Snozzi:"L`architettura deve fare resistenza contro la società"

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Snozzi:"L`architettura deve fare resistenza contro la società"
MARTEDÌ 5 LUGLIO 2011
LA SICILIA
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LUIGI SNOZZI.
• società
• idee
• cultura
• spettacoli
Progettista di lotta e di governo
«L’architettura
deve fare resistenza
contro la società»
«E’ la permanenza opposta all’effimero. La
nostra disciplina è l’unica a porre punti fissi»
CARLO ANASTASIO
«U
n muro è un muro», dice
Luigi Snozzi: «e se ci cresce
una margherita la tolgo».
L’architetto Snozzi ama le automobili e
i parcheggi, non vuole fiori e alberi nei
posti sbagliati, e si compiace di citare il
collega brasiliano Paulo Mendes da Rocha: «La natura è una merda». Fa pensare al futurista Filippo Tommaso Marinetti, che voleva uccidere il chiaro di luna. Ma pochi come Snozzi sanno ascoltare e valorizzare i luoghi, l’ambiente, il
panorama, e gli stessi alberi, purché
messi nei posti (a suo parere) giusti.
Perché Luigi Snozzi è un architetto di
lotta e di governo. Amabilmente radicale nei suoi giovanissimi 79 anni, sostiene – in una lezione al Camplus d’Aragona, a Catania – che l’architettura,
orientata al permanente, deve opporre
resistenza contro la società, orientata
invece all’effimero. Ma d’altra parte fa
case molto belle, sebbene di una linearità ascetica, per borghesi molto benestanti. Il tutto con il gusto sorridente
della sfida, col divertimento della provocazione, ma insieme con impeccabile realismo e con rigore assoluto: con
precisione geneticamente svizzera, viene da pensare, date le sue origini.
Architetto, oggi probabilmente nulla
è più effimero del sistema dei consumi. Se lei punta al permanente, qual è
allora il suo criterio per progettare,
mettiamo, un centro commerciale?
«Io l’ho progettato un centro commerciale. Qui si pone un problema fondamentale della nostra disciplina, c’è un
punto dal quale non si scappa. Se
quand’ero giovane mi avessero chiesto
di progettare una prigione, non lo avrei
fatto. Oggi sì. Se mi avessero dato da
progettare, non so, un Club Med, non lo
avrei fatto. Oggi sì. Questo perché quasi tutti i temi che noi riceviamo contengono nella loro essenza un fatto negativo, che combattiamo. Quando ci danno da fare la casa unifamiliare, noi che
ci battiamo per la città... La casa unifamiliare in sé è un insulto alla città, no?
Non si può costruire la città con case
unifamiliari, eppure le facciamo. Voglio dire che bisogna assumere un caso
contraddittorio in sé e tentare di trattarlo in modo che il nostro pensiero
possa, nonostante tutto, diventare
comprensibile. E’ difficile, questo è un
mestiere difficile».
E in un centro commerciale il suo pensiero come si esprime?
«Cerco di tradurlo in uno spazio che per
me non è più il fatto fondamentale,
cioè il centro commerciale in sé, ma un
luogo pubblico, come una volta c’erano
i mercati, le pescherie, straordinarie, e
anche quei grandi spazi commerciali di
una volta, che sembravano chiese. Al limite, il primo pensiero che sta dietro al
mio progetto è quello di cercare di far
vendere il meno possibile, e di dare
tutto per il resto. Quindi penso a uno
spazio bello, e cerco di far consumare
alla gente lo spazio prima che le merci».
LUIGI SNOZZI (FOTO DAVIDE ANASTASI). IN ALTO CASA KALMANN. A DESTRA, CASA GOBBI
Ma che influenza ha l’architettura sulle persone? Lei ritiene che lo spazio
possa condizionare la società?
«Io penso che sia importante la permanenza dell’architettura. E’ un fatto
straordinario di questa disciplina, che è
l’unica disciplina a porre finalmente
su questo mondo dei punti fissi. Tutto
si muove, oggi, tutto cambia. E l’uomo,
senza più riferimenti fissi, è perduto.
Allora, secondo me ciascun architetto,
anche quando fa la più piccola cosa,
deve avere l’idea fondamentale di costruire per l’eternità, di fissare un punto di riferimento».
Qualche tempo fa lei ha dichiarato che
il suo sogno era costruire case che al limite non si vedessero neppure, riducendo tutto all’indispensabile. Ma diverse case unifamiliari che lei ha realizzato sono segni molto forti, col cemento a faccia vista e in grande evi-
“
denza, e con un disegno che tenta di
controllare tutto il lotto di terreno e
oltre. Non è una contraddizione?
«Il punto è sempre che quando si lavora, per esempio, nel contesto storico
di un villaggio, di una città, meno si vede l’intervento e probabilmente meglio è. Questo dà più significato e valore all’intervento che si fa, se riesci a capire la struttura fondamentale di quel
luogo. E questo vale in generale per
l’architettura: non è tanto il farsi vedere, ma capire il luogo. Poi, quando realizzo una casa unifamiliare – e le mie
case sono sempre su una collina, fuori
delle città, nelle periferie – devo tentare di rispondere a questa contraddizione, che mi batto per la città, per la
condensazione, e lì faccio il contrario. E
allora la questione è come si può utilizzare questo edificio che non può risolvere il tema della città in sé, ma può ri-
solvere un’altra quantità fantastica di
tematiche. Per esempio il rapporto col
territorio, il rapporto con la natura, gli
alberi... Può dare risposte a una quantità di altri elementi, ma non a tutti.
Ogni lavoro di architettura può solo rispondere ad alcune tematiche, e lo si
può accettare se almeno certe domande fondamentali ci sono. Altrimenti lo
rifiuti».
Lei parla con ammirazione di un’autostrada nel suo Canton Ticino, progettata da Rino Tami. Dice che non solo
non offende l’ambiente, ma anzi lo
valorizza, e addirittura permette di
vedere meglio i paesaggi. Può valere
lo stesso concetto per il Ponte sullo
Stretto, se mai si farà?
«Sicuramente sì, non vedo nulla che
vada in senso contrario. Basta che sia
un ponte come si deve. E’ la qualità del
ponte che mi potrà poi dire se va bene
o no. D’altra parte è difficile fare dei
ponti brutti».
Un altro dei suoi criteri è leggere attentamente i segni del territorio, e
partire da quelli. Anzi, lei dice che il
progetto è già lì.
«Sì, bisogna solo rilevarlo».
Quindi, anche per il Ponte bisognerebbe trovare il progetto che è già
«scritto» nel luogo?
«Certo, per forza».
E questo suo concetto si può paragonare a quello di Michelangelo secondo
cui la scultura è già dentro il blocco di
marmo?
«E’ qualcosa di più concreto, di meno
Se quand’ero giovane mi avessero dato da progettare un carcere, non
l’avrei fatto. Oggi sì. Quasi tutti i temi che riceviamo contengono nella
loro essenza un fatto negativo. Bisogna assumere un caso
contraddittorio in sé e trattarlo in modo che il nostro pensiero possa,
nonostante tutto, diventare comprensibile. E’ scorretto dire che il
calcestruzzo non è flessibile perché è rigido. Anzi, più c’è rigidità e
più c’è flessibilità. Se tutto si muove, non si fa niente
astratto di quello di Michelangelo, perché non ha nessun riferimento al problema della forma, ma riguarda solo il
lato materiale. In architettura, dire che
il progetto è già nel luogo significa che
nel luogo, appunto, ci sono già tutti gli
elementi. E si può anche dimostrare
quali sono».
Lei dà grande valore alla flessibilità,
ma d’altra parte usa molto il cemento,
ha scritto addirittura una «poetica del
calcestruzzo». Ecco, calcestruzzo è sinonimo di durevolezza, rigidità: come si può conciliare con la flessibilità?
«La flessibilità si può raggiungere in
mille modi. Pensiamo, per fare un
esempio storico, alla Certosa di Pavia:
quella struttura oggi potrebbe diventare un’università straordinaria. I contenuti possono cambiare anche quasi totalmente e lei resiste ancora. E il fatto
che la Certosa resista, continui a essere
se stessa, non significa che non sia flessibile. Per questo secondo me è scorretto dire che il cemento, il calcestruzzo,
non è flessibile perché è rigido. Anzi,
più c’è rigidità e più c’è flessibilità. La
flessibilità è garantita da una grande
dose di elemento definito. Se tutto si
muove, non si fa niente».
«L’acquedotto vive nel momento in
cui ha smesso di portare l’acqua», dice
un suo aforisma. Ma che senso ha un
acquedotto senz’acqua?
«Quell’aforisma l’ho coniato in antitesi
a un altro aforisma: forma uguale funzione. Bene, l’acquedotto è stato costruito per portare acqua, ma bisogna
porsi una domanda: come mai, quando
certe strutture perdono la loro funzione, l’uomo non le distrugge? E’ avvenuto così per acquedotti, ponti, altre costruzioni... Vuol dire che dentro certe
strutture c’è qualche cosa di cui l’uomo
ha bisogno anche se esse non servono
più allo scopo per cui sono state create.
Nel momento in cui l’acquedotto ha
cessato di portare l’acqua, l’unica cosa
che vive ancora in lui è l’architettura.
Quindi è solo attraverso la non-funzione che si possono meglio scoprire le
vere qualità dell’architettura».
Perciò il meglio delle sue case verrà alla luce quando non ci sarà più nessuno
ad abitarle.
«Può essere. Alla fine la funzione serve
all’architettura per poter proporre. Ma
poi la funzione sparisce e l’architettura
resiste. Per giudicare una buona architettura la funzione non basta».
LA BIOGRAFIA
Il primo
della scuola
ticinese
L’architetto Luigi Snozzi nasce a
Mendrisio (Canton Ticino,
Svizzera) il 29 luglio 1932. Studia
alla Scuola politecnica federale di
Zurigo, poi esercita l’attività
professionale nei propri studi a
Locarno, Zurigo e Losanna. Tra il
1962 e il 1971 lavora in
associazione con il collega, e
amico, Livio Vacchini. In seguito
ottiene la cattedra di Architettura
alla Scuola politecnica federale di
Losanna. È il primo degli architetti
della nuova scuola ticinese (che
comprende Mario Botta, Aurelio
Galfetti e Livio Vacchini). La sua
opera è stata più volte sollecitata,
nel mondo, per progetti urbani.
Lui però non ha mai costruito
molto su vasta scala, mentre sono
ben conosciute le sue case
unifamiliari, come casa Snider a
Verscio (1965-66), casa Kalmann a
Brione (1974-76) e Casa Bianchetti
a Locarno Monti (1975-77). Snozzi
ha un profondo interesse per
l’analisi storica e morfologica del
sito, che considera determinante
per il progetto. Neo-razionalista e
amante del calcestruzzo armato
utilizzato in linee austere, si è
anche dedicato a restauri e
riutilizzi di monumenti, tra cui il
Santuario della Madonna del Sasso
(Ticino) e, a Monte Carasso,
l’antico convento. Attualmente
insegna alla Facoltà di Architettura
di Alghero, Università di Sassari.