progetto una serie di azioni possibili che lo riguardano una volta realizzato, di natura intelligente e creativa. L’installazione di Guttfield quindi agisce svelando potenziali e futuro dell’information technology, quando quest’ultima agisce come una sonda nell’ambiente vivo della natura. Lo stesso autore d’altronde illustra le conseguenze del suo pensiero quando immagina tutto il sistema come un elemento complessivo in grado di restituire una propria gamma di comportamenti e di ritmi di popolazioni «in tandem con il sistema ecologico in cui si trovano». Il dialogo fra l’artefatto e l’ambiente si svolge così secondo diversi timbri, restituendo non solo la grazia di un movimento armonico amplificato, ma la gamma e il risultato di un sondaggio di diverse forme viventi che interessano un luogo nel tempo. Il sistema è anche programmato per scrollarsi di dosso gli uccelli dopo un certo periodo. Gli esseri umani partecipano come osservatori, o come consumatori di una delizia, che ha il merito di far emergere lo spazio aperto, non solo in termini di giardino. Se la prima ondata della Rivoluzione Informatica, anche con delle comprensibili implicazioni liberatorie, ha esaltato e lavorato sulla quasi esclusiva interattività visuale e proiettiva, la sperimentazione attuale e soprattutto le promesse delle capacità delle tecnologie digitali continuano il loro percorso di dialogo e riscoperta del mondo: il paradigma delle informazioni oltre a sollecitare le capacità di calcolo per l’esplorazione e la composizione della forma attraversa una fase più matura, dove l’interrogazione è rivolta alla realtà dei processi esistenti e soprattutto alla consapevolezza, che laddove ci sia scambio di informazione la ricerca si svolge non tanto sulla loro rappresentazione, quanto sulla loro intercettazione e – fatto apparentemente inaudito – sulla loro embodiment (incorporazione) in dispositivi diversi. In questa direzione sofisticata, che sta aprendo silenziosamente scenari di assoluta rivoluzione nella disciplina, con delle implicazioni che toccano continuamente le attuali teorie dell’emergenza, frutto del pensiero della complessità, e soprattutto quelle della vita artificiale, sembra essere radicato il lavoro di Ruairi Glynn, lecturer e tutor alla già citata Bartlett, nonché ex studente della Unit 14 di Gage, e ora pluripremiato artista. Emblematica di un pensiero profondamente radicato nelle teorie cibernetiche, e in particolare quelle di Gordon Pask, richiamato dallo stesso Glynn,è una delle sue installazioni più significative: Performative Ecologies. Questo lavoro infatti mostra una notevole intersezione, fra spazio, architettura, robotica, e interazione. L’approccio di cui necessitiamo A rtefatti cogniti vi Dialoghi e comportamenti fra architettura e ambiente di Antonino Di Raimo Fred Guttfield, Second Order Bird Feeder, Thames Valley, Diploma Unit 14, Bartlett School of Architecture, UCL, Londra, 2007 (credits: Fred Guttfield) 79 Ruairi Glynn, Performative Ecologies, Londra, Graz, Vienna e São Paolo, 200708 (credits: Ruairi Glynn) 80 per parlarne, quindi, è necessariamente cognitivo. Usiamo il termine cognitivo per parafrasare e argomentare la descrizione che lo stesso autore fa della sua installazione, quale lavoro incentrato sulle forme gestuali di dialogo fra abitanti e un ambiente in continua evoluzione, e sulla capacità di quest’ultimo di ridiscutere il proprio comportamento in relazione agli obiettivi e ai comportamenti degli abitanti stessi. La riconoscibilità degli abitanti, ottenuta grazie a un sistema di visione artificiale, la capacità dell’ambiente di formulare comportamenti multipli e nuovi, e soprattutto lo stesso scambio che avviene fra gli automi in termini di materiale performativo dimostrano come l’informazione quale materia organizzativa di una forma e di un comportamento sia prodotta e scambiata continuamente fra elementi viventi e artificiali, a patto di produrre in entrambi un atto cognitivo, ovvero un atto interno di produzione di conoscenza sul quale viene a innescarsi la possibilità dell’interazione. Ma come è realizzata questa comunità dialogante che accenna in modo tanto poetico quanto scientificamente rigoroso alle scoperte e alla tematiche di quella scienza degli anni Cinquanta, che silenziosamente continua tuttora il suo percorso chiamata cibernetica? In un ambiente buio viene costruita una comunità di automi, consistenti in alcune sculture robotiche dotate di una coda illuminata capace di riprodurre l’intero spettro RGB. Osservazione e socievolezza costituiscono i termini sui quali è organizzato il loro comportamento. Il loro obiettivo infatti è quello di attirare e mantenere l’attenzione degli abitanti. Ciò è ottenuto attraverso un software di riconoscimento facciale che per esempio fa sì che i robot mantengano la loro posizione quando un osservatore è fermo all’altezza dei loro “occhi”. La coda dei robot, inoltre, può ruotare e agitarsi eseguendo una vera e propria danza per mantenere l’attenzione. Questo sistema dalla natura comportamentale, lontano da qualunque idea deterministica e meccanica di interazione è continuamente valutato sulla base del successo (fitness) che raggiunge quando si forma una rete di interazione fra i robot e gli umani, che Ruairi non a caso chiama “danza”. L’algoritmo alla base dei movimenti è infatti un algoritmo genetico (in sigla GA) in grado quindi di produrre mutamenti continui sulla base della dinamica evolutiva delle interazioni abitantirobot, nel loro complesso. Ogni attore quindi producendo cognizione la scambia continuamente con gli altri, permettendo al sistema di evolvere e raggiungere diverse e complesse ecologie. È in tal senso interessante notare che quan- do non ci sono osservatori umani i robot si rivolgono gli uni agli altri per insegnare e imparare la danza che ha prodotto più successo, scambiando in sostanza l’algoritmo mutato che l’ha prodotta. Tuttavia ogni robot confronta continuamente il proprio materiale genetico con quello che gli viene trasmesso, e se c’è compatibilità il suggerimento viene accettato, altrimenti viene scartato. Come si può notare la programmazione a monte è continuamente orientata a produrre feedback interni agli elementi robotici, che proprio per questo motivo sono in grado di produrre cognizione e comportamento sempre diversi e via via più ricchi. Quando infatti i robot ricevono una notevole attenzione i livelli di mutazione degli algoritmi avanzano velocemente e la danza diviene ancora più sperimentale. I livelli di conoscenza e progettualità quindi che questa installazione comporta sono, a nostro avviso, radicati in una idea dell’architettura profondamente dinamica: non tanto per un gusto di virtuosismo nell’animazione robotica, quanto per aver incorporato in essa la consapevolezza che ogni atto progettuale è un atto dinamico, non calato certamente dall’alto, socievole più che indifferente, il cui successo sembrerebbe proprio essere basato sulla capacità degli artefatti di saper dialogare con l’ecosistema in cui vengono costruiti, raggiungendo dei livelli nella performance sempre più complessi e ricchi. L’ecologia quindi nella visione di questi studiosi e sperimentatori anglosassoni certamente non è solo la virtù del materiale vegetale, ma soprattutto il pensiero che si formula sulle molteplici relazioni fra gli elementi viventi e inerti che formano un ambiente. Di fatto sebbene da una prospettiva diversa e con un apparato teorico basato sul concetto di protoarchitecture, il lavoro di Robert Sheil, professore della Unit 23 ancora alla Bartlett, e membro del gruppo Sixteen*(makers), sembra approdare a delle necessità di interazione e prototipazione analoghe a quelle finora esaminate. Cosa ci fanno, infatti, degli strani oggetti nella romantica e piovigginosa campagna inglese? Non siamo proprio nello Yorkshire, bensì a Kielder in Northumbria, UK. Tuttavia Emily Brönte, o uno dei suoi personaggi, potrebbe benissimo essere passato da queste parti: il clima estremamente variabile da umido a piovigginoso, con qualche squarcio raro di sole, e soprattutto intervallato dalle memorabili striature di vento, è ancora quello, ma troviamo non solo l’erica, non solo la foresta che cinge la brughiera, piuttosto una strana colonia metallica distribuita nel prato e con una sorta di testa che si muove nello spazio. Infatti questa colonia di artefatti funziona attraverso l’interazione con il clima. Ma procediamo con ordine: nel 2003 Sixteen*(makers) si sono aggiudicati una architecture residency da The Art and Architecture Partnership at Kielder (AAPK). Più che aspettarsi l’esito di un edificio, l’obiettivo era quello di esplorare il possibile campo d’azione per un’architettura in quel luogo. Così, come scrive Bob Sheil, sarebbe stato chiaro ben presto che il ruolo di un sito di eccezione del genere avrebbe suggerito una ricerca nella quale capire come la natura del luogo, inteso come insieme di processi ecologici, quindi come contesto, avrebbe potuto informare le scelte della rappresentazione e della realizzazione, nonché i loro campi di reciproca intersezione, a metà fra le pratiche analogiche del design e quelle digitali. Si arriva così a immaginare una pratica che potremmo definire design per sondaggio. Infatti gli artefatti sono in realtà delle sonde il cui obiettivo è quello di raccogliere i dati microambientali durante il tempo, misurandone più che le caratteristiche statiche a un dato tempo, le differenze fra gli stati stessi. Alimentate a energia solare, le sonde non solo eseguono il monitoraggio dei dati ma dimostrano un comportamento reagente: si aprono quando il clima è caldo e soleggiato, si chiudono quando è nuvoloso e freddo. Ma ciò che sembra essere davvero importante sono le conseguenze del metodo di indagine proposto: misurare le differenze lungo il tempo piuttosto che una condizione statica apre la strada a un pensiero progettuale che potrebbe essere fondato sui processi dinamici dai quali un sito emerga come realtà, più che su un’immagine congelata di esso. Allo stesso tempo un’analisi dinamica potrà costituire in futuro una valida base nella scelta di contesti potenzialmente idonei o meno a un insediamento. L’analisi in un certo senso restituisce una carta i cui dati descrivono una realtà comportamentale del contesto. Infine la restituzione di questi processi può essere incrociata con i pattern relativi al comportamento dei visitatori sul sito: se l’artefatto è aperto quando il clima è soleggiato, ed è chiuso quando c’è cattivo tempo, questo modello comportamentale di architettura reagente intercetta con buona approssimazione i picchi e le depressioni del pattern relativo alla presenza e all’assenza dei visitatori. Ciò che però ci interessa ancora di più sottolineare sono le stesse metodologie che il team di Sheil ha sviluppato. L’interesse per i concetti di simulazione e realtà ha innescato delle metodologie progettuali. Infatti all’inizio i modelli sono stati animati sulla base dei dati raccolti nel sito esclusivamente in ambiente digitale, ottenendo così una sorta di anteprima ideale. Successivamente le sonde reali sono state installate sul sito, e il loro comportamento dinamico è stato catturato da alcune fotocamere ad alta risoluzione programmate a intervalli di tempo. Attraverso un software di restituzione fotogrammetrica è stato ottenuto un nuovo modello dalla realtà animato, generando in tal modo una sorta di quella che Sheil definisce una trasgressione fra i due mondi analogico/digitale. Il comportamento di questo modello, infatti, se comparato a quello ideale ottenuto dalla simulazione e caricato con gli stessi dati mostra che le deviazioni fra reale e ideale potrebbero costituire dei feedback, sul quale basare dei metodi di progettazione evolutiva per successive generazioni. Come ci tiene a segnalare Sheil, il design evolutivo si è sempre concentrato sul versante computazionale, e quindi sull’ambiente digitale; un incrocio fra analogo e digitale, ovvero ciò che Sheil inscrive nella sua teoria della protoarchitecture, potrebbe di fatto costituire un nuovo campo di ricerca. Post digitale è un termine di cui forse si farebbe volentieri a meno, se non fosse che ricorre in molte delle riflessioni e degli scritti di coloro che continuano a lavorare intorno alla capacità di computazione applicata al progetto, sia in fase di ideazione sia di realizzazione, e che a ben vedere vogliono evidenziare proprio l’entrata in una fase più matura della Rivoluzione Informatica, dove il dato e le sue convenzioni non solo diventano informazione, ma sono fisicamente incorporati nei prototipi che si realizzano e che su quei dati organizzano fini interazioni e comportamenti degli ecosistemi di cui fanno parte. Sixteen*(makers), Kielder Forest, Northumbria, 2005, credits: Sixteen*(makers) 81 pazi pubblici mediter ranei S Spazio, tempo e IT di Marcella Del Signore e Antonino Saggio Museo itinerante, M. Fatica e F. Guevara 82 Gli spazi pubblici sono una parte decisiva del tessuto urbano e funzionano allo stesso tempo come luoghi di connessione e di sosta. Per loro natura presentano una intrinseca, naturale componente di interattività. Componente che può essere sviluppata in nuove direzioni quando due concetti chiave si inseriscono nel progetto. Da una parte la presenza catalizzatrice dell’informatica, dall’altra la ricerca di situazioni di crisi, di difficoltà, addirittura di emergenza. Spazio pubblico, informatica e situazioni di crisi per miscelarsi in maniera propositiva hanno bisogno di un vero e proprio “salto” rispetto alla realtà. Un salto che è progettuale, programmatico, tecnologico, immaginifico. Quando il salto riesce la strada è aperta a progetti che acquistano contemporaneamente senso dal punto di vista della rivalorizzazione ambientale, dal punto di vista squisitamente economico e spesso anche da quello sociale. Tutto questo è particolarmente forte quando si opera in situazioni come quelle di molti paesi del Sud che hanno da una parte enormi risorse ambientali e storiche e dall’altra situazioni di degrado, di difficoltà, di depauperamento molto forti. Com’è possibile di conseguenza ideare nuovi scenari urbani dove gli spazi pubblici diventino elemento primario di rivitalizzazione dell’intera città? Qual è il ruolo specifico che l’information technology riveste? Come il tempo e lo spazio possono essere materie principali di ricerca? Come e quali forme possono esse- re immaginate per interventi urbani sia permanenti che temporanei in situazioni fortemente legate al territorio e alla sua geografia e alla sua storia? Queste sono state le sfide del workshop svolto al SicilyLab nel settembre 2009 nel paese di Gioiosa Marea, nella costa tirrenica del messinese. Ospitato dal gruppo Nitro, il workshop – diretto da chi scrive e dal prof. Bruce Goodwain, della Tulane University – ha visto la presenza dei critici Gernot Riether e Anders Hermund e di un nutrito gruppo di partecipanti dalla Tulane di New Orleans e dall’Università “La Sapienza” di Roma. Tutti insieme hanno immaginato interventi plug-in dove la città esistente è il substrato operativo per una serie di innesti progettuali. Sono state identificate tre macroaree di studio, le due occidentale e orientale segnate dai (tristemente famosi di questi tempi) ripidi torrenti siciliani e una centrale che collega la montagna in cui si erge l’originario insediamento di Gioiosa Guardia e il mare. All’interno di ciascuna macroarea ogni gruppo di designer ha individuato sottoaree e condizioni di crisi da re-immaginare. Bishop, Sen Gupta, Jordan e Wirthlin hanno reinterpretato l’idea del sedimento trasportato dalla montagna al mare immaginando un sistema capace di prendere informazioni sia fisiche che virtuali in un luogo e depositarlo in un altro. Il loro progetto si focalizza sull’intera macroarea centrale della città prendendo in considerazione la fascia che va dalla zona archeologica nelle zona del vecchio centro abbandonato nel XVIII secolo fino al mare. L’intervento gioca sull’idea di disegnare prima un sistema globale per l’intera area e poi un sottosistema di microinterventi locali. La metafora del flusso di dati legati alle caratteristiche del luogo e al torrente viene materializzato in una infrastruttura fisica costituita da nodi, o spazi pubblici dove l’informazione viene metaforicamente depositata per generare modificazioni fisiche attraverso una serie di installazioni nelle piazze, piazzette e scalinate di Gioiosa. Albanese, Dyer, Franklin e Muni lavorano in una delle aree al bordo della città, dove il torrente che va al mare ha solcato profondamente il territorio lasciando un suolo di risulta completamente disconnesso con il resto dell’abitato. Il loro intervento ha lo scopo di usare il torrente come risorsa e come luogo di espansione per nuove attività. La nuova forma urbana si ramifica e invade aree non utilizzate generando nuovi luoghi e usi. La serie di fasce che generano la morfologia dell’intervento viene poi programmata in funzione di attività specifiche, soprattutto per un festival agroalimentare che avrebbe grandi possibilità di successo in questo contesto. Farinella e Kelley, invece, studiano la grotta preistorica del Tono, localizzata tra il mare e il centro cittadino. Nel loro progetto il suono diviene tema di ricerca. Per risolvere la mancanza di vita notturna nella città di Gioiosa, una esigenza molto sentita dai giovani, spazi di incontro vengono disseminati nelle principali piazze del paese con una serie di forme scultoree flessibili, capaci di chiudersi durante il giorno e aprirsi di notte. Questi bistrot elettronici e interattivi diventano altre parti di suoni provenienti da un’altra area della città. In particolare il suono del passaggio del treno viene captato e mandato all’interno della grotta del tono che è una naturale cassa di risonanza armonica. L’output sonoro viene poi rimixato e ri-proiettato all’interno della città attraverso appunto qquesti bistrot elettronici, vere e proprie nuove strutture ibride della contemporaneità un po’ chioschi, un po’ sculture, e un po’ altoparlanti, capaci via wi-fi e bluetooth anche di generare un network locale di scambio di informazioni. Burke e Finley, invece, focalizzano l’attenzione su un’area di limite nella parte ovest della città, dove il letto del torrente è spesso occu- pato dai rifiuti. Il torrente si trova in un’area che ha la potenzialità di essere recuperata e usata come spazio pubblico ai margini urbani. Il progetto trasforma il sito e organizza il programma sotto forma di gioco dove l’utente è l’artefice e il costruttore dello spazio. L’idea ruota attorno a un’installazione che ha il potere di educare e promuovere il riciclaggio per i residenti di Gioiosa. Il singolo utente partecipa al sistema di riciclaggio e l’input di questa azione viene trasformato in output luminoso capace di generare diverse condizioni di luce nel nuovo paesaggio costruito. In questo modo lo spazio stesso cambia continuamente e diventa forma urbana interattiva. Il lavoro di Fatica e Guevara ipotizza delle microsituazioni urbane per la ricollocazione dei reperti storici e archeologici che vengono inseriti direttamente negli spazi della cittadina piuttosto che chiusi a chiave in un piccolo ambito municipale, mentre Nourse e Wooley creano una sorta di panca interattiva (sponsorizzata dalle persone originarie di Gioiosa che lavorano in altre parti del mondo) che si inserisce negli spazi pubblici attivando situazioni impreviste, colorate, interattive. Greco, Ryan e Sartinsky disegnano un piccolo porto turistico che ospita anche un museo della mattanza, ma vista dal punto di vista del pesce. Museo e Marina della Tonnara, L. Greco, M. Ryan e L. Sartinsky Suoni e nuovi luoghi urbani, C. Farinella e R. Kelley 83 Museo itinerante, M. Fatica e F. Guevara Flussi di informazioni e installazioni urbane, Z. Bishop, Z. Jordan , B. Sen Gupta e L. Wirthlin E pensando all’information technology come alla tonnara della frazione di San Giorgio è abbastanza immediato immaginare le grandi potenzialità del tema. I progetti visti nel loro insieme portano a mettere in discussione forme e strumenti tradizionali del progettare. In questo contesto l’infor- 84 mation technology può presentare un modo di appropriazione della città che propone un accesso anche dal basso alla cultura della progettazione urbana. Questi interventi attivano processi, programmi, risorse cercando luoghi di intrusione dove innestarsi per far crescere una cultura attiva e alternativa. a cura di Enrico Carbone spazio sport La foto documenta lo stato di degrado del pavimento musivo della piscina del Foro Italico a Roma, inaugurata il 16 maggio 1937. I mosaici furono realizzati dalla Scuola del Mosaico di Spilimbergo su disegno di Giulio Rosso, in marmo Bianco apuano e Nero di Varenna n.33 - 34 2009 86 Il risanamento artistico dei mosaici In una pubblicazione propagandistica del 1937, Lo sport fascista e la razza, Camillo Barbarito sottolineava la funzione sociale che il regime attribuiva alla pratica sportiva: «Il Regime non solo ha visto nello sport l’alto valore educativo, sia per i singoli individui sia per le masse, ma ne ha capito anche l’importanza nel senso equilibratore fra i diversi strati sociali, nel senso cioè che riesce ad avvicinare ricchi e poveri, impiegati e artigiani, professionisti e contadini». Sotto lo slogan “Il Duce è il primo sportivo d’Italia” – esempio del “perfetto atleta”, era nuotatore, pugile, cavallerizzo, tennista, aviatore, sciatore – e allo scopo di addestrare i giovani dell’intera nazione all’esercizio sportivo, nel 1926 era nata l’Opera Nazionale Balilla (ONB) che, guidata dal gerarca Renato Ricci, aveva dato inizio a un ambizioso progetto in cui le finalità pedagogiche erano perseguite attraverso un organico programma architettonico, che prevedeva la costruzione di Case del Balilla in ogni città. In questi luoghi architettonicamente all’avanguardia, avveniva la preparazione dei giovani, «fisicamente e moralmente, in guisa di renderli degni della nuova norma di vita italiana», come recitava il regolamento applicativo dell’ONB.Allo scopo, venne creata la Scuola Superiore di Educazione Fisica,che – scrive Barbarito – «prepara ogni anno centinaia di giovani dal petto quadrato e dal viso allegro che, dopo aver temprato i muscoli e la mente nelle palestre, nelle piste, negli stadi e nelle aule della grandiosa Accademia, bianca di marmi e verde di pini e di alloro, si spargono nella penisola per fare dei ragazzi e dei giovani d’Italia dei veri soldati». In questo contesto, era maturata nel 1927 l’idea di creare a Roma una cittadella dello sport, che, dichiarò Ricci, all’inizio prevedeva soltanto la costruzione di una «moderna scuola di insegnanti di educazione fisica con annesso uno stadio per le esercitazioni degli allievi». Il progetto fu affidato a Enrico Del Debbio, che già nel 1928 pubblicava un manuale in cui forniva modelli di palestre e Case del Balilla indirizzati agli architetti chiamati a collaborare in ogni parte d’Italia.Il complesso romano divenne imponente, e il 4 novembre 1932 fu inaugurata parte del Foro Mussolini, che – scriveva nel 1933 Mario Paniconi – «si può riallacciare per ricchezza di marmi, per opere d’arte, per grandiosità di linee ai più solenni monumenti dell’antichità romana». Il suo ingresso è platealmente segnato dall’obelisco eretto nel 1932, anno in cui giunse a destinazione dopo un viaggio iniziato alle cave di Carrara, e proseguito per mare e lungo il Tevere: un’impresa titanica che l’ONB celebrò con la pubblicazione nel 1934 di un volume illustrato da Alfredo Furiga. Nel Foro, trovano posto architetture disegnate da Del Debbio, Luigi Moretti, Costantino Costantini. Improntato alla romanità imperiale è lo scenografico Stadio dei Marmi (1927-1932) di Del Debbio, in cui scultura e architettura sono chiamate a dialogare attraverso i 60 nudi virili (uno per ogni provincia italiana) in marmo di Carrara che dominano l’emiciclo; più rigorosa ed essenziale è la Casa delle Armi (1934-1936) di Luigi Moretti, autore anche, nel 1937, del Viale I mosaici che circondano la piscina coperta sono stati realizzati dalla Scuola del Mosaico di Spilimbergo e sono un esempio notevole di quella riscoperta delle antiche tecniche romane – mosaico ed encausto – che caratterizzò molta arte decorativa del Ventennio, ispirata anche dagli scavi di complessi archeologici. La Scuola di Spilimbergo era nel campo musivo un’eccellenza, sia come luogo di formazione che come produzione, con committenze che si estendevano fino in Asia: nata nel 1922, era stata premiata con medaglia d’oro alla Prima Biennale di Monza per la decorazione di una fontana a Udine progettata dall’architetto Raimondo Dettaglio dello stato di erosione delle tessere in marmo bianco e delle malte sovrammesse Visione d’insieme durante l’intervento, con tassello indicatore dello stato di degrado dell’Impero, decorato da un tappeto musivo in bianco e nero. Si devono a Costantino Costantini l’edificio con una piscina coperta e una scoperta, l’auditorium e gli alloggi degli atleti:i lavori iniziarono il 23 maggio 1933 e questa parte del complesso fu inaugurata da Mussolini il 16 maggio 1937,prima del completamento dell’auditorium, iniziato nell’aprile 1935. Costantini (Oneglia, 1904 - Milano, 1982), laureato in ingegneria al Politecnico di Torino e poi in architettura, aveva già realizzato diverse Case del Balilla: nel 1930 era stata inaugurata quella di Biella, nel 1931 quella di Torino a Piazza Bernini, nel 1933 quelle di Mantova e Pinerolo. Mentre lavora a Roma nel complesso del Foro, sono portate a termine nel 1934 la Casa del Balilla di Mondovì e quella rionale di Via Guastalla a Torino, nel 1936 quella di Chiasso; un edificio stupefacente, la Casa del Marinaretto, a forma di nave, eretta in Corso Sicilia a Torino, viene inaugurata da Ricci nel novembre del 1935 e sarà demolita nel 1961. L’ingegnere aveva iniziato la sua attività romana partecipando nel 1931 al concorso indetto per l’erezione dell’obelisco Mussolini, che vinse proponendo una serie di soluzioni altamente tecnologiche per la messa in opera del monolite.Da quell’esperienza giunsero gli altri incarichi.Anche le piscine da lui progettate sono un esempio di connubio tra architettura e decorazione, e a realizzare i mosaici furono Angelo Canevari e Giulio Rosso, autori anche – insieme a Gino Severini e Achille Capizzano –, nel 1938-1939, dei mosaici pavimentali lungo il Viale dell’Impero e attorno alla Fontana della Sfera. Fauna marina, particolare prima dell’intervento d’Aronco, nel 1932 aveva realizzato un mosaico pavimentale per il caffè concerto di Shanghai, e negli anni ’30 realizza tutte le opere musive del Foro Mussolini. I disegni per i mosaici perimetrali della piscina sono di Giulio Rosso (Firenze, 1897 - San Paolo del Brasile, 1976), che si era formato all’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la guida di Galileo Chini, artista di fama internazionale, chiamato anche alla corte di Bangkok dal re del Siam. Rosso negli anni Trenta era insegnante di decorazione pittorica nel Reale n.33 - 34 2009 87 Fauna marina, particolare dopo l’intervento Vista della piscina coperta dello Stadio del Nuoto n.33 - 34 2009 88 Museo Artistico Industriale di Roma, e in città lasciò numerosi interventi,dagli affreschi nel piacentiniano Teatro Savoia, ai pannelli nel Teatro Quirinetta, alla facciata del Palazzo Coppedè, fino ai pavimenti in mosaico della stazione ferroviaria Roma-Ostia, con immagini che narrano la storia di Roma, dai primordi alla fondazione dell’impero fascista. I mosaici della piscina del Foro Italico formano un tappeto optical, una sequenza di immagini in bianco e nero che rappresentano giganteschi e piccoli animali acquatici: crostacei, molluschi,murene,conchiglie e testuggini,tutti in tessere nere, incontrano nei loro percorsi subacquei animali fantastici e muscolosi nuotatori dal volto squadrato. Una fauna che sembra tratta dal vasto repertorio di decorazioni musive tardo-imperiali allora riportate in luce. La realizzazione dell’intervento Le ripartizioni del tessuto musivo, riconoscibili in più punti, fanno pensare che l’opera sia stata realizzata con la tecnica, che si sviluppa proprio nei primi decenni del Novecento, del “supporto provvisorio”, che consiste nel “bendaggio” della superficie musiva, con un sistema di garze, “tarlatana”, che vengono incollate; questo consente di realizzare il mosaico in laboratorio su un piano provvisorio, e di asportare poi la porzione realizzata in blocco e “impiantarla” definitivamente in situ. Di particolare interesse è la lavorazione delle singole tessere che sono di dimensione e altezza variabile e presentano i quattro lati della faccia a vista leggermente smussati: la superficie risulta così discontinua, presumibilmente per evitare scivolamenti su una pavimentazione troppo liscia e per favorire il deflusso dell’acqua verso i chiusini. Nonostante la valenza artistica e decorativa,questo pavimento musivo,come quello della piscina pensile,di dimensioni più ridotte è riservata ai bambini, con giocose rappresentazioni adatte alla destinazione, viene calpestato quotidianamente e continuamente bagnato dall’acqua, e sottoposto a consistenti stress di varia natura, ambientali, chimici, fisici, biologici, antropici, che sono causa del suo progressivo degrado. In occasione dell’intervento di manutenzione conservativa, realizzato da chi scrive, nel periodo da gennaio a giugno 2009, sono stati effettuati dei prelievi di tessere, bianche e nere, di malta e di acqua della piscina per indagini diagnostiche conoscitive, al fine di determinare la composizione del materiale lapideo costitutivo, delle diverse malte di allettamento e delle caratteristiche dell’acqua. I risultati delle indagini hanno consentito di determinare le caratteristiche morfologiche dei marmi utilizzati, Bianco apuano e Nero di Varenna, di rilevare le caratteristiche porosimetriche e il conseguente assorbimento d’acqua, lento e graduale per le tessere lapidee, molto più rapido per le malte cementizie, la scarsa presenza di sali solubili all’interno di tessere e malte, i diffusi fenomeni di dissoluzione chimica comunque limitata nella profondità,e i fenomeni di microabrasione meccanica superficiale. Tra le cause più rilevanti del degrado vanno segnalati: l’esposizione del lato sud dove ampie vetrate consentono un forte irraggiamento solare, responsabile di un più accentuato fenomeno di dilatazione, contrazione, ritiro e decoesione delle tessere, soprattutto quelle bianche; gli elevati valori di grandezza fisica quali l’umidità relativa e la temperatura, potenziali responsabili dello sviluppo di microrganismi;l’uso di sostanze disinfettanti, il cloro, particolarmente aggressive per i materiali a matrice carbonato-calcica, come sono le tessere del mosaico; lo scarso funzionamento dei tombini per il deflusso dell’acqua in eccesso, che favorisce zone di ristagno e quindi di maggior interazione acqua-pietra delle tessere; varie “riparazioni” e adeguamenti realizzati nel tempo con l’inserimento di elementi non pertinenti; il quotidiano spostamento e trascinamento di attrezzature sportive (le porte per la pallanuoto, trampolini mobili, carrelli per il recupero dei delimitatori di corsia), con conseguente usura delle tessere. Vista l’impossibilità di sospendere le attività sportive, l’intervento è stato attuato progressivamente su settori delimitati, porzione per porzione, sino a coprire l’intera pavi- a) Aspetti microstrutturali e morfologici di superficie di uno dei prelievi di tessere lapidee bianche (tal quale), in cui si osserva una spiccata decoesione intercristallina b) Sezione sottile stratigrafica del campione di tessera lapidea bianca (foto a) – marmo s.s., Bianco apuano – al passaggio con la malta granulare di allettamento (in basso); si denota la perfetta adesione e l’integrità dell’interfaccia (illuminazione trasmessa, ob. 4x, pol //) c) Aspetti microstrutturali e morfologici di superficie di uno dei prelievi di tessere lapidee nere (tal quale), in cui si osserva una spiccata coesione e levigatura superficiale oltre a un allineamento di microfessure comunque riempite da precipitati cristallini biancastri, propri della roccia d) Sezione sottile stratigrafica del campione di tessera lapidea nera (calcare carboniosobituminoso, Nero di Varenna), con il dettaglio della matrice calcitica biancastra ricristallizzata e le plaghe carbonionebituminose (nere) incluse nella massa carbonatica; si denota la perfetta integrità e la lineazione interna del materiale (illuminazione trasmessa, ob. 30x, pol //) e) Aspetti microstrutturali e morfologici di superficie di uno dei prelievi di malta (tal quale) tra le tessere lapidee in cui si osserva una spiccata decoesione e fessurazione nella compagine granulare mentazione. Una generale operazione di pulitura meccanica e chimica ha interessato l’intera superficie del mosaico, sono stati rimossi depositi superficiali incoerenti, le sostanze organiche, residui di vernice e sostanze bituminose. I limitati distacchi di tessere sono stati fatti riaderire con iniezioni localizzate di malta premiscelata specifica, dopo aver pulito e rese agibili le vie di scorrimento della malta. Le colonie di microrganismi sono state eliminate mediante l’applicazione di biocidi e una successiva azione meccanica. Ripetuti lavaggi con acqua demineralizzata hanno eliminato la presenza dei sali solubili; nell’ambito di questa operazione è stata verificata la conducibilità dell’acqua prima e dopo le operazioni di lavaggio, ottenendo la conferma conduttimetrica dell’allontanamento delle specie ioniche. L’intervento più incisivo ha interessato l’abbassamento e, in alcune zone, la rimozione di malte molto tenaci, applicate in alcune parti del mosaico successivamente alla sua realizzazione; l’intento era quello di riempire gli interstizi tra le varie tessere che col tempo si sono erose maggiormente, mentre le malte si sono rivelate molto più tenaci delle tessere stesse. A distanza di tempo, quindi, la malta, pur non svolgendo più alcuna azione meccanica o statica (le tessere sono saldamente ancorate al supporto), sopravanzava il mosaico stesso rendendolo esteticamente illeggibile. Le piccole tamponature di riempimento realizzate con cemento bianco e resine sono state rimosse, i vuoti risultanti sono stati stuccati con una malta composta da calce idraulica,pozzolana setacciata e polveri di marmo di varia cromia e granulometria. Con la stessa malta sono state anche risarcite le fessurazioni che attraversavano il mosaico. La stesura di un protettivo con caratteristiche traspiranti ha concluso le varie fasi dell’operazione di recupero. Dei 24 chiusini in ottone disposti lungo il perimetro della vasca, soltanto uno è nelle condizioni originarie, mentre gli altri sono stati evidentemente resecati perché il loro livello, più alto del piano pavimentale, non consentiva un deflusso regolare dell’acqua, come è possibile verificare anche dalle zone erose del pavimento che seguono le vie preferenziali di scorrimento, tutti erano privi del raccordo nella tubatura. Sei chiusini erano stati sostituiti con modelli diversi dagli originali e in questa occasione si è ritenuto opportuno realizzare sei copie in ottone con tecnica di fusione “a staffa”, opportunamente patinate, e realizzare i 23 raccordi mancanti, dotati di innesto a baionetta per l’apertura e la chiusura dei tombini. Ora, questa preziosa “pittura di pietra” riportata a uno stato estetico e di conservazione soddisfacente,molto vicino all’originale, mostra un leggibile e fantastico repertorio di fauna e mitologia che comunque necessiterà sempre di un attento monitoraggio e di un puntuale programma di manutenzione. Giorgio Mori Scheda dell’intervento f) Sezione sottile stratigrafica del campione di malta tra le tessere lapidee, analoga alla precedente (foto e), in cui si denota la struttura macrogranulare polimineralica (silicopozzolanica a legante cementizio) oltre a estesi fenomeni di fessurazioni sia interni sia verso la superficie (illuminazione trasmessa, ob. 4x, pol //) Periodo: gennaio-giugno 2009 Ditta esecutrice: Giorgio Mori Conservazione e Restauro Beni Culturali, Roma Direzione dei lavori: Stefano Pedullà di CONI Servizi SpA, Roma Assistenza alla direzione lavori: Stefano Craia Alta Sorveglianza Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per il Comune di Roma: Federica Galloni Direttore tecnico dei lavori: Giorgio Mori Assistenti al restauro: Lorenzo Clementi, Giorgio Pierotti, Chiara Tamburrini, Stefano Vannozzi Progettazione dell’intervento: Studio di Restauro Angelucci Sas di Stefano Lanuti & C., Roma Indagini diagnostiche: Paolo Saturno di Laboconsult Srl, Roma Documentazione fotografica: Sario Manicone, Roma n.33 - 34 2009 89 Vista da nord di una parte dell’inter vento di housing a Osuna, Siviglia (1991), Pilar Alberich Sotomayor e Jaime Lopez De Asiain con Seminario de Arquitectura y Medioambiente (SAMA) Sotto: vista da est dell’housing a Osuna Quale architettura “passiva” per i climi mediterranei? D tecnologia e materiali a alcuni anni il modello di casa a basso consumo energetico dominante in Europa è quello della Passivhaus. Si tratta di un modello che è stato concepito per i climi temperati-freddi – rispetto ai quali si presta particolarmente bene al contenimento dei consumi energetici per il riscaldamento – e che solo successivamente ha visto dei tentativi di importazione nei climi temperati-miti. Le caratteristiche principali di tale modello sono il superisolamento termico e il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria. n.33-34 2009 90 Tra queste due caratteristiche, è la prima a generare l’esigenza della seconda. È cioè il superisolamento termico la condizione senza la quale non è possibile ridurre fortemente le dispersioni termiche verso l’ambiente esterno; e questo per il fatto che in un edificio ordinario la maggior parte delle dispersioni termiche verso l’ambiente esterno avviene per trasmissione attraverso l’involucro edilizio. Inoltre è sempre il superisolamento termico la condizione che rende interessante il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria. Mentre in un edificio ordinario, infatti, le infiltrazioni d’aria – poniamo, di entità superiore a 0,6 ach (ricambi d’aria/ora) – corrispondono a una parte secondaria delle dispersioni termiche invernali complessive, negli edifici superisolati le infiltrazioni corrispondono a una parte rilevante (che vale, insomma, la pena di ridurre) delle dispersioni invernali complessive. Il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria si scontra però con la necessità di garantire un ricambio d’aria sufficiente a evacuare l’umidità prodotta dalle persone nei vani; necessità che in una Passivhaus genera sia l’esigenza di adottare strategie di ventilazione forzata con recupero del calore, sia l’importante conseguenza di rendere controproducente l’apertura delle finestre nella stagione estiva (cosa che va in senso molto contrario alle abitudini degli abitanti nei climi temperati-miti, tra cui quelli italiani). Le due citate caratteristiche distintive del modello Passivhaus (superisolamento termico e impervietà all’aria) e la citata caratteristica da esse indotta (ventilazione forzata con recupero del calore) incoraggiano, a loro volta: l’adozione di strategie di climatizzazione forzata ad aria (essendo la ventilazione forzata già comunque presente); la combinazione di tali sistemi di climatizzazione forzata con pompe di calore e con scambiatori di calore terra-aria, ed eventualmente con pannelli solari ad acqua;e in ogni caso l’impiego di pannelli fotovoltaici per l’alimentazione degli impianti attivi. Tutto ciò contribuisce a fare sì che l’inerzia termica propria della costruzione in una Passivhaus ordinaria sia usualmente poco importante. E questo in gran parte perché in tale tipo di edificio gli impianti si fanno carico di supplire all’eventuale scarsa inerzia termica delle parti di costruzione: sia perché il sistema formato dagli scambiatori di calore e dalle pompe di calore consente uno sfruttamento indiretto dell’inerzia termica del terreno ai fini del riscaldamento e del raffrescamento, sia perché l’impianto solare ad acqua è in genere dotato di una propria consistente massa d’acqua, di elevata inerzia termica, utile perlomeno in relazione al riscaldamento invernale.Tale insieme di condizioni – appunto, climatizzazione ad aria abbinata alle pompe di calore e combinata con una scarsa inerzia termica – nel quadro descritto costituisce un ulteriore vantaggio, poiché rende agevole controllare la temperatura delle superfici attraverso l’aria e rende conveniente fare fronte ai picchi termici giornalieri attraverso gli impianti. Come contropartita, le soluzioni impiantistiche descritte richiedono un investimento energetico a monte della costruzione che si può supporre molto rilevante, ma che allo stato attuale è ancora difficile quantificare con precisione e al quale oggi non viene, purtroppo, usualmente attribuito un peso rilevante da un punto di vista decisionale nella definizione dei progetti. Non sono comunque solo le soluzioni impiantistiche incoraggiate dal modello Passivhaus a fare sì che nei climi freddi l’inerzia termica propria della costruzione non risulti molto importante ai fini del controllo climatico: sono le caratteristiche stesse dei climi in questione, per il fatto che in inverno la differenza di temperatura tra ambiente esterno e vani vi risulta molto elevata. Si tratta di una situazione che rende meno cruciale l’inerzia termica anche nei casi in cui non siano presenti impianti attivi di climatizzazione. Ciò è confermato dal fatto che le abitazioni tradizionali nei climi nordici o in quelli montani anche italiani sono in genere caratterizzate da soluzioni costruttive “leggere”, prevalentemente basate sull’impiego del legno. È anche interessante notare che importanti presupposti contribuiscono a differenziare il grado di idoneità del modello Passivhaus ai climi temperati-miti, nei quali oggi da più parti si cerca di importarlo, da quello relativo ai climi temperati-freddi. Studio dell’irraggiamento solare (a sinistra) e della ventilazione naturale (a destra) in inverno (in alto) e in estate (in basso) nell’housing a Osuna Innanzi tutto, la necessità di isolamento termico nei climi temperati-miti è inferiore a quella che si verifica nei climi temperati-freddi; nel senso che l’involucro di un edificio superisolato adeguato ai climi temperati-miti necessita di una minore resistenza termica di quello di un edificio superisolato adeguato ai climi temperati-freddi (tra le due situazioni esiste, peraltro, una differenza più che altro quantitativa, che non richiede modifiche qualitative alla concezione degli edifici ai fini del riscaldamento e del raffrescamento passivi). Ma anche la necessità di riduzione delle infiltrazioni d’aria nei climi temperatimiti è inferiore a quella che si presenta nei climi temperati-freddi, in particolare nel caso di edifici dotati di elevata inerzia termica utile questo fatto – ragionevolmente desumibile e da più parti già ragionevolmente affermato – è stato confermato dai recenti esiti della ricerca europea Passive-On, svolta negli ultimi anni).1 Ora: questa differenza è tale da non generare, nelle possibilità, solo variazioni quantitative, ma anche variazioni qualitative. Non tanto perché nei climi temperati-miti ciò renda possibile sottodimensionare gli impianti di climatizzazione forzata e di recupero del calore, ma perché consente di non prevederli del tutto, poiché in tali situazioni se le temperature dell’aria sono meno controllabili le temperature radianti, invece, risultano stabili. O, in altre parole, se nelle stagioni estreme la temperatura dell’aria nei vani può discostarsi in modo anche piuttosto marcato dall’ambito del comfort la temperatura media radiante consente di controbilanciare tale situazione, potendo risultare – in presenza di masse di inerzia termica quantitativamente adeguate e adeguatamente posizionate – più calda di quella dell’aria in inverno (grazie al guadagno solare passivo) e più fresca in estate, in particolare in caso di adozione di strategie di raffrescamento passivo per ventilazione notturna della massa (l’importanza relativa della strategia di raffrescamento per ventilazione notturna della massa si accresce, del resto, per effetto dalla collocazione degli strati termoisolanti sulla faccia esterna della massa termica localizzata in corrispondenza involucro, a causa della riduzione dello scambio termico attraverso l’involucro a cui tale situazione dà luogo). Si tratta di differenze che generano ripercussioni a cascata, tutte originanti dal fatto che l’edificio adeguato ai climi temperati-miti può trarre vantaggio da una elevata inerzia termica e dunque necessita di parti di costruzione “pesanti”. Ciò non implica che tutte le sue parti costruttive debbano essere “pesanti”, ma che lo siano perlomeno alcune di esse – magari i solai, le partizioni, l’involucro esterno o combinazioni di queste possibilità. Tale ipotetico edificio non ha, del resto, neanche bisogno di un sistema di recupero del calore aria-aria. Dunque non ha bisogno di ventilazione forzata. L’impiego di pompe di calore, perciò, in abbinamento alla climatizzazione ad aria non vi è incoraggiato. Dunque vi sono ulteriori motivi per cui non n.33-34 2009 91 Vista da sud-est dell’housing a Hockerton, Regno Unito (1998), Brenda e Robert Vale (foto: Rob Annable) Sotto: Instituto Tecnológico y de Energías Renovables (ITER), Tenerife, Canarie (foto: Jose Mesa, licenza Creative Commons) è necessario perseguire in esso una tenuta all’aria dei serramenti particolarmente elevata. Inoltre l’involucro di questo tipo di costruzione è, certamente, ben termoisolato, ma non è necessario che sia eccezionalmente termoisolato. Il rapporto con il terreno di questo edificio, infine, non è necessariamente mediato da scambiatori di calore, ma può consistere in uno scambio termico diretto, conduttivo. Come conseguenza di tutto ciò, tale edificio può incorporare meno energia nell’isolamento termico e molta meno energia negli impianti rispetto a un edificio basato sul modello Passivhaus. Quello descritto è un edificio low-tech, cioè non è necessariamente molto differente, nelle soluzioni impiantistiche, da un edificio tradizionale, ma che si distingue da esso a livello morfologico e costruttivo specialmente per la sua mar- n.33-34 2009 92 cata esposizione “solare”, per la localizzazione e l’operabilità dei suoi serramenti (che rendono elevata la sua attitudine ad essere ventilato naturalmente, sia di giorno – grazie al vento e per convezione termica – sia di notte – in genere specialmente per convezione termica, a causa della frequente assenza di vento che si verifica in tale periodo della giornata), sia per il fatto di essere più spiccatamente termoisolato in corrispondenza dell’involucro. La possibilità di pensare e costruire un edificio bioclimatico di questo tipo esisteva già prima della comparsa del modello Passivhaus. Del resto, un edificio oggi progettato per sottrazione a partire dal modello Passivhaus, se emendato nel modo appena descritto, non è più, a mio parere, una Passivhaus, ma una casa “bioclimatica” tradizionale. Cioè una casa passiva nella quale è minimizzato il ricorso a impianti. Questo rispetto ai climi italiani è rassicurante e preoccupante nello stesso tempo. Rassicurante perché significa che la realizzazione di edifici a basso consumo energetico non dovrebbe necessariamente comportare significativi aumenti nei costi di costruzione e uno stravolgimento delle soluzioni costruttive che sono oggi nelle corde degli operatori. Preoccupante perché significa che i motivi per cui il modello bioclimatico non ha finora attecchito in Italia sono specialmente culturali, e dunque ancora presenti e persino difficili da individuare con chiarezza. Una parte determinante l’hanno giocata – e probabilmente tuttora la giocano – le condizioni di mitezza della maggior parte dei climi italiani, che sono tali da “perdonare” ai progettisti non poche improprietà. A vantaggio del progettista contemporaneo gioca la sua crescente consapevolezza delle relazioni che legano i fatti relativi alla costruzione con quelli riguardanti il suo comportamento termico. Relazioni che svincolano, nelle possibilità, la casa bioclimatica per i climi temperati-miti da ciò che essa è stata nella storia anche recente. Ad esempio per effetto della ricordata necessità di un più consistente isolamento termico. O per effetto della possibilità di sfruttamento di un intenso scambio termico per contatto diretto tra edificio e terreno, resa a sua volta probabile dall’esistenza di sistemi di impermeabilizzazione più performanti di quelli una volta disponibili. O per effetto della crescente disponibilità, durabilità e operabilità odierna dei sistemi di schermatura solare. O grazie alla maggiore capacità previsionale che oggi si è maturata in merito agli effetti della combinazione della ventilazione da vento e di quella per convezione termica negli edifici. Questo stato di cose mette oggi il progettista operante nei climi temperatimiti nella condizione di poter scegliere se optare per soluzioni bioclimatiche tradizionali o per una soluzione di discontinuità con la consuetudine operativa. L’housing a Osuna (Siviglia) progettato da Pilar Alberich Sotomayor e Jaime Lopez De Asiain con Seminario de Arquitectura y Medioambiente (SAMA) e realizzato nel 1991 è un esempio di intervento bioclimatico contemporaneo nel quale tradizione e innovazione si mescolano producendo come esiti l’ottenimento di bassi consumi energetici e di una elevata qualità ambientale complessiva, avvertibile a livello polisensoriale. Il trattamento progettuale degli edifici e dell’insediamento è infatti qui avvenuto in chiaro riferimento alla tradizione dei Paesi mediterranei, ma introducendo minute e importanti variazioni, come quelle microterritorali mirate all’integrazione bioclimatica delle scale edilizia e urbana, quelle morfologiche mirate allo sfruttamento della ventilazione naturale per effetto camino e da vento (grazie all’attenta distribuzione degli spazi e delle aperture e alla rivisitazione in chiave moderna delle configurazioni a patio o semipatio), e quelle tecnico-costruttive legate all’isolamento dell’involucro, a doppia parete con camera non ventilata e strato termoisolante. L’housing a Hockerton (Regno Unito) progettato da Brenda e Robert Vale e realizzato nel 1998 in autocostruzione da parte dei futuri abitanti è invece un esempio di intervento bioclimatico contemporaneo basato su un’impostazione progettuale che, se supportata da Vista più ravvicinata dell’housing a Hockerton (foto: Rob Annable) Sotto: casa evolutiva esposta nel quadro della biennale dello habitat sostenibile di Grenoble (foto: Pedro38, 2008, licenza Creative Commons) adeguate schermature solari, potrebbe rivelarsi idonea ai climi temperati-miti pur risultando in gran parte di rottura rispetto alla tradizione. Il complesso edilizio, costituito da cinque case a schiera e caratterizzato dalla quasi completa assenza di consumo energetico per il riscaldamento e il raffrescamento, da un punto di vista termico funziona in modo autenticamente passivo, sostanzialmente sul modello delle Earthship, combinando il guadagno solare indiretto, operato attraverso serre, con la presenza di parti di costruzione massive e termoisolate in corrispondenza della faccia esterna dell’involucro, a contatto con il terreno. La relazione termica tra edificio e terreno è in questo caso abbastanza fuori dall’ordinario, per il fatto di non essere gestita da scambiatori terra-aria e da pompe di calore. Un accumulo termico multigiornaliero, con- sentito dalle spessissime masse murarie, si combina qui con un debole scambio termico – e quindi un debole accumulo – stagionale, essendo la comunicazione termica tra edificio e terreno molto ridotta per effetto dello spesso strato termoisolante. Ciò che accomuna gli edifici realizzati a Osuna con quelli di Hockerton è l’adozione di strategie di climatizzazione basate sull’impiego di una consistente massa di inerzia termica collocata, in gran parte, in corrispondenza dell’involucro edilizio. Ma neanche questa condizione risulta oggi una necessità ineludibile per il progettista. La massa termica può, infatti, essere proficuamente collocata in corrispondenza di parti di costruzione alternative, diverse dall’involucro. Questo è un fatto molto importante, perché implica che la possibilità di integrare nella casa mediterranea alcune soluzioni derivanti dalle tendenze più vive leggibili nelle sperimentazioni internazionali degli ultimi anni, come quella della costruzione leggera prefabbricata a secco e quella delle facciate stratificate a secco, non è preclusa. Tale integrazione potrebbe per esempio concretizzarsi con la proposizione di combinazioni – poco usuali nei contesti in oggetto – tra parti edilizie “pesanti” e parti edilizie “leggere”; per esempio attraverso l’abbinamento di involucri “leggeri” e molto termoisolati a parti di costruzio- 1 Il rappor to della ricerca ne (solai e/o partizioni) “pesanti” e di Passive-On è consultabile elevata inerzia termica. sul Web all’indirizzo Un aspetto molto interessante di que- www.passive-on.org sta possibilità è che essa potrebbe aprire al progettista operante in territori n.33-34 dai climi temperati-miti un universo di 2009 soluzioni tecno-tipologiche ancora tutte da scrivere. 93 Gian Luca Brunetti Il programma dei lavori pubblici si distingue in un piano triennale e in un elenco annuale approfondimenti di giurisprudenza a cura di Eugenio Mele La programmazione dei lavori pubblici e il responsabile del procedimento nello schema di regolamento n.33-34 2009 94 Il nuovo regolamento di esecuzione del decreto legislativo n. 163 del 2006 dedica alla programmazione dei lavori pubblici una serie di articoli, e precisamente quelli contraddistinti con i numeri 11, 12 e 13. È evidente che la materiale predisposizione del programma dei lavori pubblici (che, come vedremo, si distingue in un programma triennale e in un elenco annuale) non può nascere, così, a caso o a capriccio, ma deve essere il frutto di uno studio attento, per individuare le esigenze della collettività e gli interventi necessari per dare luogo alla loro concreta e puntuale soddisfazione. Questo anche per evitare che si individuino progetti faraonici, poi improponibili nel concreto svolgersi dell’attività, sia per questioni economiche che per ragioni logistiche. L’art. 11 dello schema di regolamento prevede che le amministrazioni pubbliche possano avvalersi anche di studi di fattibilità predisposti da soggetti privati, ai sensi dell’art. 153, comma 19, del decreto legislativo n. 163 del 2006,1 e prevede il loro inserimento o nel programma triennale ovvero nell’elenco annuale, ma poiché gli studi di fattibilità di cui all’art. 153 del Codice si riferiscono all’intervento del cosiddetto “promotore finanziario” e riguardano, quindi, opere di notevoli dimensioni,2 risulterà abbastanza difficile l’inserimento degli stessi studi di fattibilità nell’elenco annuale. E ciò anche per i tempi che sono specificamente individuati nello stesso comma 19 dell’art. 153. Nel programma triennale ovvero nell’elenco annuale (anche se questo dovrebbe essere lo sviluppo cronistico del programma triennale, affinché quest’ultimo abbia un senso complessivo), possono essere inseriti lavori pubblici soltanto se sia stato elaborato per questi un apposito studio di fattibilità, così come previsto dall’art. 128 del Codice.3 Il programma, come si è detto, è triennale, vale a dire che prevede le opere pubbliche (o, meglio, i lavori pubblici),4 con i relativi stanziamenti, che dovranno essere portati ad esecuzione nei tre successivi esercizi finanziari, corrispondenti ai successivi tre anni solari; il primo anno di tale triennio corrisponde all’elenco annuale, vale a dire ai lavori pubblici che dovranno essere eseguiti durante il primo anno. È evidente che un triennio è lungo e che, ovviamente, durante il corso di un anno possono intervenire esigenze prima non considerate ovvero che esigenze prima poste in rilievo perdano la loro attualità, per cui è opportuno, se non necessario, che il programma triennale debba essere rivisto e aggiornato anno per anno, non solo prevedendo le opere del terzo anno, che ovviamente non erano state indicate, ma anche modificando le altre annualità sulla base delle esigenze medio tempore intervenute. Si domanda, a questo punto, se lavori pubblici non inseriti specificamente nella programmazione (e, in particolare, nell’elenco annuale) possano comunque essere eseguiti. A ciò risponde l’art. 128 del decreto legislativo n. 163 del 2006 che, però, prevede che questi lavori possano, sì, comunque essere eseguiti, ma essi devono avere un autonomo piano finanziario, al di fuori dei meccanismi di previsione, e occorre trovare i necessari fondi, che possono anche derivare da eventuali ribassi d’asta o da economie verificatesi in relazione a gare pubbliche bandite per altre opere. Il programma triennale e l’elenco annuale, essendo indissolubilmente collegati con le risorse finanziarie necessarie per la esecuzione delle opere ivi inserite, vanno formati insieme con i bilanci preventivi – triennale e annuale – e collegati ad essi. Lo schema del programma dei lavori pubblici e quello relativo all’elenco annuale sono predisposti dalle amministrazioni pubbliche competenti entro il 30 settembre di ogni anno, sono adottati entro il 15 ottobre successivo dello stesso anno e vengono approvati insieme con i bilanci di previsione. Si tratta, naturalmente, di termini non perentori e che, relativamente agli enti locali, sono collegati sempre a notevoli ritardi soprattutto per la loro approvazione, in quanto i bilanci di questi enti sono notoriamente approvati con notevole ritardo rispetto al termine prescritto del 31 dicembre di ogni anno. Nello schema medesimo, vanno indicati, innanzitutto, le priorità delle singole esecuzioni di opere pubbliche, ma queste priorità sono di carattere generale, nel senso che se doves- Studio Zagari, isola pedonale di Viale Manzoni, Montegrotto Terme (Padova) sero determinarsi particolari esigenze per dare luogo a esecuzioni di opere pubbliche non rispettando tali priorità, con le opportune motivazioni del caso, le stesse priorità potranno sicuramente essere non rispettate. Vanno, altresì, evidenziate le articolazioni degli interventi, in collegamento con le indicazioni di piano regolatore, i problemi ambientali (risolti), le risorse disponibili e anche (cosa notevolmente importante) i tempi di attuazione dei lavori. Nell’ambito del programma deve essere previsto, per ogni opera pubblica, un accantonamento pari ad almeno il 3% dei n.33-34 2009 95 lavori programmati preventivamente, destinato alla copertura degli accordi bonari, delle transazioni e di ulteriori incentivi per l’accelerazione dei lavori. Il responsabile del procedimento: natura e funzioni Il funzionario responsabile del procedimento è preposto a tutte le fasi relative al contratto della pubblica amministrazione, sia in quella relativa alla predisposizione progettuale (prima anche del cosiddetto “studio di fattibilità”),5 sia in quella procedimentale per la scelta del contraente privato e sia in quella della esecuzione delle prestazioni contrattuali, discendenti dalla stipulazione del contratto. Studio Schiattarella, waterfront di La Spezia In alto: Foreign Office Architects, Yokohama International Port Terminal, Yokohama, Giappone n.33-34 2009 96 Per tale motivo, in passato, esso veniva denominato RUP (responsabile unico del procedimento), proprio perché preposto a tutte e ciascuna delle fasi dell’“iter contrattuale”. Lo stesso funzionario responsabile del procedimento deve essere necessariamente un dipendente di ruolo dell’amministrazione pubblica procedente, vale a dire che il medesimo non può essere un soggetto assunto in via temporanea o in via interinale, e dovrebbe essere escluso, a rigore di logica, anche il soggetto assunto dall’esterno con un contratto di diritto pubblico o di diritto privato. Egli deve essere, altresì, un tecnico, intendendosi per tale un soggetto inserito nei ruoli tecnici e comunque un ingegnere, un architetto, un geometra o un perito edile (o una figura similare), abilitato all’esercizio della relativa professione6 o, quando tale abilitazione non sia normativamente prevista, deve comunque possedere un’anzianità di servizio non inferiore a cinque anni (si intende, nei ruoli tecnici). Il funzionario responsabile del procedimento guida e sovrintende a tutta l’attività relativa all’intervento dell’opera o lavoro pubblico, egli opera in modo che tutta l’attività dell’amministrazione, oltre che dei concorrenti alla gara e dell’affidatario del contratto, sia portata avanti nel migliore e più celere dei modi al fine del raggiungimento delle finalità contrattuali, che sono, naturalmente, quelle di avere l’opera nei tempi previsti e con le caratteristiche e le funzionalità richieste. Lo stesso funzionario responsabile del procedimento ha continui rapporti con il capo della struttura organizzatoria da cui dipende e fornisce allo stesso ogni necessaria informazione sull’andamento del procedimento, ricevendo peraltro da questi le opportune disposizioni.7 Il responsabile del procedimento, per i lavori pubblici il cui importo economico è limitato a 500.000 euro e comunque al di fuori di quelle opere caratterizzate da alta specialità, può anche essere officiato di attività di progettazione e di direzione dei lavori. Sempre entro tali limiti il responsabile del procedimento può essere il capo della struttura a cui pertiene il lavoro, a prescindere, evidentemente, dai requisiti sopra indicati (l’essere un tecnico e, forse, anche l’essere un dipendente di ruolo dell’amministrazione procedente). I compiti attribuiti al funzionario responsabile del procedimento sono molteplici. Fra essi si ricordano i seguenti: - promuove e sovrintende a tutti gli accertamenti per verificare la corretta fattibilità dell’opera, ivi compresi gli accertamenti relativi alla compatibilità urbanistica e ambientale; - verifica la impossibilità di procedere alla progettazione richiesta con personale tecnico all’interno della struttura e stabilisce quando la progettazione sia affidata all’esterno dell’ente; - verifica che i progetti – preliminare, definitivo ed esecutivo – siano coerenti con il documento preliminare alla progettazione dallo stesso preliminarmente predisposto; - propone all’amministrazione procedente il sistema di affidamento della gara e garantisce che la pubblicità, nei termini previsti, abbia effettivamente corso; - richiede all’amministrazione la nomina della commissione aggiudicatrice (o della commissione giudicatrice in caso di appalto-concorso), individuando le relative professionalità, nel caso di aggiudicazione con il metodo dell’offerta economicamente più conveniente; - dà luogo alla istituzione e alla costituzione dell’ufficio di direzione dei lavori e coordina l’attività operativa dello stesso, impartendo le opportune disposizioni, sia che si tratti di un ufficio monocratico (direttore dei lavori) che di un ufficio complesso;8 - verifica, certificandola,9 la carenza dell’organico interno e, conseguentemente, propone la nomina dei collaudatori dell’opera dall’esterno (compreso il collaudatore statico); nel caso, poi, sempre per l’inadeguatezza dell’organico,10 non vi sia idoneo personale di supporto alle attività del responsabile del procedimento, questi può richiedere l’affidamento a personale esterno delle attività di supporto; - verifica, per ogni stadio del progetto (preliminare, definitivo ed esecutivo) che questo corrisponda alla normativa vigente, al documento preliminare dallo stesso redatto e ai presupposti tecnici, amministrativi e finanziari al fine della sua proseguibilità.Va rilevato, in proposito, che, salvo il caso di errori gravi e immediatamente riscontrabili, la verifica della rispondenza del progetto è limitata alla corrispondenza del progetto stesso al documento preliminare, esclusa ogni invasione sui termini tecnici della redazione del medesimo; - predispone gli atti necessari per la eventuale conferenza dei servizi, preoccupandosi di tutti gli incombenti relativi; - sovrintende alla corretta realizzazione dell’opera, intervenendo in tutti i casi in cui sia necessario imporre il rispetto delle prescrizioni contrattuali, ivi compreso il rispetto dei termini di cui al cronoprogramma; - funge da tramite con l’amministrazione procedente sia per i casi di sospensione dei lavori che per l’adozione di varianti in corso d’opera, irroga le penali contrattuali, propone la risoluzione del contratto, nei casi in cui se ne manifesti l’esigenza, e predispone l’ipotesi di accordo bonario. E. Me. Silvio D’Ascia, progetto per la stazione di Montesanto (Napoli) In alto: Norman Foster, Milano Santa Giulia Le note sono consultabili sul sito: www.mancosueditore.eu (alla voce riviste) n.33-34 2009 97 Schmdit Hammer Lassen : dalle idee ai fatti CONCORSO INTERNAZIONALE SCHOOLS FOR THE FUTURE, LARVIK, NORVEGIA Gruppo vincitore: Schmidt Hammer Lassen Architects Committente: Vestfold Municipality Società di ingegneria: Multiconsult Cronologia: 2005 (progetto di concorso) - 2009 (costruzione) Area: 28.000 mq Costo: 73 milioni di euro concorsi / eventi a cura di Paola Salvatore L n.33-34 2009 98 a scuola Thor Heyerdahl School of Advanced and Further Education, frutto di un concorso internazionale vinto nel 2005 dal gruppo danese Schmdit Hammer Lassen Architects, realizzata e inaugurata nel 2009 a Larvik in Norvegia rappresenta un esempio tangibile in cui gli intenti sperimentali posti alla base di un concorso d’idee si traducono senza forzature in spazio architettonico. La nuova scuola si basa infatti su un concetto innovativo che tende a realizzare un processo di apprendimento aperto che prevede la fusione delle classi sia dal punto di vista dell’interazione sociale che della condivisione del sapere. Gli studenti delle scuole tecniche sono volontariamente posti in contatto con gli studenti del college, questo per creare uno scambio reciproco di competenze oltre che per sviluppare nei ragazzi un forte senso di parità sociale e rispetto civico. La composizione architettonica, nata su geometria quadrata, viene caratterizzata e dominata – nello sviluppo in pianta e in alzato – dall’asse diagonale. Al volume compatto viene così impresso un forte dinamismo rotatorio che si riflette all’esterno nella sequenza di terrazze a sviluppo progressivo e all’interno nella serie di aree a doppia altezza che offrono una molteplicità visiva tra un piano e l’altro. L’edificio prevede le classi destinate ad attività sociali poste lungo l’asse centrale dell’edificio alternate a spazi per riunioni informali, man mano che ci si allontana dal fulcro centrale gli spazi si suddividono in aree più piccole, parzialmente aperte, che garantiscono maggiore tranquillità per i momenti di studio. L’insegnamento, così come l’attività di laboratorio per le materie tecniche,si svolge nelle aule terrazzate che, fornite di pareti vetrate, garantisco- Si ringrazia lo studio Schmdit Hammer Lassen Architects per la gentile concessione delle immagini no un contatto visivo tra l’esterno e le zone comuni. Adiacente e collegato all’edificio scolastico vi è il centro sportivo che può accogliere fino a 4.000 spettatori e che ha un duplice utilizzo sia per le lezioni e le attività sportive della scuola che per i concerti e le attività culturali cittadine. La scuola, sposando e interpretando la logica dell’interdisciplinare, si pone come modello di riferimento per gli edifici scolastici del futuro. Collaboratori e loro qualifiche COMITATO DI REDAZIONE GIAN LUCA BRUNETTI (G.L.B.) architetto GIOVANNI CARBONARA (G.C.) architetto, direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti, Università “La Sapienza” di Roma ENRICO CARBONE (E.C.) architetto VALERIO CASALI (V.C.) architetto LUIGI MAURO CATENACCI (L.M.C.) architetto FRANCESCO CELLINI (F.Ce.) architetto, preside della Facoltà di Architettura, Università Roma Tre FURIO COLOMBO (F.C.) giornalista e scrittore LUCA D’EUSEBIO (L.D.E.) architetto ROBERTO DULIO (R.D.) architetto IDA FOSSA (I.F.) architetto PAOLO VINCENZO GENOVESE (P.V.G.) architetto, docente presso la School of Architecture, Università di Tianjin, Cina GIOACCHINO GIOMI (G.G.) ingegnere, Ministero dell’Interno, Dip.Vigili del Fuoco STEFANO GRASSI (S.G.) avvocato, docente presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze MASSIMO LOCCI (M.L.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Università “La Sapienza” di Roma CARLO MANCOSU (C.M.) editore FABIO MASSI (F.M.) giornalista EUGENIO MELE (E.Me.) avvocato, consigliere di Stato ANTONIO MARIA MICHETTI (A.M.M.) ingegnere, docente presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Università “La Sapienza” di Roma ALBERTA MILONE (A.M.) avvocato, esperta in diritto ambientale ENRICO MILONE (E.M.) architetto, presidente Centro Studi Ordine degli Architetti PPC (Cesarch) Roma RENATO NICOLINI (R.N.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria MAURIZIO ODDO (M.O.) architetto MARIO PANIZZA (M.P.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università Roma Tre ALESSANDRO PERGOLI CAMPANELLI (A.P.C.) architetto PLINIO PERILLI (P.P.) scrittore e critico MARIA GIULIA PICCHIONE (M.G.P.) architetto, Ministero per i Beni e le Attività Culturali FULCO PRATESI (F.P.) architetto, presidente WWF Italia FRANCESCO RANOCCHI (F.R.) architetto ANTONINO SAGGIO (A.S.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “L. Quaroni”, Università “La Sapienza” di Roma Prossimamente dicembre 2009-gennaio 2010 n.35 E DITORIALE di carlo mancosu L’ OSSERVATORIO POLITICO di furio colombo S OCIETÀ E / È COSTUME Un’analisi socio-culturale nell’evoluzione tipologica dei cinema nelle città di renato nicolini IL PUNTO DI VISTA a cura di enrico milone NUOVI ORIENTAMENTI di massimo locci ITINERARI E PERIFERIE Valencia di ida fossa PERCORSI LECORBUSIERIANI Il monumento della “Mano Aperta” di valerio casali LA PASSEGGIATA DI E UCLIDE di plinio perilli S PAZI APERTI di luca d’eusebio A RCHITETTURE Cinema e multisala a cura di f. cellini, m. panizza e c. mancosu O N &O FF a cura di NITRO antonino saggio Nuove forme della progettazione e dell’IT SPAZIO S PORT a cura di CONI Servizi A MBIENTE E TERRITORIO di alber ta milone B ENI CULTURALI di maria giulia picchione R ESTAURO Il restauro del Tempio-Duomo di Pozzuoli di alessandro pergoli campanelli INFORMATICA di luigi mauro catenacci APPROFONDIMENTI DI GIURISPRUDENZA I verbali di gara e le cause di esclusione di eugenio mele LEGISLAZIONE URBANISTICA di stefano grassi NOTIZIARIO a cura di enrico milone Indice Istat dei costi di costruzione • Iter parlamentari CONCORSI / EVENTI a cura di paola salvatore R ASSEGNA STAMPA Selezione di articoli significativi a cura di fabio massi GUSTAVO VISENTINI (G.V.) avvocato, docente presso la Facoltà di Giurisprudenza, LUISS “Guido Carli”, Roma HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO ROSETTA ANGELINI architetto GIOVANNI BARTOLOZZI architetto ANTONINO DI RAIMO architetto LAURA GUGLIELMI architetto MARCELLA DEL SIGNORE architetto MARTA MOCCIA architetto GIORGIO MORI dottore MAURIZIO PETRANGELI architetto BEATRICE VIVIO architetto