scuole secondarie superiori - Architetti nell`Altotevere Libera

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scuole secondarie superiori - Architetti nell`Altotevere Libera
notiziario bimestrale
di architettura
anno VI numero 33-34
agosto-novembre 2009
€ 20,00
POSTE ITALIANE S.P.A.
S P E D I Z I O N E I N A . P.
D.L. 353/2003 (conv.
in L. 27.02.2004 n.46)
Art.1 c.1 – DCB – ROMA
Architetture
SCUOLE
SECONDARIE
SUPERIORI
n.33-34
agosto-novembre 2009
direttore scientifico: carlo mancosu
vice direttore: enrico milone
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comitato di redazione
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scuola secondaria superiore “sampo” a uimalankatu,
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degli architetti d’Italia, agli ingegneri edili, enti e istituzioni varie
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all’Unione Stampa Periodica
Italiana
in questo numero
in questo numero
notiziario bimestrale di architettura
numero 33-34, anno VI, agosto-novembre 2009
redazione
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SOCIETÀ E / È COSTUME
Consevare, demolire, ricostruire di renato nicolini
BENI CULTURALI
Interventi di restauro: procedure tecnico-amministrative
nella normativa di tutela di maria giulia picchione
RESTAURO
Lacuna architettonica e ricostruzione post-bellica. Esperienze recenti di beatrice vivio
PERCORSI LECORBUSIERIANI
La “Mano Aperta” di valerio casali
ITINERARI E PERIFERIE
Una scommessa persa? di ida fossa
SUD CHIAMA NORD
Numero zero di maurizio oddo
INFORMATICA
La posta elettronica certificata a professionisti e imprese di luigi mauro catenacci
ARCHITETTURE a cura di francesco cellini, mario panizza, carlo mancosu
Scuole secondarie superiori
ON&OFF a cura di NITRO – antonino saggio
Nuove forme della progettazione e dell’IT
SPAZIOSPORT a cura di CONI Servizi – enrico carbone
Il risanamento artistico dei mosaici di giorgio mori
TECNOLOGIA E MATERIALI
Quale architettura “passiva” per i climi mediterranei? di gian luca brunetti
APPROFONDIMENTI DI GIURISPRUDENZA
La programmazione dei lavori pubblici
e il responsabile del procedimento nello schema di regolamento di eugenio mele
CONCORSI / EVENTI a cura di paola salvatore
Schmdit Hammer Lassen: dalle idee ai fatti
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Conservare, demolire,
ricostruire
A lato:
il presidente del
Consiglio Silvio
Berlusconi illustra
a Barack Obama
la ricostruzione
dell’Aquila durante
l’ultimo G8
(fonte ANSA)
società e/è costume a cura di Renato Nicolini
Alcune delle nuove
case consegnate
ai terremotati
abbruzzesi
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Studenti della new university, piuttosto che della vecchia Università dell’Aquila. Il metodo della ricostruzione? Diamoli in
adozione, questi scomodi monumenti… Trasformando il G8
in qualcosa di simile all’esposizione dei mobili di IKEA, con
giri di pietà col piattino in mano… Tutto, ma non il centro…
Il centro dell’Aquila è stato sottratto ai cittadini, negato come
tale più ancora che rinviato come problema da risolvere…
Aspettiamo la bacchetta magica di Harry Potter! Il centro
risorgerà / Quando e come non si sa. Nel frattempo, progettiamo case provvisorie per venti zone fuori l’Aquila, belle
e ordinate, peccato che siano state scelte anche zone non
in regola dal punto di vista della sicurezza idrogeologica.
Persino Le Corbusier, con tutto il suo temperamento da
“orologiaio svizzero” (Bruno Zevi) sapeva che le città non
possono risorgere altro che dal proprio centro. Come abbiamo fatto a dimenticarlo? Luigi Pellegrin. Luigi Pellegrin è stato uno dei migliori architetti italiani, a cui non è stato forse reso pieno merito.
La sua stagione migliore coincide con gli anni Cinquanta e
Sessanta, quel periodo che è diventato gli anni dimenticati
dell’architettura italiana. Gli ultimi anni dell’international style,
gli ultimi dell’influenza operativa di Bruno Zevi e della sua
architettura organica… Gli anni delle Olimpiadi di Roma (che
resta, nonostante il Giubileo 2000, l’ultimo vero grande evento di Roma capitale, capace di incidere in modo non occasionale, il recupero dell’EUR ecc.) sulla forma della città…
Il complesso
scolastico
“Concetto Marchesi”
a Pisa progettato
da Luigi Pellegrin
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L’Aquila. Colpisce la ricorrente fantasia delle new town,
nell’immaginario del Governo (ahimè, non solo…) italiano.
Ricominciare da capo, il nuovo inizio. Pratiche esorcistiche.
Adolf Loos avrebbe detto da selvaggi. Per Rousseau il buon
selvaggio è la prima forma, naturale e incorrotta, della socialità. I conti tornano, in una paradossale regressione al preilluminismo, che forse anche Marie Antoinette avrebbe
gradito, con tutti i pastori e le pastorelle della sua corte.
La tabula rasa è il modo in cui un bambino si trae d’impaccio quando perde il controllo del gioco che sta facendo. Butta
giù tutto. Chiamare new town le tendopoli, tende tutte verdi,
allineate e coperte, significa trasformare il sisma in un gioco.
Il vezzoso terremoto, con l’amabile suo moto... Poi al loro posto
non sorgeranno le baracche, ma qualcosa di nuovo certificato dal buon Bertolaso sempre in tuta da ginnastica, casette
di legno, destinate nel futuro agli studenti…
Gli inizi del post-moderno… Tutto però lontano dall’enfasi
comunicativa, autoreferenziale, autopubblicitaria che avrebbe dovuto segnare gli anni delle archistar… Un periodo di
grande stile, che per eleganza rifiuta di dichiararsi tale…
Non è certo un caso che proprio gli architetti degli anni
Cinquanta e Sessanta siano i preferiti per operazioni di sconsiderata demolizione, un’attitudine che nasce dall’ignoranza
della qualità di ciò che si vuole cancellare. Ne è quasi rimasto vittima Luigi Cosenza – con la sua (incompiuta) ala nuova
della Galleria Nazionale d’Arte Moderna… Ne è rimasto
vittima un architetto molto apprezzato da Bruno Zevi, schivo e discreto come Cesare Ligini: il cui Velodromo è stato
fatto saltare in aria proprio mentre la Sopraintendenza stava
per apporvi il vincolo, e le cui Torri del Ministero delle Finanze stanno per essere demolite per lasciare il campo a un
mezzo grattacielo residenziale… Sta per esserne vittima
Luigi Pellegrin.
Pellegrin è stato uomo di grande spirito. Capace di apprezzare, da giovanissimo,Armando Brasini che costruiva il Buon
Pastore con perizia artigianale; e di allestire una mostra, nell’anno del Giubileo, quando tutti si stracciavano le vesti sui
ponteggi che ricoprivano gli edifici di Corso Vittorio Emanuele,
di Via Nazionale e del centro storico di Roma, per dimostrarne invece la bellezza. Proprio il dominio dell’angolo retto in
quelle impalcature consentiva di far emergere, dalla ridondante Roma eclettica, il fantasma di una possibile Roma moderna… Un vero architetto non si confina nel moralismo,
ma sa cogliere l’occasione per esercitare la propria immaginazione… Sapendo, senza ipocrisie, che senza ponteggi non
si sarebbe potuto attuare il piano del colore messo a punto
con la collaborazione di Roma 3, di Paolo Marconi e di Alberto
Racheli, che prevedeva anche la possibilità di appoggiare alle
impalcature immagini pubblicitarie, e di finanziare così il costo della restituzione agli edifici di Corso Vittorio del loro
colore originario…
Pellegrin ha costruito a Pisa un complesso scolastico di grande impegno e qualità, intitolato al nome di un grande dimenticato della cultura italiana, Concetto Marchesi… Oggi è
condannato dal Comune di Pisa alla demolizione, qualcosa
che colpisce anche dal punto di vista simbolico, far fuori in
un solo colpo l’architettura moderna italiana e la memoria
di Concetto Marchesi. Senza nemmeno tentare motivazioni,
ma col basso profilo di una semplice variante al regolamento
edilizio. Al suo posto, nuova residenza, nello sfascio in cui
Argan. Si è insediato a Roma il comitato nazionale per il
centenario della nascita di Giulio Carlo Argan. Sarebbe opportuno procedere – come ha proposto in quest’occasione Cesare De Seta – a un’edizione nazionale delle opere
di Argan, come si è fatto per il De Santis o per Gramsci.
è ridotta in Italia l’edilizia popolare costruita da privati su
aree pubbliche, e posta sul mercato a bassi canoni d’affitto
(almeno per qualche anno…). Il complesso, Istituto per Geometri e Liceo Scientifico, costruito nel 1972, è uno degli
esempi migliori della lunga ricerca di Pellegrin sugli edifici scolastici (la scuola materna prefabbricata per la Benini, l’Istituto
Professionale di Rifredi, l’Istituto Tecnico Industriale e Liceo
Scientifico Buon Pastore di Roma), con un occhio alla modernità e alla prefabbricazione, e l’altro al valore civile di una
chiarezza strutturale che non teme l’espressività. La migliore lezione di un moderno che non si chiude nella tautologia
delle formule. Il fatto è che la struttura di Pellegrin è stata
fraintesa da subito, male costruita, gestita peggio e lasciata
decadere. Così quello che potrebbe essere considerato il
più straordinario arricchimento architettonico che Pisa ha
avuto nel dopoguerra rischia di sparire pagando le colpe di
coloro che l’hanno trascurato. Proprio per lucidità teorica Argan non
si è rifiutato alla politica, come sindaco di Roma e come senatore della Repubblica. Sempre ha avuto in mente
un’idea di Italia come Paese d’eccellenza, sia per la ricchezza della propria
tradizione culturale, sia per la sua capacità di immaginare e inventare il nuovo. Chissà cosa direbbe oggi, di fronte al triste spettacolo del ministro
Bondi che lascia tagliare il bilancio del
proprio ministero senza nessuna reazione. Nel 2011 è stato calcolato che
il Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali non avrà nemmeno i soldi per
pagare i propri dipendenti. Se Bondi
dovesse restare fino ad allora, scommetto che il suo ossequioso servilismo lo spingerà fino a fargli aprire e
chiudere di persona il portone del ministero.
R.N.
Dettaglio laterale
del complesso
scolastico
“Concetto Marchesi”
a Pisa progettato
da Luigi Pellegrin
A lato:
l’ex sindaco di Roma
Giulio Carlo Argan
Sopra: il ministro
dei Beni e delle
Attività Culturali
Sandro Bondi
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Interventi di restauro:
procedure tecnico-amministrative
nella normativa di tutela
G
culturali a cura di Maria Giulia Picchione
li immobili di proprietà privata che siano stati oggetto
di dichiarazione, ovvero abbiano avuto
il riconoscimento dell’interesse particolarmente importante ai sensi dell’art.
10, comma 3, lett. a) o lett. d) del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42,1
Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio,
e siano quindi dichiarati “beni culturali”, sono assoggettati a un particolare
regime giuridico.
La particolare tutela voluta dal legislatore per gli immobili ai quali sia stata
beni
In alto:
Banca Monte dei
Paschi di Siena
a Piazza Salimbeni,
Siena
A destra:
Palazzo Massimo
alle Colonne, Roma
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Villa Regina
Margherita Savoia,
Bordighera (Imperia)
riconosciuta la valenza di “bene culturale” mediante l’emanazione di un apposito provvedimento amministrativo
(cosiddetto “decreto di vincolo”) prevede, infatti, che qualsiasi intervento
debba essere sottoposto alla preventiva approvazione della soprintendenza.
Tale particolare regime giuridico forma poi oggetto di riserva specifica nella
regolamentazione urbanistica degli interventi sui beni, che subordina la legittimazione edilizia dei lavori al rispetto
della stessa normativa di tutela.2
Il Codice fa ricadere in due sezioni distinte del Capo III la disciplina degli
interventi:
- la sezione I – titolata Misure di protezione – che regolamenta in generale i lavori da effettuarsi su immobili
vincolati;
- la sezione II – titolata Misure di conservazione – attinente prettamente
la disciplina degli interventi di manutenzione e restauro.
Misure di protezione
Nella sezione del Codice così titolata
trovano posto gli articoli che disciplinano l’iter tecnico-amministrativo degli interventi di qualunque genere da effettuarsi sugli immobili vincolati, che può
essere ricondotto alle seguenti fasi.
Presentazione
e approvazione del progetto
L’art. 21 comma 4 del Codice stabilisce
che l’esecuzione di opere di qualunque
genere su beni culturali (quindi anche
di manutenzione e restauro) è subordinata all’autorizzazione del soprintendente al fine di ottenerne la preventiva
approvazione.
L’istanza per ottenere l’approvazione del
progetto va presentata alla soprintendenza territorialmente competente, a
firma dell’interessato, e va corredata di:
- tre copie del progetto definitivo,completo di grafici, rappresentante la situazione prima e dopo l’intervento;
- computo metrico estimativo dei lavori da effettuare, da dove siano distinguibili gli importi per le singole categorie di opere (ad esempio opere
di consolidamento, restauro dei paramenti, adeguamento igienico-funzionale, impiantistica di sicurezza ecc.);
- relazione storico-artistica sull’immobile tutelato dalla quale siano anche
rilevabili, laddove sia possibile, i precedenti interventi effettuati nel tempo;
- relazione tecnica degli interventi di
cui si chiede l’approvazione. Per gli interventi di consolidamento statico, la
relazione dovrebbe essere accompagnata dal quadro fessurativo e dalla
relativa relazione diagnostica;
- documentazione fotografica.
I grafici del progetto definitivo, le relazioni storico-artistica e tecnica, nonché
il computo metrico estimativo devono
essere a firma di un architetto, secondo
la normativa che disciplina le competenze professionali.
L’art. 53, comma 2, del RD 23 ottobre
1925 n. 2537 riserva infatti a tale categoria professionale la competenza sulle opere di edilizia civile che riguardino
immobili di rilevante carattere artistico
nonché il restauro e il ripristino degli
edifici sottoposti a vincolo storico-artistico, sebbene «la (sola) parte tecnica
possa essere realizzata – evidentemente in necessaria e imprescindibile stretta collaborazione con l’architetto – tanto da un architetto che da un ingegnere»
(parere del Consiglio di Stato n. 386 del
23 luglio 1997).
Approvazione del progetto
L’art. 22 del Codice stabilisce che i proprietari, possessori o detentori, a qual-
Banca Commerciale
in Piazza della Scala,
Milano
siasi titolo, dei beni culturali hanno l’obbligo di sottoporre alla soprintendenza
i progetti delle opere di qualunque genere che intendano eseguire, al fine di
ottenerne la preventiva approvazione.
L’approvazione del progetto deve essere rilasciata nel termine di 120 giorni
dalla presentazione della richiesta. Tale
termine può essere sospeso, fino al
ricevimento della documentazione, qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio.
Se la soprintendenza ritiene di procedere ad accertamenti di natura tecnica,
il termine dei 120 giorni viene sospeso
fino alle risultanze degli accertamenti
d’ufficio e comunque non oltre 30 giorni.
Decorso tale termine, previa diffida all’amministrazione a provvedere entro
i successivi 30 giorni dalla data di ricevimento della diffida, le richieste di approvazione si intendono accolte.3
Nella fase della presentazione del progetto è importante tener conto che, in
omaggio al principio della semplificazione dei procedimenti, l’art. 31 del Codice stabilisce al comma 2 che con l’autorizzazione dei lavori di restauro e gli
altri interventi conservativi il soprintendente si pronuncia, a richiesta dell’interessato, sull’ammissibilità dell’intervento ai contributi statali, certificandone
eventualmente il carattere necessario
ai fini della concessione delle agevolazioni tributarie previste dalla legge, unificando, così, in un unico provvedimento le risultanze di procedimenti precedentemente distinti e generalmente successivi all’approvazione del progetto e
all’esecuzione dei lavori.
Dopo l’approvazione da parte della soprintendenza il progetto segue le procedure previste, per la tipologia d’intervento, dalla disciplina urbanistica, che
deroga in via generale, per quanto riguarda i beni vincolati, alle procedure
semplificate.4
Le disposizioni in materia di procedure
urbanistiche semplificate prevedono,
infatti, sempre la deroga per i beni
sottoposti a tutela (come ad esempio
l’art. 22 del TU per l’edilizia sulla DIA).
Si tratta in realtà di una cautela generale voluta dal legislatore al fine della verifica dell’abilitazione ai lavori in sede di
tutela specifica, mediante l’emanazione
del provvedimento autorizzatorio (il cosiddetto “nulla osta”) del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali.
La legislazione urbanistica, infatti, aggrava il procedimento di controllo sugli interventi in funzione dell’interesse artistico e storico dell’immobile, allo scopo,
naturalmente, di tutelare tale interesse;5
ma una volta assicurate tutte le garanzie ai fini della conservazione e dell’integrità del bene culturale, la legislazione di tutela dispone oggi che non vi siano più aggravi urbanistici derivanti dagli
stessi fini culturali.
Procedure edilizie semplificate
Oggi l’art. 23 del Codice stabilisce, infatti, che qualora gli interventi necessitino
anche di titolo abilitativo in materia di
edilizia è possibile il ricorso alla DIA
(procedura appunto semplificata per
moltissime tipologie d’intervento – cfr.
art. 22 del DLgs 380/01) previa naturalmente l’acquisizione dell’autorizzazione
(nulla osta) della soprintendenza, corredata del relativo progetto con su scritto “approvato”.
Solo su questo grafico o progetto (e
relativi elaborati come sopra indicati) è
possibile poi adire alla procedura edilizia semplificata.
Si tratta di un’innovazione importante
della recente legislazione di tutela. Prima
del Testo Unico del 1999 (art. 36), e oggi del Codice (art. 23), non era possibile ricorrere alle procedure urbanistiche
semplificate per i lavori sugli immobili
vincolati.
La normativa urbanistica richiedeva,
infatti, prima del 1999, il rilascio della
concessione, in luogo della autorizzazione o della denuncia d’inizio attività
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(o ancora della semplice comunicazione dei lavori) prevista per gli altri edifici, per gli interventi di restauro e risanamento conservativo malgrado avessero già ottenuto l’autorizzazione ministeriale: e questo proprio in virtù della
deroga prevista nella legislazione urbanistica relativamente agli immobili sottoposti a tutela.
Resta fermo il fatto che se l’opera rientra tra gli interventi soggetti, oggi, a permesso di costruire dalla normativa urbanistica, la procedura segue il regime urbanistico ordinario.
Lavori provvisori urgenti
Nel caso si tratti di lavori di assoluta
urgenza, possono essere eseguite, ai
sensi dell’art. 27 del Codice, le opere
provvisorie indispensabili per evitare
danni notevoli al bene tutelato, purché
ne sia data immediata comunicazione
alla soprintendenza, alla quale devono
essere inviati, nel più breve tempo possibile, i progetti dei lavori definitivi al fine
di ottenerne la necessaria approvazione.
Sospensione dei lavori
Qualora gli interventi vengano iniziati
senza aver ottenuto la necessaria approvazione del progetto, ovvero vengano
eseguiti in difformità da essa, il soprintendente ne può ordinare la sospensione, secondo quanto previsto dall’art. 28
del Codice.
La sospensione dei lavori può essere
ordinata anche nel caso di immobili non
vincolati ai sensi dell’art.13, ma che presentano l’interesse particolarmente importante o sotto il profilo storico-artistico (art. 10, comma 3, lett. a) o a causa
del loro riferimento alla storia politica,
militare, dell’arte, della scienza, della
tecnica, dell’industria e della cultura in
genere ecc. (art. 10, comma 3, lett. d).
In questo caso, però, l’avvio del procedimento di dichiarazione, ovvero del
Palazzo delle Poste
di Adalberto Libera,
Roma
A pagina seguente:
Palazzo Mondadori
di Oscar Niemeyer,
Segrate (Milano)
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l’apposizione del vincolo, deve essere
comunicato all’interessato non oltre
30 giorni dall’ordine di sospensione.
Se oltre tale termine non viene effettuata la comunicazione, l’ordine di sospensione da parte del soprintendente
si intende revocato.
Misure di conservazione
Nella Sezione II del Capo III del Codice, sono disciplinate le misure di conservazione. L’art. 29 definisce cosa si
intende per prevenzione, manutenzione e, al comma 4, per restauro.
Riproponendo nella sostanza la prima
definizione data dalla legislazione di
tutela dall’art. 34 del Testo Unico del
1999, normativizza il restauro come
«l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione
e alla trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di immobili situati nelle
zone dichiarate a rischio sismico in base
alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento
strutturale».
La formula definitoria di “restauro”, data
nel già citato art. 34 del TU del 1999,
costituisce un’assoluta novità della normativa in materia, finalizzata a rendere
più organiche le varie disposizioni relative agli interventi di natura positiva sui
beni culturali e ad accentuare l’importanza del restauro nella complessiva
politica di tutela.
L’aver introdotto la disciplina della conservazione con la definizione del termine restauro risponde, infatti, a una
serie di obiettivi: individuare le categorie di lavori legati all’erogazione dei
contributi e alle agevolazioni fiscali disciplinati oggi dagli articoli 35, 36 e 37 del
Codice, definire l’ambito delle misure
conservative imposte dalla legge al Mi-
nistero e/o dal Ministero al proprietario
possessore o detentore del bene culturale, ai sensi dell’art. 32 (interventi coattivi); chiarire il contenuto del restauro
ai fini storico-artistici rispetto a quello
definito dalla normativa urbanistica; rendere inscindibili, quali sono, concetti fondamentali come tutela, conservazione,
restauro.6
Tale normativizzazione del termine nella
legislazione di tutela risponde, inoltre
anche alla necessità di distinguere dal
punto di vista giuridico quali siano gli interventi classificabili come restauro ai
fini storico-artistici rispetto a quelli compresi nelle definizioni date, ai fini edilizi, dall’art. 3 del DLgs 380/01 del TU
dell’edilizia (ex art. 31 della legge n. 457
del 1978), e sottrae il restauro operato
sui beni culturali da quello attinente alla
disciplina urbanistica.
La mancanza di una definizione di restauro nella normativa di tutela ha spesso causato negli anni confusione ed è
stata alla base dell’erronea tendenza a
far confluire gli interventi sui beni culturali nel regime di quelli urbanistici.
Non solo la nozione di restauro e risanamento conservativo, ma anche le altre
definizioni contenute nella normativa
edilizia citata, seppur esemplari data la
precedente inesistenza di una normativa in materia, hanno lasciato negli anni
spazio a interpretazioni diverse e a incertezze applicative tali da non poter
essere considerate compatibili con le
caratteristiche storico-artistiche e morfologico-strutturali degli immobili soggetti a tutela.
Dopo aver definito cosa si intende per
conservazione e quindi per restauro, la
normativa disciplina gli obblighi a carico dei privati.
Obblighi conservativi
I privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione (art. 30).
Interventi conservativi volontari
Il restauro e gli altri interventi conservativi su beni culturali a iniziativa del
proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo sono autorizzati ai sensi
dell’art. 21.
In sede di autorizzazione, il soprintendente si pronuncia, a richiesta dell’interessato, sull’ammissibilità dell’intervento ai contributi statali previsti dagli articoli 35 e 37 e certifica eventualmente
il carattere necessario dell’intervento
stesso ai fini delle agevolazioni tributarie previste per legge (ad esempio la
detraibilità di quota parte dall’IRPEF).
Intervento di restauro coattivo
Il Ministero, al quale spetta vigilare sulla
conservazione dell’immobile tutelato,
può provvedere direttamente agli interventi necessari per assicurare la conservazione e impedire il deterioramento dello stesso bene culturale,o può imporli al
proprietario, possessore o detentore del
bene, ponendone la spesa a carico di
quest’ultimo (art. 32 del Codice).
In tale ipotesi, il procedimento, disciplinato dall’art. 33 del Codice,7 è il seguente:
- il soprintendente redige una relazione tecnica e dichiara la necessità dei
lavori da eseguire;
- la relazione tecnica viene comunicata
al proprietario, possessore o detentore del bene, che può far pervenire al soprintendente, nel termine di
30 giorni dall’avvenuta comunicazione, le sue osservazioni in merito;
- qualora il soprintendente non ritenga di procedere direttamente all’intervento assegna al proprietario, possessore o detentore dell’immobile un
termine per la presentazione del progetto esecutivo dei lavori da effettuarsi, da redigere in conformità alla relazione tecnica;
- il progetto presentato è approvato
dal soprintendente con le eventuali
prescrizioni e con la fissazione del
termine per l’inizio dei lavori. Il progetto viene trasmesso dal soprintendente al Comune interessato, che può
esprimere nel merito parere motivato entro 30 giorni dalla ricezione della
comunicazione (si tratta anche qui di
una semplificazione procedurale introdotta nel 1999 dal Testo Unico);
- se il proprietario, possessore o detentore dell’immobile non presenta
il progetto o non provvede a modificarlo secondo le prescrizioni del soprintendente nel termine da questi
fissato, ovvero se il progetto presentato viene respinto, il soprintendente
ricorre all’esecuzione diretta;
- nel caso in cui l’intervento rivesta carattere d’urgenza ai fini della conser-
vazione del bene, il soprintendente
può adottare immediatamente le misure conservative.
Quando l’intervento viene effettuato direttamente dal Ministero, la riscossione
della somma da porre a carico del proprietario avviene nelle forme previste
dalla normativa in materia di riscossione coattiva delle entrate patrimoniali
dello Stato (iscrizione al ruolo delle entrate fiscali).
Sostegno finanziario
dello Stato per gli
interventi di restauro
Lo Stato può concorrere nella spesa
per gli interventi di restauro effettuati
dal proprietario per un ammontare non
superiore alla metà della stessa (si ricorda che con l’approvazione del progetto il proprietario può richiedere che il
soprintendente si pronunci anche sull’ammissibilità dell’intervento al contributo statale).
Qualora si tratti di interventi imposti
al proprietario ai sensi dell’art. 32, lo
Stato può concorrere fino all’intero ammontare della spesa se l’immobile riveste particolare interesse o se gli interventi sono eseguiti su beni in uso o godimento pubblico.8 In tal caso determina l’ammontare dell’onere che intende sostenere e ne dà comunicazione
all’interessato.
Il contributo è concesso dal Ministero a
lavori ultimati e collaudati sulla spesa effettivamente sostenuta dal proprietario.
Se si tratta di interventi imposti dallo
Stato (ai sensi dell’art.32) possono essere erogati acconti sulla base di stati di
avanzamento. I lavori devono essere regolarmente certificati.
Per la determinazione della percentuale di contributo da erogare, il Ministero
tiene conto di altri eventuali contributi
pubblici erogati per lo stesso immobile.
Per la realizzazione degli interventi di
restauro approvati a norma dell’art. 21
del Codice, il Ministero per i Beni e le
Attività Culturali può concedere anche
contributi i conto interessi9 accordati da
istituti di credito ai proprietari, possessori o detentori degli immobili (art. 37
del Codice).
La concessine del contributo è fissato
nella misura massima corrispondente
agli interessi calcolati a un tasso annuo
di sei punti percentuali sul capitale concesso a mutuo.
Il mutuo deve essere assistito da privilegio sugli immobili ai quali si riferisce.
L’amministrazione corrisponde il contributo direttamente all’istituto di credito secondo modalità da stabilire con
apposite convenzioni.
Lavori effettuati su beni
dello Stato dati in uso
ad altre amministrazioni
Particolari forme di cooperazione, nel
rispetto del principio della leale e proficua collaborazione tra pubbliche amministrazioni, sono state introdotte dal
Testo Unico (all’art. 46) nei casi i cui gli
interventi di restauro riguardino immobili appartenenti al demanio storico-artistico dati in uso ad altre amministrazioni. Infatti:
- il Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali provvede ai lavori sentita
l’amministrazione che li ha in uso o in
consegna, la quale può, previo accordo con il Ministero provvedere anche
alla progettazione e all’esecuzione degli interventi. Resta ferma naturalmente la competenza del Ministero
all’approvazione del progetto e alla
vigilanza sui lavori. Per l’esecuzione di
tali lavori, il Ministero, ai fini urbanistici, trasmette il progetto al Comune
interessato e alla città metropolitana;
- quando gli interventi coattivi riguardano immobili di enti pubblici territoriali, il Ministero dispone gli interventi da effettuare, salvo casi di assoluta
urgenza, in base ad accordi o previe
intese con l’ente interessato (art. 40);
- gli interventi su immobili tutelati che
coinvolgono più soggetti pubblici e
privati e che possono implicare decisioni istituzionali e impegnare risorse finanziarie dello Stato, delle Regioni e degli enti locali sono programmati, di norma, secondo le procedure previste dall’art. 27 della legge
8 giugno 1990, n. 142, dall’art. 2, comma 203,della legge 23 dicembre 1996,
n. 662 e dagli articoli da 152 a 155 del
decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 11210 (accordi di programma).
M.G. P.
n.33-34
2009
9
Lacuna architettonica
e ricostruzione post-bellica
Esperienze recenti
R
icondurre all’attualità le riflessioni del secondo
dopoguerra italiano sul problema della reintegrazione delle lacune architettoniche può risultare un utile
approfondimento della questione teoretica, già accennata nel
nostro precedente articolo («L’architetto italiano», n. 30),
specialmente se si mettono a fuoco alcune esperienze contemporanee considerate quali validi paradigmi.
restauro a cura di Giovanni Carbonara e Alessandro Pergoli Campanelli
Il laboratorio della città di Berlino
A seguito dell’abbattimento nel 1989 del muro che divideva
la città comunista dalla Berlino occidentale, si è sviluppata
una fertile riflessione sulle modalità di riqualificazione della
capitale tedesca, che sembrano aggirarsi, oggi, intorno alle
proposte di reintegrazione tipologica di una parte delle sue
architetture. Il Senatsbaudirektor della città Hans Stimmann
ha illustrato efficacemente i modi in cui, dopo ogni guerra
o cataclisma, il tentativo di rendere lo spazio urbano più funzionale alle esigenze del traffico moderno si abbini spesso alla
tentazione di fare tabula rasa: dai calcoli statistici da lui riportati, il 90% della città di Berlino è risultato devastato non tanto dalla guerra o dalla successiva ruderizzazione e abbandono, quanto dagli interventi improntati alla cancellazione delle
tracce del nazismo con il pieno consenso dei cittadini, la cui
sfiducia verso i simboli del regime si è via via tradotta in un’assenza totale di nostalgia (Senatsbaudirektor Senatsverwaltung
für Stadtentwicklung. Die Rekonstruktion in Berlin Mitte, nel convegno Antico e nuovo. Architetture e architettura, IUAV, Venezia
2004). Ad esempio, nella Berlino Est, l’area della Kroll Oper,
sede nazional-socialista con origini ottocentesche colpita dalle
A sinistra: Berlino,
Kroll Opera (1844),
rimaneggiata più
volte, anche da
Oscar Kaufmann
(1922-1923),
era divenuta sede
del parlamento del
Reichstag e venne
bombardata nel
1943. Il teatro
è stato del tutto
demolito e il sito
sistemato come
parco urbano
Sculture di Joseph
Kroll inserite
nel Tiergarten,
unica sensibile
testimonianza
della scomparsa
Kroll Opera House
A destra: Berlino,
Bethlehemskirchsplatz, pavimentazione
riportante il
n.33-34
disegno planimetrico
2009
della chiesa demolita
(foto J.L. Vertiz)
10
bombe nel 1943 e definitivamente demolita nel marzo 1951,
è stata sistemata nel 1999 come parco urbano, senza ricostruzioni di sorta. Così pure i resti della Bethlehemskirche,
sebbene rimasti in piedi nel 1948, sono rientrati poi nella programmatica distruzione delle testimonianze ecclesiastiche
promossa dall’amministrazione comunista e, nel 2001, appaiono ormai sostituiti dal disegno planimetrico della chiesa,
realizzato sulla pavimentazione del piazzale risultante dalla
sua demolizione.
Nel lato ovest della città, le scelte di piano degli anni Ottanta
sono passate da esperimenti di recupero che propongono la
rivisitazione moderna dei profili volumetrici preesistenti,
com’è il caso della Pariser Platz, a interpretazioni rispettose
del tracciato urbano preesistente elevato con altimetrie e dimensioni contemporanee, come nel caso della Leipziger Platz.
Eppure, in nessun caso si è riscontrato il beneplacito della
cittadinanza.
I concorsi progettuali promossi dall’Internationale Bauausstellung nel 1984 al fine di ricucire le ferite ancora aperte dei
danni bellici, dello spianamento delle rovine e delle ricostruzioni moderne, hanno costituito forse il primo tentativo pianificato d’integrazione della nuova Berlino con i suoi frammenti storici significativi. Eppure gli architetti sono stati convocati in base a due sole modalità d’intervento: la ricostruzione urbana, o Stadtreparatur, e l’occlusione degli spazi vuoti, o
Lückenfüllung. Con estrema apertura, le scelte di piano hanno
puntato sulla reintegrazione delle mancanze con un linguaggio
contemporaneo, richiedendo il solo rispetto dell’allineamento sul fronte stradale e delle logiche dimensionali esistenti,
in altezza, volumetria o ingombro planimetrico dei fabbricati.
Da sinistra:
Pariser Platz
presso la porta
di Brandenburg,
in un’immagine
precedente
alla guerra
e dopo la recente
ricostruzione
Per quanto le intenzioni siano state quelle di affermare la
convivenza fra gli stili eterogenei dei nuovi complessi insediativi, dall’impostazione meramente morfologica e dall’assenza di una risposta attenta all’analisi della preesistenza
deriva un eclettismo linguistico che nessuna premessa postmoderna aveva mai immaginato così ostico. In uno stesso
quartiere, se non in una stessa piazza, sono spuntate opere
di Mario Botta, di Vittorio Gregotti, di Oscar Mathias Ungers,
di Peter Eisenman, di Léon e Robert Krier, di Giorgio Grassi,
di Aldo Rossi, di Nicola Di Battista, di Gino Valle, oppure
di Renzo Piano, Arata Isozaki, Hans Kollhof, Rafael Moneo,
Richard Rogers e Lauber e Whör, che sembrano voler parlare ognuna una lingua diversa, in una incomunicabilità che
non riesce ad essere superata dalle sole omologazioni dimensionali. Babele di cui Rossi farà, anni dopo, un’esplicita
citazione nel variopinto complesso della Schützenstrasse
(1995-1997).
«La storia non si può cancellare», fa notare Hans Stimmann,
per cui neanche le nuove variegate architetture riescono a
riflettere un’identità collettiva: paradossalmente, «i peggiori
progetti del periodo dittatoriale staliniano risultano migliori
delle ricostruzioni della democrazia». Così, il Senatsbaudirektor
della ricostruzione si fa portavoce della tardiva inclinazione
dei pianificatori alla progettazione basata, sull’analisi tipologica e sul recupero imitativo dei linguaggi storici. Ma la cittadinanza non sembra convinta dall’antecedente della ricostruzione à l’identique dello Schloss Charlottenburg, residenza
estiva dell’imperatore riedificata nel 1956 proprio su richiesta dei cittadini: resuscitare il passato dalle ceneri prodotte
in sessant’anni di abbandono è senz’altro un’operazione più
complessa dell’immediata restituzione filologica di un’opera
subito dopo la sua scomparsa.
Al primo posto fra le proposte di ripristino polemiche è il
Berliner Schloss, costruzione del XV secolo degli architetti
Schlüter ed Eosander che dall’isola di Spree, antico centro
d’identità della città, era stato punto di riferimento di forma,
stile e dimensioni per lo sviluppo del tessuto della capitale.
Demolito nel 1950 con tutti gli ampliamenti ottocenteschi
perché simbolo del nazionalismo prussiano e destinato il
sito alla creazione di uno spazio per manifestazioni politiche e parate militari, non resta dell’edificio altro che un
portale realizzato tra il 1706 e il 1713, traslato successivamente nel prospetto del nuovo palazzo per il Consiglio di
Stato (1962-1964). L’area resta in realtà sub-utilizzata fino al
1970, quando, all’apice del regime filo-sovietico della Repubblica Democratica Tedesca, vi viene eretto il Palazzo della
Sotto:
Leipziger Platz e
i nuovi edifici eretti
sulla planimetria
ottagonale originaria.
Con l’erezione
del Muro, nel 1961,
vengono eliminati
anche gli ultimi
edifici non distrutti
in guerra, eccetto i
resti del Grandhotel
Esplanade e della
Weinhaus Huth,
riassorbiti nel nuovo
impianto. Dal 2001,
sono tutelate come
monumenti le tracce
superstiti del Muro
nell’area prossima
di Postdamer Platz
e una sottile striscia
di blocchetti ne
traccia il percorso
sul selciato
In alto a destra:
edifici dai forti
contrasti di colore
nel quartiere della
Schützenstrasse
(Aldo Rossi, 19951997)
Sopra:
Schloss
Charlottenburg,
pedissequamente
ricostruito nel 1956
A lato:
area dello Schloss
all’isola di Spree,
di fronte al canale,
prima della
n.33-34
demolizione
2009
avvenuta
nel 1950
11
Palazzo della
Repubblica (1976)
costruito all’isola
di Spree in luogo
del castello
del XV secolo
(foto F. Panichella)
In basso:
ipotesi di
ricostruzione dello
Schloss allestita
sui ponteggi
della facciata.
(da «Lotus
International»,
1994, 80)
Repubblica (1976), fallito tentativo di cancellazione di due secoli di storia. Il grande casermone del popolo, bonificato dall’amianto e privato dei suoi rivestimenti in marmo, specchi,
tappeti e lampadari, è oggetto di un concorso bandito nel
1993 e vinto dall’architetto Bernd Niebuhr che prevede la
ricostruzione di tre dei quattro prospetti esterni dell’originario castello insieme a una delle due corti interne, con il
resto del lotto riqualificato da forme contemporanee. L’anticipazione della simulazione di un tratto del prospetto principale in trompe-l’œil su tela (1993), a scala reale, persuade
gran parte dell’opinione pubblica della convenienza del ripristino. Eppure, in prossimità dell’abbattimento, la polemica fra
sostenitori e detrattori della demolizione si fa accesa.
n.33-34
2009
12
A differenza dei rifacimenti di Dresda e di altre città tedesche, destinati a ricucire le ferite della guerra, la ricostruzione storica decisa all’interno del “fenomeno promozionale” della città berlinese assume le sembianze di uno strumento scenografico di attrazione per scopi commerciali.
Così, a fianco all’ampia promozione della replica come «restauro di un gioiello architettonico» da parte del gruppo imprenditoriale di Wilhelm von Boddien, ci sono urbanisti e
intellettuali come l’architetto Philipp Oswalt che difendono
l’edificio moderno quale testimonianza delle vicissitudini degli
anni Settanta e dichiarano: «Ricostruire il castello o meglio
la sua facciata sarebbe un falso, una parodia della Storia»
(P. Valentino, Le ruspe contro il “palazzo di Honecker”. Ma il
muro della Storia divide i berlinesi, in «Corriere della Sera»,
11 gennaio 2006, p. 16). Il nonsense di un ritorno stilistico è
enfatizzato da Lisa Junghanss, curatrice dell’ultima mostra
organizzata nei resti del Palast, che colloca l’esigenza di spazi
per artisti al di sopra della necessità di «un castello prussiano per intrattenere i turisti» (C. Nickerson, A Communist
citadel stirs German passions, in «International Herald Tribune»,
3 gennaio 2006).
Una pacata riflessione sulla legittimità delle scelte da operare è suggerita dalla studiosa Irmela Spelsberg in un saggio
in cui snocciola i riflessi della doppia identità tedesca sulle
problematiche del patrimonio architettonico (Berlino. Restauro e progetto: fra commemorazione storica e decontaminazione
politica, in S.Valtieri, a cura di, Della Bellezza ne è piena la vista!
Restauro e conservazione alle latitudini del mondo nell’era della
globalizzazione, Nuova Argos, Roma, 2004, pp. 262-278).
Secondo la Spelsberg, i casi orientati verso il ripristino dell’immagine storica con parziale riedificazione in linguaggio
moderno dimostrano che, nonostante i dubbi di principio,
il cammino della Germania sia talmente segnato dalla modernità e dalla consapevolezza del momento attuale da non
poter concepire una posizione retrospettiva senza includervi comunque una componente contemporanea. Più che di
ripristino, si tratta allora di una sorta di “ri-documentazione
critica” delle stratigrafie che invano si era tentato di eliminare.
Fino al 1990, scrive, «la demolizione del passato e la successiva costruzione di nuovi edifici moderni da destinare a
sede del governo della Germania riunita sembrava la conditio
sine qua non per espellere gli spettri. Dopo un’intensa discussione pubblica e il consulto con gli esperti, la classe politica
è arrivata invece alla conclusione che tale damnatio memoriae avrebbe significato una falsificazione della storia nazionale e che una neutralizzazione di qualsiasi messaggio fatale
delle pietre si sarebbe potuta ottenere meglio attraverso un
restauro ponderato e un progetto sensato». Così, invece di
rinnegare il passato con la demolizione, le forme nuove o
il ripristino di stati precedenti, si è compresa la potenzialità
implicita nell’accettarlo mettendone in evidenza la stratificazione storica, come fondamento da cui ripartire per esorcizzare le colpe del nazismo.
Il Neues Museum
all’Isola dei Musei di Berlino
La neutralizzazione di un passato fin troppo pesante, dunque, può essere cercata in un lucido riappropriarsi della storia stratificata della città, improntato alla reintegrazione delle
mancanze con linguaggio contemporaneo, senza forzature per
la ricostituzione dell’unità dell’opera, ma piuttosto superando l’abusata rinuncia al compromesso mediante una stretta
dialettica fra le parti conservate e i nuovi inserimenti.
È proprio questo il criterio che soggiace al recente restauro
del Neues Museum all’Isola dei Musei (1997-2009). L’esperienza metodologica percorsa da David Chipperfield e dal
suo team ha proposto lo studio di precise simulazioni d’intervento, mirate alla salvaguardia della complessa storia dell’edificio, sia del periodo precedente alla distruzione della
guerra che di quello successivo (G. Zampieri, Il Neues Museum
dell’Isola dei Musei, Berlino, in M. Palazzo, a cura di, La Sala delle
Cariatidi nel Palazzo Reale di Milano. Il cantiere di studio, Atti
del Convegno, Milano 8 marzo 2005, Edizioni Et, Milano, 2006,
pp. 47-53).
L’edificio, progettato in origine da Friedrich A. Stüler e Johan
H. Strack, aveva subito perdite integrali nell’angolo sud-est
e nell’ala nord.Tenuto conto del fatto che si trattava proprio del nucleo iniziale di tutto l’impianto dell’isola, le parti
sopravvissute sono state minuziosamente analizzate. L’esplorazione di stato di fatto e possibilità di intervento ha facilitato le scelte di restauro, col discernimento preciso del
degrado presentato dalla decorazione di superficie, dal dettaglio architettonico e dalla conformazione strutturale; individuando, di conseguenza, le due opposte possibilità di
sostituire le mancanze con copie analogiche o con forme
distinguibili.
Le soluzioni desunte dai confronti progettuali ipotetici hanno condotto al ristabilimento della volumetria e dei profili
originari, mediante la riconnessione dei frammenti, rigorosamente consolidati e protetti, completati con elementi nuovi
da essi disgiunti fisicamente e visivamente mediante una differenziazione sia materiale che formale.
I vuoti volumetrici e le perdite di elementi consistenti,
come le scale dello Stüler o l’abside della corte dell’ala sud,
sono stati risarciti mediante la restituzione degli ambienti
e della sequenza spaziale, in una riduzione disadorna dei
corpi mancanti limitata a sistemi strutturali, proporzioni,
ritmo e tettonicità degli elementi compositivi. Invece, per
le grandi superfici decorate, si sviluppano diversi livelli di
restauro, basati su un arrangiamento che privilegia la conservazione delle porzioni autentiche superstiti senza alcuna
monumentalizzazione.
L’obiettivo, in sintesi, è stato quello di restituire una vita funzionale all’edificio, completando l’esistente senza imitazioni
né intenti scenografici e trasformandone il degrado in caratteristica acquisita, quindi accogliendo sia il nuovo che i segni
di danneggiamento come ulteriori testimonianze stratigrafiche, in un arrangiamento finale che è come una parafrasi delle
antiche partiture architettoniche.
Berlino,
Neues Museum
(David Chipperfield,
1997-2009).
Reintegrazione
della facciata
in laterizio
In basso a sinistra:
lo spazio centrale
diruto e la
ricomposizione
dello scalone
dello Stüler
Sopra: Neues Museum.
Parete occidentale della cappella nord
al secondo piano: stato di fatto
e simulazione delle risarciture
(fotomontaggio D. Chipperfield Architects).
Si è scelta una pulitura dai depositi incoerenti
rispettosa della patina del tempo acquisita
dalla superficie e una reintegrazione meramente
conser vativa limitata ai materiali a rischio
n.33-34
2009
13
Il caso italiano della Sala delle Cariatidi
al Palazzo Reale di Milano
Il Palazzo Reale di Milano, fondato su un Broletto del XII
secolo, ha subito ripetute trasformazioni che accompagnano
le vicende storiche della città. Dal 1919 l’intero palazzo venne
acquisito tra le proprietà dello Stato e nel aperto al pubblico come Museo d’Arte Applicata all’Industria (1922).
La sala da ballo detta Sala delle Cariatidi si fa risalire a un
progetto di Francesco Croce e la sua realizzazione si colloca nel XVIII secolo, precisamente tra il 1774 e il 1778, nell’ambito degli adeguamenti del palazzo al gusto neoclassico
eseguiti dal regio architetto Giuseppe Piermarini. Durante
i bombardamenti subiti dalla città nel 1943, la sala fu colpita
da uno spezzone incendiario che causò l’incendio del sottotetto e bruciò lentamente l’orditura lignea della copertura.
Le grosse capriate crollarono, travolgendo la volta e il ballatoio perimetrale, il pavimento bruciò, l’elevata temperatura surriscaldò gli stucchi e ne alterò non solo il colore ma
anche la materia costitutiva.
In alto:
la Sala delle
Cariatidi
del Palazzo Reale
di Milano, prima
del bombardamento
del ’43 (da M.
Palazzo, “La Sala
delle Cariatidi:
il luogo e la storia”,
in “Palazzo 2006”,
pp. 57-64)
Al centro:
resti della sala
alle intemperie,
subito dopo
il bombardamento
e a seguito
della rimozione
delle macerie
(da “Palazzo 2006”)
n.33-34
2009
14
In basso:
la mostra allestita
con il celebre
“Guernica”
di Picasso (1953)
Per sessant’anni la sala rimase nelle vesti di un relitto in attesa di riparazione, con i partiti decorativi gravemente danneggiati, in specie nelle parti aggettanti. Nell’immediato dopoguerra essa venne utilizzata per mostre ed eventi culturali,
talvolta proprio per la suggestione dei danni bellici e per la
perfetta ambientazione di sapore neorealista. È il caso dell’esposizione del Guernica di Picasso (1953), o di quella sugli
Etruschi allestita nel 1955, in una perfetta sintonia tra i ruderi dell’ambiente e la frammentarietà degli oggetti in mostra.
La cultura del consumismo opta piuttosto per occultare
l’aspetto drammatico con occasionali scenografie provvisorie, così da evitare qualsiasi confronto con la memoria e sfruttare lo spazio come mero contenitore (L. Corrieri, La Sala
dopo il 1943: una nuova scenografia architettonica, in Palazzo
2006, pp. 65-71). Oggi, il distacco temporale contribuisce a
ridurre la partecipazione emotiva e a maturare un equilibrio
propizio per orientare per l’auspicato restauro della sala.
Gli studi intrapresi a tal fine dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e il Paesaggio di Milano hanno registrato un
ritardo di almeno due anni nel rifacimento della copertura
crollata, tempo in cui l’ambiente rimase totalmente esposto
agli agenti atmosferici, con aggravarsi delle condizioni del cornicione di coronamento, delle parti residue del ballatoio, dei
partiti decorativi, delle statue e del pavimento. Inoltre, l’alienazione e la svendita dei materiali accatastati ovunque, convenuta per far fronte allo sgombero delle macerie dal palazzo,
fu causa di perdita di elementi residuali che sarebbero stati
oggi preziosi per la conoscenza delle fattezze originarie della
sala da ballo, come ad esempio i frammenti della ringhiera
neoclassica e i cerchi e braccetti dei girandò dell’illuminazione. Quando nel 1947 si allestì un ponteggio per il rifacimento della volta, le decorazioni si presentavano ormai quasi
irrecuperabili. Il ponteggio stesso venne allestito con grandi
scassi alla muratura, la volta rifatta con una geometria leggermente diversa dall’originale – decorata poi con una rievocazione semplificata delle partiture originarie – e il pavimento rinnovato con una tecnica alla veneziana di grossolana fattura.
Da un’attenta analisi, si scorge con stupore che lo stato di
conservazione è peggiorato gravemente nel corso degli anni,
a causa delle disattenzioni e del discutibile uso della preesistenza alla stregua di un padiglione fieristico. I danni maggiori sono forse quelli causati dalla sostituzione degli infissi di
quercia alle finestre, che ha lasciato i quattro spigoli sul fronte interno di ogni vano segnati dagli scassi dell’asportazione
delle cornici che li riquadravano. Ma inoltre, l’uso dell’ambiente malridotto come sala espositiva ha provocato un’usura
avanzata della parte bassa di tutte le pareti e una successione ininterrotta di manomissioni deturpanti, quali insensate demolizioni dell’apparato decorativo per l’alloggiamento di impianti.
Dall’anno 2000 si è iniziato a rimuovere l’annerimento dell’incendio del ’43 e sono emerse le mancanze in tutta la loro
consistenza, tanto da stabilire la necessità di un cantiere di
studio preliminare all’intervento, promosso dalla Direzione
Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia
con la collaborazione della Direzione Musei del Comune di
Milano, progettato e diretto tra il 2004 e il 2005 dall’Istituto
Centrale del Restauro e dalla Soprintendenza di Milano.
Allestito su un tratto della parete destra della sala per
un’estensione di due campate dell’ordine decorativo, il cantiere è servito ad approfondire la conoscenza dell’opera e a
sperimentare le metodologie di restauro più idonee, nel tentativo di stabilire la finitura da restituire alle superfici e la presentazione finale dell’ambiente, per un riuso più rispettoso
e consapevole dei suoi valori storico-artistici.
Il discernimento delle tecniche da mettere in atto è stato mirato alla valutazione di massima di un successivo restauro dei
quattro prospetti della sala.
In sintesi, il criterio operativo individuato varia in funzione
dello stato lacunoso delle superfici e sembra rispondere a una
graduale intensificazione delle opere di reintegrazione, a partire dalla parte bassa fino in cima ai prospetti. Nell’ordine inferiore, interessato dalla presenza di specchi e finestre, ci si
è trovati a dover restituire, infatti, anche parti di arriccio che
avevano talvolta lasciato la muratura a vista, riproponendo
una superficie non completamente finita ma almeno reintegrata fino allo strato dell’intonaco esterno, senza coloritura.
Il rifacimento delle decorazioni si è limitato a riproporre quelle di tipo seriale, ma soltanto nel caso di brevi tratti in cui la
discontinuità si presentava circoscritta e d’intralcio alla percezione dei frammenti delle cornicette originarie, rese riconoscibili dal nuovo tono grigio accostato alla doratura scurita dalle forti temperature dell’incendio.
In alto da sinistra:
particolare
dell’“Incoronazione
di Ferdinando I
a Re del Regno
Lombardo-Veneto”,
1838 (Archivio
Achille Bertarelli,
Milano)
La copertura
in cemento armato,
ricostruita con
profilo cur vilineo
leggermente
ribassato rispetto
alla precedente
volta e partizioni
semplificate
dell’antica
decorazione
(foto M. Ranzani)
Sotto a sinistra:
le cornici lignee
dei vani finestra del
registro superiore
dell’apparato
decorativo, prima
e dopo essere
state smurate
per il rifacimento
degli infissi, con
profonde lacerazioni
degli spigoli del vano
(Archivio Achille
Bertarelli, Milano)
Particolare
dei danni causati
dall’inserimento
n.33-34
degli impianti
2009
all’interno delle
murature della sala
15
Porzione del
cantiere di studio
da cui si evince
lo stato di fatto
precedente
ai lavori (ICRSoprintendenza
per i BBAA
e per il Paesaggio
di Milano, 2004)
A destra:
le prove hanno
esplorato i limiti di
reintegrazione degli
strati di finitura
e dell’apparato
decorativo
(cornici e decori
di tipo seriale)
Sotto:
prova di rievocazione
del ballatoio al di
sopra dei mensoloni
aggettanti preposti
a sostenerlo
Nella fascia di separazione dei due ordini decorativi, sono
state lasciate chiaramente leggibili le risarciture dell’intonaco, con una restituzione parziale degli strati che non ha raggiunto il livello dell’intonachino superficiale e ha soltanto
reso affine il colore naturale della malta al finto marmo rosa
sopravvissuto in ampi tratti dell’architrave.
Proseguendo verso l’attacco della volta, si è potuto ridurre
il grado di reintegrazione restituendo le modanature in maniera sempre più semplificata e ammettendo la presenza di
sensibili lacune, ad esempio, nelle scanalature delle semicolonne. Il cornicione sommitale è stato uniformato da un trattamento minimo, con lieve accenno dei livelli del profilo originario senza restituzione di alcun decoro seriale.
Radicalmente conservativo, infine, è stato il restauro dei manufatti artistici, come statue, stemmi e cariatidi. In essi si è
provveduto a consolidare e proteggere il materiale originario,
cercando l’armonia finale nella sola riequilibratura cromatica
risultante dalle operazioni di pulitura superficiale e velatura.
All’interno del cantiere di studio è stata affrontata in maniera preliminare anche la problematica del ballatoio perduto,
mancanza che altera notevolmente le proporzioni dei due
ordini decorativi sovrapposti. Una prima ipotesi di “restituzione scenografica” raffigura un tratto della ringhiera che potrebbe suggerire l’idea generale, ma restano al vaglio dei responsabili altre ipotesi di restituzione dell’ingombro mediante reinterpretazioni contemporanee minimali.
Intanto, dalla prova eseguita emerge lo stretto rapporto che
intercorreva fra le pareti e il sistema di mensole, oggi apparentemente estraneo all’ornato, allora mediato dalla decorazione presente all’intradosso dell’aggetto ligneo. La conseguenza più importante della ritrovata volumetria del ballatoio, in ogni caso, sembra essere la possibilità di una percezione più consona dello spazio.
Di recente, gli esiti del cantiere pilota sono stati sottoposti
alla valutazione di una speciale commissione incaricata di
estendere l’area del restauro. Il ponteggio, in fase preliminare, è stato allestito sui due prospetti interni trasversali e su
quello longitudinale che include le campate già trattate. Oltre
al pre-consolidamento per la messa in sicurezza dei materiali a rischio, sono state previste indagini conoscitive in punti
ben conservati – come ad esempio le finestre dipinte e la
cornice sommitale integra dell’angolo sud-ovest – che potranno offrire riscontri sulla natura costruttiva degli elementi originari. In vista della flessibilità di demarcazione delle
reintegrazioni e della possibilità di intervenire per strati,
sembra chiaro che la riuscita del restauro debba risultare
dall’oculata articolazione degli effetti estetici di ognuna delle
operazioni: equilibrio delicato che richiederà un raffinato senso dell’armonia complessiva.
Con la restituzione integrale di questo gioiello architettonico, all’interno del complesso già ampiamente restaurato, si
completerà l’opera di valorizzazione che fa del Palazzo Reale,
ancora una volta, un riferimento nodale della vita culturale
milanese.
Beatrice Vivio
percorsi
lecorbusieriani a cura di Valerio Casali
La “Mano Aperta”
n.33-34
2009
18
L
Le Corbusier,
“Composition
avec une poire”,
1929
e particolare
e Corbusier attribuisce alla
mano un ruolo importante,
quello di celare – e dunque poter
rivelare – le più recondite caratteristiche della personalità degli uomini: «La
mano che contiene tante linee interne e tanti significati nel suo contorno,
nel suo tessuto; essa contiene la personalità dell’individuo, il che vuol dire che
le cose più nascoste, più segrete, più
soggettive, più inafferrabili possono benissimo essere rivelate da una linea della mano, dai muscoli della mano, dal profilo della mano».1
La mano è altresì un formidabile mezzo
di conoscenza:
Gli utensili nella mano
Le carezze della mano
La vita che si gusta attraverso
il tocco delle mani,
La vita che è nella palpazione.2
Le Corbusier,
“La main
et le silex vert”,
1930 -32
Inoltre la mano è – insieme alla testa
– coprotagonista del processo creativo
di opere d’arte: disegni, pitture, scultu-
re, architetture; il processo si origina
nel cervello, ove l’opera viene concepita e da qui passa alla mano, incaricata di tradurre in pratica ciò che la mente ha ideato: «Testa-e-mano da cui esce
tranquillamente l’opera umana carnee-spirito».3 Ma la mano non è solo una
mera esecutrice; essa introduce nelle
opere che disegna degli apporti autonomi, al punto che i ruoli possono addirittura scambiarsi e, in certi momenti, la mano si trova ad essere protagonista della creazione: «Facevo passare
dalla mia mano alla mia testa…»; 4 e:
«Talvolta è la mia mano che precede il
mio pensiero…».5
La mano nell’opera plastica
di Le Corbusier
Nell’opera grafica e pittorica del maestro, la mano è elemento che ricorre
con grandissima frequenza, rivestendo
una particolare importanza; le innumerevoli mani che Corbu disegna – accor-
dando loro particolare attenzione, attribuendo loro una dimensione maggiorata in rapporto ai corpi rappresentati e facendone sempre elementi
di primaria importanza nel contesto
dell’opera – costituiscono una vera e
propria “corrente”,6 che percorre trasversalmente tutta la creazione artistica lecorbusieriana.
La mano comincia ad apparire nei quadri tardo-puristi 7 sotto forma di guanto;
Le Corbusier stesso chiarisce – nel
1951 – che il guanto deve essere considerato come riferimento alla mano,
in quanto «un guanto vuoto prova che
una mano è passata di là».8
La troviamo per la prima volta in Guitare et mannequin del 1927 e poi in numerose pitture dello stesso anno e degli anni seguenti, ove la mano prende un’importanza crescente, come, ad
esempio, in Composition avec une poire,
del 1929, ove compare ancora sotto
forma di guanto – fino a divenire addirittura protagonista in La main et le silex
Le Corbusier,
“Trois bagneuses”,
1935,
e particolare
Sotto:
“Les dents du midi”,
cartolina
Le Corbusier,
disegno della “petite
maison” a Vevey,
1945, sullo sfondo
“Les dents du midi”
e particolare
del 1930, il primo quadro interamente
dedicato alla mano, per poi continuare
a giuocare un ruolo basilare nel monumento a Paul Vaillant Couturier del
1937, o in Les lignes de la main del 1939,
ancora interamente consacrato all’immagine di una mano.
In un quadro del 1935, Trois bagneuses,
la cui zona baricentrica è occupata da
due grandi mani intrecciate, si trova,
in posizione secondaria, il disegno di
una mano che presenta una totale analogia con quello che sarà il primo disegno della Mano Aperta, una vera Mano
Aperta ante litteram.
Dieci anni dopo, nel 1945, disegnando
in occasione di una visita alla madre una
serie di schizzi della piccola casa che
aveva costruito tanti anni prima a Vevey
in Svizzera per i genitori, Le Corbusier
rappresenta una montagna – Les dents
du midi – dalla caratteristica cima dentata, come una mano aperta emergente dal Lago Lemano.
L’idea della “Mano Aperta”
La Mano Aperta nasce, come concetto
e al contempo come segno, nel 1948: 9
«La Mano Aperta è un’idea nata a Parigi, spontaneamente, o più esattamente
come conseguenza a delle preoccupazioni e a dei conflitti interiori venuti dal
sentimento angosciante della disarmonie che separano gli uomini così spesso e ne fanno dei nemici».10 Ma, come
se da sempre abitasse il subconscio del
maestro, pur senza esplicitarsi, l’immagine è già presente in scritti risalenti a
epoche molto precedenti; nel 1929 il
sito di Rio de Janeiro è paragonato a
una gigantesca mano aperta: «Les hauts
plateaux seraient comme le dos d’une
main s’écrasant grand ouverte, au bord
de la mer; les montagnes qui descendent
sont les doigts de la main; ils touchent à
la mer; entre les doigts des montagnes,
il y a les estuaires de terre, et la ville est
dedans»; 11 e: «D’avion, j’ai dessiné pour
Rio-de-Janeiro, une immense autostrade
reliant à mi-hauteur les doigts des promontoires ouverts sur la mer»;12 nel 1935,
osservando come a New York non esistano alberi se non a Central Park, nel
Le Corbusier,
la “Mano Aperta”
In alto:
Le Corbusier,
la “Mano Aperta”
con cinque donne,
1948
n.33-34
2009
20
corso della entusiastica descrizione di
una creatura vegetale, afferma: «Jeu mathématiquement mesuré des branches démultipliées à chaque printemps d’une nouvelle main ouverte»;13 e parlando di New
York: «New York, forte, fière d’elle-meme,
en “prosperity”ou en “depression”,est comme une main ouverte au-dessus des tetes.
Une main ouverte qui cherche à pétrir la
substance d’aujourd’hui».14
Dapprima la Mano Aperta nasce come
concavità – un elemento capace di contenere – e la si trova curiosamente accostata a una composizione formata da
un gruppo di cinque donne, disposte
come dita di una mano: «Un primo
schizzo apparve, spontaneamente – una
specie di conchiglia galleggiante sopra
l’orizzonte: ma delle dita divaricate mostrano una mano aperta come una vasta conca»;15 poi come profilo di una
mano aperta ma piatta, non formante
concavità: «Più tardi, l’anno seguente,
in un albergo della Cordigliera delle
Ande, l’idea ritorna, prendendo una forma differente; non è più una conca, ma
uno schermo, una silhouette. È il valore
silhouette che si svilupperà nel corso
degli anni».16
La Mano Aperta è il segno – per Le
Corbusier un “segno” è un’immagine
particolarmente pregnante, capace di
rimandare immediatamente a un concetto – più importante della mitologia
lecorbusieriana e rappresenta la mano
stessa del maestro, che nella lunga ricerca per la definizione del segno medesimo esplora a più riprese la strada dell’autoritratto della mano.
La Mano Aperta è simbolo di un atteggiamento duplice – prendere e offrire
– ed esprime dunque la capacità di assorbire l’immenso patrimonio disponibile – «le ricchezze create»17 – per
conseguire un grande arricchimento
Le Corbusier,
la “Mano Aperta”
Sotto:
Le Corbusier,
la “Mano Aperta”
ne “Le Poème
de l’Angle Droit”
e particolare
interno e quella di mettere il frutto di
questa ricchezza a disposizione di tutti gli uomini. È esattamente ciò a cui
Corbu ha consacrato la sua vita: apprendere sempre, comunque e in ogni
situazione, e offrire la propria opera, il
proprio pensiero (l’unica cosa capace
di essere eterna),18 nati da questa sostanza assorbita.
Ne Le Poème de l’Angle Droit in cui alla
Mano Aperta è consacrato un intero capitolo, Le Corbusier afferma:
Aperta per ricevere
Aperta anche perché ognuno
Venga a prendervi;19
e conclude mirabilmente:
A piene mani ho ricevuto
A piene mani dono.20
V. C .
Le note sono consultabili sul sito:
www.mancosueditore.eu (alla voce riviste)
Cantieri a Dubai
itinerari e
periferie a cura di Ida Fossa
Una
scommessa
n.33-34
2009
22
persa?
D
ifficile distinguere il miraggio dalla realtà. Dubai,
una città dove ogni sua parte è progettata con
l’intento di suscitare meraviglia, nella svariata coniugazione
di un unico connubio: lusso e stravaganza. Avveniristici grattacieli, arcipelaghi artificiali, progetti faraonici hanno fatto dell’emirato una palestra per architetti e urbanisti all’insegna del
“tutto è possibile”.
Nata dal nulla, non avendo le risorse petrolifere di Abu Dhabi,
non il gas del Qatar, ma da una scommessa, quella di diventare la capitale del business e del turismo del mondo arabo.
La sua storia inizia nel 1833, quando Al Maktoum bin Butti
guidò un migliaio di persone della tribù Bani Yas alla conquista
di Bur Dubai, una zona desertica affacciata sul Golfo Persico.
Da qui ha origine la storia di Dubai e del potere degli Al
Maktoum, che da allora hanno governato e creato la città.
Sono stati addirittura paragonati ai Medici, che con la loro
abilità e potenza economica hanno finanziato il Rinascimento a Firenze. È infatti lo sceicco Maktoum bin Hasher Al
Maktoum, nel 1894, a concedere una totale esenzione fiscale per i commercianti stranieri, dando il via a una enorme
espansione economica, e sarà 30 anni dopo lo sceicco Rashid
bin Said Al Maktoum a fare di Dubai il più importante porto
franco di importazione e riesportazione. Nel 1971 diventa la
capitale di uno dei sette Stati che compongono gli Emirati
Arabi Uniti (EAU). Nel 1990 il figlio Maktoum bin Rashid Al
Maktoum prende il potere investendo nel commercio e nel
turismo, e nel 2006 prende le redini il fratello Mohammed
che, con il 99,67% della Dubai Holding controlla l’impero
economico.
L’88% degli abitanti è composto da immigrati, di 130 etnie
diverse, per lo più provenienti da India, Pakistan e Bangladesh. Fino alla fine degli anni ’80 quasi sconosciuta, la città
si è affacciata al nuovo secolo come un hub finanziario e
turistico di richiamo mondiale. Uomini d’affari, miliardari,
celebrità della moda e dello spettacolo di tutto il mondo
si incontrano qui in cerca di affari e stravaganze (dalla
partita a golf nel campo sospeso nel vuoto del Burj Al
Arab alla gara di sci nelle piste innevate, al sandboarding
nel deserto). Esagerata e ambiziosa, è sempre a caccia
di primati.
Burj Al Arab, l’albergo più lussuoso,
l’unico al mondo ad avere 7 stelle, è diventato il simbolo della città. Su un’isola artificiale, alto 351 m, si protende sul
mare come un’enorme vela gonfiata dal
vento. Al suo aspetto esterno che ci
sorprende per l’eleganza e l’essenzialità
corrisponde un interno assolutamente
kitsch: varcando la soglia il luccichio di
8.000 mq di foglia d’oro a 22 carati ci
abbaglia nella pesantezza delle decorazioni, in un’orgia di marmi pregiati, cascate d’acqua e zampilli.Tra le stravaganze campi da tennis sospesi nel vuoto
a 321 m d’altezza, ristoranti immersi in
un acquario, e nelle toilette per signore
dispenser di creme Hermes.
Burj Dubai. Arch. Adrian Smith (SOM),
società che ha sviluppato il progetto
Emaar Properties. Appena inaugurato
– con il nome di Burj Khalifa –, in
notevole ritardo rispetto alle previsioni, risulta essere l’edificio più alto
del mondo con i suoi 828 m. È composto da tre corpi che si avvolgono
a spirale su una colonna centrale. È
stato costruito con il sistema autorampante SKE.
Qui Armani ha voluto il suo primo hotel:
160 tra stanze e suite, ristoranti gourmet,
centro benessere in oltre 40.000 mq e
114 residenze private da 100 a 200 mq
all’interno della torre più alta del mondo, di quello che ormai è il simbolo di
Dubai.
Emirates Towers, sono il cuore pulsante del business district; arch. Hazel WS
Wong Norr, alti una 354 m, l’altra, sede
dell’Hotel Jumeirah, due in meno. Dal
ristorante panoramico all’ultimo piano
si ha una vista che smentisce clamorosamente la sensazione percepita dal
basso, dove il rispecchiarsi dei grattacieli nelle facciate ci faceva sentire a
Manhattan, mentre dall’alto l’effetto è
quello del film The Truman Show: una
modesta serie di grattacieli allineati, e
dietro… il niente, in questo caso non
un teatro di posa, ma il deserto.
Dubai International Financial Centre (DIFC), zona franca, è una vera e
propria città destinata a ospitare non
solo le sedi delle società finanziarie e
i loro uffici operativi, ma anche hotel,
appartamenti, gallerie d’arte, palestre,
ristoranti, centri commerciali. Il Gate
ospita l’authority del mercato finanziario, con la sua forma cubica ad arco di
trionfo sembra simboleggiare la solidità economica; ai suoi piedi il gruppo
Gensler ha collocato delle enormi formiche dorate, forse un incitamento al
risparmio.
Palma Jumeirah è attualmente la più
grande isola artificiale al mondo; come
una palma stilizzata formata da un tronco centrale e da 16 rami disposti simmetricamente, circondata da una serie
Burj Al Arab:
esterno e interno
Burj Dubai
Lago artificiale
sotto il Burj Dubai,
The Old Tower
Island
n.33-34
2009
23
Gli arcipelaghi
artificiali di Dubai
visti dall’alto
In basso:
Hotel Atlantis
a Palma Jumeirah,
vista dall’alto
e interno
A destra:
un acquario
ad Aquaventure
di isole che formano una corona circolare. La sua costruzione è iniziata nel
2001 e avrebbe dovuto terminare a fine
2008.Alcune parti sono ultimate, altre
in fase di completamento, altre interrotte, altre mai iniziate. È un’opera faraonica che comprende lussuosi hotel, ville
e appartamenti in case a schiera che si
affacciano sul mare, un mare simile a una
piscina, profondo meno di due metri e
con l’acqua stagnante che inizia a imputridire, accessibile da un lembo di sabbia con il cemento sottostante che riaffiora qua e là. Le costruzioni sono diversificate nello stile (dal palladiano al mo-
resco, al razionalista) ma lo squallore è
caratteristica comune, nonostante l’abbondante uso del colore. L’hotel più
folle è l’Atlantis, un palazzone rosa formato da due torri unite da un enorme
arco orientaleggiante che ospita le suite
più lussuose. Offre 1.539 camere dagli
arredi d’ispirazione marina, come gli
spazi comuni con decorazioni che vanno dal simil-cretese al simil-pompeiano.
Sotto il resort ci sono corridoi trasparenti che conducono a camere con pareti in vetro che si affacciano su un gigantesco acquario con 65.000 specie
marine. Dall’albergo si può accedere al
l’Aquaventure, 17 ettari di piscine, scivoli, onde, squali e un delfinario.
Palma Jebel Ali, formata anch’essa da
un tronco centrale e da 17 fronde e circondata da un insieme di isole che formano una barriera semicircolare. Sarà
destinata sia ai residenti, nelle numerose ville e appartamenti di varie dimensioni, che ai turisti, nei numerosi hotel.
Comprenderà sei porti turistici, un villaggio marino, un parco acquatico. La sua
costruzione iniziata nel 2002 è tutt’ora
interrotta.
Palma Deira è la più grande delle tre
Palme. La sua estensione sarà di 14 km
Businessdistrict.
Emirates Tower
di lunghezza per 8,5 km di larghezza
con una superficie di 80 kmq. Dal tronco centrale si aprono 41 fronde e ha
una corona circolare e una barriera a
mezzaluna lateralmente. Sarà composta da immobili residenziali, porti turistici, centri commerciali, impianti sportivi, club. L’area residenziale si trova
sulle fronde e conterrà 8.000 case a
due piani in tre stili diversi, ville con
vista rifinite lussuosamente e appartamenti. I lavori, iniziati nel 2004, sono
stati interrotti.
The World è un arcipelago di 300 isole costruite approssimativamente a forma delle masse terrestri, a 4 km al largo
della costa. Il progetto è stato originariamente concepito dal sovrano Sheikh
Mohammed bin Rashid Al Maktoum,
sviluppato dalla società Nakheel Properties. Si estende su una superficie di
14.000 mq, 9 km di lunghezza per 6 km
di larghezza, circondata da un’isola ovale
frangiflutti. Qui è stata realizzata la più
rivoluzionaria operazione di delocalizzazione di corallo che sia mai stata effettuata; 22.500 colonie di corallo sono
state localizzate, unitamente a 30 specie
di pesci, nel Golfo Persico, nonostante
l’alta temperatura dell’acqua (che spesso arriva ai 35°) ne renda la vita difficile.
L’operazione è stata compiuta dal Dipartimento di Scienze Naturali della
Zayed University con la Nakheel. La
distanza fra le varie isole è in media di
100 m. La sua realizzazione è iniziata nel
settembre 2003 ed è stata interrotta
all’inizio del 2009.
Waterfront, pensato con l’intento di
creare il migliore litorale al mondo.
Attualmente è solo una proposta che
non è stata finanziata. A forma di una
mezzaluna che circonda Palm Jebel Ali.
Se costruito, il complesso dovrebbe
ospitare 1,5 milioni di abitanti su un’area
di 400 kmq (sette volte Manhattan),
creando altro spazio per hotel, villaggi turistici, centri di villeggiatura, centri commerciali. È composto da 10 settori chiave, tra questi il Medinat Al
Arab, destinato a diventare il nuovo
centro economico di Dubai, su progetto di un consorzio internazionale di
architetti. Situato nei pressi del nuovo aeroporto, sarà facilmente accessibile sia a scala nazionale che internazionale; sono previste grandi opere
infrastrutturali, per ora è iniziata solamente la costruzione di un breve tratto, rimasto interrotto, dell’Arabian
Canal, che partendo dalla base della
mezzaluna si dovrebbe inoltrare nel
deserto per 70 km.
Hidropolis, hotel sottomarino su progetto di Joachim Hauser, interamente
costruito in Germania, è una specie
di sottomarino in acciaio, cemento e
plexiglas che verrà ancorato al fondo
marino a una profondità di 20 m, a distanza di 300 m dalla costa. Dovrebbe
avere 220 suite panoramiche, tre ristoranti, terme, bar, centro commerciale, il primo museo sottomarino al
mondo e in superficie due strutture
trasparenti ospiteranno un teatro e
una spiaggia ombreggiata da nuvole artificiali. Dovrebbe essere collegato alla
terraferma da un tunnel trasparente.
Non è stato realizzato.
Dubai Marina, la prima fase di questo progetto è stata completata. Si
estende su 25 ettari su una piattaforma sul mare, comprende sei torri (Al
Messa, Fairooz, Murjan, Mesk, Al Anbar,Yass) con appartamenti, 64 ville sul
lungomare. Al termine della seconda
fase i grattacieli saranno 200. Molte le
copie già realizzate, tra cui le “Torri
Gemelle” e il “Chrysler”. È la zona
della città più frequentata dagli europei e soprattutto dai giovani che lavorano per le società imprenditrici e
finanziarie. Solo a Dubai Marina è possibile passeggiare sul lungomare e accedere al porto, sul quale affacciano
negozi, giardini, bar e ristoranti; soltanto in questa area c’è quella quotidiana vita pedonale che caratterizza
le città di quasi tutto il mondo.
n.33-34
2009
25
Dubailand: il parco
divertimenti più grande
del mondo
Enorme complesso turistico su una superficie di 278 kmq, comprende 45 megaprogetti e 200 progetti minori. Annunciato nel 2003, è diviso in sei aree
tematiche (mondi): Attrazioni ed esperienza del mondo, Sport e outdoor world, Ecoturismo del mondo, Tempo libero e vacanze
nel mondo, Retail and entertainment world,
Downtown. Tra questi: Parco Sahara,
su 460.000 mq. Il tema è il folklore arabo e le storie delle Mille e una notte,
con spettacoli dal vivo e virtuali. È stato
realizzato.
Sports City è un complesso che ospiterà impianti sportivi su una superficie
di 7,5 kmq.Avrà quattro stadi: uno per
il rugby, il calcio e l’atletica leggera con
una capacità di 60.000 spettatori, uno
per il cricket con 25.000 posti, uno co-
Una scommessa persa
o un’occasione da non perdere?
Non si vedono il condominio-Torre Eiffel, né la Torre di Pisa,
né la Grande Muraglia cinese emergere tra le dune che
circondano Dubai, lì dove dovrebbe sorgere Falcon City,
all’interno di Dubailand, il più grande parco divertimenti
del mondo. I cartelli pubblicitari che annunciavano con accattivanti rendering le faraoniche realizzazioni sono sbiaditi, lacerati, colpiti dal sole e dal vento con l’impeto della crisi che
si è abbattuta anche qui, dove sembrava che tutto poteva
essere possibile.
Si dice che molte gru si siano fermate, che l’uomo d’affari
irlandese John Dolan, che aveva acquistato le isole Irlanda e
Inghilterra dell’arcipelago The World, si sia suicidato per le
sopraggiunte difficoltà finanziarie, che vengano cancellati 1.764
visti di residenza al giorno… nel Paese dell’esagerazione anDubailand che la crisi sembra esagerata!
perto multifunzionale con 10.000 posti
e uno per l’hockey su prato per 5.000
spettatori. Sarà dotata di strutture sportive e ricreative, centri residenziali, sociali e commerciali con tutti i servizi
correlati. Può ricevere 70.000 persone
al giorno. La prima struttura completata
è il campo da golf di 18 buche Club Els.
La fine dei lavori era prevista per il 2010
ma attualmente sono interrotti.
Dubai Science World comprende
numerosi progetti fantasmagorici nell’ambito del tema Attrazioni ed esperienza del mondo, ma attualmente sono
interrotti.
Ski Dome, immenso complesso per
sport invernali interamente coperto;
realizzato con 6.000 tonnellate di vera
neve. Composto da diverse piste di varia difficoltà, sentieri, piste per snowboard, pinguinarium, acquari, bagni termali a differenti temperature. La sua realizzazione non è iniziata.
Sembra che lo sceicco Rashid bin Said Al Maktoum abbia
esagerato nel promettere un mondo dorato, nei suoi eccessi creativi, nel costruire opere sempre più impegnative
attirando capitali da tutto il mondo e usarli per ancora altri
complessi senza avere portato a termine e venduto i precedenti. Sembra che i meccanismi che avevano alimentato la
crescita abbiano portato il governo e le principali società a un
livello di debiti insostenibile, e che a questo punto la vicina
Abu Dhabi sia intervenuta!
Come dice Walter Siti ne Il canto del diavolo «Dubai è una
città dove l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura».
È una città che,prendendo esempio da Disneyland e Las Vegas,
propone una miscellanea “vera” di tutto ciò che è “falso”. In
questa città senza una sua anima, che non trova una sua identificazione né nelle metropoli occidentali formate dal sovrapporsi dell’esistere, né nei valori delle tradizioni mediorientali,
questa crisi può essere un’occasione… Economisti e giornalisti traggono le conclusioni più diverse, ma i residenti vedono
positivamente il cambiamento. La situazione fa riflettere. Nello
sconquasso delle grandi compagnie internazionali, fino allo
scorso anno unica fonte di riferimento, ora lo spirito imprenditoriale locale sta trovando il suo spazio cercando di stabilire nuovi modelli di produzione culturale e sociale. Quando
la crisi ha cominciato a lambire le sue coste, la città si è finalmente resa conto di essere un insieme di frammenti dove la
ricchezza celebrava la sua potenza, ma senza veri contenuti.
È stata creata l’Authority per la Cultura e le Arti, che sta promuovendo la creazione di alloggi economici, di posti di lavoro part-time, di programmi di sostegno finanziario e la creazione di musei e, soprattutto, promuovendo attività che utilizzano le risorse e i talenti locali. Si sono attuati progetti
per creatori, artisti, designer che sono già entrati nel mercato internazionale (la prima serie di mobili contemporanei
disegnati e prodotti a Dubai esporrà al prossimo Salone del
Mobile di Milano). Nei 93.000 mq dell’Entrepeneur Business
Village, nelle sue torri variopinte lasciate deserte dagli impiegati stranieri, si sono installati nei loro uffici i giovani ricercatori e gli imprenditori più brillanti della città. Con la crisi
globale e l’avvenuto “scoppio” della bolla immobiliare nell’emirato, oggi si stanno rivedendo i programmi. Sui mercati
finanziari è scattato l’allarme… Il futuro di Dubai è a rischio
o si riuscirà a vincere la scommessa?
I. F.
L’innovativo bordo per piscina
Dolphin
Florim mette ancora una volta a frutto il proprio know-how tecnico e
propone al mercato una nuova e rivoluzionaria tipologia di bordo piscina nel formato 30 x 60 cm: Dolphin. Costituito da un’anima in materiale ultraleggero impermeabile, rivestita da prodotti ceramici antisdrucciolo, questo innovativo prodotto è un inedito pezzo speciale che abbina in maniera esclusiva i vantaggi di una forma ergonomica ed esteticamente accattivante con una flessibilità d’uso che lo rende adatto
ad essere utilizzato in vasche private, pubbliche, alberghiere, termali e
dedicate al wellness, con sfiori di tipo skimmer o traboccante (over flow
channel). Il bordo Dolphin è in grado di assicurare tutta una serie di vantaggi che lo rendono la scelta ideale per il progettista, potendo offrire
I nuovi pali a bassa invasività
di Kappazeta Aktiv
Aktiv, la nuova divisione aziendale della storica Kappazeta dedicata alle
tecniche di palificazione, propone una gamma di pali attivi a bassa invasività con i quali è possibile intervenire nei casi più svariati e complessi di cedimento in fondazione. Geoup e Georound, infatti, sono speciali
tipologie di palo che rivoluzionano i tradizionali interventi di consolidamento eseguiti con queste metodologie: sono meno invasivi, più
veloci e più economici dei sistemi fino ad ora disponibili sul mercato.
Entrambi i prodotti sono immediatamente attivi, in virtù del precarico
effettuato su ogni singolo palo prima del collegamento finale alla struttura. Le macchine e l’operatività necessarie per l’installazione, inoltre,
non richiedono estrazione di fanghi o realizzazione di getti, né produzione di terreno di risulta, vibrazioni o rumori, quindi si differenziano
notevolmente dalle tradizionali modalità di palificazione, risultando
decisamente meno invasive. Geoup, in particolare, è uno speciale palo
pressoinfisso ideale per la stabilizzazione e il sollevamento di strutture
e pavimentazioni esistenti, mentre Georound è uno speciale palo a elica
indicato per stabilizzare e sollevare fondazioni di strutture esistenti,
modularità a base 60 cm (per abbinarsi ai prodotti sia da esterno sia da
interno vasca), facilità di posa, leggerezza, sicurezza contro lo scivolamento, costanza dimensionale, adattabilità a vasche di qualunque forma,
ergonomia che facilita l’appiglio manuale, conformazione che limita le
tracimazioni d’acqua, isolamento termico, massima igiene, totale impermeabilità. La novità rappresentata da Dolphin sul mercato è garantita
anche dal fatto che si tratta di un elemento per il quale è stato effettuato il deposito di domanda di brevetto. La continua spinta verso la ricerca e l’innovazione, l’esperienza accumulata in più di 40 anni di storia e
oltre 30.000 piscine realizzate in tutto il mondo, la professionalità dimostrata dallo staff tecnico a supporto dei professionisti del settore,
infatti, fanno da sempre di Florim uno degli interlocutori più affidabili
per i progettisti di impianti natatori e centri benessere.
Florim Ceramiche – Fiorano Modenese (Modena) – www.florim.it
per la realizzazione di tiranti ed è applicabile anche nelle nuove costruzioni. Un approfondito apparato teorico e migliaia di casi brillantemente risolti in tutto il mondo attestano l’affidabilità e l’efficacia di questi
innovativi sistemi. La possibilità di collaudare ogni singolo palo, l’attivazione immediata della fondazione e il recupero delle quote, qualora
questo sia l’obiettivo da perseguire, sono soltanto alcune delle interessanti caratteristiche di Geoup e Georound.
Kappazeta – Loc. Alberi (Parma) – www.kappazeta.it
Numero
N
zero
sud chiama nord a cura di Maurizio Oddo
el varare una nuova rubrica,
all’interno di una rivista dedicata all’architettura italiana, non è facile definirne in maniera netta il campo
di azione, soprattutto se rapportato alla
cultura internazionale e, contemporaneamente, ai ristretti ambiti regionali
dell’Italia meridionale e della Sicilia in
particolare, lontana – anche se questo
non è necessariamente uno svantaggio – dai maggiori centri del dibattito
architettonico.
Nonostante l’approfondimento storiografico prodotto di recente, le trattazioni generali sull’architettura contemporanea riservano uno spazio non sufficientemente adeguato alla vicenda
n.33-34
2009
28
siciliana degli ultimi settant’anni. Nella
maggior parte dei casi, infatti, le analisi interpretative assegnano, anche agli
aspetti formali dei progetti presi in esame, un’attenzione del tutto marginale,
mostrando gravi carenze che si accentuano e diventano evidenti se ci si sposta nel campo più generale rispetto allo
specifico architettonico. Cosa è successo? Senza dubbio, i motivi sono tanti.
Alcuni legati a ragioni di critica militante; altri di natura storiografica.
Distante dal centro, vittima di circostanze sfavorevoli – a partire dalla imposizione di scelte illogiche, dettate da un
aberrante conservatorismo di maniera
o da una utenza poco incline al contem-
poraneo – e da ingiustificabili ritardi vincolati alle ipoteche ideologiche di una
ristretta cerchia di “studiosi” locali che
incessantemente e senza valide motivazioni ricercano il primato dell’architettura antica e moderna, l’architettura contemporanea è qui di norma trascurata. A testimonianza della sua esistenza – per inciso, le architetture realizzate, senza contare quelle solamente
progettate, sono in numero superiore
rispetto a quanto ci si possa immaginare – passeremo in rassegna alcune opere di quelle ritenute più significative, a
partire dalla seconda metà del secolo
scorso fino ad analizzare quelle del tempo presente, all’interno di un quadro
anche diacronico.
Senza dimenticare, ovviamente, che se
nelle regioni meridionali, quali per esempio la Sicilia, come ha evidenziato in più
di una occasione Luigi Prestinenza Puglisi, si trovano ottimi progettisti, le
loro opere rappresentano una sparuta
eccezione rispetto a tutto ciò che viene costruito.
Una precisazione. Come avviene di
norma in queste occasioni, è inevitabile che una nuova selezione di argomenti e di opere di architettura – nel mare
magnum disponibile, generato dal sistema mediatico dell’architettura, delle riviste patinate e alla moda – provochi
incertezze e avventate perplessità, soprattutto tra i lettori più avveduti. È
per questo che, in questo numero zero,
avverto la necessità di indicare le linee
portanti che caratterizzano alcune scelte di fondo e le prese di campo che
saranno mantenute, numero dopo numero, nonostante la diversità dei lavori presi in esame, scelti anche per evidenziare in che modo essi siano in grado di generare differenze e specificità.
Quest’ultima, soprattutto quando è riferita al luogo, costituisce uno dei perni
critici attorno ai quali è organizzata la
rubrica, rivolta a cogliere i caratteri essenziali di una identità locale piuttosto
che ricercare quelli di una corrispondenza astrattamente globale.
Ritornando ai criteri di scelta usati per
la selezione, nonostante alcune sostanziali discrepanze di natura generazionale e di indirizzo culturale, motivo cardine è mostrare una prima ricognizione
di opere che, non ponendosi l’imperativo della completezza, attestino lo stato di salute dell’architettura contemporanea costruita, progettata o semplicemente “ricercata” all’interno degli
atenei, presenti su questa ampia porzione di territorio italiano. Compito
della rubrica è quello di riportare tali
opere all’interno di un reale interesse,
cercando di non cadere nel provincialismo bieco, lontano dal centro – quale
centro? Anche se la cultura architettonica siciliana, come il resto del Paese,
è spesso indirizzata a ricercare linguaggi elaborati altrove piuttosto che a interrogarsi sulla propria identità, lasciando a critici superficiali ed esterofili la
facoltà di esprimersi – o nella routine
catastrofica cui certa critica cerca continuamente di incasellare tali opere.
Insomma, un repertorio ampio composto non soltanto dai soliti progettisti noti o appartenenti a una determinata scuola.
Parimenti, non si tratterà di tessere
elogi inconsulti ma di recuperare un
ricco patrimonio che corre il rischio di
disperdersi, se non criticamente confrontato all’attualità delle ricerche dell’architettura. Analizzando i progetti,
alcuni dei quali si muovono nella dialettica tra continuità e discontinuità,
nell’orizzonte framptoniano del regionalismo critico, la rubrica si occuperà
anche delle conseguenze prodotte dalle
influenze straniere – come la scuola
portoghese – e dei Maestri del Contemporaneo – da Alvaro Siza a Franco
Purini e a Francesco Venezia – che hanno prodotto opere nel Sud, mettendo
in luce esperienze ed episodi brillanti,
sottolineando temi legati al landscape
e al paesaggio urbano.
Come già anticipato, contro l’interesse
dilagante per l’internazionalismo e nella
convinzione che l’architettura non può
che essere specifica e locale, la rubrica
concentra l’attenzione sulle particolarità e sulle circostanze imposte dalle
realtà meridionali in grado, però, di mostrare, legandoli a una tradizione millenaria, evidenti principi architettonici di
valenza generale.
COLLANA MISCELLANEA:
F. COLOMBO, La città è altrove
F.L. WRIGHT, Architettura e democrazia
A. WOGENSCKY, Le Mani di Le Corbusier
M. PAZZAGLINI, Architetture e paesaggi della città telematica
F. RANOCCHI, Los Angeles. L’architettura della società
dello spettacolo
U. BOCCIONI, Taccuini futuristi
D. MARTELLOTTI, L’architettura dei sensi
M. COSTANZO, Adalberto Libera e il Gruppo 7
A. MUNTONI, Architettura nell’era elettronica
F. BUCCI, Magic city. Percorsi nell’architettura americana
S. GABRIELLI, Genova. Architettura città paesaggio
B. DOLCETTA e D. MITTNER, Venezia. Architettura città
paesaggio
M. DEZZI BARDESCHI, Firenze. Architettura città paesaggio
A.L. ROSSI, Napoli. Architettura città paesaggio
M. DEZZI BARDESCHI, F. BUCCI, R. DULIO, Milano. Architettura
città paesaggio
P. GIORDANI, G. GRESLERI, N. MARZOT, Bologna. Architettura
città paesaggio
M. COSTANZO, M. DE PROPIS, Sant’Elia e Boccioni. Le origini
dell’architettura futurista
F. COLOMBO, Architettura come difesa
E. DE LEO, Paesaggi cimiteriali europei. Lastscape realtà
e tendenze
M. PAZZAGLINI, Architettura italiana negli anni ’60
e seconda avanguardia
F. ZAGARI, Questo è paesaggio. 48 definizioni
G. LAGANÀ, Asfalto: materia paesaggio
M. COSTANZO (a cura di), Architetture di pace, ospedali
di guerra. Le strutture sanitarie di Emergency
L. ALTARELLI e R. OTTAVIANI, Il sublime urbano.
Architettura e new media
COLLANA ARCHITETTI:
MARCELLO GUIDO
DANTE O. BENINI
GIOVANNI D’AMBROSIO
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Maurizio Oddo
La
posta elettronica certificata
a professionisti e imprese
informatica
a cura di Luigi Mauro Catenacci
Il
n.33-34
2009
30
primo dei decreti legge “anticrisi”, quello del
2008 convertito con la legge n. 2 del 28 gennaio
2009, prevede che entro il 28 novembre 2009 i professionisti iscritti in un albo e le imprese si dotino obbligatoriamente di una casella di posta elettronica certificata (PEC),
uno strumento che permette l’invio di messaggi e-mail che
hanno lo stesso valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno.
Speriamo quindi che la PEC contribuisca a semplificare le
comunicazioni fra professionisti, imprese e pubbliche amministrazioni, e a ridurne tempi e costi. Dovrebbe sostituire
gran parte delle comunicazioni cartacee inviate per raccomandata, invio di documentazione, richieste, concorsi, gare,
notifiche di atti giudiziari ecc.
Cosa dice il decreto
Dovrebbero. Nel nostro Paese il condizionale è sempre dovuto, anche quando è legge. Questo strumento, in circolazione già da qualche anno, non è molto comune, anzi. La causa
è dovuta all’inerzia delle pubbliche amministrazioni e forse
anche a una scarsa propensione di noi italiani verso le nuove
tecnologie,quando non servono a telefonare o a guardare la TV.
Questo obbligo è tale per la pubbliche amministrazioni già
dal novembre 2007 (Codice dell’Amministrazione Digitale, marzo 2005).
Nel 2008 il Governo ribadisce il concetto per quelle amministrazioni ancora indietro nell’attuazione della riforma.
Sempre all’art. 16: «Le amministrazioni pubbliche […], qualora non abbiano provveduto ai sensi dell’articolo 47, comma 3, lettera a), del Codice dell’Amministrazione Digitale, di cui
al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, istituiscono una
casella di posta certificata per ciascun registro di protocollo
e ne danno comunicazione al Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA), che provvede alla pubblicazione di tali caselle in un elenco consultabile
per via telematica». Il famigerato elenco delle pubbliche amministrazioni che si sono dotate di un indirizzo di posta elettronica certificata (www.indicepa.gov.it) è piuttosto scarso in
quanto a indirizzi PEC.
Un altro tentativo: la legge 69/2009 che all’art. 34 recita:
«Entro il 30 giugno 2009, le amministrazioni pubbliche che
già dispongono di propri siti sono tenute a pubblicare nella
La norma che interessa noi professionisti è contenuta nell’art. 16, che parla di «riduzione dei costi amministrativi a
carico delle imprese. […] I professionisti iscritti in albi ed
elenchi istituiti con legge dello Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica
certificata entro un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge». Quindi entro il 28 novembre 2009. Si stabilisce inoltre l’obbligo, per le imprese di nuova costituzione,
di dotarsi di una PEC. Le altre hanno tre anni per mettersi
in regola (28 novembre 2011).
Ma i Comuni lo sanno?
R IFERIMENTI
• Posta Elettronica Certificata:
www.cnipa.gov.it/site/it-IT/Attività/Posta_Elettronica_Cer tificata__(PEC)/
• Legge n. 2 del 28 gennaio 2009:
www.parlamento.it/parlam/leggi/09002l.htm
• DPCM 6 maggio 2009,
“Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella
di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini”:
www.cnipa.gov.it/html/docs/21-gu n.119-dpcm-rilascio casella pec ai cittadini.pdf
• Elenco caselle di posta della PA:
www.indicepa.gov.it
Cos’è la PEC
Una casella di posta elettronica certificata, alias PEC, è
una normale casella di posta elettronica, con un paio di
optional che la rendono uno strumento legale:
1. per ogni e-mail inviata si ricevono due ricevute, una
di invio avvenuto e una di consegna al server di posta
del destinatario;
2. il fornitore della nostra casella PEC conserva traccia
di queste operazioni nel caso un magistrato ne faccia
richiesta.
Queste due semplici aggiunte fanno sì che una e-mail inviata da una casella PEC a un’altra casella PEC sia equivalente a una raccomandata A/R, ma rendono la PEC uno strumento piuttosto scomodo da usare come casella di posta
tradizionale. Conviene usarla solo per quelle comunicazioni che prevedono o consigliano l’uso della raccomandata.
Vanno sottolineate alcune differenze sostanziali rispetto a
una raccomandata tradizionale. Una molto importante è la
certezza del mittente. A ogni PEC corrisponde un titolare,
certificato presso il Centro Nazionale per l’Informatica
nella Pubblica Amministrazione (CNIPA) con nome, cognome e fotocopia di un documento di riconoscimento.
Fine dell’anonimato sul Web: attenzione a quello che viene inviato. Un altro aspetto importante. Nella “ricevuta
di consegna” viene conservato anche il messaggio inviato.
Quindi si certifica mittente, destinatario, data e ora dell’invio, ma viene certificato anche il contenuto. Nessuno potrà più raccontarvi che gli era arrivata una “busta” vuota.
Infine, se tutto funziona correttamente, la consegna al
destinatario è praticamente immediata.Come per una raccomandata normale, non si tiene conto del fatto che venga
letta o meno, ma nel caso della PEC la reperibilità è garantita all’istante. Non c’è la possibilità di ritardare il ritiro di
una notifica all’ufficio postale. Pertanto eventuali termini che dovessero decadere dal momento della consegna
vanno calcolati, di fatto, qualche secondo dopo dall’invio.
Per questi motivi la PEC va controllata spesso, o vanno
adottate tecniche per poter essere costantemente avvisati in caso di ricezione di un messaggio.
pagina iniziale del loro sito un indirizzo di posta elettronica
certificata a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta ai sensi del presente codice». Niente da fare: ad oggi
(novembre 2009), neanche il sito web del Ministero della
Pubblica Amministrazione e Innovazione riporta un indirizzo PEC. C’è una scritta “Posta Elettronica Certificata”, ma
rimanda a un convegno di presentazione della PEC presieduto dall’on. Brunetta. Quando si dice che “governare gli
italiani non è difficile, è inutile”. Ma si tratta di un obbligo di
legge, possiamo e dobbiamo far valere i nostri diritti.
Gli albi degli indirizzi PEC
Come già detto, la comunicazione ha il valore di una raccomandata A/R solo se sia il mittente che il destinatario hanno
una casella PEC. Se anche una delle due caselle non è una
PEC, non ha valore legale.
Per questo diventa importante la costituzione degli elenchi
degli indirizzi. Per le PA abbiamo già visto. Per le imprese ci
vorranno altri due anni («Entro tre anni dalla data di entrata
in vigore della presente legge tutte le imprese, già costituite
in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore,
comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata»). Per le nuove imprese, invece, l’obbligo
è già scattato.
Ai professionisti dovranno pensare gli ordini professionali.
Dice l’art. 16: «Gli ordini e i collegi pubblicano in un elenco
consultabile in via telematica i dati identificativi degli iscritti con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata».
È una piccola grande rivoluzione. Non solo gli albi dovranno pubblicare in via telematica (= Internet) i nostri indirizzi di casa o di studio, ma anche i nostri indirizzi di posta
elettronica certificata. E che nessuno cominci a lamentarsi
di violazioni della privacy. Gli albi esistono perché il professionista deve essere rintracciato. Un indirizzo PEC non è la
nostra e-mail personale.
Il legislatore si è anche preoccupato di specificare che l’accesso a questi elenchi non debba costare nulla. Comma 10:
«La consultazione per via telematica dei singoli indirizzi di
posta elettronica certificata nel registro delle imprese o negli albi o elenchi costituiti ai sensi del presente articolo avviene liberamente e senza oneri».
L.M.C.
n.33-34
2009
31
architettureidee
Gilles Cusy e Michel Maraval
Liceo Professionale “Pierre Mendès-France”, Montpellier,
Francia
Cronologia: 2006 (progetto di concorso)
Progettista associato: Agence ARTS (Jacques Ferrier)
Paesaggista: Agence TER
DI
MAURIZIO PETRANGELI
Il progetto di concorso per il nuovo Liceo Professionale “Pierre
Mendès-France” si inserisce in un contesto scarsamente
costruito, caratterizzato da numerose masserie e da
estesi fondi agricoli punteggiati da gruppi di alberi.
In particolare il lotto di intervento è situato in
una zona che sarà presto interessata dalla
futura espansione urbana di
Montpellier, di forma simile a una
“L” per la presenza, all’interno
dell’isolato urbano, della “Mas
des Brousses”, un complesso di
edifici rurali circondati da un’ampia
area verde. Sui rimanenti lati del
perimetro corrono invece l’autostrada
A9 e alcune strade di nuova
costruzione.
Queste differenti condizioni a margine
determinano alcune precise scelte
planimetriche. Un’area verde e una zona
di parcheggio riservata ai professori
vengono infatti interposte tra il complesso
scolastico e l’autostrada, in maniera da creare
una barriera all’inquinamento acustico indotto
idee
Un “recinto”
abitato
Dall’alto:
Lo spazio filtro tra l’autostrada e la scuola con il
“muro” perimetrale sullo sfondo
Planimetria generale dell’intervento
architetture
35
idee
dalla presenza dell’infrastruttura viaria,
mentre sui rimanenti lati il liceo si
confronta con le strade circostanti in
maniera sempre diversa; infatti se su di
un fronte l’intervento arretra per
configurare uno spazio libero di
ingresso, dalla parte opposta l’edificio si
attesta quasi a ridosso del filo stradale a
costituire il punto di inizio della futura
quinta edilizia.
In assenza di tracciati storici e di
riferimenti urbani, il progetto si
confronta con l’impianto della masseria
suddividendosi in due episodi spaziali. Il
primo, un edificio a forma di forcina, è
costituito da un basamento
quadrangolare che ospita alcuni
ambienti polivalenti su cui impostano
tre livelli, in forte aggetto, destinati a
convitto e alloggi di servizio. Per
collocazione e dimensione questo
volume si relaziona con uno dei
manufatti agricoli esistenti e, in virtù
dell’articolazione planimetrica,
determina un doppio portico d’ingresso
che cinge una corte aperta passante:
prende così forma un luogo dove
incontrarsi e sostare, che costituisce un
ampio pronao di ingresso alla scuola.
Il secondo episodio, molto più grande e
complesso, recupera la tipologia degli
insediamenti rurali e si struttura in
maniera da determinare un’ampia area
architetture
36
Dall’alto:
Pianta del piano primo
Prospetto esterno e prospetto-sezione verso lo spazio
centrale
Pianta del piano terra
L’area centrale definita dal “recinto” perimetrale
idee
insegnamenti generali,
scientifici e artistici
insegnamenti tecnologici
e professionali
attività sportive
spazi per docenti,
attività parascolastiche
e di orientamento
accoglienza, amministrazione,
servizi medico-sociali
mensa
formazione continua
alloggi studenti e di servizio
spazi di distribuzione,
depositi e servizi igienici
ambienti di manutenzione
spazi verdi
37
architetture
Legenda:
centrale libera da costruzioni, da
destinare alle attività sportive e di
relazione. Questa condizione di spiccata
introversione costituisce l’idea portante
del progetto: un lungo nastro
perimetrale, una sorta di recinto o di
“muro abitato” chiuso sul lato
prospiciente la strada, si srotola
liberamente all’interno dell’area di
intervento e contiene gli ambienti di
servizio e di distribuzione, chiusi verso
l’esterno e rivolti verso lo spazio
centrale. La soluzione distributiva viene
enfatizzata dall’andamento della
copertura che si alza e si abbassa
liberamente seguendo geometrie
inclinate, cui si contrappongono i
prospetti coperti da pannelli di cemento
tinteggiati color terra disposti con passo
regolare. Da questo elemento si
distaccano a pettine alcuni blocchi
destinati ad accogliere gli spazi per
l’insegnamento generale, scientifico e
artistico, oltre agli ambienti più
specificamente dedicati alla formazione
professionale. In antitesi con la “pelle
esterna” questi corpi, in parte in aggetto
sul basamento, sono rivestiti da pannelli
vivacemente colorati che presentano
finestre dalle strombature fortemente
accentuate. All’interno di ciascun
volume si trovano patii, vuoti e affacci
che, oltre ad articolare la pianta
fornendo aria e luce agli ambienti,
costituiscono un importante sistema di
relazioni spaziali.
Le aree all’aperto sono trattate in
maniera da riproporre i caratteri del
paesaggio circostante. Gli spazi tra i
volumi a pettine risultano fittamente
alberati e garantiscono importanti zone
d’ombra che influiscono sul
comportamento bioclimatico
dell’edificio, mentre il “campo” centrale
è piantato con essenze d’alto fusto
isolate.
Il progetto, che contiene numerosi
spunti di interesse, non ha convinto la
commissione giudicatrice che ha
preferito premiare la proposta di
Nicolas Crégut e Laurent Duport
organizzata su un impianto a maglia
regolare. architettureopere
Una scuola
a corte aperta
opere
DI
architetture
38
MAURIZIO PETRANGELI
Il complesso scolastico di Freising, a una trentina di chilometri a
nord di Monaco di Baviera, si inserisce in un tessuto
residenziale a bassa densità edilizia. L’area, pianeggiante, è
delimitata da due strade – una più grande che serve il quartiere,
l’altra più piccola e tranquilla che conduce ad alcune residenze
– mentre un percorso pedonale e una pista ciclabile corrono sul
terzo lato. A nord si trova invece una fattoria a cui era
originariamente annesso il terreno sul quale è sorta la scuola.
L’intervento è scomponibile in tre elementi. Un lungo corpo di
fabbrica a prevalente sviluppo longitudinale, composto di tre
piani fuori terra che accolgono le funzioni didattiche, si colloca
sul limite nord del lotto in posizione ortogonale alla strada,
mentre la palestra – parzialmente interrata – si attesta di fronte
all’edificio principale. Questi volumi, diversi per forma e
dimensioni, sono connessi da due pensiline che definiscono una
corte passante, aperta sulla via e sul terreno circostante la scuola.
Infine, più distaccata, si trova l’abitazione del custode che si
sviluppa su due livelli. Sull’area insistono alcuni campi da gioco
(pista da atletica, corsia per il salto in lungo, campo polivalente),
che costituiscono una dotazione di attrezzature sportive
all’aperto utilizzabili anche dalla piccola comunità di Freising.
Questo semplice impianto planimetrico costituito da pochi
elementi primari, chiaramente definiti e immediatamente
leggibili, presenta tuttavia due aspetti di interesse.
In primo luogo la soluzione propone un dialogo serrato tra i
volumi della composizione, che si offrono a un linguaggio
Dall’alto:
Veduta generale del complesso
La corte dal portico d’ingresso
Il cortile centrale definito dal corpo delle aule e dalla palestra
Schulz & Schulz Architekten GmbH
(Ansgar Schulz, Benedikt Schulz)
didattica in posizione ortogonale alla strada, consente di
percepire di scorcio l’uniforme scansione degli infissi del
prospetto e di stemperare la ripetitività del modulo aula,
mentre il grande volume della sala per le attività sportive,
parzialmente interrato, risolve in maniera equilibrata i rapporti
di volume e di gerarchia tra le parti. Si evita in tal modo
«l’incombenza sproporzionata della palestra in rapporto
all’edificio lineare e si permette all’intero complesso di
attestarsi sulla strada principale con un profilo a basso impatto
architettonico»,1 dove la pensilina di copertura del parcheggio
La lama delle aule soprastante il nucleo dei laboratori
Il volume delle aule dai campi sportivi
39
architetture
austero e pacato privo delle tensioni e delle contraddizioni
che, a volte, connotano gli edifici per l’istruzione. La lunga
stecca di oltre 100 m, costituita da un solido di due piani
tinteggiato di bianco con testate cieche e pareti longitudinali
chiuse da vetrate arretrate rispetto al sottile bordo che le
cinge, è scandita dalla uniforme sequenza degli infissi in
metallo. Questo corpo, che contiene le aule, poggia su un
piano pilotis articolato in due elementi diversi – l’uno
trasparente, l’altro opaco – tra loro connessi da un breve
passaggio. Verso la corte, l’ingresso ingloba i pilastri e
propone una facciata vetrata che riprende il ritmo dei
serramenti dell’antistante palestra, laddove il volume dei
laboratori presenta invece una superficie opaca arretrata
rispetto alla struttura resistente. Sul retro, viceversa, entrambi
gli elementi sporgono rispetto al blocco superiore delle aule:
il punto di attacco tra la parete della lama e la copertura dei
due corpi estrusi è risolto con un lucernario vetrato che corre
lungo tutta la dimensione longitudinale e segna lo scarto tra
le differenti giaciture, determinando sottili asole di luce che
rendono percepibile lo slittamento volumetrico anche
dall’interno. Le coperture dei due elementi del piano terra,
come pure di quello della palestra, propongono un tetto
verde visibile dalle aule e dai corridoi di distribuzione.
In secondo luogo l’impianto complessivo, pur nella sobrietà
della soluzione proposta, costruisce un’immagine urbana
calibrata e convincente. La scelta di disporre il blocco della
opere
Scuola secondaria a Freising, Germania
Committente: Municipalità di Freising
Cronologia: 2000 (progetto) – 2003 (realizzazione)
Strutture: Engineering Office Schönbeck
Superficie: 8.197 mq
Costo: 14,93 milioni di euro
Foto: Stefan Müller-Naumann; Jörg Hempel
41
Il corridoio di distribuzione alle aule
Due aule per la didattica
architetture
Nota
1 Laura Iermano, Scuola secondaria a Freising, Germania in «L’Industria delle
Costruzioni», n. 280, 2004, p. 40
opere
per le biciclette garantisce una migliore connessione urbana e
introduce un elemento di forte orizzontalità sull’asse di
Moosstrasse. In questo calibrato gioco di rimandi si inserisce
la corte aperta che connette i due corpi di fabbrica – della
scuola e della palestra – e funge da spazio di ricreazione,
luogo di relazione ed elemento di identità per gli studenti:
inteso come un atrio a cielo aperto che precede quello posto
all’interno dell’edificio, favorisce la permeabilità e
l’integrazione tra la strada e l’istituto scolastico.
Il corpo lineare si compone di quattro livelli, tre fuori terra e
uno interrato. Al piano di ingresso si trova la hall, un grande
forum da utilizzare per gli eventi scolastici. Su di esso aprono
infatti lo spazio polivalente, la sala per l’educazione musicale
e alcune gradinate che possono essere usate come sedute
durante gli spettacoli e le rappresentazioni. Dall’atrio si
accede agli uffici amministrativi e alle sale dei professori e, in
posizione enucleata ma connessa da un passaggio vetrato, al
nucleo dei laboratori. Un’unica scala conduce sia al livello
interrato, dove si trovano i locali tecnici e di deposito, sia ai
piani superiori dimensionati per accogliere 14 aule normali e
6 speciali. Qui il nucleo della distribuzione verticale e dei
servizi igienici divide la lunga stecca in due parti. Da un lato vi
sono gli ambienti tematici destinati alle scienze naturali e
all’educazione artistica mentre, sull’opposto lato, si trovano
gli spazi per le classi. Tutti gli ambienti per la didattica
guardano a nord, mentre un corridoio dell’ampiezza di 3 m è
rivolto a sud e si relaziona con la corte e con le aree esterne
alla scuola. Alle opposte testate sono collocate le scale di
sicurezza che consentono di sbarcare direttamente all’aperto.
A differenza del carattere sobrio ed elegante dei prospetti, per
gli interni vengono utilizzati materiali e colori caldi. Per rompere
l’uniforme serialità della facciata, alcuni infissi delle aule sono in
legno, mentre il lungo corridoio di distribuzione è reso più
accogliente dalla parete colorata a tinte vivaci e trattata come un
volume a lama da articolare in pieni e vuoti. Nelle nicchie,
alternativamente rivolte verso la distribuzione o verso le aule,
sono così ottenuti spazi di diversa misura dove riporre le
giacche e i cappotti, inserire le bacheche informative, alloggiare
i lavandini, ricavare gli armadietti per i materiali didattici.
Il corpo della palestra, enucleato e accessibile dalla grande
corte aperta, costituisce il secondo edificio in cui si articola il
complesso scolastico. Attraverso uno spazio di distribuzione
vetrato anche a soffitto, che rimanda nella forma e nella
scansione degli infissi all’antistante atrio di ingresso della
scuola, gli studenti accedono direttamente agli spogliatoi e ai
servizi igienici. Di qui, utilizzando un ballatoio che affaccia sui
tre campi da gioco, raggiungono le scale che conducono alle
attrezzature sportive sottostanti. Gli spettatori possono
usufruire di un ingresso indipendente che consente di
assistere agli allenamenti e alle competizioni semplicemente
affacciandosi dalla balconata, mentre chi si trovasse a passare
dalla strada può osservare l’interno attraverso le ampie
vetrate che circondano per tre lati il volume della palestra. opere
La quadratura
del cerchio
architetture
42
DI
LAURA GUGLIELMI
3XN
Ørestad Ginnasio, Copenaghen, Danimarca
Committente: Municipalità di Copenaghen
Cronologia: 2003 (progetto) – 2007 (realizzazione)
Strutture: Søren Jensen A/S
Superficie: 12.000 mq
Costo: 27 milioni di euro
Foto: Adam Mørk
Pagina a fianco:
In questa pagina:
Scorcio del liceo dal canale artificiale che scorre sotto il tracciato della
metropolitana sopraelevata e vista notturna
Planimetria di progetto e vista panoramica
43
architetture
formare gli allievi rispetto alle opportunità realmente offerte
dal mondo del lavoro, la scuola promuove forme di
cooperazione con le istituzioni locali e con le imprese che
operano nel campo della comunicazione.
Profondamente innovativa è anche la concezione architettonica
dell’edificio, pensato per una didattica alternativa, che riflette
appieno il carattere “sperimentale” di Ørestad City.
La scuola si situa all’angolo tra l’Ørestad Boulevard – la spina
dorsale della nuova espansione urbana che corre da nord a sud
a fianco della metropolitana sopraelevata – e la Arne Jacobsen
Allé, la strada che conduce al centro commerciale Field’s, il più
grande della Scandinavia, situato a poche centinaia di metri
dall’intervento. Esternamente l’edificio si presenta come un
volume compatto, un grande contenitore con i prospetti
disegnati dall’alternanza delle fasce orizzontali dei solai e delle
superfici vetrate che, anticipando la complessa articolazione
interna, si interrompono in corrispondenza degli spazi interni a
doppia e tripla altezza per lasciare il posto a vetrate continue.
opere
Ørestad è un nuovo agglomerato urbano situato pochi
chilometri a sud di Copenaghen, sull’isola di Amager.
Pianificato fin dai primi anni Novanta, il quartiere si è
sviluppato soprattutto dopo la costruzione
dell’Øresundsbroen, il tunnel-ponte lungo 16 km che dal 2000
collega la Danimarca con la Svezia. L’area – suddivisa nei
quattro distretti di Ørestad Nord, Amager Fælled, Ørestad City
e Ørestad Sud – è servita da una metropolitana senza
conducente che viaggia su viadotto senza interferire con il
tracciato delle strade e dei percorsi ciclabili, e presenta un mix
funzionale costituito dalle consuete destinazioni residenziali e
commerciali cui si affiancano ampi spazi destinati alla ricerca,
alla didattica e alla cultura. Man mano che si procede con le
realizzazioni, l’area sta assumendo sempre più le
caratteristiche di un vero e proprio “laboratorio” di
sperimentazione architettonica, dove vengono testate
soluzioni innovative e tecniche costruttive all’avanguardia nel
tentativo di costruire una nuova centralità urbana che possa
rappresentare un’alternativa al nucleo storico di Copenaghen.
L’Ørestad College, progettato dagli architetti 3XN vincitori di
un concorso internazionale di idee bandito nel 2003, riflette
le ambizioni del contesto in cui si colloca. La scuola, che per
prima ha recepito le riforme introdotte nel 2005 nel sistema
educativo danese riguardo l’importanza degli scambi e delle
sinergie interdisciplinari, fornisce una preparazione specifica
nel campo delle scienze naturali, sociali e umanistiche,
attraverso percorsi formativi che danno grande rilevanza
all’uso dei sistemi multimediali e delle tecnologie
informatiche. La Rete è il principale strumento di lavoro degli
studenti che dispongono di postazioni computer, stampanti,
scanner, videoproiettori, pannelli LCD e sistemi digitali per
l’elaborazioni delle immagini e dei video. Inoltre, al fine di
9
4
3
7
3
3
9
1
2
7
6
8
7
5
9
Pianta piano interrato
Pianta piano terra
10
11
11
7
11
11
11
13
10
10
13
11
10
14
11
10
13
11
7
12
7
10
10
12
Pianta piano secondo
Pianta piano primo
12
10
14
11
10
13
10
11
11
10
13
11
11
opere
10
architetture
44
7
11 11
11
Pianta piano terzo
10
Pianta piano quarto
Legenda:
1. atrio
2. spazio mensa/teatro
3. palestra
4. amministrazione
5. biblioteca
6. sale musica
7. servizi
18. spogliatoi
19. magazzini
10. spazi ricreativi e di studio
11. aule
12. sale polifunzionali
13. sale studio
14. sale professori
opere
Quello che all’esterno appare come un
edificio squadrato, all’interno rivela
invece uno spazio fluido e continuo,
costituito da un intreccio di linee curve e
ambienti aperti che comunicano tra loro.
La scuola si compone infatti di cinque
piani fuori terra e di uno interrato,
configurati a forma di boomerang e
ruotati l’uno rispetto all’altro a riprodurre
il movimento dell’otturatore di una
macchina fotografica. L’asse di rotazione
è rappresentato dal nucleo centrale della
scala che, con andamento a spirale, si
snoda verso l’alto fino a raggiungere la
Sezione trasversale
Vista interna con in primo piano la scala che si avvolge su se stessa
architetture
45
opere
architetture
46
copertura. La disposizione dei piani determina un grande
vuoto animato da ambienti che aggettano gli uni sugli altri,
secondo un dispositivo architettonico molto lontano dai
modelli scolastici “a blocco” che rimanda, invece, alla tipologia
dei grandi centri commerciali.
L’ingresso principale alla scuola è situato lungo l’Ørestad
Boulevard, in questo tratto fiancheggiato da un canale
artificiale; un secondo ingresso è posto al primo piano e si
apre su una piazza ricavata sulla copertura di un parcheggio
pubblico che, come la maggior parte delle autorimesse del
quartiere, è contenuto all’interno di un volume costruito
anziché essere interrato o a raso.
Il piano terra dell’edificio ospita l’amministrazione, la
biblioteca, le sale per la musica e la cucina, con la mensa
allestita al centro dell’ambiente, lungo la gradonata che
scende al piano seminterrato: l’organizzazione dello spazio fa
sì che studenti e insegnanti, pranzando insieme,
contribuiscano ad aumentare quel processo di interazione tra
saperi, attitudini e personalità auspicato dal programma
didattico. Quando non è utilizzata per la refezione, la struttura
a gradoni diventa un punto di ritrovo e il luogo da cui
assistere allo svolgimento di conferenze, spettacoli teatrali o
concerti allestiti dalla scuola. In modo analogo anche la scala
non viene intesa solo come semplice elemento di
collegamento tra i vari piani ma diviene uno spazio di
relazione dove stare seduti, osservare ed essere visti.
Scorci interni
opere
Il volume a doppia altezza della palestra è incastrato tra il
piano terra e il livello interrato, dove una sala fitness, alcuni
spogliatoi e i servizi igienici completano la dotazione di
attrezzature sportive; sotto le gradinate dell’anfiteatro-mensa
sono invece collocati i locali di deposito e di conservazione
dei libri.
Tre cilindri cavi, due grandi e uno di dimensioni minori,
costituiscono la struttura primaria dell’edificio, cui si
affiancano una serie di pilastri che non seguono una griglia
regolare ma si dispongono liberamente in base alle esigenze
strutturali. All’interno delle strutture cilindriche si trovano i
servizi igienici, le scale accessorie e due ascensori che
conducono fino al terrazzo di copertura, pavimentato con
doghe di legno e attrezzato per la ricreazione.
I quattro livelli superiori, destinati alla didattica, sono
progettati in modo da avere pochi elementi fissi e
consentire, di contro, un’ampia flessibilità organizzativa e
d’uso. Lungo le pareti perimetrali sono infatti collocate
alcune aule di forma tradizionale definite da pareti attrezzate
e pannelli vetrati mentre, verso il centro dell’edificio,
all’interno di uno spazio liberamente attrezzato per
consentire lo studio individuale e per piccoli gruppi, si
incontrano ambienti circolari a “isola” utilizzati per proiezioni
e riunioni. Questi differenti ambiti funzionali fluiscono gli uni
negli altri senza separazioni né barriere e hanno l’obiettivo di
educare gli studenti a lavorare singolarmente e in team,
secondo modalità di apprendimento che ritroveranno
nell’università e, soprattutto, nella futura attività
professionale. La libertà espressiva che informa la
concezione architettonica, la soluzione spaziale e le scelte
distributive e funzionali si riflette nella disposizione degli
arredi e delle attrezzature: gli armadietti disegnano piccoli
recinti accessibili su entrambi i fronti, mentre gli spazi per il
relax, raggiungibili con scale che si avvolgono attorno ai
volumi cilindrici, sono collocati sulla copertura dei sottostanti
meeting space, Queste vasche piene di cuscini colorati
strizzano l’occhio agli arredi dei lounge-bar e rappresentano
il luogo preferito dagli studenti, “isole” felici in cui ci si può
abbandonare ad atteggiamenti anche informali.
L’illuminazione interna è sapientemente calibrata: la luce
proveniente dalle vetrate perimetrali è filtrata da brise-soleil
a movimentazione meccanica, costituiti da lamelle verticali
in vetro colorato serigrafato con ideogrammi che producono,
nei diversi ambienti, gradevoli effetti cromatici. La luce
naturale piove anche dall’alto, attraverso un lucernario che
ricalca lo sviluppo della scala e da altri tre elementi di forma
cilindrica che si mimetizzano tra i corpi illuminanti circolari.
La tradizione scandinava affiora nella scelta dei materiali:
intonaco bianco per le pareti, magnesite grigio-scura per i
pavimenti, legno di frassino per il rivestimento della scala e
delle attrezzature: a questo raffinato accostamento fanno da
contrappunto le note colorate delle sedute e i riflessi prodotti
dalle lamelle esterne. Le sedute informali ricavate sopra i volumi circolari dei meeting space
La spirale della scala vista dal basso e lo scorcio interno: il gioco di luci e
colori determinato dalle lamelle in vetro serigrafato che ritmano la facciata
architetture
47
Olli Pekka Jokela
Scuola secondaria superiore “Sampo” a Uimalankatu,
Tampere, Finlandia
Committente: Municipalità di Tampere
Cronologia: 2002 (progetto) – 2005 (realizzazione)
Strutture: Insinööritoimisto Ainsinöörit Oy
Superficie: 11.420 mq
Costo: 14,7 milioni di euro
Foto: Jussi Tiainen
DI
MAURIZIO PETRANGELI
opere
Una galleria
urbana
architetture
48
L’Istituto Scolastico “Sampo”, inaugurato a Tampere in
Finlandia nell’autunno del 2005, presenta un’organizzazione
funzionale e un impianto distributivo che discendono da un
programma articolato, che prevede l’utilizzazione dell’edificio
per l’intero arco della giornata. La scuola funziona infatti su
un doppio turno di frequenza: la mattina accoglie gli studenti
della secondaria superiore, mentre il pomeriggio è aperta a
chi già lavora ma intende comunque conseguire un diploma
di maturità, offrendo la possibilità di strutturare il piano di
studi in relazione ai reali interessi e alla professione svolta. La
scuola assicura un’istruzione che completa e approfondisce
quella di base, integrata da discipline complementari che
negli istituti finlandesi variano a seconda delle sedi e che, nel
caso specifico, sono rappresentate dalle attività fisiche.
L’edificio ospita inoltre la biblioteca civica Pellervo che,
insieme agli spazi destinati all’apprendimento on-line e alle
attività integrative, costituisce un polo culturale di particolare
importanza nel panorama della piccola Tampere.
Il complesso è situato a est del centro cittadino, in un’area
caratterizzata da una bassa densità edilizia: circondata su tre
lati da ampi spazi verdi in cui si trovano una piscina e un
complesso per uffici pubblici, è delimitata sul quarto da una
strada extraurbana scarsamente trafficata. Una grande hall
centrale a tutta altezza prolunga all’interno della scuola lo
spazio pubblico posto di fronte all’ingresso e divide l’edificio
in due parti, ciascuna costituita da blocchi alti tre piani.
Traslazioni, rotazioni e slittamenti danno forma a un
impianto planimetrico articolato che non deriva dalla lettura
dei tracciati a margine o dalla riproposizione delle giaciture
del contesto, ma discende dalla volontà di dar forma a uno
spazio dinamico che possa costituire una nuova centralità
urbana. Per questa ragione sulla grande piazza coperta
affacciano e si espandono numerosi ambienti aperti all’uso
dei cittadini, che presentano proposizioni spaziali, soluzioni
distributive ed elementi di arredo che ne rimarcano la
valenza collettiva.
Il fronte d’ingresso
opere
architetture
52
In senso orario:
La galleria urbana a tutta altezza
Lo spazio centrale attrezzato verso l’ingresso
La hall dalla passerella soprastante l’ingresso
In alto:
Il blocco della biblioteca pubblica
Il percorso al piano primo aperto sulla galleria
In basso:
Il corridoio di distribuzione alle aule
opere
53
architetture
uffici amministrativi e dal grande vuoto
della sala per le attività sportive. Il
rivestimento in pannelli di legno trattati
a mordente conferisce a ciascun blocco
una differente tonalità e apporta sottili
sfumature a uno spazio altrimenti
uniforme.
Il piano secondo, simile
nell’organizzazione spaziale e
distributiva al livello più basso, ospita le
aule destinate alla normale attività
didattica. Mentre dai percorsi si colgono
spettacolari viste sul parco circostante,
gli ambienti destinati all’insegnamento
affacciano volutamente sui distacchi tra
gli elementi a pettine, in modo da
favorire la concentrazione e lo studio
degli alunni.
La chiarezza dell’impostazione
planimetrica e la gerarchia tra le parti
costituiscono il leitmotiv del progetto,
che si riflette sia nelle relazioni tra i
volumi che nel disegno dei prospetti
dove la destinazione funzionale è
sempre chiaramente espressa. Il corpo
centrale, caratterizzato da una grande
vetrata a tutta altezza, risulta serrato tra i
volumi della biblioteca civica e delle aule
a destinazione speciale, trattati in
maniera diversa e connotati da una
griglia metallica frangisole che determina
effetti chiaroscurali sulle retrostanti
superfici. Anche gli elementi a pettine
esibiscono in testata una soluzione che
denuncia lo stretto rapporto tra
l’organizzazione distributiva dell’interno
e la connotazione dell’esterno: la
facciata piena viene sagomata dalla
vetrata della scala di sicurezza a forma
di “L” e assume una configurazione
zoppa che risulta fortemente incisa
dall’alta e stretta finestra che dà luce al
corridoio delle aule. © N. Chorrier
Echi mediterranei
opere
di Laura Guglielmi
architetture
54
Il Liceo “Jean Jaurès” di St. Clément de
Rivière, un piccolo comune a circa
un’ora da Montpellier, costituisce una
importante sperimentazione in materia
di edilizia ecosostenibile e una
realizzazione esemplare dell’approccio
HQE (haute qualité environnementale),
il sistema di certificazione che in
Francia assicura la compatibilità
ambientale delle costruzioni. Rispetto
alla griglia di valutazione del marchio
HQE – comprendente 14 obiettivi
raggruppati in quattro temi: bioedilizia,
ecogestione, comfort e salute – il
progetto di Pierre Tourre ha privilegiato
alcune finalità: l’integrazione
dell’edificio con l’ambiente circostante;
l’ottenimento di condizioni di vita
confortevoli, salubri e sicure; la
riduzione dei costi di gestione e
manutenzione del complesso; la
sinergia tra ricerca espressiva e
strategia bioclimatica.
L’inserimento ambientale e le relazioni
con l’intorno hanno condizionato
fortemente la definizione dell’impianto
Dall’alto:
Vista dall’alto
Lo spazio aperto all’interno della scuola articolato in terrazzamenti
delimitati da muri di pietra a secco
Scorcio di due dei quattro edifici riservati alla didattica che si
sovrappongono al basamento in pietra con una giacitura ruotata di 90°
Pierre Torre
Liceo HQE “Jean Jaurès”, St. Clément de Rivière, Francia
Committente: Regione Linguadoca-Roussillon
Cronologia: 2001 (progetto) – 2003 (realizzazione)
Strutture: Cabinet Delorme
Superficie: 15.000 mq
Costo: 19,37 milioni di euro
Foto: H. Abbadie
alloggi
degli insegnanti
architettonico e i caratteri formali dell’organismo edilizio.
L’area su cui sorge la scuola presenta, infatti, caratteristiche
topografiche e ambientali inusuali per un complesso
didattico: fuori dal centro abitato, è situata sulla sommità di
una collina di gariga e di pini, in un anfiteatro naturale posto
ai piedi del picco Saint Loup da cui si colgono ampie viste
panoramiche. Il lotto, della superficie di 50.000 mq, si
sviluppa in lunghezza secondo l’asse nordest-sudovest, con
una pendenza del terreno abbastanza accentuata nella
direzione ortogonale alla principale.
Il progettista ha cercato di conservare l’andamento orografico
naturale, limitando al minimo gli sbancamenti e modellando
il suolo secondo una serie di terrazzamenti definiti da
muretti che, realizzati a secco con pietra calcarea locale,
servizi generali
edifici per
l’insegnamento
ristorante
Planimetria
opere
convitto
55
architetture
Scorci del complesso
attrezzature sportive
opere
recuperano le modalità insediative del
paesaggio mediterraneo. L’organismo
architettonico è stato scomposto in
corpi di fabbrica distinti, diversificati
nella forma e nei materiali in relazione
alle attività che vi si svolgono, e
distribuiti sul terreno terrazzato
secondo giaciture diverse. I volumi veri
e propri della scuola, costituiti da una
serie di elementi lineari disposti su una
architetture
56
In senso orario:
Il volume tronco-conico della sala polivalente all’ingresso della scuola
Particolare delle “mensole di luce” che deviano i raggi solari all’interno delle
aule schermando, al tempo stesso, le finestre rivolte a sud dall’eccessiva
insolazione
Passerelle aeree collegano gli edifici scolastici con i terrazzamenti esterni
Legenda:
11. insegnamento scientifico,
11. sanitario e sociale
12. amministrazione
13. biblioteca
14. auditorium
15. caffetteria
16. insegnamento terziario
17. insegnamento artistico
18. insegnamento generale
19. aule studio
10. convitto
11. ristorante
Negli spazi interni si ritrova lo stesso contrasto
cromatico che caratterizza gli esterni degli edifici
Pianta del piano primo
57
architetture
griglia ortogonale incidente rispetto alla
strada, occupano la quota più bassa del
terreno e si sviluppano su due livelli.
Gli ambienti posti al piano terra hanno
un andamento prevalente nord-sud che
prosegue il disegno delle terrazze e un
rivestimento in pietra che li rende simili
a concrezioni naturali del terreno. Gli
edifici destinati alla didattica, situati al
piano primo, si sovrappongono al
basamento con una giacitura ruotata di
90°, e sono disposti secondo fasce
parallele, slittate per consentire alla
vista di spaziare sul paesaggio
circostante.
Sulla rimanente porzione del lotto
sorgono altre costruzioni strettamente
legate alla scuola. Il limite est dell’area
è chiuso dagli alloggi degli studenti che
occupano il terrazzamento più alto, a
diretto contatto con il ristorante, da un
lato, e con il volume dei servizi generali
dall’altro, mentre a nord, immersa nel
verde, si sviluppa l’area delle
attrezzature sportive all’aperto e, più
oltre, la zona riservata alle residenze
opere
Piante del piano terra
Il sistema dell’illuminazione
Schema della ventilazione diurna estiva
opere
Schema della ventilazione notturna estiva
architetture
58
Schema della ventilazione diurna invernale
L’interno del ristorante
opere
59
architetture
degli insegnanti, costituite anch’esse da elementi lineari
organizzati, però, secondo una radiale. A sud sono collocati
gli stalli dei parcheggi, raggruppati in piattaforme “sparse”
sul terreno in maniera volutamente disordinata.
L’ingresso alla scuola avviene da ovest, attraverso una scala
che interrompe un basamento in pietra e conduce alla quota
d’imposta degli edifici, un metro più alta della strada.
L’accesso è segnato da un gigantesco brise-soleil costituito
da un telaio in acciaio galvanizzato poggiato sul volume
della didattica a destra e sul cono rovesciato dell’auditorium
a sinistra. Simile a una istallazione d’arte contemporanea, è
costituito da lamelle metalliche colorate alternate a pannelli
fotovoltaici montati nello spessore della struttura. Unificato
da un rivestimento in pietra che lo pone in continuità con la
natura rocciosa del terreno, il piano terra si sviluppa lungo il
lato sud-ovest e ospita l’amministrazione, la biblioteca e i
servizi: l’auditorium e il cybercafè – analogamente alla sala
ristorante situata in cima al complesso – si sottraggono alla
griglia cartesiana dell’impianto proponendo geometrie
curvilinee e rivestimenti in doghe di legno. Su questo
basamento poggiano i quattro edifici a lama destinati alla
didattica, raggiungibili dal piano terra attraverso scale interne
e connessi ai terrazzamenti da un sistema di rampe e
passerelle aeree che attraversano lo spazio in tutte le
direzioni, dando forma a un’articolata sistemazione esterna.
La posizione rilevata e il cemento bianco della struttura
trasformano questi blocchi e
l’anfiteatro tronco-conico in elementi
paesaggistici in grado di denunciare la
presenza della scuola nell’ambiente
circostante.
La suddivisione in volumi funzionali
risulta la configurazione morfologica
più adatta a coniugare la complessità
dell’impianto planimetrico con la
modellazione a terrazze del terreno,
ma anche la soluzione ottimale ai fini
della progettazione bioclimatica del
complesso. Considerato la scuola si
trova in una zona connotata da un
clima mite durante l’inverno, ma con
picchi di temperature estive piuttosto
elevati, la strategia ambientale ha
privilegiato soluzioni formali e
costruttive che evitassero il
surriscaldamento degli ambienti nel
periodo estivo e garantissero, al tempo
stesso, un elevato livello di
illuminazione naturale. A tal fine i
quattro volumi della didattica sono
stati disposti in modo da avere l’asse
orientato in direzione est-ovest con le
aule rivolte a nord e a sud. Tale
configurazione risponde all’esigenza di assicurare in ogni
stagione un orientamento delle facciate ottimale rispetto
all’irraggiamento e all’illuminazione naturale, riducendo i
consumi energetici e aumentando, parallelamente, il comfort
ambientale. Le aule rivolte a nord ricevono un’illuminazione
diffusa attraverso ampie superfici vetrate che non
necessitano di alcuna protezione solare, mentre quelle
orientate a sud sono schermate dal forte aggetto della
copertura e da un dispositivo chiamato “mensola di luce”.
Questo elemento metallico orizzontale, montato a metà
della superficie vetrata, ha la faccia superiore riflettente: la
luce solare viene deviata verso il soffitto bianco della classe,
per poi essere uniformemente diffusa all’interno. Al
contempo la mensola scherma la superficie inferiore della
finestra, impedendo ai raggi solari di surriscaldare gli
ambienti. Una funzione importante è anche svolta dal
corridoio di distribuzione: più alto delle aule, presenta
lunghe finestre a nastro attraverso cui la luce penetra, batte
su appositi schermi riflettenti e filtra all’interno delle classi
rivolte a sud attraverso le vetrate poste nella parte alta dei
tramezzi che le dividono dal percorso.
Per garantire nei mesi estivi la giusta temperatura all’interno
degli ambienti, il progetto agisce su due fronti: riduce gli
apporti termici esterni prima che investano l’edificio
attraverso l’uso di schermature e di vetri selettivi; dissipa il
calore in eccesso grazie a un sistema di ventilazione naturale
raffrescare ulteriormente le aule che, in tal modo, riescono
d’estate ad avere una temperatura inferiore di circa 3-6°
rispetto a quella esterna senza dover ricorrere all’uso di
condizionatori. D’inverno l’aria fresca viene preriscaldata
all’interno del doppio solaio ed entra nelle aule a una
temperatura più alta dell’esterno senza creare disagi agli
utenti e garantendo, comunque, i necessari ricambi d’aria.
I materiali del progetto rispondono ai requisiti di
durevolezza, facilità di manutenzione e sostenibilità del ciclo
di vita, considerato nella sua interezza, contribuendo a
connotare la ricerca espressiva che, pur lontana da
suggestioni vernacolari, recupera i caratteri dell’architettura
opere
ispirato alle torri del vento orientali che sfrutta i moti
convettivi dell’aria, l’inerzia termica della costruzione e
l’effetto camino innescato dalla configurazione morfologica
dell’edificio. L’aria esterna viene prelevata attraverso asole
praticate in corrispondenza del corridoio di distribuzione del
primo piano; circolando all’interno di una intercapedine
ricavata nel solaio, si raffresca e filtra nelle aule per mezzo di
griglie metalliche. L’ambiente viene attraversato dal flusso
dell’aria che, riscaldandosi progressivamente, sale verso l’alto
e, passando attraverso delle fessure praticate sul soffitto,
fuoriesce verso i camini di estrazione del corridoio. Il sistema
resta in funzione anche durante la notte continuando a
architetture
60
Sullo sfondo: l’ingresso alla scuola con a sinistra il
volume dell’auditorium
Il muro di contenimento in grossi blocchi di pietra
a secco riprende una tradizione locale
opere
mediterranea. La pietra locale del basamento è così
associata alle doghe in legno che rivestono i volumi
curvilinei e al cemento bianco delle “scatole” delle aule, al
cui interno spicca, per contrasto, il rosso intenso delle pareti
intonacate. Vista notturna
architetture
61
architettureselezione
DI
LAURA GUGLIELMI
Lo spirito
Arts and Crafts
selezione
progetto di Walters and Cohen
architetture
62
Fondata nel 1893 da John Haden
Badley secondo principi progressisti, la
Bedales School è uno dei collegi più
prestigiosi del Regno Unito; fu infatti il
primo a prevedere classi miste e ad
affiancare alle tradizionali materie di
insegnamento le attività artistiche
(pittura, musica e teatro) e manuali
(tessitura e giardinaggio), nella
convinzione che andassero formati non
solo «la testa, ma anche la mano e il
cuore degli alunni». Il campus
scolastico si trova nei pressi di
Petersfield, nello Hampshire, e occupa
un terreno di 120 acri su cui sorgono
edifici eterogenei: alcuni risalgono ai
primi del Novecento come la Memorial
Library di Ernest Gimson, considerato
uno dei capolavori del movimento Arts
and Crafts, altri sono stati realizzati nel
corso dei successivi anni come l’Olivier
Theatre di Feilden Clegg Bradley,
ultimato nel 1997.
Il master plan elaborato dallo studio
Walters and Cohen, a seguito del
concorso di progettazione vinto nel
2003, prevede l’inserimento di nuovi
edifici e il recupero e la valorizzazione
del carattere rurale del luogo, che
aveva costituito il tratto distintivo della
originaria sistemazione paesaggistica di
Edward Hutchinson, in parte
manomessa dai successivi interventi di
espansione. Il nuovo piano di assetto,
pur evitando la proposizione di un
ingresso formale, estraneo allo spirito
della scuola, individua un punto di
accesso principale, raggiungibile con
una strada carrabile che attraversa i
campi circostanti e termina in un
parcheggio pavimentato in ghiaia.
Sull’area a “frutteto” di fronte al
parcheggio sorge il nuovo complesso
edilizio che accoglie spazi per la
didattica e per l’amministrazione –
Dall’alto:
Panoramica del campus scolastico
Vista del nuovo edificio in rapporto alla Memorial
Library
vivi, animati dalla presenza degli
studenti i quali possono usufruirne
liberamente anche in orari
extrascolastici.
Innovativa è anche la scelta strutturale
scaturita dalla richiesta di contenere i
consumi energetici e provvedere di
conseguenza a considerevoli quantità
di massa termica: scartata l’opzione di
una struttura completamente in legno
è stata messa a punto una soluzione
ibrida costituita da un telaio interno in
cemento armato e da una struttura di
pilastri e travi in legno come sostegno
del rivestimento esterno. I solai in
cemento armato insieme alle pareti
interne realizzate con blocchi di
cemento costituiscono la massa
termica necessaria a stabilizzare le
temperature interne, mentre la finitura
esterna è costituita da un curtain wall
in doghe di larice siberiano montate in
verticale che, opportunamente
distanziate e disposte in orizzontale,
vanno a disegnare i brise-soleil delle
finestre esposte a sud. Integrazione
selezione
con l’ambiente e la cultura locali,
onestà strutturale, qualità dei materiali,
cura dei dettagli: i valori del
movimento Arts and Crafts, che
ispirarono e guidarono la fondazione
di Bedales, rivivono nell’opera di
Walters and Cohen in un modo
completamente contemporaneo che
Bradley avrebbe senza dubbio
approvato. architetture
66
Dall’alto:
Lo spazio interno dell’atrio d’ingresso
caratterizzato dall’intelaiatura in c.a. lasciata a
vista
Le aree di studio e di relax ricavate nello spazio di
distribuzione alle aule del primo piano
A lato: l’interno di una delle aule del secondo piano
Per la realizzazione del presente articolo si è
tratto spunto da «Architects’ Journal» vol. 222,
n. 14, 20 ottobre 2005, pp. 26-39 e da
«Architectural design» n. 1, gennaio-febbraio
2007, pp. 112-117
NUOVE FORME DELL’INFORMATION
TECHNOLOGY E DELLA PROGETTAZIONE CONTEMPORANEA
a cura di NITRO Antonino Saggio
70 Navi mobili e immobili
72 Nuove relazioni nella città
75 Il virus dell’informale
78 Un equilibrio generato
da uno squilibrio
79 Artefatti cognitivi
82 Spazi pubblici mediterranei
avi
mobili
e immo
bili
N
Sottolineiamo indi tre aspetti di questo
costruendo museo a Manhattan:
a) autonomia e automantenimento di gestione;
b) riconfigurabilità degli spazi;
c) elettronica (ricorderete il loro progetto
Blur!) combinata in questo caso alla meccanica portuale per affrontare il nodo stesso
del progetto.
A proposito di Elizabeth
Diller e Zaha Hadid
all’inaugurazione del
MAXXI di Roma
di Antonino Saggio
Elizabeth Diller, completando la sua conferenza inaugurale in onore del museo MAXXI, ha
lanciato un siluro all’architettura-corazzata di
“Zaha” al Flaminio di Roma.
Ha detto, più o meno: ebbene cari amici,
anche se veramente non dovrei perché è solo
allo stato di concept, vi faccio vedere il
nostro nuovo museo a New York. Si basa su
tre principi. Il primo è che si deve autosostenere finanziariamente. Vuol dire che le attività commerciali, quelle più direttamente produttive e quelle espositive, non si sovvenzionano con soldi pubblici, ma appunto cercano
nell’interesse delle loro attività presso il pubblico le fonti economiche di sostentamento.
Secondo principio: le tre attività occupano
ciascuna circa un terzo della superficie e poi,
e l’ha detto come se niente fosse, ecco il
terzo principio: «Spazi e funzioni si devono
riconfigurare». Ma come fare per riconfigurare spazi e funzioni? Beh, semplice: si prende una tecnologia ben funzionante, quella
dei carri ponte e dei container dei porti e la si
adatta al caso specifico! Il nuovo museo di
Diller&Scofidio + Renfro risulta di conseguenza composto da tre scatole, che stanno
l’una dentro l’altra come a formare una enorme matrioska e che si aprono, si chiudono e
slittano reciprocamente riconfigurando spazi
interni ed esterni. Ha mostrato una prospettiva e alcune sezioni e, per finire, ha detto: la
forma architettonica verrà, adesso non è
questa la cosa l’importante.
70
La riconfigurabilità è in relazione alla massima
flessibilità d’uso. Qui non c’è una weltanschanung digitale o post-meccanica, ma al contrario una tensione che affronta con coraggio le
necessità del programma e a partire da queste
elabora progetti moderni. L’estetica in architettura è una conseguenza, non la base di
partenza.
Con Diller&Scofidio e la loro High-line abbiamo iniziato On&Off («L’architetto italiano» n.
15) e con la monografia di Antonello Marotta, prima in Italia, è ricominciata la collana
Rivoluzione Informatica nel 2005. Che l’équipe del MAXXI li abbiano invitati ci dà un piccolo credito culturale, anche se il siluro di Elizabeth d’un colpo fa apparire il MAXXI vecchio, costosissimo, inadeguato alle sfide culturali ed economiche da affrontare, assurdo
climaticamente, tradito nella concezione
urbana e forse poco funzionale. E che sia
bello, guizzante e asimmetrico, meandricamente piranesiano ci fa felici, sì, ma solo per
un attimo.
Cerchiamo di fornire un contributo alle prossime realizzazioni italiane, senza paura di formulare le critiche sulle opere appena realizzate. Naturalmente della Hadid siamo ammiratori (e aborriamo l’architettura da presepe che
hanno invece in mente i molti detrattori) ma
per spirito di parte in Italia si tende a non fare
le critiche se si è dallo stesso lato, è uno sbaglio gigantesco.
Ecco dunque alcune osservazioni pratiche e ci
auguriamo costruttive sull’inaugurando museo del XXI secolo:
a) costi e realizzazione. Come era già avvenuto per la chiesa di Meier alla periferia di
Roma, la via italiana alla costruzione delle
opere “dinamiche” e “a-tettoniche” della
recente architettura internazionale è assurda (il che potrebbe non far nulla), ma è
soprattutto antieconomica (150 milioni di
euro il costo finale). Realizzare pareti portanti in cemento armato porta a un lievitazione dei costi e a fare in maniera complessa, costosa e lunga cose che possono essere più semplici. Queste opere così dinamiche
“domandano” una realizzazione a ossatura
d’acciaio triangolata e poi rivestita in pannelli. È il sistema usato al museo Guggenheim di Bilbao. L’altra strada è quella
seguita nella realizzazione della bella chiesa di Alessandro Anselmi alla periferia di
Roma (la Chiesa San Pio di Petralcina nel
quartiere di Malafede). Qui le forme dinamiche sono rese congrue a un sistema di
curvilinee travi in acciaio che creano audacia e bellezza strutturale rare (oltre a un
costo contenuto). Insomma alle soluzioni
costruttive bisogna lavorare con attenzione, e la necessità del contenimento dei
costi spesso aguzza l’ingegno dei bravi
architetti e dei loro compagni ingegneri.
Nel MAXXI la costruzione sembra essere
stata dettata dalle esigenze della ditta che,
logico o meno che sia l’approccio, i suoi
lavori alla fine li contabilizza! Nella fase
della costruzione si legge l’inesperienza
dello studio Hadid e lo strapotere della
impresa e dei suoi interessi;
b) l’opera di Hadid sarebbe importante urbanisticamente per promuovere i flussi di attraversamento nel quartiere. Avere recintato il
museo in un lotto chiuso da palizzate, come
ci auguriamo non resterà ma invece temia-
mo, è uno sbaglio che snatura la forza stessa dell’architettura. Se l’area museale per
insipienza gestionale rimarrà sbarrata tra
Via Guido Reni a sud e Via Masaccio a nord
il museo perderà il suo potenziale urbano e
la sua architettura diventerà, suo malgrado,
“monumentale” perché da guardare e non
da vivere! Il successo come attrezzatura
“pubblica” e come spazio cittadino del vicino Auditorium dovrebbe servire come
esempio positivo;
c) lo spazio interno del MAXXI appare monotonamente indifferenziato dal punto di vista
dell’uso espositivo (la grande variazione
degli squarci visivi infatti non ha nulla a che
vedere con la potenzialità d’uso). E dal
punto di vista dell’intelligenza ambientale
l’edificio è sordo presentandosi come una
macchina da riscaldare e raffreddare con
tecniche tutte artificiali senza gli accorgimenti spaziali oggi possibili per attenuare
l’impatto climatico.
Ci fermiamo e pensiamo ai semplici principi di
Elizabeth Diller. Accontentarci del poco, dicendo che è meglio di niente, nel caso del MAXXI
vorrebbe dire arrenderci.
71
uove
relazio
ni nella
città
N
di Rosetta Angelini
«Se fai le vacanze in motocicletta, le cose assumono un aspetto completamente diverso. In
macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che
vedi da quel finestrino non è che una dose
supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo
dentro una cornice. In moto la cornice non c’è
più. Hai un contatto completo con ogni cosa.
Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la
sensazione di presenza è travolgente».
Robert M. Pirsig da Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta.
a La Villette. Riether sostiene che l’intero universo è costituito da instabili sistemi flessibili
in relazione parametrica gli uni con gli altri.
Questa tesi trova un chiaro riscontro nelle sue
opere come nella Wilder Wein, Mapping the
Unpredictable, collocata a Spitz, in Austria.
Questa installazione si struttura su una serie di
rapporti fondamentali: la relazione tra l’installazione con il contesto-sito, l’interazione tra
l’utente e il materiale artificiale e tra l’utente e
l’elemento natura. Queste relazioni a loro
volta, proprio perché siamo in un sistema
aperto, non sono fisse e predefinite, ma conti-
Gernot Riether, installazione, Wilder
Wein, Mapping the Unpredictable, Spitz,
Austria
È la stessa sensazione che si prova quando si
lavora su un’immagine raster e un’immagine
vettoriale. L’interazione-percezione è completamente diversa. Di un’immagine raster, non
possiamo modificare la forma dei pixel, possiamo solo ridurla o ingrandirla e l’interazione
è minima, siamo degli spettatori. Mentre,
un’immagine costruita vettorialmente ha una
struttura viva che possiamo modificare quando e come vogliamo, siamo dentro la scena. È
proprio la ricerca di un’architettura flessibile
fatta di strutture interne parallele che emergono dalla interazione e dai rapporti intensi
tra sistemi naturali e artificiali che struttura i
lavori di Gernot Riether. Si tratta di un artista
e un architetto che lavora su installazioni e
progetti a livello internazionale, che ha insegnato in diverse università in Europa e negli
Stati Uniti ed è attualmente docente presso il
Georgia Institute of Technology e presso l’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris
nuamente modificabili dall’utente e dall’elemento naturale. Wilder Wein è costituita da
una griglia regolare realizzata con tubi elettrici
e fissata al corpo scala dell’edificio. Ogni nodo
della griglia è mobile, è infatti costituito da
una semplice chiusura a “zip” che consente
all’utente di manipolarlo facilmente e quindi
di deformare in qualsiasi momento la dimensione o la posizione delle aperture di ogni
campo all’interno della griglia stessa. È come
essere su uno screen vettoriale, dove con lo
strumento delle manigliette del software
Adobe Illustrator possiamo spostare i vertici
della nostra griglia e modificare a piacimento
il nostro disegno ottenendo nuove e imprevedibili configurazioni che variano al variare
delle informazioni-parametri contenuti nei
nostri elementi-vettori. L’installazione è costituita da elementi che contengono “informazione”, i fili elettrici contenuti nei tubi dell’installazione sono portatori d’informazione, i
Dentro lo screen
di Gernot Riether
72
nodi-vettori sono elementi vivi, quindi modificabili in base a nuovi parametri assegnati, e
ancora l’elemento natura che entra nella griglia attraverso una pianta rampicante che cresce lentamente e liberamente alla continua
ricerca del sole è portatrice di elementi vitali,
di linfa, di ossigeno e quindi, di nuovo, d’informazione.
La continua ricerca di nuove relazioni spinge
spesso Riether a concentrare la sua attenzione
sui dettagli o a scegliere per le sue opere scenari apparentemente poco stimolanti come
nel caso della Junction Space, che si trova nel
quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, New
York. L’idea è qui di far affiorare nuovi rapporti tra frammenti architettonici apparentemente autonomi e poco significativi come le scale
antincendio, le finestre, le recinzioni nei cortili
del quartiere. L’architetto inventa nuove interconnessioni tra questi elementi apparentemente trascurabili del paesaggio urbano, e
genera linee e superfici che creano spazi nuovi
e imprevedibili. Infatti mediante l’utilizzo di fili
di gomma sintetica, un materiale leggero ma
estremamente robusto che consente di sfidare
le leggi di gravità e di mantenere l’installazione ben tesa e sospesa, queste nuove riconnessioni tra elementi poco significativi se presi
singolarmente danno vita a un nuovo scenario la cui forza espressiva si amplifica soprattutto di notte quando scompare il contesto e
rimangono vive solo le interconnessioni caratterizzate dai fili tesi di un colore codificato che
fanno riflettere la luce. Allora vengono evi-
denziati non più gli elementi singoli ma solo i
legami che, un po’ come nella vita, restano
indissolubili, nonostante il tempo e il luogo in
cui ci si trova.
Un’altra opera in cui la ricerca di nuove interconnessioni e di interazioni sociali è molto
forte è Cloud, realizzata per la Eyedrum Gallery di Atlanta. Cloud è un’installazione che ha
origine da tre elementi principali: un sistema
generato da moduli digitali, un sistema sociale e uno spazio fisico. Utilizzando infatti MEL,
il linguaggio di scripting del software di
modellazione 3D Maya, è stato creato uno
Gernot Riether, installazione, vista dalla
terrazza, Junction Space, quartiere di
Williamsburg, Brooklyn, New York
Gernot Riether, installazione, vista d’insieme,
Junction Space
73
tamenti sociali mettendo in evidenza, a seconda delle sue configurazioni, se i visitatori stanno collaborando in gruppo o stanno facendo
un lavoro individuale. In un sistema aperto e
riconfigurabile, lo spazio circostante con i suoi
confini assume un ruolo fondamentale in cui
l’obiettivo è quello di rendere sempre più fluida e continua la relazione tra il sistema artificiale e quello naturale alla ricerca di quella
fluidità che caratterizza i comportamenti dei
sistemi viventi come gli stormi di uccelli, gli
sciami delle api o i banchi dei pesci. La ricerca
di una sovrapposizione-fusione tra relazioniconnessioni artificiali, attraverso elaborazioni
virtuali e relazioni naturali, mediante lo spazio
fisico e l’interazione dei visitatori, si fa più
intensa e tangibile in Doubled Space, un’installazione realizzata per la Arthur Ross Gallery di New York. In questo caso lo spazio fisico,
naturale della galleria è stato registrato, elaborato e ricostruito come un modello virtuale
che può essere modificato in modo interattivo. Infatti, attraverso l’uso di videoproiettori
ad alta risoluzione, lo spazio virtuale è stato
proiettato sulle pareti di quello reale, in questo modo lo spettatore viene simultaneamente portato all’interno dello spazio virtuale
come se occupasse quello reale e questa
sovrapposizione di mondi virtuale-reale è
enfatizzata dall’utilizzo del suono, dalle luci e
dal colore che deformano, distorcono e cambiano il rapporto tra reale e virtuale in un flusso in continua evoluzione, dove il confine tra
percezione artificiale e naturale si fa sempre
più sottile fino a fondersi in un continuum
fatto solo di emozioni.
Gernot Riether, installazione, Cloud,
Eyedrum Gallery, Atlanta
Gernot Riether, installazione, Cloud, vista
d’insieme della nuvola
Gernot Riether, installazione, Doubled
Space, Arthur Ross Gallery, New York
74
script per generare 1.500 variazioni di un
unico modulo. Ciascuno dei moduli, pur avendo una caratteristica specifica di forma e i tre
stessi principi di connessione, ha una dimensione diversa. Una volta che i moduli di polipropilene sono stati generati dallo script e
tagliati al laser, il visitatore viene invitato a
interagire con le caratteristiche del modulo
stesso capace di sviluppare diverse possibili
combinazioni di connessioni. Ogni volta che
l’installazione-nuvola viene assemblata la sua
forma cambia in modo imprevedibile a seconda dell’interazione tra il sistema artificiale di
fabbricazione digitale e i diversi comportamenti dei visitatori che dipendono dalla personalità di ogni singolo utente, dalla sua cultura o dalle dinamiche di gruppo che si innescano durante l’interazione. Quindi, l’installazione-nuvola è in grado di registrare i compor-
«Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel
bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che
partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la
città perfetta, fatta di frammenti mescolati col
resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali
che uno manda e non sa chi li raccoglie».
Italo Calvino da Le città invisibili
Nella riflessione che accompagna la lettura
della città contemporanea, e le complesse
dinamiche di trasformazione che la investono,
emerge sempre più la problematica relativa
all’uso dei suoli e la condizione di antitesi,
separazione e frammentazione tra spazi aperti e spazi costruiti. Nelle vaste aree metropolitane, le componenti urbane, siano esse insediative, produttive o infrastrutturali, si susseguono e si alternano in maniera indifferenziata e senza soluzione di continuità, e la scansione degli spazi è dettata dai rigidi ritmi
imposti dalla zonizzazione funzionale: all’interno delle maglie stereometricamente definite esistono però dei territori di indeterminatezza che, se da un lato rappresentano elementi di disturbo e di instabilità per il sistemacittà, dall’altro costituiscono luoghi importanti
di progettazione, nodi di connessioni materiali e immateriali tra la città pianificata e la
metropoli spontanea.
Le smagliature della città costruita, i cosiddetti
“vuoti urbani”, sono il risultato di pianificazioni
inattese, dismissioni o, in alcuni casi, lacerazioni
drammatiche e possono diventare oggi l’occasione per l’elaborazione di una nuova idea di
città fondata su principi di “densificazione leggera” e di riciclaggio architettonico.
Prodotti inconsci e residui dello sviluppo urbano, i vuoti affiorano dall’analisi dei tessuti
degli agglomerati contemporanei come spazi
alieni ai sistemi di strutturazione territoriale,
come negativi potenziali in cui delineare nuovi
paesaggi operativi, funzionali e programmatici. Questi spazi sono intrisi di movimento in
divenire e portano agli estremi la definizione
stessa di paesaggio duale: da una parte scenari passivi, spazi liberi e residuali e dall’altra
territori definiti e attivizzati dai molteplici e
imprevedibili processi che li abitano. Si tratta
di luoghi che chiedono senso, ma non un
senso stabile e ordinato, figlio della firmitas
vitruviana, piuttosto invitano alla definizione
di significati provvisori, flessibili, strutturati per
rinnovarsi e pronti a modificarsi ancora.
Occorre allora riflettere sul ruolo dei vuoti,
considerando l’opportunità di trasformarli in
ambiti urbani paralleli a quelli esistenti, come
nuovi layer dinamici che si sovrappongono alla
città costruita offrendo innovativi spazi di vita,
gioco, socialità e sostenibilità.
La lezione della Convertiblle City tedesca,
messa in atto negli ultimi anni prevalentemente nella città di Berlino, è a questo proposito
estremamente calzante. A differenza delle
maggiori capitali europee, verso la fine del
secolo scorso, Berlino ha visto moltiplicarsi la
quantità di aree libere all’interno della città a
causa delle trasformazioni politiche e infrastrutturali di cui è stata protagonista. Le
dismissioni dei grandi complessi industriali,
l’abbattimento del Muro, gli squarci creati dai
bombardamenti della seconda guerra mondiale rappresentavano una grande opportunità di trasformazione per la città e reclamavano un intervento di pianificazione responsabile da parte dell’amministrazione cittadina.
Parallelamente ai tradizionali processi di pianificazione urbana, si sviluppa rapidamente un
fenomeno spontaneo di uso creativo e temporaneo degli spazi abbandonati della città
che porta con sé una crescita fiorente di
nuove forme micro-economiche e sociali
sostenibili. Gli usi innovativi e auto-organizzativi hanno successo laddove i sistemi di riqualificazione tradizionali sono risultati fallimentari: questo perché tutto il meccanismo viene
gestito da vere e proprie agenzie di mediazione (tra utilizzatori temporanei e proprietari dei
luoghi) in grado di seguire il processo di trasformazione delle aree a lungo termine, colmando in maniera proficua quel vuoto temporale tra sviluppo classico del progetto e processi spontanei di utilizzo dello spazio fisico.
L’esempio di Berlino sottolinea l’importanza
dell’affermazione di nuove strategie urbane
per la riconquista dello spazio costruito che si
inquadrino in un più ampio discorso di processi di trasformazione urbana partecipata e di
prospettive “dal basso”. In quest’ottica, l’occasione offerta dalla diffusione dei mezzi
informatici e tecnologici è sicuramente di
grande importanza da molti punti di vista.
Cerchiamo di illustrarne le ragioni attraverso
la presentazione di tre importanti piattaforme
collaborative che fanno del Web 2.0 lo strumento per l’innesco di processi di attivazione
delle energie presenti negli ambiti urbani.
La prima è Urban Drift (www.urbandrift.org)
piattaforma teorica trans-culturale per le
nuove tendenze in architettura, design e urbanistica nata grazie all’impegno della giornalista
e curatrice Francesca Ferguson. Si tratta di un
laboratorio di idee per la pratica architettonica
I
l virus
dell’infor
male
La rigenerazione urbana
a partire dal Web 2.0
di Marta Moccia
75
e le strategie urbane contemporanee che
coinvolge interlocutori internazionali nella
creazione di un network interdisciplinare. Al
suo interno architetti, artisti, teorici, scrittori e
registi si interrogano sulle trasformazioni della
città contemporanea e partono dal “caso Berlino” per elaborare nuove tattiche di pianificazione per gli spazi pubblici, le zone periferiche
e residuali e i vuoti urbani. Lo scopo è quello
di allargare i confini del discorso architettonico a un pubblico ampio e massimizzare il
potenziale dei processi interdisciplinari, creando un legame tra teorie innovative e pratica
architettonica. La piattaforma informatica si
lega poi a una serie di attività culturali (esposizioni, convegni, simposi, workshop, pubblicazioni) in cui le realtà urbane sono poste sotto
una nuova luce sociale ed economica e indagate per farne emergere le identità multiple.
Altro interessante spunto per l’elaborazione di
nuove strategie di riqualificazione urbana ci
viene offerto dall’interessante esperienza
didattica “UrbanVoids – Microprogetti sostenibili”, condotta dal prof. Antonino Saggio,
con molti collaboratori alcuni del gruppo
Nitro, alla Facoltà di Architettura “Ludovico
Quaroni” dell’Università degli Studi “La
Sapienza” di Roma all’interno del Laboratorio
di Progettazione Architettonica e Urbana IV.
UrbanVoids (http://urbanvoids.blogspot.com/)
è un progetto collaborativo che sviluppa una
nuova e fertile declinazione dei vuoti urbani
rovesciando il sistema urbanistico prescrittivo
calato dall’alto a favore di un approccio “dal
basso”, realista e situazionale, che attraverso
l’applicazione di una strategia progettuale
interstiziale interviene su tutti i livelli presenti
sul territorio, non solo quelli fisici, funzionali,
infrastrutturali e morfologici ma anche, e
soprattutto, su quelli sociali e culturali.
Per fare questo, UrbanVoids si avvale di una
piattaforma sistemica intelligente basata
sulle tecnologie informatiche collaborative
offerte dal Web 2.0 (nel caso specifico Google Maps, Google Earth, social networking,
blog, YouTube e SketchUp): a partire dalla
localizzazione georeferenziata di tutte le aree
di intervento nel territorio di Roma in Google
Maps è possibile accedere al blog e al sito del
corso, ai blog individuali dei singoli studenti
e ancora ai blog o ai siti delle realtà presenti
sul territorio, coinvolte nel progetto a titolo
di collaborazione, consulenza o addirittura
“committenza virtuale”.
Il terreno su cui si muove questa esperienza di
didattica e ricerca è rappresentato da una rete
di vuoti urbani individuati in un ambito urba-
76
no complesso della città, il settore sud-est
compreso tra il Parco Archeologico della Caffarella e il Parco di Centocelle.
Il processo di riqualificazione urbana elaborato, per quanto rimanga nella sfera della ricerca e della didattica, sviluppa in parallelo la
ricostruzione sociale e fisica della città, agendo nei nodi critici presenti sul territorio con
operazioni terapeutiche di “agopuntura”
urbana. Le azioni progettuali innescate hanno
interesse dal punto di vista del programma
sociale e della sostenibilità ambientale e propongono una strategia dinamica di riappropriazione degli spazi residuali della città attraverso l’attivazione di spinte auto-generative
dei soggetti e delle comunità coinvolte.
Un processo simile è sviluppato all’interno di
CriticalCity (www.criticalcity.org), il primo progetto di piattaforma collaborativa per la riqualificazione urbana ludica e partecipata sviluppato in Italia. In questo caso, ci si confronta
con il territorio della città di Milano e il lavoro
per la rivitalizzazione ricostruisce e recupera il
rapporto di identità tra la città residuale e
coloro che la vivono attraverso approcci creativi e vivi tesi a risvegliare le potenzialità assopite della metropoli. CriticalCity giunge a questo obiettivo sviluppando un approccio sistemico di e-democracy: attraverso una community on-line di giocatori vengono lanciate delle
vere e proprie “missioni” che intervengono
nei nodi critici dell’ambiente urbano e ne
affrontano le problematiche. Le modalità partecipative sono quelle del gioco, inteso come
uno dei percorsi indispensabili per il coinvolgimento degli individui nella definizione di
nuovi scenari urbani. Il progetto, attraverso
un’interfaccia tecnologica appositamente
creata, è in grado di attivare i cittadini all’interno del territorio in cui vivono, permettendo
loro di esprimere, interpretare e valorizzare i
vari e nuovi linguaggi metropolitani. Premiato
da diverse realtà istituzionali come miglior
progetto creativo di sviluppo locale e come
migliore startup innovativa (Innovation Circus
– Comune di Milano, Kublai Awards – Ministero dello Sviluppo Economico, 100 Talents –
Comitato delle Regioni Europee, TechGarage
2009 – Premio della Giuria, Public Choice
Award, Wired Greek Award, Premio Piazza
Mercanti – Camera di Commercio di Milano)
CriticalCity ri-crea il reale e sviluppa un’interpretazione del social networking che si traduce in partecipazione attiva e modalità fattive
per la mutazione dei contesti esistenti.
In un caso una piattaforma teorica, in un caso
un approccio didattico, in un altro un gioco
urbano: vengono messi insieme ricerca, tecnologia, sguardo alla realtà ed esperienze
ludiche per attivare processi collaborativi nei
quali gli attori presenti sul territorio diventano
i veri e propri protagonisti della rigenerazione
urbana. Il capitale di azione impiegato non è,
infatti, inteso in termini finanziari ma è rappresentato dalla creatività, dall’impegno
sociale, dalla creazione di network di relazioni, dalla partecipazione.
Le tattiche progettuali, in tutti e tre i casi, sono
strutturate sulla metafora del virus, ovvero sul
concetto che un’entità attiva sul territorio è in
grado di generare gradualmente nuove
potenzialità urbane, favorendo la crescita
socio-culturale ed economica. E il virus, come
nell’informatica o nella biologia, non costituisce di per sé un’entità indipendente e autosufficiente ma infetta il sistema-città, ne interpreta i meccanismi, vi si inserisce e li riproduce
dinamicamente.
Ecco quindi che l’informale riesce a confrontarsi con l’idea tradizionale e consolidata della
trasformazione della città: incarnato dagli
strumenti di partecipazione del Web 2.0, l’informale può migliorare il futuro delle nostre
città e generare profitto, finalmente inteso in
termini di benessere e vivibilità.
Pagina a fianco: Valentina Pennacchi,
unità low-cost mutanti e in crescita per il
risiedere e il lavorare. Una ipotesi negli
interstizi urbani nella periferia sud di
Roma, 2009
Sopra: CriticalCity, concept e schema di
funzionamento della piattaforma
partecipativa, Milano, 2009
77
U
n equi
librio ge
nerato
da uno
squilibrio
La mostra
di Alexander Calder
di Giovanni Bartolozzi
In alto: Cascading Flowers (1949),
The “Y” (1960)
A destra dall’alto: Big Red (1959), Glass
Fish (1955), La Grande Vitesse (1969)
78
La mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma
su Alexander Calder (sino al 14 febbraio 2010)
è occasione unica per scoprire la compiutezza
di un messaggio artistico dinamico, immediato, alla portata di tutti. Già le prime sale presentano le sculture in bronzo e le wire sculptures, sculture rivoluzionarie realizzate col fil
di ferro, che stupiscono per la tormentata tridimensionalità; si passa poi ai dipinti che in
più fasi hanno accompagnato l’opera dell’artista e, attraverso il grande mobile sospeso sul
doppio volume d’ingresso, si passa alle opere
della fase matura, i mobiles appunto che invadono lo spazio delle ultime sale e gli stabiles.
I mobiles sono certamente le opere più note
di Calder, ma la mostra romana espone una
quantità sorprendente di lavori a testimonianza di un percorso di ricerca che si è mosso
con disinvoltura, senza sbavature o
capricci linguistici, lontano dalle
inquietudini esistenziali dei suoi
contemporanei, poiché aveva
un obiettivo dichiarato nella spazialità del movimento. Come molti
artisti del secolo scorso, Calder ha
utilizzato i materiali grezzi (fil di
ferro, tondini metallici, piastre,
lamiere, legno, catene) forniti dall’industria e attraverso la sua impronta li
restituisce all’arte. Con le wire sculptures ha
ribaltato il tradizionale concetto di scultura
per masse piene, e con l’immaterialità del fil di
ferro ha sfidato lo spazio, ha reso il suo segno
subito tridimensionale: il passo successivo non
poteva che essere il movimento nello spazio.
La tecnica
di costruzione
dei suoi mobiles si fa via
via più complessa e al principio
fisico dei bracci di leva e dei bilancieri si sommano sempre ulteriori livelli di complessità: le aste si
estendono e spesso si incurvano, le piastre poste all’estremità a fare da contrappeso risolvono il problema della forma,
come fossero macchie di colore o
meglio masse di colore sospese nello
spazio. L’intera struttura si articola, si
ramifica in sottostrutture per ritrovare, come
dice Argan, una “morfologia arborea”, ma
rimane fedele alla sua legge di fondo, l’equilibrio complessivo tra le aste e la possibilità di
movimento delle
singole stanghe. Il moto
non coinvolge mai l’opera in maniera uniforme, ma si propaga, si rafforza o si smorza in
base alle condizioni, alle sollecitazioni aeree.
«Un giorno mentre stavo parlando con Calder nel suo atelier – scrive Jean Paul Sartre, in
un articolo riportato sul catalogo della mostra
– un mobile che fino a quel momento era
rimasto tranquillo fu colto da violenta agitazione, diretto contro di
me. Feci un passo
indietro credendo
di mettermi
al di là della sua
portata; ma improvvisamente, quando aveva smesso di agitarsi e
sembrava ripiombato nell’inerzia, la sua lunga
coda maestosa, che non si era ancora mossa
si mise indolentemente in moto, come a
malincuore, fece una giravolta in aria e mi
passò sotto il naso».
Calder lavorava per asimmetrie e sbilanciamenti, esaltava il dettaglio grezzo, ricercava il
non programmato – tutte caratteristiche presenti nelle sue opere – e soprattutto, come
dimostrano quelle sue grandi e articolate sculture che si nutrono dei movimenti dell’aria, ha
sempre ricercato un’immagine complessiva, un
ritmo, un equilibrio generato dallo squilibrio.
Un battito d’ali di un uccello che si posa su un
ramo e il conseguente dondolio è da sempre
un’immagine benevola della natura, che oggi
però apre spunti di riflessione e scoperte concrete
per l’architettura. La presenza degli strumenti
informatici e un sempre maggiore sviluppo delle
ricerche verso nuovi materiali e tecnologie sposta
infatti queste suggestioni dal mondo dell’intuizione romantica a quello dell’attuazione concreta. È
quanto succede quando l’architettura e gli artefatti via via più sofisticati che in questi anni si producono come prototipi della trasformazione tecnologica e culturale della Rivoluzione Informatica
incomincia a scoprire la ricchezza e la diversità del
mondo e soprattutto delle sue forme viventi.
Per esempio Fred Guttfield, membro dell’Interactive Architecture Workshop, alla The Bartlett
– Faculty of the Built Environment – School of
Architecture, guidato da Stephen Gage professore della Unit 14 attualmente insieme a Richard
Roberts, nel suo progetto per il diploma è attratto dal fatto che gli uccelli si posano continuamente sui rami, cercando cibo, volando, migrando e
ritornando ancora, quasi fossero dei pensieri.
Progetta un filo, provvisto di punti di attracco per
questi animali. Questi sono degli artefatti ibridi
fra meccanica e information technology, che funzionano come punto di appoggio e di rifornimento per il cibo. In realtà sono dei contrappesi
che essendo incernierati alla corda, finiscono per
dondolare ogni volta che un uccello si posa a una
sua estremità: le vibrazioni prodotte dal movimento dei volatili sono così trasferite all’oggetto che oscilla come un ramo assecondandole.
Viene individuata così nel progetto la sostanza
dell’interazione sebbene in una prima fase sia
ancora caratterizzata dalla natura meccanica.
Se tuttavia, la consapevolezza che l’ecologia,
dalla biosfera quale massimo ecosistema fino a
quello più elementare, è anzitutto interazione
continua fra le forme viventi e non, perché il
progetto dovrebbe formularsi su di essa? Guttfield concepisce l’elemento come un sensore
le cui capacità sono fornite da un accelerometro. Registrando in maniera precisa i movimenti che gli uccelli causano quando si posano cercando il cibo, questi vengono riproposti attraverso un potenziale dinamico fornito da un
piccolo motore e un’elica. Di notte un sistema
LED ne permette un’ulteriore riproposizione,
esaltandone così le traiettorie sullo sfondo
buio: si è aperto con questa installazione un
dialogo fra artefatto e mondo vivente.
Usiamo il termine artefatto proprio per esaltarne le caratteristiche evidenziate dalla psicologia cognitiva, che consistono nell’aver presupposto a monte del progetto una serie di
azioni possibili che lo riguardano una volta
realizzato, di natura intelligente e creativa.
L’installazione di Guttfield quindi agisce svelando potenziali e futuro dell’information
technology, quando quest’ultima agisce come
una sonda nell’ambiente vivo della natura. Lo
stesso autore d’altronde illustra le conseguenze del suo pensiero quando immagina tutto il
sistema come un elemento complessivo in
grado di restituire una propria gamma di comportamenti e di ritmi di popolazioni «in tandem con il sistema ecologico in cui si trovano».
Il dialogo fra l’artefatto e l’ambiente si svolge
così secondo diversi timbri, restituendo non solo
la grazia di un movimento armonico amplificato,
ma la gamma e il risultato di un sondaggio di
diverse forme viventi che interessano un luogo
nel tempo. Il sistema è anche programmato per
scrollarsi di dosso gli uccelli dopo un certo periodo. Gli esseri umani partecipano come osservatori, o come consumatori di una delizia, che
ha il merito di far emergere lo spazio aperto,
non solo in termini di giardino.
Se la prima ondata della Rivoluzione Informatica,
anche con delle comprensibili implicazioni liberatorie, ha esaltato e lavorato sulla quasi esclusiva
interattività visuale e proiettiva, la sperimentazione attuale e soprattutto le promesse delle capacità delle tecnologie digitali continuano il loro percorso di dialogo e riscoperta del mondo: il paradigma delle informazioni oltre a sollecitare le
capacità di calcolo per l’esplorazione e la composizione della forma attraversa una fase più matura, dove l’interrogazione è rivolta alla realtà dei
processi esistenti e soprattutto alla consapevolezza, che laddove ci sia scambio di informazione
la ricerca si svolge non tanto sulla loro rappresentazione, quanto sulla loro intercettazione e –
fatto apparentemente inaudito – sulla loro embodiment (incorporazione) in dispositivi diversi.
In questa direzione sofisticata, che sta aprendo
silenziosamente scenari di assoluta rivoluzione
nella disciplina, con delle implicazioni che toccano continuamente le attuali teorie dell’emergenza, frutto del pensiero della complessità, e soprattutto quelle della vita artificiale, sembra essere
radicato il lavoro di Ruairi Glynn, lecturer e tutor
alla già citata Bartlett, nonché ex studente della
Unit 14 di Gage, e ora pluripremiato artista.
Emblematica di un pensiero profondamente
radicato nelle teorie cibernetiche, e in particolare quelle di Gordon Pask, richiamato dallo
stesso Glynn,è una delle sue installazioni più
significative: Performative Ecologies.
Questo lavoro infatti mostra una notevole
intersezione, fra spazio, architettura, robotica,
e interazione. L’approccio di cui necessitiamo
A
rtefatti
cogniti
vi
Dialoghi e
comportamenti fra
architettura e ambiente
di Antonino Di Raimo
Fred Guttfield, Second Order Bird Feeder,
Thames Valley, Diploma Unit 14, Bartlett
School of Architecture, UCL, Londra,
2007 (credits: Fred Guttfield)
79
Ruairi Glynn, Performative Ecologies,
Londra, Graz, Vienna e São Paolo, 200708 (credits: Ruairi Glynn)
80
per parlarne, quindi, è necessariamente cognitivo.
Usiamo il termine cognitivo per parafrasare e
argomentare la descrizione che lo stesso autore fa della sua installazione, quale lavoro
incentrato sulle forme gestuali di dialogo fra
abitanti e un ambiente in continua evoluzione, e sulla capacità di quest’ultimo di ridiscutere il proprio comportamento in relazione
agli obiettivi e ai comportamenti degli abitanti
stessi. La riconoscibilità degli abitanti, ottenuta grazie a un sistema di visione artificiale, la
capacità dell’ambiente di formulare comportamenti multipli e nuovi, e soprattutto lo stesso scambio che avviene fra gli automi in termini di materiale performativo dimostrano
come l’informazione quale materia organizzativa di una forma e di un comportamento sia
prodotta e scambiata continuamente fra elementi viventi e artificiali, a patto di produrre in
entrambi un atto cognitivo, ovvero un atto
interno di produzione di conoscenza sul quale
viene a innescarsi la possibilità dell’interazione.
Ma come è realizzata questa comunità dialogante che accenna in modo tanto poetico quanto
scientificamente rigoroso alle scoperte e alla
tematiche di quella scienza degli anni Cinquanta, che silenziosamente continua tuttora il suo
percorso chiamata cibernetica?
In un ambiente buio viene costruita una comunità di automi, consistenti in alcune sculture robotiche dotate di una coda illuminata capace di riprodurre l’intero spettro RGB. Osservazione e socievolezza costituiscono i termini sui quali è organizzato il loro comportamento. Il loro obiettivo infatti è quello di attirare e mantenere l’attenzione
degli abitanti. Ciò è ottenuto attraverso un software di riconoscimento facciale che per esempio
fa sì che i robot mantengano la loro posizione
quando un osservatore è fermo all’altezza dei
loro “occhi”. La coda dei robot, inoltre, può ruotare e agitarsi eseguendo una vera e propria
danza per mantenere l’attenzione. Questo sistema dalla natura comportamentale, lontano da
qualunque idea deterministica e meccanica di
interazione è continuamente valutato sulla base
del successo (fitness) che raggiunge quando si
forma una rete di interazione fra i robot e gli
umani, che Ruairi non a caso chiama “danza”.
L’algoritmo alla base dei movimenti è infatti un
algoritmo genetico (in sigla GA) in grado quindi
di produrre mutamenti continui sulla base della
dinamica evolutiva delle interazioni abitantirobot, nel loro complesso. Ogni attore quindi
producendo cognizione la scambia continuamente con gli altri, permettendo al sistema di
evolvere e raggiungere diverse e complesse ecologie. È in tal senso interessante notare che quan-
do non ci sono osservatori umani i robot si rivolgono gli uni agli altri per insegnare e imparare la
danza che ha prodotto più successo, scambiando
in sostanza l’algoritmo mutato che l’ha prodotta.
Tuttavia ogni robot confronta continuamente il
proprio materiale genetico con quello che gli
viene trasmesso, e se c’è compatibilità il suggerimento viene accettato, altrimenti viene scartato.
Come si può notare la programmazione a monte
è continuamente orientata a produrre feedback
interni agli elementi robotici, che proprio per
questo motivo sono in grado di produrre cognizione e comportamento sempre diversi e via via
più ricchi. Quando infatti i robot ricevono una
notevole attenzione i livelli di mutazione degli
algoritmi avanzano velocemente e la danza diviene ancora più sperimentale.
I livelli di conoscenza e progettualità quindi che
questa installazione comporta sono, a nostro
avviso, radicati in una idea dell’architettura profondamente dinamica: non tanto per un gusto
di virtuosismo nell’animazione robotica, quanto
per aver incorporato in essa la consapevolezza
che ogni atto progettuale è un atto dinamico,
non calato certamente dall’alto, socievole più
che indifferente, il cui successo sembrerebbe
proprio essere basato sulla capacità degli artefatti di saper dialogare con l’ecosistema in cui
vengono costruiti, raggiungendo dei livelli nella
performance sempre più complessi e ricchi.
L’ecologia quindi nella visione di questi studiosi e sperimentatori anglosassoni certamente
non è solo la virtù del materiale vegetale, ma
soprattutto il pensiero che si formula sulle
molteplici relazioni fra gli elementi viventi e
inerti che formano un ambiente.
Di fatto sebbene da una prospettiva diversa e
con un apparato teorico basato sul concetto di
protoarchitecture, il lavoro di Robert Sheil, professore della Unit 23 ancora alla Bartlett, e
membro del gruppo Sixteen*(makers), sembra
approdare a delle necessità di interazione e prototipazione analoghe a quelle finora esaminate.
Cosa ci fanno, infatti, degli strani oggetti nella
romantica e piovigginosa campagna inglese?
Non siamo proprio nello Yorkshire, bensì a
Kielder in Northumbria, UK. Tuttavia Emily
Brönte, o uno dei suoi personaggi, potrebbe
benissimo essere passato da queste parti: il
clima estremamente variabile da umido a piovigginoso, con qualche squarcio raro di sole, e
soprattutto intervallato dalle memorabili striature di vento, è ancora quello, ma troviamo
non solo l’erica, non solo la foresta che cinge
la brughiera, piuttosto una strana colonia
metallica distribuita nel prato e con una sorta
di testa che si muove nello spazio.
Infatti questa colonia di artefatti funziona
attraverso l’interazione con il clima. Ma procediamo con ordine: nel 2003 Sixteen*(makers)
si sono aggiudicati una architecture residency
da The Art and Architecture Partnership at
Kielder (AAPK). Più che aspettarsi l’esito di un
edificio, l’obiettivo era quello di esplorare il
possibile campo d’azione per un’architettura
in quel luogo. Così, come scrive Bob Sheil,
sarebbe stato chiaro ben presto che il ruolo di
un sito di eccezione del genere avrebbe suggerito una ricerca nella quale capire come la
natura del luogo, inteso come insieme di processi ecologici, quindi come contesto, avrebbe
potuto informare le scelte della rappresentazione e della realizzazione, nonché i loro
campi di reciproca intersezione, a metà fra le
pratiche analogiche del design e quelle digitali. Si arriva così a immaginare una pratica che
potremmo definire design per sondaggio.
Infatti gli artefatti sono in realtà delle sonde il
cui obiettivo è quello di raccogliere i dati
microambientali durante il tempo, misurandone più che le caratteristiche statiche a un dato
tempo, le differenze fra gli stati stessi. Alimentate a energia solare, le sonde non solo eseguono il monitoraggio dei dati ma dimostrano un comportamento reagente: si aprono
quando il clima è caldo e soleggiato, si chiudono quando è nuvoloso e freddo. Ma ciò che
sembra essere davvero importante sono le
conseguenze del metodo di indagine proposto: misurare le differenze lungo il tempo piuttosto che una condizione statica apre la strada a un pensiero progettuale che potrebbe
essere fondato sui processi dinamici dai quali
un sito emerga come realtà, più che su un’immagine congelata di esso. Allo stesso tempo
un’analisi dinamica potrà costituire in futuro
una valida base nella scelta di contesti potenzialmente idonei o meno a un insediamento.
L’analisi in un certo senso restituisce una carta
i cui dati descrivono una realtà comportamentale del contesto. Infine la restituzione di questi processi può essere incrociata con i pattern
relativi al comportamento dei visitatori sul
sito: se l’artefatto è aperto quando il clima è
soleggiato, ed è chiuso quando c’è cattivo
tempo, questo modello comportamentale di
architettura reagente intercetta con buona
approssimazione i picchi e le depressioni del
pattern relativo alla presenza e all’assenza dei
visitatori. Ciò che però ci interessa ancora di
più sottolineare sono le stesse metodologie
che il team di Sheil ha sviluppato. L’interesse
per i concetti di simulazione e realtà ha innescato delle metodologie progettuali. Infatti
all’inizio i modelli sono stati animati sulla base
dei dati raccolti nel sito esclusivamente in
ambiente digitale, ottenendo così una sorta di
anteprima ideale. Successivamente le sonde
reali sono state installate sul sito, e il loro comportamento dinamico è stato catturato da
alcune fotocamere ad alta risoluzione programmate a intervalli di tempo. Attraverso un
software di restituzione fotogrammetrica è
stato ottenuto un nuovo modello dalla realtà
animato, generando in tal modo una sorta di
quella che Sheil definisce una trasgressione fra
i due mondi analogico/digitale. Il comportamento di questo modello, infatti, se comparato a quello ideale ottenuto dalla simulazione e
caricato con gli stessi dati mostra che le deviazioni fra reale e ideale potrebbero costituire
dei feedback, sul quale basare dei metodi di
progettazione evolutiva per successive generazioni. Come ci tiene a segnalare Sheil, il
design evolutivo si è sempre concentrato sul versante computazionale, e quindi sull’ambiente
digitale; un incrocio fra analogo e digitale, ovvero ciò che Sheil inscrive nella sua teoria della protoarchitecture, potrebbe di fatto costituire un
nuovo campo di ricerca.
Post digitale è un termine di cui forse si farebbe
volentieri a meno, se non fosse che ricorre in
molte delle riflessioni e degli scritti di coloro che
continuano a lavorare intorno alla capacità di
computazione applicata al progetto, sia in fase
di ideazione sia di realizzazione, e che a ben
vedere vogliono evidenziare proprio l’entrata in
una fase più matura della Rivoluzione Informatica, dove il dato e le sue convenzioni non solo
diventano informazione, ma sono fisicamente
incorporati nei prototipi che si realizzano e che
su quei dati organizzano fini interazioni e comportamenti degli ecosistemi di cui fanno parte.
Sixteen*(makers), Kielder Forest, Northumbria,
2005, credits: Sixteen*(makers)
81
pazi
pubblici
mediter
ranei
S
Spazio, tempo e IT
di Marcella Del Signore
e Antonino Saggio
Museo itinerante, M. Fatica e F. Guevara
82
Gli spazi pubblici sono una parte decisiva del
tessuto urbano e funzionano allo stesso
tempo come luoghi di connessione e di sosta.
Per loro natura presentano una intrinseca,
naturale componente di interattività. Componente che può essere sviluppata in nuove direzioni quando due concetti chiave si inseriscono nel progetto. Da una parte la presenza
catalizzatrice dell’informatica, dall’altra la
ricerca di situazioni di crisi, di difficoltà, addirittura di emergenza.
Spazio pubblico, informatica e situazioni di
crisi per miscelarsi in maniera propositiva
hanno bisogno di un vero e proprio “salto”
rispetto alla realtà. Un salto che è progettuale,
programmatico, tecnologico, immaginifico.
Quando il salto riesce la strada è aperta a progetti che acquistano contemporaneamente
senso dal punto di vista della rivalorizzazione
ambientale, dal punto di vista squisitamente
economico e spesso anche da quello sociale.
Tutto questo è particolarmente forte quando
si opera in situazioni come quelle di molti
paesi del Sud che hanno da una parte enormi
risorse ambientali e storiche e dall’altra situazioni di degrado, di difficoltà, di depauperamento molto forti.
Com’è possibile di conseguenza ideare nuovi
scenari urbani dove gli spazi pubblici diventino elemento primario di rivitalizzazione dell’intera città? Qual è il ruolo specifico che l’information technology riveste? Come il tempo
e lo spazio possono essere materie principali
di ricerca? Come e quali forme possono esse-
re immaginate per interventi urbani sia permanenti che temporanei in situazioni fortemente legate al territorio e alla sua geografia
e alla sua storia? Queste sono state le sfide
del workshop svolto al SicilyLab nel settembre 2009 nel paese di Gioiosa Marea, nella
costa tirrenica del messinese. Ospitato dal
gruppo Nitro, il workshop – diretto da chi
scrive e dal prof. Bruce Goodwain, della Tulane University – ha visto la presenza dei critici
Gernot Riether e Anders Hermund e di un
nutrito gruppo di partecipanti dalla Tulane di
New Orleans e dall’Università “La Sapienza”
di Roma. Tutti insieme hanno immaginato
interventi plug-in dove la città esistente è il
substrato operativo per una serie di innesti
progettuali. Sono state identificate tre
macroaree di studio, le due occidentale e
orientale segnate dai (tristemente famosi di
questi tempi) ripidi torrenti siciliani e una centrale che collega la montagna in cui si erge
l’originario insediamento di Gioiosa Guardia
e il mare. All’interno di ciascuna macroarea
ogni gruppo di designer ha individuato sottoaree e condizioni di crisi da re-immaginare.
Bishop, Sen Gupta, Jordan e Wirthlin hanno
reinterpretato l’idea del sedimento trasportato dalla montagna al mare immaginando un
sistema capace di prendere informazioni sia
fisiche che virtuali in un luogo e depositarlo in
un altro. Il loro progetto si focalizza sull’intera
macroarea centrale della città prendendo in
considerazione la fascia che va dalla zona
archeologica nelle zona del vecchio centro
abbandonato nel XVIII secolo fino al mare.
L’intervento gioca sull’idea di disegnare prima
un sistema globale per l’intera area e poi un
sottosistema di microinterventi locali. La metafora del flusso di dati legati alle caratteristiche
del luogo e al torrente viene materializzato in
una infrastruttura fisica costituita da nodi, o
spazi pubblici dove l’informazione viene metaforicamente depositata per generare modificazioni fisiche attraverso una serie di installazioni
nelle piazze, piazzette e scalinate di Gioiosa.
Albanese, Dyer, Franklin e Muni lavorano in
una delle aree al bordo della città, dove il torrente che va al mare ha solcato profondamente il territorio lasciando un suolo di risulta
completamente disconnesso con il resto dell’abitato. Il loro intervento ha lo scopo di usare
il torrente come risorsa e come luogo di
espansione per nuove attività. La nuova forma
urbana si ramifica e invade aree non utilizzate
generando nuovi luoghi e usi. La serie di fasce
che generano la morfologia dell’intervento
viene poi programmata in funzione di attività
specifiche, soprattutto per un festival agroalimentare che avrebbe grandi possibilità di successo in questo contesto.
Farinella e Kelley, invece, studiano la grotta
preistorica del Tono, localizzata tra il mare e il
centro cittadino. Nel loro progetto il suono
diviene tema di ricerca. Per risolvere la mancanza di vita notturna nella città di Gioiosa,
una esigenza molto sentita dai giovani, spazi
di incontro vengono disseminati nelle principali piazze del paese con una serie di forme
scultoree flessibili, capaci di chiudersi durante
il giorno e aprirsi di notte. Questi bistrot elettronici e interattivi diventano altre parti di
suoni provenienti da un’altra area della città.
In particolare il suono del passaggio del treno
viene captato e mandato all’interno della
grotta del tono che è una naturale cassa di
risonanza armonica. L’output sonoro viene poi
rimixato e ri-proiettato all’interno della città
attraverso appunto qquesti bistrot elettronici,
vere e proprie nuove strutture ibride della contemporaneità un po’ chioschi, un po’ sculture,
e un po’ altoparlanti, capaci via wi-fi e bluetooth anche di generare un network locale di
scambio di informazioni.
Burke e Finley, invece, focalizzano l’attenzione
su un’area di limite nella parte ovest della
città, dove il letto del torrente è spesso occu-
pato dai rifiuti. Il torrente si trova in un’area
che ha la potenzialità di essere recuperata e
usata come spazio pubblico ai margini urbani.
Il progetto trasforma il sito e organizza il programma sotto forma di gioco dove l’utente è
l’artefice e il costruttore dello spazio. L’idea
ruota attorno a un’installazione che ha il potere di educare e promuovere il riciclaggio per i
residenti di Gioiosa. Il singolo utente partecipa
al sistema di riciclaggio e l’input di questa
azione viene trasformato in output luminoso
capace di generare diverse condizioni di luce
nel nuovo paesaggio costruito. In questo
modo lo spazio stesso cambia continuamente
e diventa forma urbana interattiva.
Il lavoro di Fatica e Guevara ipotizza delle
microsituazioni urbane per la ricollocazione
dei reperti storici e archeologici che vengono
inseriti direttamente negli spazi della cittadina
piuttosto che chiusi a chiave in un piccolo
ambito municipale, mentre Nourse e Wooley
creano una sorta di panca interattiva (sponsorizzata dalle persone originarie di Gioiosa che
lavorano in altre parti del mondo) che si inserisce negli spazi pubblici attivando situazioni
impreviste, colorate, interattive. Greco, Ryan
e Sartinsky disegnano un piccolo porto turistico che ospita anche un museo della mattanza, ma vista dal punto di vista del pesce.
Museo e Marina della Tonnara, L. Greco,
M. Ryan e L. Sartinsky
Suoni e nuovi luoghi urbani, C. Farinella e
R. Kelley
83
Museo itinerante, M. Fatica e F. Guevara
Flussi di informazioni e installazioni
urbane, Z. Bishop, Z. Jordan , B. Sen
Gupta e L. Wirthlin
E pensando all’information technology come
alla tonnara della frazione di San Giorgio è
abbastanza immediato immaginare le grandi
potenzialità del tema.
I progetti visti nel loro insieme portano a mettere in discussione forme e strumenti tradizionali del progettare. In questo contesto l’infor-
84
mation technology può presentare un modo
di appropriazione della città che propone un
accesso anche dal basso alla cultura della progettazione urbana. Questi interventi attivano
processi, programmi, risorse cercando luoghi
di intrusione dove innestarsi per far crescere
una cultura attiva e alternativa.
a cura di
Enrico Carbone
spazio sport
La foto documenta
lo stato di degrado
del pavimento
musivo della piscina
del Foro Italico a
Roma, inaugurata
il 16 maggio 1937.
I mosaici furono
realizzati dalla
Scuola del Mosaico
di Spilimbergo su
disegno di Giulio
Rosso, in marmo
Bianco apuano e
Nero di Varenna
n.33 - 34
2009
86
Il risanamento
artistico dei mosaici
In una pubblicazione propagandistica del 1937, Lo sport fascista e la razza, Camillo Barbarito sottolineava la funzione
sociale che il regime attribuiva alla pratica sportiva: «Il
Regime non solo ha visto nello sport l’alto valore educativo, sia per i singoli individui sia per le masse, ma ne ha capito anche l’importanza nel senso equilibratore fra i diversi
strati sociali, nel senso cioè che riesce ad avvicinare ricchi
e poveri, impiegati e artigiani, professionisti e contadini».
Sotto lo slogan “Il Duce è il primo sportivo d’Italia” – esempio del “perfetto atleta”, era nuotatore, pugile, cavallerizzo,
tennista, aviatore, sciatore – e allo scopo di addestrare i giovani dell’intera nazione all’esercizio sportivo, nel 1926 era
nata l’Opera Nazionale Balilla (ONB) che, guidata dal gerarca Renato Ricci, aveva dato inizio a un ambizioso progetto
in cui le finalità pedagogiche erano perseguite attraverso un
organico programma architettonico, che prevedeva la costruzione di Case del Balilla in ogni città. In questi luoghi architettonicamente all’avanguardia, avveniva la preparazione
dei giovani, «fisicamente e moralmente, in guisa di renderli
degni della nuova norma di vita italiana», come recitava il regolamento applicativo dell’ONB.Allo scopo, venne creata la
Scuola Superiore di Educazione Fisica,che – scrive Barbarito
– «prepara ogni anno centinaia di giovani dal petto quadrato e dal viso allegro che, dopo aver temprato i muscoli e la
mente nelle palestre, nelle piste, negli stadi e nelle aule della grandiosa Accademia, bianca di marmi e verde di pini e di
alloro, si spargono nella penisola per fare dei ragazzi e dei
giovani d’Italia dei veri soldati».
In questo contesto, era maturata nel 1927 l’idea di creare a
Roma una cittadella dello sport, che, dichiarò Ricci, all’inizio
prevedeva soltanto la costruzione di una «moderna scuola
di insegnanti di educazione fisica con annesso uno stadio per
le esercitazioni degli allievi». Il progetto fu affidato a Enrico
Del Debbio, che già nel 1928 pubblicava un manuale in cui
forniva modelli di palestre e Case del Balilla indirizzati agli
architetti chiamati a collaborare in ogni parte d’Italia.Il complesso romano divenne imponente, e il 4 novembre 1932 fu
inaugurata parte del Foro Mussolini, che – scriveva nel 1933
Mario Paniconi – «si può riallacciare per ricchezza di marmi, per opere d’arte, per grandiosità di linee ai più solenni
monumenti dell’antichità romana». Il suo ingresso è platealmente segnato dall’obelisco eretto nel 1932, anno in cui
giunse a destinazione dopo un viaggio iniziato alle cave di
Carrara, e proseguito per mare e lungo il Tevere: un’impresa titanica che l’ONB celebrò con la pubblicazione nel 1934
di un volume illustrato da Alfredo Furiga.
Nel Foro, trovano posto architetture disegnate da Del
Debbio, Luigi Moretti, Costantino Costantini. Improntato alla romanità imperiale è lo scenografico Stadio dei Marmi
(1927-1932) di Del Debbio, in cui scultura e architettura sono chiamate a dialogare attraverso i 60 nudi virili (uno per
ogni provincia italiana) in marmo di Carrara che dominano
l’emiciclo; più rigorosa ed essenziale è la Casa delle Armi
(1934-1936) di Luigi Moretti, autore anche, nel 1937, del Viale
I mosaici che circondano la piscina coperta sono stati realizzati dalla Scuola del Mosaico di Spilimbergo e sono un
esempio notevole di quella riscoperta delle antiche tecniche romane – mosaico ed encausto – che caratterizzò molta arte decorativa del Ventennio, ispirata anche dagli scavi di
complessi archeologici. La Scuola di Spilimbergo era nel
campo musivo un’eccellenza, sia come luogo di formazione
che come produzione, con committenze che si estendevano fino in Asia: nata nel 1922, era stata premiata con medaglia d’oro alla Prima Biennale di Monza per la decorazione
di una fontana a Udine progettata dall’architetto Raimondo
Dettaglio dello stato
di erosione delle
tessere in marmo
bianco e delle malte
sovrammesse
Visione d’insieme
durante l’intervento,
con tassello indicatore
dello stato di degrado
dell’Impero, decorato da un tappeto musivo in bianco e nero. Si devono a Costantino Costantini l’edificio con una piscina coperta e una scoperta, l’auditorium e gli alloggi degli atleti:i lavori iniziarono il 23 maggio 1933 e questa parte del complesso fu inaugurata da Mussolini il 16 maggio 1937,prima del
completamento dell’auditorium, iniziato nell’aprile 1935.
Costantini (Oneglia, 1904 - Milano, 1982), laureato in ingegneria al Politecnico di Torino e poi in architettura, aveva già
realizzato diverse Case del Balilla: nel 1930 era stata inaugurata quella di Biella, nel 1931 quella di Torino a Piazza
Bernini, nel 1933 quelle di Mantova e Pinerolo. Mentre lavora a Roma nel complesso del Foro, sono portate a termine nel 1934 la Casa del Balilla di Mondovì e quella rionale
di Via Guastalla a Torino, nel 1936 quella di Chiasso; un edificio stupefacente, la Casa del Marinaretto, a forma di nave,
eretta in Corso Sicilia a Torino, viene inaugurata da Ricci nel
novembre del 1935 e sarà demolita nel 1961. L’ingegnere
aveva iniziato la sua attività romana partecipando nel 1931
al concorso indetto per l’erezione dell’obelisco Mussolini,
che vinse proponendo una serie di soluzioni altamente tecnologiche per la messa in opera del monolite.Da quell’esperienza giunsero gli altri incarichi.Anche le piscine da lui progettate sono un esempio di connubio tra architettura e decorazione, e a realizzare i mosaici furono Angelo Canevari
e Giulio Rosso, autori anche – insieme a Gino Severini e
Achille Capizzano –, nel 1938-1939, dei mosaici pavimentali lungo il Viale dell’Impero e attorno alla Fontana della Sfera.
Fauna marina,
particolare prima
dell’intervento
d’Aronco, nel 1932 aveva realizzato un mosaico pavimentale per il caffè concerto di Shanghai, e negli anni ’30 realizza
tutte le opere musive del Foro Mussolini.
I disegni per i mosaici perimetrali della piscina sono di Giulio
Rosso (Firenze, 1897 - San Paolo del Brasile, 1976), che si
era formato all’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la
guida di Galileo Chini, artista di fama internazionale, chiamato anche alla corte di Bangkok dal re del Siam. Rosso negli
anni Trenta era insegnante di decorazione pittorica nel Reale
n.33 - 34
2009
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Fauna marina,
particolare dopo
l’intervento
Vista della piscina
coperta dello Stadio
del Nuoto
n.33 - 34
2009
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Museo Artistico Industriale di Roma, e in città lasciò numerosi interventi,dagli affreschi nel piacentiniano Teatro Savoia,
ai pannelli nel Teatro Quirinetta, alla facciata del Palazzo
Coppedè, fino ai pavimenti in mosaico della stazione ferroviaria Roma-Ostia, con immagini che narrano la storia di
Roma, dai primordi alla fondazione dell’impero fascista.
I mosaici della piscina del Foro Italico formano un tappeto
optical, una sequenza di immagini in bianco e nero che rappresentano giganteschi e piccoli animali acquatici: crostacei,
molluschi,murene,conchiglie e testuggini,tutti in tessere nere, incontrano nei loro percorsi subacquei animali fantastici e muscolosi nuotatori dal volto squadrato. Una fauna che
sembra tratta dal vasto repertorio di decorazioni musive
tardo-imperiali allora riportate in luce.
La realizzazione dell’intervento
Le ripartizioni del tessuto musivo, riconoscibili in più punti,
fanno pensare che l’opera sia stata realizzata con la tecnica,
che si sviluppa proprio nei primi decenni del Novecento, del
“supporto provvisorio”, che consiste nel “bendaggio” della
superficie musiva, con un sistema di garze, “tarlatana”, che
vengono incollate; questo consente di realizzare il mosaico
in laboratorio su un piano provvisorio, e di asportare poi la
porzione realizzata in blocco e “impiantarla” definitivamente in situ. Di particolare interesse è la lavorazione delle singole tessere che sono di dimensione e altezza variabile e presentano i quattro lati della faccia a vista leggermente smussati: la superficie risulta così discontinua, presumibilmente
per evitare scivolamenti su una pavimentazione troppo liscia
e per favorire il deflusso dell’acqua verso i chiusini.
Nonostante la valenza artistica e decorativa,questo pavimento musivo,come quello della piscina pensile,di dimensioni più
ridotte è riservata ai bambini, con giocose rappresentazioni
adatte alla destinazione, viene calpestato quotidianamente e
continuamente bagnato dall’acqua, e sottoposto a consistenti stress di varia natura, ambientali, chimici, fisici, biologici, antropici, che sono causa del suo progressivo degrado.
In occasione dell’intervento di manutenzione conservativa,
realizzato da chi scrive, nel periodo da gennaio a giugno
2009, sono stati effettuati dei prelievi di tessere, bianche e
nere, di malta e di acqua della piscina per indagini diagnostiche conoscitive, al fine di determinare la composizione del
materiale lapideo costitutivo, delle diverse malte di allettamento e delle caratteristiche dell’acqua. I risultati delle indagini hanno consentito di determinare le caratteristiche
morfologiche dei marmi utilizzati, Bianco apuano e Nero di
Varenna, di rilevare le caratteristiche porosimetriche e il
conseguente assorbimento d’acqua, lento e graduale per le
tessere lapidee, molto più rapido per le malte cementizie,
la scarsa presenza di sali solubili all’interno di tessere e malte, i diffusi fenomeni di dissoluzione chimica comunque limitata nella profondità,e i fenomeni di microabrasione meccanica superficiale.
Tra le cause più rilevanti del degrado vanno segnalati: l’esposizione del lato sud dove ampie vetrate consentono un forte
irraggiamento solare, responsabile di un più accentuato fenomeno di dilatazione, contrazione, ritiro e decoesione delle
tessere, soprattutto quelle bianche; gli elevati valori di grandezza fisica quali l’umidità relativa e la temperatura, potenziali responsabili dello sviluppo di microrganismi;l’uso di sostanze disinfettanti, il cloro, particolarmente aggressive per i materiali a matrice carbonato-calcica, come sono le tessere del
mosaico; lo scarso funzionamento dei tombini per il deflusso
dell’acqua in eccesso, che favorisce zone di ristagno e quindi
di maggior interazione acqua-pietra delle tessere; varie “riparazioni” e adeguamenti realizzati nel tempo con l’inserimento di elementi non pertinenti; il quotidiano spostamento e
trascinamento di attrezzature sportive (le porte per la pallanuoto, trampolini mobili, carrelli per il recupero dei delimitatori di corsia), con conseguente usura delle tessere.
Vista l’impossibilità di sospendere le attività sportive, l’intervento è stato attuato progressivamente su settori delimitati, porzione per porzione, sino a coprire l’intera pavi-
a) Aspetti microstrutturali e
morfologici di superficie
di uno dei prelievi di
tessere lapidee bianche
(tal quale), in cui si
osserva una spiccata
decoesione intercristallina
b) Sezione sottile
stratigrafica del campione
di tessera lapidea bianca
(foto a) – marmo s.s.,
Bianco apuano – al
passaggio con la malta
granulare di allettamento
(in basso); si denota la
perfetta adesione e
l’integrità dell’interfaccia
(illuminazione trasmessa,
ob. 4x, pol //)
c) Aspetti microstrutturali e
morfologici di superficie
di uno dei prelievi di
tessere lapidee nere (tal
quale), in cui si osserva
una spiccata coesione e
levigatura superficiale
oltre a un allineamento
di microfessure comunque
riempite da precipitati
cristallini biancastri,
propri della roccia
d) Sezione sottile
stratigrafica del campione
di tessera lapidea nera
(calcare carboniosobituminoso, Nero di
Varenna), con il dettaglio
della matrice calcitica
biancastra ricristallizzata
e le plaghe carbonionebituminose (nere) incluse
nella massa carbonatica;
si denota la perfetta
integrità e la lineazione
interna del materiale
(illuminazione trasmessa,
ob. 30x, pol //)
e) Aspetti microstrutturali e
morfologici di superficie
di uno dei prelievi di
malta (tal quale) tra le
tessere lapidee in cui si
osserva una spiccata
decoesione e fessurazione
nella compagine granulare
mentazione. Una generale operazione di pulitura meccanica e chimica ha interessato l’intera superficie del mosaico,
sono stati rimossi depositi superficiali incoerenti, le sostanze organiche, residui di vernice e sostanze bituminose. I limitati distacchi di tessere sono stati fatti riaderire con iniezioni localizzate di malta premiscelata specifica, dopo aver
pulito e rese agibili le vie di scorrimento della malta. Le colonie di microrganismi sono state eliminate mediante l’applicazione di biocidi e una successiva azione meccanica.
Ripetuti lavaggi con acqua demineralizzata hanno eliminato
la presenza dei sali solubili; nell’ambito di questa operazione è stata verificata la conducibilità dell’acqua prima e dopo le operazioni di lavaggio, ottenendo la conferma conduttimetrica dell’allontanamento delle specie ioniche. L’intervento più incisivo ha interessato l’abbassamento e, in alcune zone, la rimozione di malte molto tenaci, applicate in alcune parti del mosaico successivamente alla sua realizzazione; l’intento era quello di riempire gli interstizi tra le varie
tessere che col tempo si sono erose maggiormente, mentre le malte si sono rivelate molto più tenaci delle tessere
stesse. A distanza di tempo, quindi, la malta, pur non svolgendo più alcuna azione meccanica o statica (le tessere sono saldamente ancorate al supporto), sopravanzava il mosaico stesso rendendolo esteticamente illeggibile. Le piccole tamponature di riempimento realizzate con cemento
bianco e resine sono state rimosse, i vuoti risultanti sono
stati stuccati con una malta composta da calce idraulica,pozzolana setacciata e polveri di marmo di varia cromia e granulometria. Con la stessa malta sono state anche risarcite
le fessurazioni che attraversavano il mosaico. La stesura di
un protettivo con caratteristiche traspiranti ha concluso le
varie fasi dell’operazione di recupero. Dei 24 chiusini in ottone disposti lungo il perimetro della vasca, soltanto uno è
nelle condizioni originarie, mentre gli altri sono stati evidentemente resecati perché il loro livello, più alto del piano pavimentale, non consentiva un deflusso regolare dell’acqua,
come è possibile verificare anche dalle zone erose del pavimento che seguono le vie preferenziali di scorrimento, tutti erano privi del raccordo nella tubatura. Sei chiusini erano
stati sostituiti con modelli diversi dagli originali e in questa
occasione si è ritenuto opportuno realizzare sei copie in ottone con tecnica di fusione “a staffa”, opportunamente patinate, e realizzare i 23 raccordi mancanti, dotati di innesto
a baionetta per l’apertura e la chiusura dei tombini.
Ora, questa preziosa “pittura di pietra” riportata a uno stato
estetico e di conservazione soddisfacente,molto vicino all’originale, mostra un leggibile e fantastico repertorio di fauna e
mitologia che comunque necessiterà sempre di un attento
monitoraggio e di un puntuale programma di manutenzione.
Giorgio Mori
Scheda dell’intervento
f) Sezione sottile stratigrafica
del campione di malta tra
le tessere lapidee, analoga
alla precedente (foto e),
in cui si denota la
struttura macrogranulare
polimineralica (silicopozzolanica a legante
cementizio) oltre a estesi
fenomeni di fessurazioni
sia interni sia verso la
superficie (illuminazione
trasmessa, ob. 4x, pol //)
Periodo: gennaio-giugno 2009
Ditta esecutrice: Giorgio Mori Conservazione e Restauro Beni Culturali,
Roma
Direzione dei lavori: Stefano Pedullà di CONI Servizi SpA, Roma
Assistenza alla direzione lavori: Stefano Craia
Alta Sorveglianza Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per il Comune di Roma: Federica Galloni
Direttore tecnico dei lavori: Giorgio Mori
Assistenti al restauro: Lorenzo Clementi, Giorgio Pierotti,
Chiara Tamburrini, Stefano Vannozzi
Progettazione dell’intervento: Studio di Restauro Angelucci Sas
di Stefano Lanuti & C., Roma
Indagini diagnostiche: Paolo Saturno di Laboconsult Srl, Roma
Documentazione fotografica: Sario Manicone, Roma
n.33 - 34
2009
89
Vista da nord
di una parte
dell’inter vento di
housing a Osuna,
Siviglia (1991),
Pilar Alberich
Sotomayor e Jaime
Lopez De Asiain
con Seminario
de Arquitectura
y Medioambiente
(SAMA)
Sotto:
vista da est
dell’housing a Osuna
Quale architettura “passiva”
per i climi mediterranei?
D
tecnologia e
materiali
a alcuni anni il modello di
casa a basso consumo energetico dominante in Europa è quello
della Passivhaus. Si tratta di un modello che è stato concepito per i climi
temperati-freddi – rispetto ai quali si
presta particolarmente bene al contenimento dei consumi energetici per il
riscaldamento – e che solo successivamente ha visto dei tentativi di importazione nei climi temperati-miti.
Le caratteristiche principali di tale modello sono il superisolamento termico
e il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria.
n.33-34
2009
90
Tra queste due caratteristiche, è la prima a generare l’esigenza della seconda.
È cioè il superisolamento termico la
condizione senza la quale non è possibile ridurre fortemente le dispersioni
termiche verso l’ambiente esterno; e
questo per il fatto che in un edificio ordinario la maggior parte delle dispersioni termiche verso l’ambiente esterno avviene per trasmissione attraverso l’involucro edilizio. Inoltre è sempre
il superisolamento termico la condizione che rende interessante il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria. Mentre in un edificio ordinario, infatti, le
infiltrazioni d’aria – poniamo, di entità
superiore a 0,6 ach (ricambi d’aria/ora)
– corrispondono a una parte secondaria delle dispersioni termiche invernali
complessive, negli edifici superisolati le
infiltrazioni corrispondono a una parte
rilevante (che vale, insomma, la pena di
ridurre) delle dispersioni invernali complessive. Il forte contenimento delle infiltrazioni d’aria si scontra però con la
necessità di garantire un ricambio d’aria
sufficiente a evacuare l’umidità prodotta dalle persone nei vani; necessità che
in una Passivhaus genera sia l’esigenza di
adottare strategie di ventilazione forzata con recupero del calore, sia l’importante conseguenza di rendere controproducente l’apertura delle finestre nella stagione estiva (cosa che va in senso
molto contrario alle abitudini degli abitanti nei climi temperati-miti, tra cui
quelli italiani).
Le due citate caratteristiche distintive
del modello Passivhaus (superisolamento termico e impervietà all’aria) e la citata caratteristica da esse indotta (ventilazione forzata con recupero del calore) incoraggiano, a loro volta: l’adozione di strategie di climatizzazione forzata ad aria (essendo la ventilazione forzata già comunque presente); la combinazione di tali sistemi di climatizzazione forzata con pompe di calore e
con scambiatori di calore terra-aria, ed
eventualmente con pannelli solari ad
acqua;e in ogni caso l’impiego di pannelli fotovoltaici per l’alimentazione degli
impianti attivi.
Tutto ciò contribuisce a fare sì che
l’inerzia termica propria della costruzione in una Passivhaus ordinaria sia usualmente poco importante. E questo in
gran parte perché in tale tipo di edificio gli impianti si fanno carico di supplire all’eventuale scarsa inerzia termica delle parti di costruzione: sia perché
il sistema formato dagli scambiatori di
calore e dalle pompe di calore consente uno sfruttamento indiretto dell’inerzia termica del terreno ai fini del riscaldamento e del raffrescamento, sia perché l’impianto solare ad acqua è in genere dotato di una propria consistente massa d’acqua, di elevata inerzia termica, utile perlomeno in relazione al
riscaldamento invernale.Tale insieme di
condizioni – appunto, climatizzazione
ad aria abbinata alle pompe di calore e
combinata con una scarsa inerzia termica – nel quadro descritto costituisce
un ulteriore vantaggio, poiché rende
agevole controllare la temperatura delle
superfici attraverso l’aria e rende conveniente fare fronte ai picchi termici
giornalieri attraverso gli impianti.
Come contropartita, le soluzioni impiantistiche descritte richiedono un investimento energetico a monte della costruzione che si può supporre molto
rilevante, ma che allo stato attuale è
ancora difficile quantificare con precisione e al quale oggi non viene, purtroppo, usualmente attribuito un peso
rilevante da un punto di vista decisionale nella definizione dei progetti.
Non sono comunque solo le soluzioni
impiantistiche incoraggiate dal modello
Passivhaus a fare sì che nei climi freddi l’inerzia termica propria della costruzione non risulti molto importante ai
fini del controllo climatico: sono le caratteristiche stesse dei climi in questione, per il fatto che in inverno la differenza di temperatura tra ambiente
esterno e vani vi risulta molto elevata.
Si tratta di una situazione che rende
meno cruciale l’inerzia termica anche
nei casi in cui non siano presenti impianti attivi di climatizzazione. Ciò è
confermato dal fatto che le abitazioni
tradizionali nei climi nordici o in quelli
montani anche italiani sono in genere
caratterizzate da soluzioni costruttive
“leggere”, prevalentemente basate sull’impiego del legno.
È anche interessante notare che importanti presupposti contribuiscono a differenziare il grado di idoneità del modello Passivhaus ai climi temperati-miti,
nei quali oggi da più parti si cerca di
importarlo, da quello relativo ai climi
temperati-freddi.
Studio
dell’irraggiamento
solare (a sinistra)
e della ventilazione
naturale (a destra)
in inverno (in alto)
e in estate (in basso)
nell’housing a Osuna
Innanzi tutto, la necessità di isolamento
termico nei climi temperati-miti è inferiore a quella che si verifica nei climi
temperati-freddi; nel senso che l’involucro di un edificio superisolato adeguato ai climi temperati-miti necessita
di una minore resistenza termica di
quello di un edificio superisolato adeguato ai climi temperati-freddi (tra le
due situazioni esiste, peraltro, una differenza più che altro quantitativa, che
non richiede modifiche qualitative alla
concezione degli edifici ai fini del riscaldamento e del raffrescamento passivi).
Ma anche la necessità di riduzione delle
infiltrazioni d’aria nei climi temperatimiti è inferiore a quella che si presenta nei climi temperati-freddi, in particolare nel caso di edifici dotati di elevata inerzia termica utile questo fatto
– ragionevolmente desumibile e da più
parti già ragionevolmente affermato –
è stato confermato dai recenti esiti della
ricerca europea Passive-On, svolta negli
ultimi anni).1
Ora: questa differenza è tale da non
generare, nelle possibilità, solo variazioni quantitative, ma anche variazioni
qualitative. Non tanto perché nei climi
temperati-miti ciò renda possibile sottodimensionare gli impianti di climatizzazione forzata e di recupero del calore, ma perché consente di non prevederli del tutto, poiché in tali situazioni
se le temperature dell’aria sono meno
controllabili le temperature radianti, invece, risultano stabili.
O, in altre parole, se nelle stagioni estreme la temperatura dell’aria nei vani può
discostarsi in modo anche piuttosto
marcato dall’ambito del comfort la temperatura media radiante consente di
controbilanciare tale situazione, potendo risultare – in presenza di masse di
inerzia termica quantitativamente adeguate e adeguatamente posizionate –
più calda di quella dell’aria in inverno
(grazie al guadagno solare passivo) e più
fresca in estate, in particolare in caso di
adozione di strategie di raffrescamento
passivo per ventilazione notturna della
massa (l’importanza relativa della strategia di raffrescamento per ventilazione
notturna della massa si accresce, del resto, per effetto dalla collocazione degli
strati termoisolanti sulla faccia esterna
della massa termica localizzata in corrispondenza involucro, a causa della riduzione dello scambio termico attraverso l’involucro a cui tale situazione dà
luogo).
Si tratta di differenze che generano ripercussioni a cascata, tutte originanti
dal fatto che l’edificio adeguato ai climi
temperati-miti può trarre vantaggio da
una elevata inerzia termica e dunque
necessita di parti di costruzione “pesanti”. Ciò non implica che tutte le sue
parti costruttive debbano essere “pesanti”, ma che lo siano perlomeno alcune di esse – magari i solai, le partizioni,
l’involucro esterno o combinazioni di
queste possibilità. Tale ipotetico edificio
non ha, del resto, neanche bisogno di un
sistema di recupero del calore aria-aria.
Dunque non ha bisogno di ventilazione
forzata. L’impiego di pompe di calore,
perciò, in abbinamento alla climatizzazione ad aria non vi è incoraggiato. Dunque vi sono ulteriori motivi per cui non
n.33-34
2009
91
Vista da sud-est
dell’housing
a Hockerton,
Regno Unito (1998),
Brenda e Robert Vale
(foto: Rob Annable)
Sotto:
Instituto Tecnológico
y de Energías
Renovables (ITER),
Tenerife, Canarie
(foto: Jose Mesa,
licenza Creative
Commons)
è necessario perseguire in esso una tenuta all’aria dei serramenti particolarmente elevata. Inoltre l’involucro di questo tipo di costruzione è, certamente,
ben termoisolato, ma non è necessario
che sia eccezionalmente termoisolato.
Il rapporto con il terreno di questo edificio, infine, non è necessariamente mediato da scambiatori di calore, ma può
consistere in uno scambio termico diretto, conduttivo. Come conseguenza di
tutto ciò, tale edificio può incorporare
meno energia nell’isolamento termico
e molta meno energia negli impianti rispetto a un edificio basato sul modello
Passivhaus.
Quello descritto è un edificio low-tech,
cioè non è necessariamente molto differente, nelle soluzioni impiantistiche,
da un edificio tradizionale, ma che si distingue da esso a livello morfologico e
costruttivo specialmente per la sua mar-
n.33-34
2009
92
cata esposizione “solare”, per la localizzazione e l’operabilità dei suoi serramenti (che rendono elevata la sua attitudine ad essere ventilato naturalmente, sia di giorno – grazie al vento e per
convezione termica – sia di notte – in
genere specialmente per convezione
termica, a causa della frequente assenza di vento che si verifica in tale periodo della giornata), sia per il fatto di essere più spiccatamente termoisolato in
corrispondenza dell’involucro.
La possibilità di pensare e costruire un
edificio bioclimatico di questo tipo esisteva già prima della comparsa del modello Passivhaus. Del resto, un edificio
oggi progettato per sottrazione a partire dal modello Passivhaus, se emendato nel modo appena descritto, non
è più, a mio parere, una Passivhaus,
ma una casa “bioclimatica” tradizionale. Cioè una casa passiva nella quale
è minimizzato il ricorso a impianti.
Questo rispetto ai climi italiani è rassicurante e preoccupante nello stesso
tempo. Rassicurante perché significa che
la realizzazione di edifici a basso consumo energetico non dovrebbe necessariamente comportare significativi
aumenti nei costi di costruzione e uno
stravolgimento delle soluzioni costruttive che sono oggi nelle corde degli
operatori. Preoccupante perché significa che i motivi per cui il modello bioclimatico non ha finora attecchito in
Italia sono specialmente culturali, e dunque ancora presenti e persino difficili
da individuare con chiarezza. Una parte
determinante l’hanno giocata – e probabilmente tuttora la giocano – le condizioni di mitezza della maggior parte
dei climi italiani, che sono tali da “perdonare” ai progettisti non poche improprietà.
A vantaggio del progettista contemporaneo gioca la sua crescente consapevolezza delle relazioni che legano i fatti
relativi alla costruzione con quelli riguardanti il suo comportamento termico. Relazioni che svincolano, nelle
possibilità, la casa bioclimatica per i climi temperati-miti da ciò che essa è stata
nella storia anche recente. Ad esempio
per effetto della ricordata necessità di
un più consistente isolamento termico.
O per effetto della possibilità di sfruttamento di un intenso scambio termico per contatto diretto tra edificio e
terreno, resa a sua volta probabile dall’esistenza di sistemi di impermeabilizzazione più performanti di quelli una
volta disponibili. O per effetto della crescente disponibilità, durabilità e operabilità odierna dei sistemi di schermatura solare. O grazie alla maggiore capacità previsionale che oggi si è maturata
in merito agli effetti della combinazione
della ventilazione da vento e di quella
per convezione termica negli edifici.
Questo stato di cose mette oggi il progettista operante nei climi temperatimiti nella condizione di poter scegliere se optare per soluzioni bioclimatiche tradizionali o per una soluzione
di discontinuità con la consuetudine
operativa.
L’housing a Osuna (Siviglia) progettato
da Pilar Alberich Sotomayor e Jaime
Lopez De Asiain con Seminario de Arquitectura y Medioambiente (SAMA)
e realizzato nel 1991 è un esempio di
intervento bioclimatico contemporaneo nel quale tradizione e innovazione si mescolano producendo come esiti
l’ottenimento di bassi consumi energetici e di una elevata qualità ambientale
complessiva, avvertibile a livello polisensoriale. Il trattamento progettuale
degli edifici e dell’insediamento è infatti qui avvenuto in chiaro riferimento alla
tradizione dei Paesi mediterranei, ma
introducendo minute e importanti variazioni, come quelle microterritorali
mirate all’integrazione bioclimatica delle
scale edilizia e urbana, quelle morfologiche mirate allo sfruttamento della
ventilazione naturale per effetto camino e da vento (grazie all’attenta distribuzione degli spazi e delle aperture e
alla rivisitazione in chiave moderna delle configurazioni a patio o semipatio),
e quelle tecnico-costruttive legate all’isolamento dell’involucro, a doppia parete con camera non ventilata e strato
termoisolante.
L’housing a Hockerton (Regno Unito)
progettato da Brenda e Robert Vale e
realizzato nel 1998 in autocostruzione
da parte dei futuri abitanti è invece un
esempio di intervento bioclimatico contemporaneo basato su un’impostazione progettuale che, se supportata da
Vista più ravvicinata
dell’housing
a Hockerton
(foto: Rob Annable)
Sotto:
casa evolutiva
esposta nel quadro
della biennale dello
habitat sostenibile
di Grenoble
(foto: Pedro38,
2008, licenza
Creative Commons)
adeguate schermature solari, potrebbe
rivelarsi idonea ai climi temperati-miti
pur risultando in gran parte di rottura
rispetto alla tradizione. Il complesso edilizio, costituito da cinque case a schiera
e caratterizzato dalla quasi completa
assenza di consumo energetico per il
riscaldamento e il raffrescamento, da un
punto di vista termico funziona in modo
autenticamente passivo, sostanzialmente sul modello delle Earthship, combinando il guadagno solare indiretto, operato attraverso serre, con la presenza
di parti di costruzione massive e termoisolate in corrispondenza della faccia esterna dell’involucro, a contatto
con il terreno. La relazione termica tra
edificio e terreno è in questo caso abbastanza fuori dall’ordinario, per il fatto
di non essere gestita da scambiatori
terra-aria e da pompe di calore. Un accumulo termico multigiornaliero, con-
sentito dalle spessissime masse murarie, si combina qui con un debole scambio termico – e quindi un debole accumulo – stagionale, essendo la comunicazione termica tra edificio e terreno
molto ridotta per effetto dello spesso
strato termoisolante.
Ciò che accomuna gli edifici realizzati
a Osuna con quelli di Hockerton è
l’adozione di strategie di climatizzazione basate sull’impiego di una consistente massa di inerzia termica collocata,
in gran parte, in corrispondenza dell’involucro edilizio.
Ma neanche questa condizione risulta
oggi una necessità ineludibile per il progettista. La massa termica può, infatti,
essere proficuamente collocata in corrispondenza di parti di costruzione alternative, diverse dall’involucro.
Questo è un fatto molto importante,
perché implica che la possibilità di integrare nella casa mediterranea alcune soluzioni derivanti dalle tendenze più vive
leggibili nelle sperimentazioni internazionali degli ultimi anni, come quella della costruzione leggera prefabbricata a
secco e quella delle facciate stratificate
a secco, non è preclusa. Tale integrazione potrebbe per esempio concretizzarsi con la proposizione di combinazioni
– poco usuali nei contesti in oggetto –
tra parti edilizie “pesanti” e parti edilizie “leggere”; per esempio attraverso
l’abbinamento di involucri “leggeri” e
molto termoisolati a parti di costruzio- 1 Il rappor to della ricerca
ne (solai e/o partizioni) “pesanti” e di Passive-On è consultabile
elevata inerzia termica.
sul Web all’indirizzo
Un aspetto molto interessante di que- www.passive-on.org
sta possibilità è che essa potrebbe aprire al progettista operante in territori
n.33-34
dai climi temperati-miti un universo di
2009
soluzioni tecno-tipologiche ancora tutte da scrivere.
93
Gian Luca Brunetti
Il programma
dei lavori pubblici
si distingue in
un piano triennale
e in un elenco
annuale
approfondimenti di
giurisprudenza a cura di Eugenio Mele
La programmazione dei lavori pubblici
e il responsabile del procedimento
nello schema di regolamento
n.33-34
2009
94
Il
nuovo regolamento di esecuzione del decreto
legislativo n. 163 del 2006 dedica alla programmazione dei lavori pubblici una serie di articoli, e precisamente quelli contraddistinti con i numeri 11, 12 e 13.
È evidente che la materiale predisposizione del programma
dei lavori pubblici (che, come vedremo, si distingue in un programma triennale e in un elenco annuale) non può nascere,
così, a caso o a capriccio, ma deve essere il frutto di uno studio attento, per individuare le esigenze della collettività e gli
interventi necessari per dare luogo alla loro concreta e puntuale soddisfazione.
Questo anche per evitare che si individuino progetti faraonici, poi improponibili nel concreto svolgersi dell’attività, sia
per questioni economiche che per ragioni logistiche.
L’art. 11 dello schema di regolamento prevede che le amministrazioni pubbliche possano avvalersi anche di studi di fattibilità predisposti da soggetti privati, ai sensi dell’art. 153,
comma 19, del decreto legislativo n. 163 del 2006,1 e prevede il loro inserimento o nel programma triennale ovvero nell’elenco annuale, ma poiché gli studi di fattibilità di cui all’art.
153 del Codice si riferiscono all’intervento del cosiddetto
“promotore finanziario” e riguardano, quindi, opere di notevoli dimensioni,2 risulterà abbastanza difficile l’inserimento
degli stessi studi di fattibilità nell’elenco annuale.
E ciò anche per i tempi che sono specificamente individuati
nello stesso comma 19 dell’art. 153.
Nel programma triennale ovvero nell’elenco annuale (anche
se questo dovrebbe essere lo sviluppo cronistico del programma triennale, affinché quest’ultimo abbia un senso complessivo), possono essere inseriti lavori pubblici soltanto se
sia stato elaborato per questi un apposito studio di fattibilità, così come previsto dall’art. 128 del Codice.3
Il programma, come si è detto, è triennale, vale a dire che prevede le opere pubbliche (o, meglio, i lavori pubblici),4 con i relativi stanziamenti, che dovranno essere portati ad esecuzione nei tre successivi esercizi finanziari, corrispondenti ai successivi tre anni solari; il primo anno di tale triennio corrisponde all’elenco annuale, vale a dire ai lavori pubblici che dovranno essere eseguiti durante il primo anno.
È evidente che un triennio è lungo e che, ovviamente, durante il corso di un anno possono intervenire esigenze prima non
considerate ovvero che esigenze prima poste in rilievo perdano la loro attualità, per cui è opportuno, se non necessario,
che il programma triennale debba essere rivisto e aggiornato
anno per anno, non solo prevedendo le opere del terzo anno,
che ovviamente non erano state indicate, ma anche modificando le altre annualità sulla base delle esigenze medio tempore intervenute.
Si domanda, a questo punto, se lavori pubblici non inseriti
specificamente nella programmazione (e, in particolare, nell’elenco annuale) possano comunque essere eseguiti.
A ciò risponde l’art. 128 del decreto legislativo n. 163 del 2006
che, però, prevede che questi lavori possano, sì, comunque
essere eseguiti, ma essi devono avere un autonomo piano
finanziario, al di fuori dei meccanismi di previsione, e occorre trovare i necessari fondi, che possono anche derivare da
eventuali ribassi d’asta o da economie verificatesi in relazione a gare pubbliche bandite per altre opere.
Il programma triennale e l’elenco annuale, essendo indissolubilmente collegati con le risorse finanziarie necessarie per
la esecuzione delle opere ivi inserite, vanno formati insieme
con i bilanci preventivi – triennale e annuale – e collegati
ad essi.
Lo schema del programma dei lavori pubblici e quello relativo all’elenco annuale sono predisposti dalle amministrazioni pubbliche competenti entro il 30 settembre di ogni anno,
sono adottati entro il 15 ottobre successivo dello stesso
anno e vengono approvati insieme con i bilanci di previsione.
Si tratta, naturalmente, di termini non perentori e che, relativamente agli enti locali, sono collegati sempre a notevoli ritardi soprattutto per la loro approvazione, in quanto i bilanci di questi enti sono notoriamente approvati con notevole ritardo rispetto al termine prescritto del 31 dicembre di
ogni anno.
Nello schema medesimo, vanno indicati, innanzitutto, le priorità delle singole esecuzioni di opere pubbliche, ma queste
priorità sono di carattere generale, nel senso che se doves-
Studio Zagari,
isola pedonale
di Viale Manzoni,
Montegrotto Terme
(Padova)
sero determinarsi particolari esigenze per dare luogo a esecuzioni di opere pubbliche non rispettando tali priorità, con
le opportune motivazioni del caso, le stesse priorità potranno sicuramente essere non rispettate.
Vanno, altresì, evidenziate le articolazioni degli interventi, in
collegamento con le indicazioni di piano regolatore, i problemi ambientali (risolti), le risorse disponibili e anche (cosa
notevolmente importante) i tempi di attuazione dei lavori.
Nell’ambito del programma deve essere previsto, per ogni
opera pubblica, un accantonamento pari ad almeno il 3% dei
n.33-34
2009
95
lavori programmati preventivamente, destinato alla copertura degli accordi bonari, delle transazioni e di ulteriori incentivi per l’accelerazione dei lavori.
Il responsabile del procedimento:
natura e funzioni
Il funzionario responsabile del procedimento è preposto a
tutte le fasi relative al contratto della pubblica amministrazione, sia in quella relativa alla predisposizione progettuale
(prima anche del cosiddetto “studio di fattibilità”),5 sia in
quella procedimentale per la scelta del contraente privato e
sia in quella della esecuzione delle prestazioni contrattuali,
discendenti dalla stipulazione del contratto.
Studio Schiattarella,
waterfront
di La Spezia
In alto:
Foreign Office
Architects,
Yokohama
International Port
Terminal, Yokohama,
Giappone
n.33-34
2009
96
Per tale motivo, in passato, esso veniva denominato RUP
(responsabile unico del procedimento), proprio perché preposto a tutte e ciascuna delle fasi dell’“iter contrattuale”.
Lo stesso funzionario responsabile del procedimento deve
essere necessariamente un dipendente di ruolo dell’amministrazione pubblica procedente, vale a dire che il medesimo non può essere un soggetto assunto in via temporanea
o in via interinale, e dovrebbe essere escluso, a rigore di logica, anche il soggetto assunto dall’esterno con un contratto
di diritto pubblico o di diritto privato.
Egli deve essere, altresì, un tecnico, intendendosi per tale un
soggetto inserito nei ruoli tecnici e comunque un ingegnere,
un architetto, un geometra o un perito edile (o una figura
similare), abilitato all’esercizio della relativa professione6
o, quando tale abilitazione non sia normativamente prevista,
deve comunque possedere un’anzianità di servizio non inferiore a cinque anni (si intende, nei ruoli tecnici).
Il funzionario responsabile del procedimento guida e sovrintende a tutta l’attività relativa all’intervento dell’opera o lavoro pubblico, egli opera in modo che tutta l’attività dell’amministrazione, oltre che dei concorrenti alla gara
e dell’affidatario del contratto, sia portata avanti nel migliore e più celere dei modi al fine del raggiungimento delle
finalità contrattuali, che sono, naturalmente, quelle di avere l’opera nei tempi previsti e con le caratteristiche e le
funzionalità richieste.
Lo stesso funzionario responsabile del procedimento ha continui rapporti con il capo della struttura organizzatoria da
cui dipende e fornisce allo stesso ogni necessaria informazione sull’andamento del procedimento, ricevendo peraltro
da questi le opportune disposizioni.7
Il responsabile del procedimento, per i lavori pubblici il cui
importo economico è limitato a 500.000 euro e comunque
al di fuori di quelle opere caratterizzate da alta specialità,
può anche essere officiato di attività di progettazione e di
direzione dei lavori.
Sempre entro tali limiti il responsabile del procedimento può
essere il capo della struttura a cui pertiene il lavoro, a prescindere, evidentemente, dai requisiti sopra indicati (l’essere un tecnico e, forse, anche l’essere un dipendente di ruolo
dell’amministrazione procedente).
I compiti attribuiti al funzionario responsabile del procedimento sono molteplici.
Fra essi si ricordano i seguenti:
- promuove e sovrintende a tutti gli accertamenti per
verificare la corretta fattibilità dell’opera, ivi compresi
gli accertamenti relativi alla compatibilità urbanistica e
ambientale;
- verifica la impossibilità di procedere alla progettazione
richiesta con personale tecnico all’interno della struttura
e stabilisce quando la progettazione sia affidata all’esterno
dell’ente;
- verifica che i progetti – preliminare, definitivo ed esecutivo – siano coerenti con il documento preliminare alla
progettazione dallo stesso preliminarmente predisposto;
- propone all’amministrazione procedente il sistema di affidamento della gara e garantisce che la pubblicità, nei termini previsti, abbia effettivamente corso;
- richiede all’amministrazione la nomina della commissione
aggiudicatrice (o della commissione giudicatrice in caso di
appalto-concorso), individuando le relative professionalità, nel caso di aggiudicazione con il metodo dell’offerta economicamente più conveniente;
- dà luogo alla istituzione e alla costituzione dell’ufficio di direzione dei lavori e coordina l’attività operativa dello stesso, impartendo le opportune disposizioni, sia che si tratti di un ufficio monocratico (direttore dei lavori) che di un
ufficio complesso;8
- verifica, certificandola,9 la carenza dell’organico interno e,
conseguentemente, propone la nomina dei collaudatori
dell’opera dall’esterno (compreso il collaudatore statico);
nel caso, poi, sempre per l’inadeguatezza dell’organico,10
non vi sia idoneo personale di supporto alle attività del
responsabile del procedimento, questi può richiedere l’affidamento a personale esterno delle attività di supporto;
- verifica, per ogni stadio del progetto (preliminare, definitivo ed esecutivo) che questo corrisponda alla normativa
vigente, al documento preliminare dallo stesso redatto e
ai presupposti tecnici, amministrativi e finanziari al fine della sua proseguibilità.Va rilevato, in proposito, che, salvo il
caso di errori gravi e immediatamente riscontrabili, la verifica della rispondenza del progetto è limitata alla corrispondenza del progetto stesso al documento preliminare,
esclusa ogni invasione sui termini tecnici della redazione
del medesimo;
- predispone gli atti necessari per la eventuale conferenza
dei servizi, preoccupandosi di tutti gli incombenti relativi;
- sovrintende alla corretta realizzazione dell’opera, intervenendo in tutti i casi in cui sia necessario imporre il rispetto delle prescrizioni contrattuali, ivi compreso il rispetto
dei termini di cui al cronoprogramma;
- funge da tramite con l’amministrazione procedente sia per
i casi di sospensione dei lavori che per l’adozione di varianti in corso d’opera, irroga le penali contrattuali, propone la
risoluzione del contratto, nei casi in cui se ne manifesti l’esigenza, e predispone l’ipotesi di accordo bonario.
E. Me.
Silvio D’Ascia,
progetto per
la stazione
di Montesanto
(Napoli)
In alto:
Norman Foster,
Milano Santa Giulia
Le note sono
consultabili sul sito:
www.mancosueditore.eu
(alla voce riviste)
n.33-34
2009
97
Schmdit Hammer Lassen :
dalle idee ai fatti
CONCORSO
INTERNAZIONALE
SCHOOLS
FOR THE FUTURE, LARVIK, NORVEGIA
Gruppo vincitore: Schmidt Hammer Lassen Architects
Committente: Vestfold Municipality
Società di ingegneria: Multiconsult
Cronologia: 2005 (progetto di concorso) - 2009 (costruzione)
Area: 28.000 mq
Costo: 73 milioni di euro
concorsi / eventi a cura di Paola Salvatore
L
n.33-34
2009
98
a scuola Thor Heyerdahl School
of Advanced and Further Education, frutto di un concorso internazionale vinto nel 2005 dal gruppo danese Schmdit Hammer Lassen Architects, realizzata e inaugurata nel 2009
a Larvik in Norvegia rappresenta un
esempio tangibile in cui gli intenti sperimentali posti alla base di un concorso
d’idee si traducono senza forzature in
spazio architettonico. La nuova scuola
si basa infatti su un concetto innovativo che tende a realizzare un processo
di apprendimento aperto che prevede
la fusione delle classi sia dal punto di
vista dell’interazione sociale che della
condivisione del sapere. Gli studenti
delle scuole tecniche sono volontariamente posti in contatto con gli studenti del college, questo per creare
uno scambio reciproco di competenze oltre che per sviluppare nei ragazzi un forte senso di parità sociale e
rispetto civico.
La composizione architettonica, nata su
geometria quadrata, viene caratterizzata e dominata – nello sviluppo in pianta
e in alzato – dall’asse diagonale. Al volume compatto viene così impresso un
forte dinamismo rotatorio che si riflette all’esterno nella sequenza di terrazze a sviluppo progressivo e all’interno
nella serie di aree a doppia altezza che
offrono una molteplicità visiva tra un
piano e l’altro.
L’edificio prevede le classi destinate ad
attività sociali poste lungo l’asse centrale dell’edificio alternate a spazi per
riunioni informali, man mano che ci si
allontana dal fulcro centrale gli spazi
si suddividono in aree più piccole, parzialmente aperte, che garantiscono
maggiore tranquillità per i momenti di
studio. L’insegnamento, così come l’attività di laboratorio per le materie tecniche,si svolge nelle aule terrazzate che,
fornite di pareti vetrate, garantisco-
Si ringrazia lo studio
Schmdit Hammer Lassen Architects
per la gentile concessione
delle immagini
no un contatto visivo tra l’esterno e le
zone comuni.
Adiacente e collegato all’edificio scolastico vi è il centro sportivo che può accogliere fino a 4.000 spettatori e che ha
un duplice utilizzo sia per le lezioni e le
attività sportive della scuola che per i
concerti e le attività culturali cittadine.
La scuola, sposando e interpretando la
logica dell’interdisciplinare, si pone come modello di riferimento per gli edifici scolastici del futuro.
Collaboratori e loro qualifiche
COMITATO
DI REDAZIONE
GIAN LUCA BRUNETTI (G.L.B.) architetto
GIOVANNI CARBONARA (G.C.) architetto, direttore
della Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti,
Università “La Sapienza” di Roma
ENRICO CARBONE (E.C.) architetto
VALERIO CASALI (V.C.) architetto
LUIGI MAURO CATENACCI (L.M.C.) architetto
FRANCESCO CELLINI (F.Ce.) architetto, preside della Facoltà
di Architettura, Università Roma Tre
FURIO COLOMBO (F.C.) giornalista e scrittore
LUCA D’EUSEBIO (L.D.E.) architetto
ROBERTO DULIO (R.D.) architetto
IDA FOSSA (I.F.) architetto
PAOLO VINCENZO GENOVESE (P.V.G.) architetto, docente
presso la School of Architecture, Università di Tianjin, Cina
GIOACCHINO GIOMI (G.G.) ingegnere, Ministero dell’Interno,
Dip.Vigili del Fuoco
STEFANO GRASSI (S.G.) avvocato, docente presso la Facoltà
di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze
MASSIMO LOCCI (M.L.) architetto, docente presso la Facoltà
di Architettura “Valle Giulia”, Università “La Sapienza” di Roma
CARLO MANCOSU (C.M.) editore
FABIO MASSI (F.M.) giornalista
EUGENIO MELE (E.Me.) avvocato, consigliere di Stato
ANTONIO MARIA MICHETTI (A.M.M.) ingegnere,
docente presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”,
Università “La Sapienza” di Roma
ALBERTA MILONE (A.M.) avvocato, esperta in diritto ambientale
ENRICO MILONE (E.M.) architetto, presidente
Centro Studi Ordine degli Architetti PPC (Cesarch) Roma
RENATO NICOLINI (R.N.) architetto, docente presso la Facoltà
di Architettura, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria
MAURIZIO ODDO (M.O.) architetto
MARIO PANIZZA (M.P.) architetto, docente presso la Facoltà
di Architettura, Università Roma Tre
ALESSANDRO PERGOLI CAMPANELLI (A.P.C.) architetto
PLINIO PERILLI (P.P.) scrittore e critico
MARIA GIULIA PICCHIONE (M.G.P.) architetto, Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
FULCO PRATESI (F.P.) architetto, presidente WWF Italia
FRANCESCO RANOCCHI (F.R.) architetto
ANTONINO SAGGIO (A.S.) architetto, docente presso la Facoltà
di Architettura “L. Quaroni”, Università “La Sapienza” di Roma
Prossimamente
dicembre 2009-gennaio 2010
n.35
E DITORIALE di carlo mancosu L’ OSSERVATORIO POLITICO di furio colombo S OCIETÀ E / È COSTUME
Un’analisi socio-culturale nell’evoluzione tipologica dei cinema nelle città di renato nicolini IL PUNTO
DI VISTA a cura di enrico milone NUOVI ORIENTAMENTI di massimo locci ITINERARI E PERIFERIE Valencia di
ida fossa PERCORSI LECORBUSIERIANI Il monumento della “Mano Aperta” di valerio casali LA PASSEGGIATA
DI E UCLIDE di plinio perilli S PAZI APERTI di luca d’eusebio A RCHITETTURE Cinema e multisala a cura di
f. cellini, m. panizza e c. mancosu O N &O FF a cura di NITRO antonino saggio Nuove forme della
progettazione e dell’IT SPAZIO S PORT a cura di CONI Servizi A MBIENTE E TERRITORIO di alber ta milone
B ENI CULTURALI di maria giulia picchione R ESTAURO Il restauro del Tempio-Duomo di Pozzuoli di
alessandro pergoli campanelli INFORMATICA di luigi mauro catenacci APPROFONDIMENTI DI GIURISPRUDENZA
I verbali di gara e le cause di esclusione di eugenio mele LEGISLAZIONE URBANISTICA di stefano grassi
NOTIZIARIO a cura di enrico milone Indice Istat dei costi di costruzione • Iter parlamentari CONCORSI / EVENTI
a cura di paola salvatore R ASSEGNA STAMPA Selezione di articoli significativi a cura di fabio massi
GUSTAVO VISENTINI (G.V.) avvocato, docente presso la Facoltà
di Giurisprudenza, LUISS “Guido Carli”, Roma
HANNO
COLLABORATO A QUESTO NUMERO
ROSETTA ANGELINI architetto
GIOVANNI BARTOLOZZI architetto
ANTONINO DI RAIMO architetto
LAURA GUGLIELMI architetto
MARCELLA DEL SIGNORE architetto
MARTA MOCCIA architetto
GIORGIO MORI dottore
MAURIZIO PETRANGELI architetto
BEATRICE VIVIO architetto