EDB - Dehoniane

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EDB - Dehoniane
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GIANCARLA BARBON – RINALDO PAGANELLI
quindicinale di attualità e documenti
2009
Sono con voi tutti i giorni
7 momenti della giornata
per educare ed evangelizzare
pp. 144 – € 10,00
14
GIACOMO GARINO
Attualità
Dio, l’amore,
il matrimonio
pp. 88 – € 7,10
433 Ratzinger: Caritas in veritate
435 Teologia, laicato, riforma del Codice
440 Italia: la scuola salvabile
463 Chiesa libera e presente
GIUSEPPE SOVERNIGO
489
Con Pietro al seguito di Gesù
Itinerario di formazione spirituale
1. I passi decisivi
pp. 144 – € 13,00
TESTI PER LA FORMAZIONE
Studio del Mese
Teologia ed evoluzione
Morandini, Polkinghorne, Stefani
EDIZIONI
DEHONIANE
BOLOGNA
via Nosadella, 6 – 40123 Bologna – tel. 051 42.900.11 – fax 051 42.900.99 – e-mail: [email protected]
Anno LIV - N. 1061 - 15 luglio 2009 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - CP 568 - 40100 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
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quindicinale di attualità e documenti
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A
UGO VANNI
ttualità
15.7.2009 - n. 14 (1061)
Caro lettore,
giunti oltre la metà del 2009 ci
auguriamo che la strada che abbiamo
percorso insieme in questa prima parte
dell’anno sia stata di suo gradimento.
Dai numeri che ha ricevuto avrà potuto
osservare come Il Regno – attraverso le
sezioni Documenti, Attualità, Annale
e uno stile improntato a un’accurata
informazione – continui a svolgere un
vero e proprio servizio alla Chiesa.
In questi mesi la redazione ha poi dato
spazio alla versione web delle nostre
pagine, che lei può sfogliare all’indirizzo
www.ilregno.it. Già dal primo giorno
in cui viene consegnata in tipografia,
la rivista è ora disponibile online,
ovviando agli eventuali ritardi postali
e venendo incontro a chi ci legge anche
dall’altra parte del mondo.
Le ricordiamo inoltre che gli abbonati
hanno diritto a uno sconto del 10%
sui volumi recensiti nella rubrica
«Libri del mese» e ordinati tramite
[email protected].
Sono tutti servizi che integrano
e arricchiscono la rivista che lei riceve
ogni 15 giorni.
Mentre le auguriamo di trascorrere
serenamente il tempo del riposo estivo,
la invitiamo già da settembre a mettere
in programma il rinnovo del suo
abbonamento e a promuoverne altri
presso suoi colleghi e amici: il suo
sostegno economico e «affettivo» è parte
determinante della nostra libertà
d’informare in maniera qualificata
e della sua libertà di ricevere
informazioni qualificate.
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Benedetto XVI - Caritas in veritate
{ Enciclica sociale }
435 (L. Örsy)
463 (G. Giudici)
Libera e presente
{ La Chiesa nella società
secolarizzata }
Diritto canonico - Il popolo di Dio
{ Sull’impossibilità di una «teologia
del laicato» e la necessità di una
riforma del Codice }
468
440
Segnalazioni
Dibattito - Scuola in Italia
Chi ri-forma muore (G. Bertagna)
Che cosa salvare? (L. Ribolzi)
481 (P. Stefani)
445 (L. Prenna)
G. BRUNI, Mariologia ecumenica
Europa - Insegnamento
della religione
Vivere insieme
446 (L. Babolin)
Italia - Il welfare invisibile
{ I lavoratori del privato sociale
e il collasso dei servizi }
448 (M.E. G.)
Vescovi lombardi - Immigrati
Stranieri, non criminali
449 (L. Pr.)
A. FOA, Diaspora
481 (P. Ricca)
482 (P. Stefani)
F. CRÜSEMANN, La Torà
483 (M.E. Gandolfi)
Africa - Fragile e imprevedibile
{ Guerre e alleanze tra Congo,
Ruanda, Uganda e Sudan}
485 (R. Burigana)
Diario ecumenico
486 (L. Accattoli)
Agenda vaticana
Studio del mese
{ Il cristianesimo
nell’età della scienza }
450 (L. Prezzi)
452 (R. B.)
Italia - Cattolici e battisti
Accordo sui matrimoni misti
453 (a cura di L. Prezzi)
Italia - I vescovi e le piccole patrie
{ Bolzano – Trieste – Aosta }
La devozione e l’Europa (L. Pr.)
456 (M. Faggioli)
Stati Uniti - Obama e i vescovi
{ Dopo Notre Dame
riparte il dialogo }
458 (D. S.)
Sri Lanka - Conflitto etnico
Né guerra, né pace
459 (M. Castagnaro)
Honduras - Crisi istituzionale
Legalità incerta
460 (D. S.)
Collasso del cosmo o annuncio di un mondo nuovo?
Schede
Italia - Caritas
Discernere per operare
Italia - La cremazione
{ Custodia delle urne
e dispersione delle ceneri }
INTERVISTA
SULL’APOCALISSE
Libri del mese
433 (Il Regno)
489 (S. Morandini)
Teologia ed evoluzione
495 (J. Polkinghorne)
L’universo come creazione
502 (P. Stefani)
Discorsi sul metodo
Scienza e fede, dialoghi e confronti
(D. S.)
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ddentrarsi in uno dei libri più complessi
e interessanti della Sacra Scrittura,
l’Apocalisse, è un’impresa ardua. Il volume
traccia un itinerario stimolante, inoltrandosi
in viottoli di riflessione poco esplorati:
attraverso una serie di domande e risposte,
offre spiegazioni brevi e semplici, raggruppate per temi, soggetti e figure attualizzate, che
emergono dal testo e dal messaggio simbolico
dell’opera. L’edizione con DVD propone il
video integrale dell’intervista a padre Ugo
Vanni.
«Biblica»
pp. 64 - € 5,90
pp. 64 + DVD - € 11,90
504
Profili { A. Tessarolo }
Chiesa che pensa
(A. Filippi)
507 (P. Stefani)
Parole delle religioni
La narrazione
509
I lettori ci scrivono
511 (L. Accattoli)
Io non mi vergogno del Vangelo
Giovanni Ferro
Brasile - Riforma agraria
Delusione Lula
461 (M.E. Gandolfi)
Algeria - Il martirio e i suoi frutti
{ Nel solco dei sette dormienti
di Tibhirine }
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BENEDETTO XVI
Lettera enciclica
Caritas in veritate
Davanti alle sfide della globalizzazione, della tecnica e della crisi economica planetaria i cattolici e il mondo
cristiano hanno ora un ulteriore, autorevole riferimento dottrinale. Il 7 luglio
è stata pubblicata l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate, «sullo sviluppo umano integrale nella carità e
nella verità», terza del suo pontificato.
L’attesa si era fatta alta, sia per la
drammaticità del momento, conseguente all’aggravarsi della crisi finanziaria sulla scena internazionale, e per
le domande morali e strutturali che da
essa venivano, sia per i rinvii nell’uscita
del testo, occasionato dal quarantesimo
della Populorum progressio di Paolo VI,
ma promulgato due anni dopo.1
Il testo sviluppa un tentativo coerente, teologicamente molto ratzingeriano, di rilettura dell’intero impianto
della dottrina sociale della Chiesa. Se
la dottrina sociale della Chiesa si era
venuta configurando come auto-comprensione storica del cristianesimo e affermazione pubblica del principio di
legittimità dell’intervento del magistero
di fronte alle grandi questioni sociali e
ideologiche del XIX e del XX secolo,
ora papa Ratzinger insiste particolarmente su una struttura maggiormente
dogmatica e su una lettura di affermata continuità (cf. in particolare: introduzione, cc. I, II, VI) dell’intero magistero. Sintomatica è la riconduzione
del tema del progresso dell’uomo all’immutabilità dell’idea di natura.
Accanto a questo impianto è evidente il lavoro di aggiornamento e di
accoglimento parziale del dibattito
neo-etico sui diritti in economia, prodotto negli ultimi decenni da filosofi ed
economisti (Sen, Akerlof, Rorty,
Rawls), e tuttavia parallelamente e sistematicamente negato dalle pratiche
di mercato (cc. III, IV, V).
La crisi che ha colpito globalmente
e simultaneamente l’economia mondiale conferma la necessità di un rapporto
fra etica ed economia, mostra la fragilità di un modello neo-liberale totalmente privo di regolamentazioni e indica che lo sviluppo di lungo periodo
non si auto-afferma senza una mediazione etica.
Asserzioni consuete come la centralità dell’uomo nel processo produttivo,
la difesa dei diritti personali e collettivi,
l’aiuto ai paesi più poveri, la responsabilità morale dell’economia e della finanza, la riaffermazione della verità e
della sua connessione con la carità costituiscono non solo una conferma in
un quadro storico e civile che ha annullato e modificato tutti i riferimenti
tradizionali, ma anche un compito rinnovato sia all’interno sia all’esterno
dlela Chiesa.
La sfida e il pensiero
La diversa intensità della trama narrativa è comprensibile per le molte sollecitazioni che sono via via intervenute.
Ma essa indica anche la portata della
sfida, soprattutto su due questioni: la
globalizzazione («Il rischio del nostro
tempo è che all’interdipendenza di fatto
tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze», n. 9) e la tecnica (lo sviluppo
«richiede occhi nuovi e cuore nuovo, in
grado di superare la visione materialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un “oltre” che la
tecnica non può dare», n. 77). Di fatto,
la difficile saldatura fra la percezione
della sfida e un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire
cristianamente al meglio la novità dei
fatti e la riconduzione di tutto questo al
linguaggio e alle sintesi già date dalla
tradizione, rimane aperta.
L’acuta percezione dei molti problemi nuovi e il generoso riconoscimento di concetti e parole mai finora
censiti nell’insegnamento sociale si
adattano solo parzialmente alla trama
concettuale e teologica che li accoglie e
sorregge. La riaffermazione della dottrina sociale come «corpus dottrinale»
(n.12) costringe a retrodatarla alla comunità apostolica e a lasciare uno spazio assai meno consistente, se non residuale, all’umanesimo, peraltro evocato
come interlocutore (n. 57). Così come
la retroazione della questione antropologica (mutuata dalle bio-scienze) sull’insieme della questione sociale (n. 75)
può presentare qualche rischio di atrofizzazione della seconda e di ideologizzazione della prima.
Di grande forza e valore appaiono
temi antichi e nuovi della questione sociale. Affermare che «il primo capitale
da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità:
l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale»
(n. 25) prende un vigore singolare davanti ai nuovi modi di produzione, alla
mobilità, alla delocalizzazione delle
imprese e all’autonoma potenza della
finanza internazionale. Così il richiamo alle reti di sicurezza sociale, al ruolo della famiglia, alle organizzazioni
sindacali e dei consumatori dà forma
alle componenti civili che hanno una
responsabilità propria di fronte al potere politico ed economico.
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Ricordare che la «fame miete ancora moltissime vite tra i tanti Lazzaro ai
quali non è consentito… di sedersi alla
mensa del ricco epulone» (n. 27), che
vi è l’urgenza della riforma agraria e
che «l’alimentazione e l’accesso all’acqua» sono «diritti universali di tutti gli
esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni» (n. 27) non è affatto
pleonastico. Così come rivendicare il
ruolo direttivo della politica e la responsabilità propria dello stato, pur
consapevoli delle limitazioni della sua
sovranità.
La novità del «dono»
Fra le novità vale la pena ricordare
da un lato la richiesta di un’autorità
mondiale e dall’altro un paio di concetti inabituali in economia e nelle relazioni internazionali. La riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite
in ordine a una maggiore rappresentatività dei paesi più poveri non cancella
l’urgenza di un’autorità politica mondiale. «Una simile autorità dovrà essere
regolata dal diritto, attenersi in modo
coerente ai principi di sussidiarietà e
solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi
nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità» (n. 67). Dovrà godere di riconoscimento e potere
effettivo.
Innovativo è il ruolo riconosciuto al
«dono» e al principio di gratuità nel
mercato. La grande sfida che abbiamo
davanti «è di mostrare, a livello sia di
pensiero sia di comportamenti, che
non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà
e la responsabilità non possono venire
trascurati o attenuati, ma che anche
nei rapporti mercantili il principio di
gratuità e la logica del dono come
espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività
economica» (n. 36).
Il ruolo del non profit e l’ibridazio-
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ne dei comportamenti economici e delle imprese aprono ad approcci inabituali anche nell’interpretazione dei
rapporti internazionali. «Lo sviluppo
dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia» (n. 53). Affermazione che richiede «un nuovo slancio del pensiero» e
obbliga «ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non
può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di
saperi come la metafisica e la teologia,
per cogliere in maniera illuminata la
dignità trascendente dell’uomo» (n.
53). Qui è l’ammodernamento della
teoria della sussidiarietà – che viene
fatta interagire di fronte alla diversa
crisi che attiene sia alla figura dello stato, sia alle organizzazioni internazionali – a incoraggiare la riflessione su questa strada. È una riflessione importante
che tuttavia ha bisogno che entrambi
(stato e istituzioni internazionali) siano
ridefinite dall’interno e in relazione tra
loro. Da questo punto di vista sarebbe
stata utile una qualche menzione dell’Europa.
Si potrebbe continuare a lungo citando i testi relativi all’ambiente, all’ecologia, alle fonti energetiche, al ruolo
dei media.
Decisivo è il riconoscimento sia in
positivo sia in negativo della tecnica.
Essa è «l’aspetto oggettivo dell’agire
umano» (n. 69), ma la sua pervasività e
forza possono trasformarla nella nuova
ideologia della globalizzazione: «Un
potere ideologico che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa
dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità». «Questa visione rende oggi così
forte la mentalità tecnicistica da far
coincidere il vero con il fattibile» (n. 70).
La qualità dell’enciclica e l’urgenza
dei tempi pongono molti interrogativi.
Per esempio sulla pratica dell’uso del
denaro nella Chiesa e fra i credenti e
sulla solitudine delle poche ma chiare
voci profetiche che hanno indicato gli
imminenti pericoli: dal testo dell’Ufficio nazionale della CEI per i problemi
sociali e il lavoro, Finanza internazionale e
agire morale (cf. Regno-doc. 5,2004,142)
ad alcuni numeri del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (368-376). O
ancora sulla responsabilità cattolica in
ordine alla consapevolezza dei cristiani
su questa materia, considerata la tradizionale leadership del magistero in merito. O ancora sull’uso pastorale sapiente
di un testo che si presenta utile a rivitalizzare una languente sensibilità sociale
e politica delle nostre comunità.
La Caritas in veritate è in questo senso certamente un dono, ma soprattutto
un compito.
R
1
L’idea originaria di una nuova enciclica
sociale nasce dalla sollecitazione dei cardd. K.
Lehmann e O.A. Rodríguez Maradiaga all’indomani della pubblicazione della Deus caritas est
(2005; EV 23/1538) e si coagula in occasione
della ricorrenza dei 40 anni dalla pubblicazione
dell’enciclica di Paolo VI, Populorum progressio
(1967; EV 2/1046). L’opportunità di una memoria e di una nuova sintesi della dottrina sociale conosce due fonti ispirative: da un lato il
Pontificio consiglio della giustizia e della pace,
che nel 2004 aveva pubblicato il Compendio della
dottrina sociale della Chiesa, e dall’altro la Congregazione per la dottrina della fede con una propria esigenza di trattazione teologica compiuta
e organica del tema. A questo si aggiunge l’opportuna ripresa della Centesimus annus (1991; EV
13/66) con le sue ammodernate interpretazioni
del mercato e della globalizzazione post-ideologica degli anni Novanta. A tutto questo si sovrappone, in corso d’opera, l’incubazione e l’esplosione della crisi finanziaria americana dei
subprime e, immediatamente dopo, la crisi economica mondiale. Si comprendono così sia lo slittamento delle date di presentazione (dal 2008 a
oggi), sia le numerose stesure del testo (almeno
4), sia il numero di quanti hanno contribuito alla scrittura. I nomi più ricorrenti sono quelli dei
cardd. R. Martino e Rodríguez Maradiaga, dei
monss. G. Crepaldi e R. Marx (Monaco di Baviera), di esperti come M. Toso, M. Rhonheimer, S. Zamagni, E. Gotti Tedeschi, con l’apporto di diversi incontri preparatori, tra i quali,
da ultimo, quello con i cardd. C. Ruini, C.
Schönborn, A. Scola e A. Bagnasco.
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CANONICO
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vunque ci s’interroga:
chi sono i laici? Qual è
il loro ruolo? Oppure:
in una Chiesa ideale,
quali sarebbero i diritti e i doveri dei laici?
Inizialmente, nella ricerca della giusta risposta, ho seguito il percorso tradizionale tracciato da teologi pratici e
canonisti riflessivi.1 Davo per scontata
la netta distinzione fra laicato e gerarchia ed ero pronto ad abbozzare una
«teologia del laicato». Ma pian piano
mi sono reso conto che tentavo di rispondere a una domanda sbagliata che
poteva condurre solo a una conclusione incompleta e insufficiente. Considerato in sé e per sé, il laicato non può essere il tema di un trattato teologico o
canonico autonomo e adeguato, perché non esiste sotto questa forma. E
non è neppure una componente autonoma del corpo sociale della Chiesa,
così come il cuore non è un organo autonomo in un corpo umano vivente.
Il laicato nel suo complesso e la
gerarchia formano insieme il popolo
di Dio. Sono insieme l’unico corpo
sociale della Chiesa, che è strutturata
internamente in un modo unico. Non
si può costruire una «teologia» autonoma di una parte; non si possono fissare norme per l’azione di una parte
senza tener conto del compito dell’altra. Il laicato vive e opera nel modo
migliore quando si integra armoniosamente con la gerarchia. Senza il laicato la gerarchia non può esistere. Sono destinati a sostenersi e bilanciarsi a
vicenda. Esistono e operano per uno
scopo comune.
435
Laici e gerarchia
l popolo di Dio
Sull’impossibilità di una «teologia del laicato»
e la necessità di una rifor ma del Codice
Un nuovo tipo di crisi
All’inizio del XXI secolo ci troviamo in una situazione paradossale,
di cui i laici per lo più non si rendono conto. Da una parte, le affermazioni del concilio Vaticano II hanno
prodotto notevoli risultati e aperto la
porta a una crescente promozione
dei laici; dall’altra, la politica ufficiale della Chiesa, basata su una recente opinione teologica che è entrata
nel nuovo Codice di diritto canonico,
esclude i laici da ogni importante
processo decisionale, ribaltando così
una tradizione immemorabile. Viviamo in un tempo di progresso e di
regresso.
Nelle sue Memorie, Alex Carter
(1909-2002),2 già vescovo di SaultSte.-Marie, Ontario (Canada), ricorda un discorso di addio di Pio XI a
un gruppo di studenti canadesi – tra
i quali c’era lui –, un commiato in un
duplice senso: gli studenti tornavano
a casa e il papa sapeva che i suoi giorni sulla terra erano contati. Ecco il ricordo del vescovo: «Il nostro incontro
più impressionante [con Pio XI] avvenne [nel 1939] in occasione di
un’udienza speciale per le celebrazioni del 50° anniversario del Collegio
canadese, retto da mons. Perrin. Era
visibilmente indebolito. Di tanto in
tanto i suoi occhi brillavano e ritornava un po’ dell’antico vigore, ma
era evidente che quell’uomo forte,
che era stato un alpinista e aveva abitualmente uno sguardo intenso, stava
soffrendo fisicamente. Si accasciava
un po’ nella poltrona e poi si rialzava.
Ci tenne un discorso impressionante,
non lungo, ma molto profetico. Disse
qualcosa del genere: “Voi siete giovani preti venuti a Roma. Ora ritornate in Canada e continuerete a costruire la Chiesa nel vostro paese.
Non metto limiti alla provvidenza di
Dio, ma sono certo di avere ancora
poco da vivere. Voglio che portiate
con voi questo messaggio. La Chiesa,
il corpo mistico di Cristo, è diventata
mostruosa. La testa è enorme, ma il
corpo è rattrappito. Voi, sacerdoti,
dovete ricostruire il corpo della Chiesa e l’unico modo che avete per farlo
è mobilitare i laici. Dovete chiedere
ai laici di diventare, insieme a voi, testimoni di Cristo. Dovete chiedere
soprattutto a loro di riportare Cristo
nel posto di lavoro, nel mercato”.
Questo potente messaggio fu praticamente l’ultima volontà e il testamento del papa. In realtà, fu la sua ultima
udienza pubblica. Il giorno seguente
vennero cancellate tutte le udienze ed
egli morì poco dopo. Fin dall’inizio
del suo pontificato, Pio XI era stato il
papa dell’Azione cattolica. Aveva
spesso scritto ai vescovi di tutto il
mondo raccomandando la partecipazione dei laici nell’opera di evangelizzazione. Perciò quell’ultimo messaggio – si potrebbe dire, un messaggio dalla tomba – era perfettamente
in linea con tutto il suo insegnamento. Ricordo perfettamente quel momento. Posso visualizzarlo ancor oggi, ormai vecchio. Non ho mai dimenticato quell’udienza e, in realtà,
credo che essa abbia determinato in
parte la mia vita e il mio ruolo come
pastore, ausiliare e vescovo».3
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Riferendosi alla Chiesa, il papa
parla di «mostro», un’immagine certamente non lusinghiera, specialmente in bocca a un papa. Ma che
cosa vuole affermare?
Con «mostro» egli intende presumibilmente un organismo vivente e
funzionante, ma mal strutturato e
mal funzionante. Egli cerca di far
comprendere una dura verità usando
un termine drammatico: vede che la
Chiesa soffre per una mancanza di
equilibrio strutturale e per una distorsione nelle sue operazioni vitali.
c .Regno
f
Prosegue con questo saggio di Ladislas Örsy, gesuita, docente di Scienza del
diritto e Diritto canonico
al Georgetown University
Law Center a Washington,
D.C., la riflessione portata
avanti quest’anno dalla
rivista Il Regno sul tema
dei cristiani laici e della
loro partecipazione alla
vita ecclesiale e politica.
Per i precedenti
approfondimenti si veda:
P. PRODI, «I cattolici e
l’Italia: solamente cristiano. Il futuro possibile del
cattolicesimo», in Regnoatt. 2,2009,48; T. CITRINI,
«Tra teologia e politica:
l’eredità irrisolta del
Vaticano II», in Regno-att.
6,2009,197; M. IVALDO, «Tra
teologia e politica: il cristiano laico. Ispirazione
della fede, custodia della
mediazione», in Regnoatt. 6,2009,205. Sul tema
cf. anche C. GHIDELLI,
«Laico. Riflessioni sul laicato cattolico italiano», la
recensione al volume di F.
DE GIORGI Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano, Paoline,
Milano 2008, in Regnoatt. 10,2008,317.
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«La testa è enorme, ma il corpo è rattrappito»: un organo è cresciuto oltre
misura e sta invadendo il posto degli
altri. Dicendo che «la testa è enorme», il papa può intendere solo una
cosa: la gerarchia ha oltrepassato i
suoi normali confini, ha acquistato
un peso maggiore di quello che conviene al resto del corpo e la sua
schiacciante presenza impedisce il
normale funzionamento del resto.
Parlando di «corpo rattrappito», il
papa può riferirsi solo al laicato che è
sottosviluppato e privato dell’uso delle sue potenzialità.
La crisi ha un’origine interna.
Non è stata causata da un nemico
esterno. Gli equilibri vitali che governano il corpo e lo mantengono sano
sono fuori servizio. La malattia impedisce il normale funzionamento delle
energie nascoste nelle «membra rattrappite». Questo produce inevitabilmente conseguenze esterne: la comunità non possiede più la sua affascinante bellezza, perché la bellezza
consiste nelle giuste proporzioni e nei
corretti equilibri.4
Tale è lo stato della Chiesa visto
da Pio XI, nel 1939, alla fine della
sua vita. Dopo il concilio Vaticano II,
il suo giudizio è ancora valido?
Dopo il Vaticano II:
ampliamento e limitazione
Il concilio Vaticano II, nella sua
costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, ha ripetutamente
affermato la dignità di tutto il «popolo di Dio», cui appartengono i laici.
Nella stessa costituzione, il Concilio
ha dedicato un intero capitolo alla
spiegazione dei fondamenti dottrinali della posizione e della vocazione
dei laici. Inoltre, nel suo decreto Apostolicam actuositatem sull’apostolato
dei laici (un documento con un
orientamento più pratico), il Concilio
ha riconosciuto il diritto dei laici di
proclamare la buona notizia e testimoniare Cristo in forza del loro battesimo, senza alcun bisogno «di essere autorizzati dalla gerarchia».
Di conseguenza, dopo il Concilio,
i laici sono diventati ministri del Vangelo in un ampio ventaglio di situazioni. Oggi essi hanno un ruolo visibile nelle celebrazioni liturgiche, negli uffici diocesani, nelle opere edu-
cative e caritatevoli cattoliche, esprimono il loro parere nei consigli e nei
sinodi ecc. Dobbiamo rallegrarci per
questo progresso.
Ma dopo il Concilio una nuova
norma del diritto canonico è andata
in direzione opposta. Ha escluso i laici da importanti processi decisionali
nei quali è in gioco la «giurisdizione»
ecclesiastica. Oggi la norma viene rispettata nella pratica: nessun laico è
membro o «ufficiale maggiore»
(un’espressione tecnica, ben definita
nel diritto) di una congregazione romana; nessun laico ha diritto di voto
nei sinodi e nei consigli di livello superiore (pur potendovi partecipare in
posizione subordinata); nessun giudice laico in un tribunale ecclesiastico
può operare come giudice unico.5 Insomma, nessun laico è ammesso nelsancta sanctorum, cioè all’esercizio
di un ruolo significativo nella costruzione della Chiesa dall’interno.6
Diamo la parola al Codice di diritto canonico, can. 129: Ǥ 1 РSono
abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro
che sono insigniti dell’ordine sacro, a
norma delle disposizioni del diritto.
§ 2 – Nell’esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto».
Presi insieme, i due paragrafi affermano e stabiliscono che:
– coloro che hanno ricevuto l’ordine sacro hanno la capacità di esercitare la «potestà di governo»;
– questa potestà è di istituzione divina;
– questa potestà è identica alla potestà tradizionalmente nota come
«giurisdizione»;
– nessun laico ha la capacità di
esercitare questa potestà;
– i laici possono cooperare con gli
ordinati senza partecipare alla potestà.
Questa netta e radicale esclusione
dei laici da una qualsiasi partecipazione alla potestà di governo interrompe una tradizione immemorabile; è una novità. Il principio ispiratore non è «quod ubique, quod semper,
quod ab omnibus creditum est» (ciò
che è stato creduto ovunque, sempre
e da tutti), per citare i celebri criteri
di Vincenzo di Lerino.
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Richiamare alcune realtà e strutture storiche che in passato erano
considerate legittime dovrebbe bastare per mostrare che la nuova norma
interrompe la Tradizione e che i laici
hanno veramente partecipato alla potestà di governo.
I concili ecumenici del primo millennio erano convocati dagli imperatori e dalle imperatrici bizantini; questi erano certamente atti di giurisdizione di laici e laiche. I partecipanti
al concilio di Firenze per lo più non
erano «ordinati» e dunque i «voti dei
laici» ebbero un impatto reale sulle
decisioni circa la riunificazione
delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Per secoli le badesse esercitarono una «giurisdizione quasi
episcopale» nel governo di «quasi-diocesi», salvo l’amministrazione dei sacramenti per la quale
era necessaria l’ordinazione.
Questi «prelati» laici avevano la
«potestà di giurisdizione» con il
pieno e diritto sostegno della
Santa Sede, e questo fino al XIX
secolo.7
La storia non avalla il can.
129. Perciò si può difficilmente
basare la limitazione sul dogma.
Deve trattarsi di una norma disciplinare e quindi di una norma
che può essere cambiata. Si può
ristabilire la partecipazione dei
laici alla potestà di governo, tranne ciò che per diritto divino appartiene alla gerarchia.
Ma se il can. 129 non ha radici nel passato, da dove viene?
La teoria
d e l la « p o te s t à s ac ra »
Con il can. 129 entra in gioco una
nuova concezione della potestà episcopale denominata con una nuova
espressione « la potestà sacra». 8
Quando, negli anni dopo il Concilio,
l’espressione venne introdotta nella
letteratura teologica e canonica era
nuova, ma ora viene usata abitualmente. Si tratta di un dono sacramentale specifico (carisma) conferito
dalla consacrazione episcopale. Inteso in senso lato, esso comprende cumulativamente la potestà di insegnare (profeta), santificare (sacerdote) e
governare (re); inteso in senso stretto,
indica esclusivamente la potestà di
437
governo, potestas regendi o regiminis,
detta anche «giurisdizione», come
nel can. 129.
La nuova teoria avrebbe dovuto
cominciare il suo corso fra i teologi
come «questione discussa» e passare
attraverso il crogiolo della loro valutazione critica prima di raggiungere
lo stadio di espressione standardizzata e corrente. Ma così non è stato, o
certamente non in misura sufficiente.
Ora attraverso politiche e norme essa
modella il futuro della Chiesa. I teologi (che potevano valutarla alla luce
delle fonti) si sono a malapena accor-
Viviamo in un tempo di
progresso e di regresso. Le
affermazioni del Vaticano II
hanno prodotto notevoli
risultati e aperto la porta a una
crescente promozione dei laici;
ma la politica ufficiale della
Chiesa, basata su un’opinione
teologica recente che è entrata
nel nuovo Codice di diritto
canonico, esclude i laici
da ogni importante processo
decisionale, ribaltando così
una tradizione immemorabile.
ti del nuovo linguaggio, e tanto meno
della dottrina che vi sta dietro. I canonisti, che sono interessati soprattutto agli aspetti pratici, si limitano a
dare questo nuovo approccio per
scontato.
In ogni caso, si dovrebbero esprimere delle riserve.
– Il fatto di riservare l’espressione
«la potestà sacra» esclusivamente alla potestà episcopale indica una mancanza di stile in teologia e una retorica non necessaria nel diritto canonico. «La potestà sacra» nella (della)
Chiesa è conferita a tutto il popolo di
Dio attraverso l’onnipervasiva presenza dello Spirito. È presente e operante nei membri ordinati e in quelli
non ordinati; per questo il popolo
aderisce indefettibilmente alla fede,
penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita (cf. Lumen gentium, n. 12). La potestà episcopale è una partecipazione privilegiata al potere dello Spirito.9
– La dottrina secondo cui le persone non ordinate possono solo cooperare con la potestà di governo, ma
non parteciparvi, pretende che questa potestà sia indivisibile. Questo è
certamente errato perché, qualunque
potestà abbia il vescovo, essa deriva
da due fonti: umana e divina. La
Chiesa, prima di essere un’assemblea
piena di grazia, è una comunità
umana che richiede un ordinamento funzionale per esistere.
Non c’è alcuna ragione teologica per la quale un vescovo non
possa permettere a una persona
qualificata di «partecipare» alla
sua potestà di governo, purché
questa potestà non intacchi il
carisma esclusivo dato dall’ordinazione.
– Così come si presenta, la
dottrina perpetua e sostiene una
rigida separazione fra il laicato e
la gerarchia.10
Spostamento
terminologico,
cambiamento strutturale
Il vecchio Codice di diritto
canonico, promulgato nel 1917,
nel can. 118 affermava che «solo i chierici possono (possunt) ottenere (obtinere: ricevere e possedere) la potestà di ordine e di
giurisdizione».
Nel can. 108 lo stesso Codice definiva i chierici come «coloro che sono
stati inseriti (mancipati) dalla prima
tonsura fra i ministri divini».
Il nuovo Codice di diritto canonico, promulgato nel 1993, nel can.
207, § 1, afferma: «Per istituzione divina vi sono nella Chiesa fra i fedeli i
ministri sacri, che nel diritto sono
chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici».
Inoltre, il can. 266 § 1 aggiunge:
«Uno diviene chierico con l’ordinazione diaconale…».11 E il can. 274 §
1 aggiunge: «Solo i chierici possono
ottenere uffici il cui esercizio richieda
la potestà di ordine o la potestà di governo ecclesiastico».
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Come dimostrano queste citazioni,
lo spostamento terminologico sottende un vero cambiamento nella definizione del «chierico». Nel vecchio Codice era la tonsura e non l’ordinazione
a fare il chierico. Nel nuovo Codice è
l’ordinazione (al diaconato) a farlo.
Ora, la tonsura è un mero atto rituale
(neppure un ordine minore!) con alcune conseguenze giuridiche, ma lascia
la persona nella condizione in cui si
trova, cioè nella sua condizione laicale. Di conseguenza, fino al 1983, il laico tonsurato poteva partecipare alla
giurisdizione perché la legge ne faceva
un chierico.
Tuttavia, il cambiamento terminologico ha aperto la porta a un sostanziale fraintendimento dottrinale. Alcuni possono ritenere che nulla sia cambiato: i chierici, e solo loro, possono
partecipare alla potestà di governo.
Questo è corretto se ciò che conta è
solo il linguaggio. Diversamente siamo
in presenza di un cambiamento strutturale: i laici sono stati esclusi dalla
partecipazione.
Se questa situazione diventa normativa per il futuro, la Chiesa sarà più
clericale di quanto lo sia mai stata in
passato. Poiché i laici non parteciperanno a nessun importante ufficio o
processo decisionale, molti doni e talenti donati da Dio rimarranno inutilizzati. La gerarchia continuerà a dire
ai laici che la loro principale virtù dovrebbe essere l’obbedienza. Il laicato
verrà certamente promosso in molti
modi minori, ma la linea di demarcazione fra ordinati e non ordinati resterà intatta.
In particolare, nessuna donna avrà
mai l’opportunità (o la capacità giuridica) di partecipare a importanti processi decisionali, neppure quando la
materia non richiede la potestà sacramentale dell’ordinazione. Dobbiamo
ripensare tutto questo.
Chi sono i laici?
Torniamo alla nostra domanda iniziale: chi sono i laici?
Quando vengo invitato a parlare
sulla «teologia del laicato», non discuto mai il titolo proposto. Ma all’inizio
del mio intervento (ad esempio, in una
parrocchia) chiedo ai laici presenti:
«In quale momento della vostra vita
siete diventati laici?». Normalmente,
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la domanda li sorprende. Poi, dopo
qualche esitazione, rispondono: al battesimo.
Allora continuo: sì, ma siete stati
battezzati per restare «laici» per sempre?
Ben presto emerge un consenso:
tutti noi, laici e chierici, siamo stati
battezzati per essere il popolo di Dio,
con tutti i doni che questa gioiosa condizione comporta. Il battesimo realizza una sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati, un’uguaglianza che non
deve mai venir meno. A questo punto
parlare dello «speciale carisma dei laici» non ha senso.12
Tutto questo conduce a un punto
di partenza teologico secondo cui nessun sacramento, sacramentale o rito
istituzionale nella Chiesa conferirebbe
(potrebbe conferire) il «carisma del laico», dal momento che i sacramenti
conferiscono un carisma specifico.13
Continuando il dialogo con gli
ascoltatori, per rafforzare la conclusione, insisto: come definiamo i laici?
In genere la risposta è pronta e
chiara: i laici sono i non ordinati.
Replico: sì, ma si può definire una
realtà esistente con un’espressione negativa, che afferma semplicemente la
mancanza di una sostanza, in questo
caso quella del sacerdozio?
Ovviamente no. Quindi non possiamo costruire una teologia, e tanto
meno una teologia ricca, del «carisma
dei laici», quando non c’è alcuna evidenza di una qualsiasi particolare
azione sacramentale (o meno che tale)
che conferisca un tale carisma specifico. E non si può neppure spiegare la
natura di questo carisma con un’affermazione puramente negativa senza alcun contenuto positivo.
Ma non siamo assolutamente finiti
in un vicolo cieco. Ci stiamo rendendo
conto che per comprendere il posto e
il ruolo dei laici nella Chiesa non possiamo considerare il laicato un’unità
distinta nella Chiesa. Dobbiamo incentrare lo sguardo sul popolo di Dio
nella sua globalità. Osservando il corpo indiviso e considerando il suo funzionamento organico e armonico siamo in grado di valutare il posto e il
ruolo delle sue parti.
Il concilio Vaticano II ci offre una
descrizione autentica del popolo di
Dio e dei suoi doni: «Il popolo santo di
Dio partecipa pure della funzione profetica di Cristo, dando viva testimonianza di lui anzitutto con una vita di
fede e di carità, e offrendo a Dio un
sacrificio di lode, frutto di labbra che
celebrano il suo nome (…). L’insieme
dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dal Santo non può sbagliarsi nel
credere (in credendo falli nequit) e
manifesta questa proprietà particolare
mediante il senso soprannaturale della
fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Col senso della
fede suscitato e sorretto dallo Spirito
di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero cui si conforma
fedelmente, accoglie non già una parola d’uomini, ma realmente la parola
di Dio (…) aderisce indefettibilmente
(indefectibiliter adhaeret) “alla fede
trasmessa una volta per tutte ai santi”
(…), vi penetra più a fondo con retto
giudizio e la applica più pienamente
alla vita» (LG 12; EV 1/316).
Il Concilio cita due doni principali
che Dio ha concesso, e continua a concedere, direttamente al suo popolo
battezzato con viva fede, speranza e
carità: l’infallibilità nella fede e l’indefettibilità nel retto giudizio.
In altri termini, Dio ha affidato la
storia della salvezza, il soggetto della
nostra fede, alla memoria di tutto il
popolo. Dio ha dotato la Chiesa della
prudenza necessaria nella vita quotidiana per conseguire la salvezza. Parte
di questa infallibilità e indefettibilità
appartiene ai membri non ordinati,
perché altrimenti non può appartenere al «tutto». La luce divina e la forza
divina sono diffuse in tutta la Chiesa.
Come ristabilire questo giusto equilibrio nel corpo della Chiesa?
Il ruolo della ge rarchia
Sarebbe sufficiente ricordare ciò
che noi confessiamo come nostra fede.
Lo Spirito Santo assiste il collegio
episcopale, con a capo il vescovo di
Roma, nella proclamazione del messaggio evangelico e nel giudizio ultimo
in materia di dottrina. I vescovi, e in
modo particolare il vescovo di Roma,
sono i testimoni autentici della nostra
Tradizione, ma la storia dell’auto-rivelazione di Dio e delle sue potenti opere vive nella memoria di tutto il suo
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popolo. Inoltre il collegio episcopale
come corpo, e i singoli vescovi nelle loro diocesi, sono incaricati «nello Spirito» di portare e consolidare «la tranquillità nell’ordine», in modo che le
comunità possano vivere in pace e la
Chiesa possa prosperare; ma la prudenza pratica necessaria per giudizi
corretti ed equilibrati è diffusa in tutti
i membri.
In questo modo non si sottrae nulla al ruolo tradizionale della gerarchia,
ma lo si definisce semplicemente con
maggiore precisione. Lo Spirito assiste
la gerarchia, ma essa proviene dal popolo e deve rivolgersi a tutto il popolo
per la piena memoria del messaggio
evangelico; ha bisogno dell’aiuto prudente del popolo nelle questioni pratiche. La gerarchia dipende dal popolo
in molti modi e naturalmente esiste
per il benessere di tutti.
Non si può cambiare dall’oggi al
domani una corrente che ha modellato la Chiesa per secoli. Ma il lavoro in
vista del cambiamento deve cominciare subito. Anzitutto e soprattutto si dovrebbero elevare le menti e i cuori del
popolo di Dio, permettendogli di cominciare a scoprire e apprezzare le
ricchezze che Dio ha donato a tutto il
corpo. La gerarchia deve certamente
affermare il mandato ricevuto, ma de-
1
Ad esempio, Y. CONGAR, Jalons pour une
théologie du laïcat, Du Cerf, Paris 1954; trad. it.
Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966; G. THILS, Les laïcs dans le nouveau
Code de droit canonique et au IIe Concile du Vatican, Faculté de theologie, Louvain-la-Neuve
1983.
2
Venne ordinato sacerdote per la diocesi
di Montreal. Studiò diritto canonico a Sant’Apollinare a Roma, risiedendo nel Collegio canadese. Nominato ausiliare del vescovo di
Sault-Ste.-Marie nel 1956, venne consacrato
nel 1957 e gli successe nel 1958. Partecipò a
tutte le sessioni del Vaticano II. Fu presidente
della Conferenza episcopale canadese dal 1967
al 1969 e delegato della Conferenza ai Sinodi
dei vescovi del 1969 e 1971. Raggiunti i limiti
d’età, nel 1985 lasciò la sua sede episcopale.
3
A. CARTER, A Canadian Bishop’s Memoirs, Tomiko Pubblications, North Bay (Ontario) 1994, 50-51.
4
Le conseguenze sono necessariamente
estese e profonde: una comunità non attraente
potrà difficilmente espandersi. Andate e fate
discepoli tutti i popoli: crescete e mostrate la
bellezza di Dio. La bellezza è armonia di proporzioni.
439
ve anche proclamare le ricchezze degli
altri membri e i limiti del proprio carisma. I cosiddetti laici dovrebbero pervenire a una migliore conoscenza e a
una maggiore consapevolezza di ciò
che possiedono e dei grandi contributi
che possono offrire alla costruzione
della Chiesa. Essi sono il popolo di
Dio. Senza questa conversione si può
fare ben poco.
Poi bisogna rimuovere la barriera
giuridica del can. 129, che permette ai
non chierici di cooperare con la «potestà di governo», ma non di partecipare in alcun modo. Una volta rimossa
quella barriera, può cominciare la ricerca di nuovi equilibri. Essa dovrebbe
essere sia teorica sia pratica. La ricerca teorica deve seguire il cammino
abituale delle ricerche teologiche, partendo dai dati della rivelazione, passando attraverso concezioni creative
ma ben fondate e giungendo a proposte chiare e decise. La ricerca pratica
dovrebbe basarsi sul sensus fidei e sulla prudenza religiosa per il trasferimento di responsabilità dalla gerarchia al resto dei fedeli, in modo da ristabilire i membri rattrappiti nel loro
originario vigore e liberare la testa da
un fardello non necessario. È certamente un’operazione delicata in un
corpo molto sensibile!
5
Cf. can. 142, § 2.
La differenza fra un «consigliere» e un
«partecipante al dialogo» è che il primo è al di
fuori del processo creativo del dare e ricevere
nello scambio, mentre il secondo ne è all’interno.
7
Per maggiori dettagli e documentazione
cf. L. ÖRSY, «Lay Persons in Church Governance: A Disputed Question», in America 174
(1996), 10-13.
8
Cf. A. CELEGHIN, Origine e natura della
potestà sacra: posizioni postconciliari, Morcelliana, Brescia 1987.
9
La liturgia del matrimonio nella Chiesa ortodossa afferma chiaramente che il sacramento del matrimonio conferisce agli sposi una potestà sacra di generare ed educare i
figli.
10
Non si potrebbe trovare un esempio migliore per mostrare come una sola parola del
Codice di diritto canonico possa conferire un
nuovo orientamento alla vita della Chiesa nei
secoli a venire e avere un impatto sull’azione
della comunità a livello mondiale, nonché sulla vita degli individui nelle parrocchie locali.
Penso al verbo cooperari (cooperare) nel can.
129 § 2. Esso mostra anche la singolare prio6
Verso l’anno 52 d.C. Paolo scrisse
la sua Prima lettera ai Corinti. È interessante notare che la invia non a un
capo, ma alla «Chiesa di Dio che è a
Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata». Poi afferma: «A ciascuno è data
una manifestazione particolare dello
Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello stesso Spirito,
viene dato il linguaggio di sapienza; a
un altro invece, dallo stesso Spirito, il
linguaggio di conoscenza»; e poi continua elencando i vari doni dello Spirito manifestati nella comunità: il dono
delle guarigioni, il potere dei miracoli,
il dono della profezia, il discernimento
degli spiriti, la varietà delle lingue e
l’interpretazione delle lingue (1Cor
12,7-10).
Dice loro di mettere ordine nelle
loro assemblee, ma afferma anche con
forza che non devono spegnere lo Spirito.
Ci si può chiedere: che cosa direbbe Paolo apostolo se ritornasse sulla
terra e trovasse una Chiesa nella quale l’obbedienza silenziosa è la regola
generale e mancano le gioiose manifestazioni dei doni dello Spirito?
Ladislas Örsy
rità che le leggi possono avere nell’ordine esistenziale.
11
Cf. anche can. 1008.
12
Ciò non significa che lo Spirito non possa e non voglia concedere o non conceda mai
un carisma speciale «per la santificazione del
mondo» – cioè a santificare qualche aspetto del
mondo secolare –; ma significa che questo carisma – se viene concesso – non è un frutto specifico di un qualsiasi sacramento o sacramentale. Sarebbe sbagliato ritenere che un carisma
che appare donato per la santificazione del «secolare» dipenda dallo stato di una persona nella Chiesa. La storia mostra un quadro molto
più ampio: Gregorio Magno (un chierico) ha sicuramente fatto molto per il progresso della
condizione secolare della città di Roma, e Caterina da Siena (una laica) ha fatto un’opera
potente per la salute interna della Chiesa.
13
Nel linguaggio scolastico ex opere operato, un’espressione molto diffamata, ma che ha
un valido significato anche al di fuori della
«scuola»: un sacramento è un’azione di Cristo
che conferisce la grazia – proprio perché un’azione di Cristo non può essere priva di grazia –
supposto che il ricevente sia disposto a ricevere
il dono.
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Scuola in Italia
D I BAT T I TO
c
La lettera pubblicata in Regno-att.
10,2009,357 ha suscitato parecchie
reazioni, tra cui le due, particolarmente
qualificate, che qui presentiamo.
Giuseppe Bertagna – già presidente
del Gruppo di lavoro che ha fornito le basi
teoriche della riforma Moratti – percorre
le tappe salienti dal dopoguerra a oggi della mancata riforma del sistema scolastico
italiano per concludere che allo stato
attuale si preferisce «razionalizzare
l’esistente» più che «ri-formare le fondamenta della scuola ereditata dal fascismo».
Luisa Ribolzi – consulente anche del
ministro Berlinguer, nonché ideatrice
insieme a Vittorio Campione del «Gruppo
del buonsenso» – propone, prima d’«ogni
soluzione organizzativa o di contenuto»,
d’affrontare la questione-insegnanti,
smettendo di considerare, come sinora si è
fatto, il loro mercato del lavoro
una sorta di «variabile indipendente».
L’«irriformabilità» della scuola italiana è
figlia di due insufficienze: della politica,
che ha considerato la forma dell’istruzione
un’occasione di ricerca di consensi più che
un bene pubblico su cui investire in termini innovativi e in tempi lunghi, e della sua
stessa struttura, cresciuta in una cultura
autoreferenziale che confonde la
conservazione del sapere con quella delle
proprie forme assunte storicamente.
La Chiesa italiana mettendo al centro del
prossimo decennio pastorale l’«emergenza
educativa», oltre alla condivisibile
perorazione per la scuola privata,
non può non riproporre la pertinenza
di un interesse super partes per uno
dei luoghi principali in cui
l’educazione è di fatto messa all’opera.
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hi ri-forma muore
Tr a r i s p a r m i o e g e s t i o n e d e l l ’ e s i s t e n t e ,
un’inef ficienza tutta politica
V
alerio Veronese («Quod vides perisse perditum ducas»,
in Regno-att. 10,2009,357)
dice senza dubbio il vero
quando sostiene che, con la
riforma Gelmini – o, come egli annota, «R» come Renato Brunetta e «G»
come Giulio Tremonti – non finisce affatto la scuola, ma «finiscono» tre tabù
pluridecennali: quello della scuola come «macchina per la moltiplicazione
del lavoro stabilmente precario»; quello di «un sindacato paralizzato dall’impossibilità di difendere l’esistente» e
contemporaneamente di cambiarlo;
quello di «una società disposta a riconoscere» alla scuola «il ruolo d’ammortizzatore sociale».
Ugualmente, mi pare dica il vero
quando individua nei «tagli» imposti
da motivi di bilancio nazionale la causa del crollo di questi tabù. Non siamo
alla bandiera bianca, per fare il verso
alla poesia di Arnaldo Fusinato, ma «il
pan» comincia, se non a mancare, a
dover essere almeno usato con più criterio di quanto si sia fatto in passato.
Tanto più che ai costi del sistema scuola non seguono affatto risultati corrispondenti. Su questo, i dati empirici
nazionali e internazionali disponibili
sono ormai tali da non ammettere più
repliche.
Un problema, due soluzioni
È dal 1996, però, che il problema
di combinare, da un lato, interventi
per aumentare la qualità e la «produttività» del sistema scolastico e, dall’altro, per razionalizzarne la spesa è all’ordine del giorno dell’agenda politica
e sindacale del paese. C’erano e restano due strade per risolvere questo problema:
a) razionalizzare la spesa, ma operando una «riforma» del sistema d’istruzione e di formazione («ri-forma»
significa «dare una nuova forma» pedagogica, ordinamentale, istituzionale,
organizzativa, didattica alle scuole dall’infanzia all’università, ritenendo
quella esistente inadeguata);
b) razionalizzare la spesa, ma lasciando al sistema, nella sostanza, la
«forma» che ha e che ha sempre avuto: limitarsi, cioè, ad aggiustamenti
che restringano orari e discipline, non
lascino «ore buche ai docenti», diminuiscano il numero dei docenti aumentando gli allievi per classe, taglino
progetti e spese inutili.
Un’alternativa già vista:
1 9 4 8 - 1 9 51
Un’alternativa non nuova, a dire il
vero, per la nostra storia. Anzi, per la
Repubblica italiana, quasi una specie
di imprinting etologico.
Nel dopoguerra bisognava applicare la Costituzione, dando una «nuova
forma» al sistema d’istruzione e di formazione del paese, dalla scuola dell’infanzia ai dottorati di ricerca. Era ragionevole aspettarsi, infatti, che non
fosse mantenuto l’impianto strutturale
delle nostre scuole e della nostra università, costruito durante il fascismo. Il
ministro Gonella s’impegnò da par suo
nell’operazione riformatrice. Tutto si
arenò, però, nel 1951. La Costituzione
formale perse e vinsero le cosiddette
forze dei poteri già costituiti. Il sistema
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scolastico che c’era, con qualche più
che comprensibile cosmesi di contenuto democratico, prevalse su chi pretendeva di cambiarlo, per renderlo maggiormente coerente con il dettato costituzionale.
Le cause di questa sconfitta, come
sappiamo, furono molte.1 Ma quella
riferibile alla posizione del ministro del
Tesoro Pella non fu l’ultima: per adesso, disse, mancano i soldi per impegnarsi in prospettive di questo genere.
Continuiamo con la prosa, disse, in attesa di poter fare, chissà quando, un
po’ di poesia.
1996: l’al ternativa
ripropos ta
Nel 1996, tuttavia, il problema si
ripropose in maniera pesante e, ormai,
ineludibile. C’era in ballo l’adesione
all’Europa con i nostri conti scassati da
decenni di finanza a debito. C’era pure in ballo un’altra evidenza: la crisi di
un sistema d’istruzione e di formazione che, alla soglia del 2000, continuava a mantenere, a livello strutturale, i
pilastri gettati 80 anni prima: statalismo, centralismo, scolasticismo, autorefenzialità, mancata continuità tra lo
sviluppo degli insegnamenti nei diversi gradi scolastici, gerarchizzazione
educativa e culturale tra licei, istituti
tecnici, istituti professionali e formazione professionale, eccessiva frammentazione delle discipline e degli insegnamenti (per esempio, in nessun
paese al mondo un ragazzo di 11 anni
incontra ben 14 discipline e la bellezza
di 9 docenti!). Si lavorò, perciò, in tre
direzioni.2
La prima fu quella di recuperare
lettera e spirito dell’art. 5 della Costituzione del 1948 anche nel campo del
sistema scuola. Ne uscì, prima la stagione dell’«autonomia funzionale»
delle istituzioni scolastiche (19971999), e poi quella che avrebbe dovuto
essere la stagione dell’autonomia delle
scuole tout court, senza aggettivi. Stagione, per la verità, quest’ultima, perfino sanzionata dalla revisione della
Costituzione varata nel 2001, col Titolo V, e rilanciata nel 2003 (legge n.
53/2003), ma, nonostante tanta solennità normativa, ancora oggi inattuata.
La seconda direzione scaturì dal
proposito di combinare il programma
dell’autonomia delle scuole con il pas-
441
saggio da un sistema d’istruzione e formazione a impianto istituzionale e ordinamentale solo statalista a un sistema d’istruzione e di formazione a impianto istituzionale e ordinamentale,
invece, sussidiario (nuovo art. 117 della Costituzione del 2001 e conseguente legge n. 53/2003). Significava disegnare un «sistema d’istruzione» e
d’«istruzione e formazione professionale» in cui l’unico vero protagonista
non fosse più solo lo stato e la sua amministrazione centralizzata, ma anche,
con specifici e significativi ruoli, i territori (cioè le regioni e gli enti locali), le
istituzioni scolastiche autonome e le
«formazioni sociali» di cui all’art. 2
della Costituzione (famiglie, parti sociali, enti non profit, cooperative, aggregazioni religiose).
La terza direzione fu quella imposta alla pubblica istruzione dal solito
Tesoro: potete disegnare, dicevano gli
uffici di via XX settembre, tutte le «riforme» di sistema che volete; l’importante è che non ci siano aumenti delle
percentuali di spesa rispetto al vigente
bilancio dello stato. Come fare, in queste condizioni, non solo a disegnare le
«nuove forme» istituzionali e ordinamentali dell’istruzione e della formazione del paese, ma a premiare il merito dei docenti, ad aumentare la qualità complessiva delle scuole di ogni ordine e grado, a recuperare i fenomeni
della dispersione e a restituire, in generale, l’orgoglio della propria professione ai docenti?
Tre formule di «risparmio
con ri-forma» ( 1996-2006)
Il ministro Berlinguer – prima formula tentata (1997-2000) – pensò di risolvere questo teorema molto simile a
quello della composizione del continuo con due mosse fondamentali.
Prima mossa. L’Italia è l’unico paese al mondo con 13 anni di scuola preuniversitaria. Tutti gli altri ne hanno
11 o al massimo 12. E non hanno risultati peggiori dei nostri. Anzi. Da qui
la proposta d’accorpare scuola elementare e media e di costituire una
«scuola di base» non più di 8, ma di
sette anni. Alla «scuola di base», sarebbe seguita una scuola secondaria di 5
anni tutta licealizzata e statalizzata
con i primi due anni obbligatori.
Seconda mossa. Usare a regime i
soldi risparmiati con il taglio di un anno di scuola per premiare i docenti migliori.
Sfortunatamente la prima mossa fu
seppellita dall’effetto tecnico della cosiddetta «onda anomala» e la seconda
dalla jacquerie provocata dal mal pensato «concorsone». Non si fece perciò
nulla.
Seconda formula della linea «risparmio con ri-forma» (2001). Il
Gruppo ristretto di lavoro nominato
dal ministro Moratti nel 2001, avvertito dell’esperienza precedente, tenne
fisso il vincolo dei 12 anni di studio
pre-universitari, ma, per evitare l’onda
anomala, lasciò il primo ciclo degli studi di 8 anni e propose, come capita in
tutto il mondo, la scuola secondaria di
4 anni. Tanto più che introduceva per
tutti gli studenti i 12 anni di diritto-dovere d’istruzione o di formazione.
I risparmi così ottenuti dovevano
servire:
a) a organizzare il cosiddetto «anno di riallineamento flessibile» per i
ragazzi che non fossero riusciti a superare le prove di accesso all’università a
18 anni (che dovevano diventare rigorose e sistematiche);
b) a sostenere la sfida della pari dignità educativo-culturale e dell’interconnessione ordinamentale tra i percorsi quadriennali dell’istruzione liceale statale, da una parte, e quelli altrettanto quadriennali dell’istruzione e
formazione professionale delle regioni,
previsti dalla riforma del Titolo V della Costituzione, dall’altra;
c) a creare una figura d’accompagnamento per il percorso dei ragazzi
nel primo e nel secondo ciclo d’istruzione e di formazione (il docente tutor);
d) a rendere flessibili e personalizzati i piani di studio (nel senso di poter
dare di più in termini d’orario e di opportunità didattiche a chi ne aveva bisogno per l’apprendimento e di meno
a chi riusciva comunque a raggiungere
i risultati attesi);
e) a incentivare i docenti per la tenuta del portfolio delle competenze
personali dei ragazzi, per i piani di studio personalizzati, per i laboratori ecc.
Anche questa proposta, tuttavia, fu
respinta dai partiti non solo di opposizione, ma anche da due partiti della
stessa maggioranza di governo. Fu al-
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trettanto respinta dai sindacati della
scuola e dai docenti.
Il ministro Moratti – terza e ultima
formula della linea «risparmio con riforma» (2002-2006) – tenne conto di
questi dissensi e, mediando all’interno
della sua maggioranza, tra tensioni e
polemiche ideologiche tipiche del nostro bipolarismo paranoide, riuscì comunque a far approvare, dopo un iter
non breve, la legge n. 53/2003.
Questa legge, com’è noto, se rifiutava l’ipotesi dei licei quadriennali,
portandoli ai tradizionali cinque, ne ridimensionava, tuttavia, le ore settimanali (da 33 a 27, più 3 opzionali facoltative), pur prevedendo otto licei tra
cui quello tecnologico. Ma prendendo
sul serio l’art. 117 della Costituzione
prevedeva il maggiore risparmio con
un provvedimento di lungo periodo.
Si trattava, infatti, di rifondere in
una maniera unitaria, graduale e continua, senza più doppioni di alcun genere, gli attuali corsi quinquennali dell’istruzione tecnica più professionalizzanti non confluibili nei licei, gli attuali corsi triennali o quinquennali dell’istruzione professionale statale e gli at-
Claude Dagens
Libera e presente
La Chiesa
nella società secolarizzata
S
i sente spesso affermare che negli
ultimi decenni la Chiesa di Francia
è divenuta insignificante nella società.
A tale critica, l’autore risponde che la
sua Chiesa ha individuato una forma
di presenza adatta alla contemporaneità. Un vescovo italiano interloquisce col testo del vescovo francese, cercando un possibile confronto tra le due
esperienze, pur nelle diverse specificità dei percorsi ecclesiali.
«Fede e annuncio»
pp. 136 - € 12,20
EDB
Via Nosadella, 6
40123 - Bologna
Tel. 051.4290011
Fax 051. 4290099
tuali corsi biennali della vecchia formazione professionale regionale in
quelli a durata variabile di tre anni
(per la qualifica), quattro (per il diploma) e da cinque a otto (per i diplomi
superiori) che sarebbero andati a costituire il nuovo sistema dell’«istruzione e
formazione professionale».3
La legge n. 53/2003, inoltre, accoglieva anche molte delle ipotesi avanzate dal Gruppo ristretto del 2001 per
ottimizzare il rapporto tra risparmi e
qualità educativa e culturale.4 Per
esempio, l’introduzione nella scuola
primaria del maestro prevalente con le
funzioni di coordinatore tutor (maestro
che avrebbe dovuto svolgere 18 ore
d’insegnamento sempre con gli stessi
allievi fino alla terza classe), oppure l’ipotesi di diminuire il numero delle
classi d’abilitazione per aggregare fra
loro alcuni insegnamenti sia nella
scuola media (dove educazione tecnica
sarebbe andata con matematica e
scienze ed educazione artistica con lettere), sia nell’istruzione liceale, sia in
quella dell’«istruzione e formazione
professionale», avrebbero liberato risparmi così consistenti da autorizzare,
nel medio periodo, forti investimenti
sul salario e sulla carriera dei docenti,
sulla qualità della formazione iniziale
e in servizio del personale della scuola,
nonché sulla costituzione di un Servizio nazionale di valutazione della produttività del sistema e degli apprendimenti degli studenti davvero degno di
questo nome.
«Risparmio senza ri-forme»:
(2006-2009)
Pur essendo stati approvati, i dispositivi contenuti nella normativa Moratti non vennero, però, mai attuati. Nel
2006, quindi, come nel gioco dell’oca,
il tentativo di «risparmiare ri-formando il sistema» è stato abbandonato.
Il ministro Fioroni, reso edotto dei
costi politici e di consenso che avrebbe
comportato la continuazione delle formule precedentemente ricordate, ritenne più praticabile la via del «risparmiare senza ri-formare».
Sterilizzata, in questo modo, la
riforma Moratti, fece approvare in finanziaria il ritorno al sistema d’istruzione e di formazione che c’è: centralismo; statalismo; gerarchizzazione di
fatto tra licei, istituti tecnici, istituti
A cura di Francesco Strazzari
Postfazione e discussione
di Giovanni Giudici
Edizioni
Dehoniane
Bologna
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professionali, formazione professionale; frammentazione delle discipline e
degli insegnamenti. Ma in compenso,
poiché il vincolo del Tesoro rimaneva
quello inaugurato da oltre dieci anni a
questa parte, avviò un processo di robusta razionalizzazione degli organici
e della spesa, da realizzare in cinque
anni.
La crisi economica mondiale scoppiata lo scorso anno, nonché lo stato
sempre più enfisematico del bilancio
del nostro paese, hanno poi spinto il
ministro Gelmini-Tremonti a continuare la scelta di Fioroni sul piano ordinamentale e istituzionale, ma, al
contempo, ad accelerare i tempi dei risparmi. Ne è uscito così il maestro unico, i voti e una razionalizzazione degli
organici nell’istruzione media e superiore (liceale, tecnica e professionale)
costruita sul criterio di «lasciare le cose come stanno, tagliando un po’».
L’aspetto più interessante è che le
vibrate proteste che hanno accompagnato la via Moratti di «risparmiare,
ri-formando» non sono nemmeno paragonabili al sostanziale appeasement
incontrato dalla politica messa in campo dalla coppia Fioroni-Gelmini.
Vuol dire che, per la scuola, i docenti, i sindacati, i partiti, l’opinione
pubblica, è maggiormente preferibile
«razionalizzare» l’esistente e lanciare
parole d’ordine suggestive sul piano
mediatico come merito, serietà, severità al posto di «ri-formare» le fondamenta della scuola ereditata dal fascismo, sulla base dei principi costituzionali formulati nel 1948 e ribaditi nel
2001.
Giuseppe Bertagna *
* Giuseppe Bertagna è docente di Pedagogia generale nel corso di laurea in Scienze dell’educazione e Teoria e pratiche delle organizzazioni educative nel corso di laurea specialistica di Consulenza pedagogica e ricerca educativa dell’Università di Bergamo.
1
G. BERTAGNA, Autonomia. Storia, bilancio e rilancio di un’idea, La Scuola, Brescia
2008.
2
Ivi, c. VII.
3
ID., Pensiero manuale. La sfida di un sistema di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2006.
4
ID., Dietro una riforma. Quadri e problemi
pedagogici dalla riforma Moratti (2001-2006) al
«cacciavite» di Fioroni, Rubbettino, Soveria
Mannelli (CZ) 2009.
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Scuola in Italia
nale, che si articola secondo molte
sfaccettature: le riforme si fanno solo
con il consenso degli insegnanti e con
la loro attiva collaborazione (e forse
bisognerebbe aprire una lunga parentesi sul ruolo dei dirigenti).
c
he cosa salvare?
Ripartire dagli insegnanti
N
ella storia senza fine della
riforma degli ordinamenti
della scuola italiana, avviata nel gennaio del
1997, di tanto in tanto si sente il bisogno di un ripensamento complessivo, a
cui invita la provocatoria lettera di Valerio Veronese.
Partirei da un’osservazione apparentemente marginale, che si chiede se
la scuola sia davvero un «gigante malato e sempre meno popolare». Come
percezione, la risposta è, purtroppo,
affermativa: se fino a non molti anni
fa, schematizzando, l’atteggiamento
della maggior parte delle famiglie era
«studia, se vuoi avere successo nella vita», oggi si sta diffondendo l’idea «che
cosa studi a fare, tanto non serve a nulla». E non si tratta solo di una logica
«calciatore con velina», ma di una percezione del sostanziale distacco della
formazione scolastica dai bisogni reali
degli utenti.
È evidente quanto negative siano le
conseguenze di una simile posizione
sulle motivazioni e sul morale dei docenti che lavorano seriamente e che si
trovano delegittimati e in condizione
di dover dimostrare l’utilità sociale del
proprio lavoro.
A questo, in qualche misura, dovremo abituarci: nella scuola (e nell’università) la qualità non è più data per
scontata, ma deve essere provata, e la
nuova filosofia è quella dell’accountability, della disponibilità a render con-
to alla comunità degli utenti (i ragazzi
e le loro famiglie) e alla più vasta comunità civile. Se non si recupera il valore della scuola, il mandato che essa
riceve, appunto, dalle famiglie e dalla
comunità civile, non è possibile costruire un serio e condivisibile progetto di riforma migliorativa: e questo
processo non può che essere condiviso
da tutti o, per usare una parola politicamente di moda, bipartisan.
L’emergenza educativa, per sua
natura, richiede tempi lunghi, e colpisce che sia solo la Chiesa a rendersene
conto, ponendo l’educazione al centro
del suo progetto pastorale e culturale
per i prossimi dieci anni mentre i politici operano sui tempi brevi del consenso popolare. Come diceva un ministro canadese, con una certa dose di
realistico cinismo, «il primo problema
di un politico è essere eletto, il secondo
è essere ri-eletto». Ne consegue che è
difficile immaginare l’altruismo di un
politico che propone e attua riforme i
cui esiti verranno sfruttati da qualcun
altro, magari di un altro partito. Il primo problema da affrontare e risolvere
è quindi una volontà comune d’individuare soluzioni condivise, e di perseguirle fino all’attuazione, e purtroppo
non pare vicino.
Sul piano delle decisioni da prendere, è secondo me centrale, e preliminare a ogni soluzione organizzativa
o di contenuto, la questione del perso-
Insegnanti di ieri, ragazzi
di oggi, mondo di domani
Volendo schematizzare, il tema si
articola almeno su tre ampie aree: formazione e arruolamento, condizioni
di lavoro, valutazione.
Posso provare a proporre, punto
per punto, qualche ipotesi per superare il discredito di cui sono vittime,
spesso incolpevoli, gli insegnanti. È
però necessaria una premessa: finché
il mercato del lavoro degli insegnanti
verrà considerato una variabile indipendente, nessuna razionalizzazione
sarà possibile, e finché si accollerà alla
scuola la soluzione di un problema di
occupazione assegnandole ad esempio
più di centomila bidelli, molti dei quali sostituibili con convenzioni più economiche e più efficaci, soprattutto a livello di reti, si lavorerà con parametri
economici insostenibili. Personalmente, ritengo che si potrebbe anche modificare il meccanismo degli insegnanti di sostegno, con esiti migliori, ed
evitando distorsioni, ma si tratta di un
discorso impopolare, e quindi è preferibile non trattarlo in poche righe, col
rischio di cadere in una sovra-semplificazione.
Dal punto di vista della formazione, in attesa di una nuova normativa,
il nostro paese è di nuovo privo (unico dei paesi dell’Organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economico OCSE) di una via istituzionale
per la formazione degli insegnanti: le
facoltà di Scienze della formazione
primaria dovrebbero essere riformate
passando da quattro a cinque anni
(tre più due, secondo molti decisamente troppi rispetto ai vecchi tre o
quattro anni di scuola secondaria che
davano accesso alla scuola materna
ed elementare); le Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario
(SSIS) sono state abolite e gli insegnanti della scuola secondaria dovrebbero essere formati dalle università con le lauree specialistiche.
In entrambi i casi, un – ridotto –
spazio viene lasciato alla pratica nelle
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scuole. Il vecchio modello non è stato
valutato, né per i risultati che ha ottenuto, né per i costi che ha comportato, secondo un’abituale e deplorevole
abitudine del nostro sistema formativo, che introduce o abolisce le innovazioni senza mai valutarle, buttando
via il bambino con l’acqua sporca.
A un primo sguardo, anche se il
giudizio va rimandato al testo definitivo, contenuti e metodi di questa formazione non tengono conto né delle
recenti acquisizioni delle scienze dell’educazione su come funzionano i
meccanismi d’insegnamento-apprendimento, né dei cambiamenti introdotti nell’ambiente educativo dalle
tecnologie dell’informazione. Come
diceva un collega a un recente convegno, insegnanti di ieri formano ragazzi di oggi per il mondo di domani.
I meccanismi d’arruolamento
ignorano totalmente sia l’autonomia
(le scuole, tranne pochissime eccezioni di carattere sperimentale, e le
scuole paritarie, che però vengono in
larghissima misura finanziate dagli
utenti, non hanno voce in capitolo
nella scelta del corpo docente, il che
è tanto più assurdo quanto più si
chiede alle scuole stesse di rendere
conto dei risultati raggiunti) sia gli
esiti della ricerca, che mettono al primo posto fra i fattori di successo di
una scuola la condivisione fra gli insegnanti del progetto educativo, sia
elementari meccanismi di razionalizzazione, legati peraltro, come si è
detto, alla rigidità del mercato del lavoro.
Timidi tentativi, come quello di
consentire alle scuole in cui avviene il
praticantato di tenersi i nuovi insegnanti per almeno tre anni, «recuperando» un gravoso investimento di risorse umane, o quello di selezionare
in loco gli insegnanti per le materie
dell’area di flessibilità, sono stati
stroncati sul nascere.
È vero che gli insegnanti sono una
categoria atipica: restano in coda
spesso per anni, ma poi sono inamovibili, o meglio si spostano finché –
unica possibilità di carriera – arrivano a insegnare in una buona scuola,
possibilmente vicino a casa. E di lì
non si muovono più, tanto che in alcune scuole non esiste il problema del
turn over, ma al contrario il proble-
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ma di docenti ormai «arrivati», che
non sono più interessati a nessun tipo
d’innovazione.
Autonomia
chiama responsabilità
Sulla carriera, si è già scritto di
tutto e di più: la scuola italiana è l’unica in Europa ad avere «un uomo solo al comando», come Coppi sullo
Stelvio, e una pletora di insegnanti
tutti alla pari. Se si tiene conto che la
totalità delle scuole italiane rientra fra
le medie imprese, in quanto ha più di
cinquanta dipendenti, e molte scuole
ne hanno più di cento, riesce ancora
più incomprensibile come si possa governare un’istituzione complessa, che
comporta funzioni articolate e anch’esse di complessità crescente, senza disporre di quelli che in un’azienda si chiamano «quadri intermedi», e
in una scuola s’identificano con i collaboratori del dirigente, non specificamente formati o selezionati, suscettibili di rientrare rapidamente nei
ranghi, pochissimo retribuiti e senza
un riconoscimento ufficiale.
In una recente indagine sul tempo
e le incombenze dei dirigenti (consultabile sul sito web della Fondazione
Agnelli, www.fga.it) è emerso con evidenza assoluta che i dirigenti patiscono una situazione in cui la scuola non
funzionerebbe senza il loro staff, ma
gli insegnanti che ne fanno parte non
possono essere ricompensati in misura adeguata al loro impegno.
Il tema della carriera si collega
strettamente a quello della valutazione: in una scuola non più burocratizzata, gli avanzamenti non dovrebbero
più avvenire attraverso automatismi,
ma dovrebbero essere collegati al tipo
e alla qualità delle prestazioni. Nella
scuola italiana invece non si tiene
conto, se non in misura limitatissima,
nemmeno del tempo di lavoro reale,
che sulla carta è uguale per tutti. Ora,
di un sistema di valutazione degli insegnanti si è cominciato a parlare solo recentemente, e con opposizioni
pesantissime: un paio di ministri ci
hanno lasciato il posto.
In una scuola irresponsabile, in
quanto mera esecutrice della volontà
del centro, questo poteva anche passare; ma una scuola autonoma senza valutazione è una contraddizione in ter-
mini: l’autonomia è inevitabilmente
collegata all’assunzione di responsabilità che vanno valutate, o si traduce in
qualunquismo o, peggio, in anarchia.
La valutazione non è un meccanismo per attribuire delle punizioni, così come molta parte del corpo docente e la quasi totalità dei sindacati la
concepisce, ma un sistema di controllo dell’efficacia delle decisioni prese
nella programmazione educativa, che
consente di riorientare il percorso: è
anche il modo per incentivare i docenti più impegnati, i migliori, coloro
che più contribuiscono al buon funzionamento della scuola.
L’obiezione di molti, che nella
scuola italiana mancano valutatori affidabili, è purtroppo vera: il corpo
ispettivo, già solo in parte qualificato,
è stato in pratica smantellato, e il nuovo concorso non prevede il possesso
di requisiti specificamente collegati
alla funzione di valutazione così come
l’ho descritta. In Italia, infine, l’ipotesi di utilizzare valutatori esterni (a
parte il fatto che anche in questo caso
la disponibilità non è certo ingente)
incontra una pesante opposizione,
mentre è popolarissima l’idea che basti un’autovalutazione.
Per rispondere alle domande che
la lettera pone sarebbe possibile e doveroso affrontare altri aspetti, ma mi
fermerei qui, perché ritengo che il tema degli insegnanti sia preliminare e
debba essere affrontato e possibilmente risolto per poter porre mano
agli altri, insieme alla decisione fondamentale di un approccio comune
fra le forze politiche. Certamente la
scuola deve recuperare la propria
identità, ma anche la comunità civile
deve capire che conta anche di chi è
la scuola, perché una scuola – per parafrasare un titolo di successo – «senza padri né maestri» genera una società senza valore.
Luisa Ribolzi*
* Luisa Ribolzi è docente di Sociologia
dell’educazione presso la Facoltà di Scienze
dell’educazione dell’Università di Genova.
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Europa
Insegnamento
della religione
Vivere
insieme
N
el 2008, anno europeo del dialogo
interculturale, il Consiglio d’Europa
ha pubblicato un libro bianco sul
dialogo interculturale, intitolato Vivere insieme nell’uguale dignità. Già il Rapporto
all’UNESCO della Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo, presieduta da Jacques Delors (1996), aveva affermato che, per riuscire nei suoi compiti,
l’educazione deve essere costruita su alcuni
pilastri fondamentali, tra i quali l’«imparare
a vivere insieme».
Consapevole che questo tipo d’apprendimento costituisce oggi probabilmente
uno dei maggiori problemi nell’educazione,
il Rapporto si chiedeva: «È possibile concepire una forma d’educazione che possa
consentire d’evitare i conflitti o di risolverli
pacificamente sviluppando il rispetto per
gli altri, per le loro culture e per i loro valori spirituali?».1
Evitare i conf lit ti
Il libro bianco del Consiglio d’Europa
sembra rispondere individuando nel dialogo il fattore-chiave capace di aprire l’Europa
al futuro e affermando che la gestione democratica delle diversità culturali costituisce la vera priorità delle politiche nazionali.
La scuola, in particolare, deve sentirsi
impegnata a ripensare le materie di studio
in prospettiva interculturale e a proporle
come mappe esplorative di un mondo
complesso e come occasioni di confronto
dei vari sistemi di significato: «L’insegnamento dei fatti religiosi e relativi alle convinzioni in un contesto interculturale consente d’allargare le conoscenze su tutte le
religioni e convinzioni e la loro storia, offrendo agli studenti l’opportunità di comprenderle e di non incorrere nei pregiudizi».2
All’«insegnamento delle religioni e delle
credenze nella scuola pubblica» è dedicato
poi un ampio documento elaborato da un
gruppo di esperti dell’Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa
445
(OSCE) e pubblicato a fine 2007. Il libro è
una novità assoluta sull’annosa questione
dell’insegnamento scolastico della religione
e, tra l’altro, afferma: «Anche se una più
profonda comprensione delle religioni non
porta automaticamente a una maggiore
tolleranza e ad avere più rispetto, l’ignoranza accresce la probabilità di produrre incomprensioni, pregiudizi e conflitti».3
A partire da queste suggestioni, è stato
quindi promosso a metà dicembre 2008 un
incontro di studio su iniziativa del Corso di
laurea in Scienze dell’educazione dell’Università di Perugia su «L’istruzione religiosa
nell’Europa delle differenze», cui hanno
partecipato come relatori R. Balduzzi, P.
Corsini, E. Genre, F. Pajer, S. Tanzarella. Il documento finale – che segue – auspica un ulteriore sviluppo del confronto avviato, con
l’edizione italiana dei documenti internazionali per giungere a una vera e propria via
italiana del dialogo interculturale scolastico
e dei suoi principi orientativi.
La religione e le religioni
«1. In questo anno europeo del dialogo
interculturale, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (ODIHR)
dell’OSCE ha pubblicato i Principi di Toledo,
orientativi dell’insegnamento delle religioni
e delle credenze nella scuola pubblica: una
sorta di libro bianco, elaborato da un gruppo di esperti che avviarono il loro lavoro a
Toledo, città che il libro stesso presenta come emblematica di una vicenda storica plurale, sviluppata nei secoli dall’incontro delle
culture e dalla convivenza delle religioni
ebraica, cristiana e islamica.
2. L’obiettivo principale del libro bianco
è di fornire agli stati dell’OSCE criteri giuridici e pedagogici per promuovere la conoscenza e lo studio delle religioni e delle credenze/convinzioni, come passaggio indispensabile alla comprensione del mondo,
occasione significativa di educazione interculturale, strumento di formazione dei giovani alla libertà di pensiero, di coscienza, di
religione.
3. Il corso di laurea in Scienze dell’educazione dell’Università di Perugia, che nel
suo ordinamento degli studi dedica particolare attenzione all’articolazione plurale
della realtà sociale e all’incidenza delle
identità culturali e delle religioni nei percorsi educativi, ha voluto promuovere, in collaborazione con il Laboratorio per la società
interculturale di Perugia e con il patrocinio
della Regione Umbria, un incontro di studio
sull’istruzione religiosa in Europa, per presentare al mondo culturale e politico italiano le istanze dei Principi di Toledo e aprire
una via italiana alla declinazione scolastica
dei principi stessi.
4. In realtà, l’incontro di Perugia s’inserisce nel dibattito nazionale sull’insegnamento della religione, che ha conosciuto in passato momenti di vivace e persino astiosa
polemica ideologica e che, oggi, potrebbe
svilupparsi con ritrovata serenità, nell’interesse e nel contesto di una società plurale,
divenuta consapevole della rilevanza culturale e del ruolo pubblico della religione e
tuttavia fortemente carente di adeguati
strumenti conoscitivi e interpretativi del fenomeno religioso.
5. Inoltre, l’avvento della “società conoscitiva” e la riaffermata centralità dell’educazione sollecitano la scuola a riproporsi
quale luogo dell’istruzione educativa e ad
aprirsi all’universo delle conoscenze, nonché a costituirsi come sede istituzionale di
confronto delle diversità culturali, delle
convinzioni ideali, delle concezioni etiche,
delle religioni, per contribuire a promuovere una responsabile cittadinanza democratica.
6. Nella definizione delle competenze
culturali e delle finalità educative della
scuola rientra la piena titolarità di competenza sulla cultura religiosa, dalla quale nasce il diritto-dovere di riservare un’attenzione adeguata allo studio dei fatti religiosi e
delle convinzioni etiche, per assicurare a
tutti gli studenti le conoscenze e le competenze necessarie a comprendere l’universalità dell’esperienza religiosa dei popoli e le
tavole normative dell’agire umano.
7. Su queste considerazioni è nata la
proposta, formulata in passato più volte,
d’istituire, per i non-avvalentisi del corso di
religione cattolica, l’ora alternativa come
vera materia scolastica, attinente all’area sociale-etico-religiosa e, per tutti gli studenti,
d’attivare un corso curricolare di cultura religiosa, da articolare su base storico-comparata e con profilo fenomenologico-ermeneutico.
L’incontro di Perugia, mentre condivide
questa proposta, intende farne oggetto di
ulteriore dibattito, per contestualizzarla
nell’attualità degli scenari emergenti e, in
presenza di auspicate nuove disponibilità,
articolarla nel profilo istituzionale».
Lino Prenna
1
J. DELORS ET AL., Nell’educazione un tesoro.
Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo, Armando, Roma 1997, 85.
2
Cf. www.interculturaldialogue2008.eu. Il
corsivo è del testo.
3
OSCE/ODHIR, Toledo Guiding Principles
on Teaching about Religions and Beliefs in Public Schools, Warsaw 2007, 9.
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Te r z o s e t t o r e
I TA L I A
i
l welfare invisibile
I lavoratori del privato sociale
e il rischio del collasso del sistema dei servizi
N
ei mesi scorsi un gruppo
di rappresentanti di associazioni e cooperative
che lavorano nel campo
dei servizi socio-educativi e di promozione sociale, insieme a
rappresentanti delle istituzioni e della
politica attivi nel welfare, ha deciso di
dare voce a un mondo spesso sommerso e dimenticato come quello del lavoro sociale.
G ra n d e e s p a n s i o n e
Da qui è nata l’inchiesta «Voci e volti del welfare invisibile», una ricerca nazionale rivolta agli operatori sociali, un
mondo che in questi anni ha prodotto
professionalità e sperimentazione e che
è cresciuto progressivamente come numero di addetti – al punto da essere
considerato il settore di massima espansione in percentuale sul numero degli
occupati, soprattutto nell’area delle organizzazioni del privato sociale –, ma
che gode di poca visibilità e diritti, spesso confuso con il mondo del volontariato e ricorrentemente oggetto delle conseguenze dei «tagli» delle risorse economiche destinate al settore sociale.
L’inchiesta ha coinvolto un campione di 2.789 operatori e professionisti distribuiti sull’intero territorio nazionale,1
che lavorano all’interno dei servizi e degli interventi del welfare locale, interessando tutte le figure professionali: assistenti sociali, educatori professionali,
sociologi, psicologi, pedagogisti, assistenti domiciliari, mediatori culturali,
operatori socio-sanitari, operatori impegnati negli interventi di promozione
sociale, nell’inserimento lavorativo di
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soggetti svantaggiati, nei servizi alla
persona a carattere domiciliare, semiresidenziale e residenziale.
Balza immediatamente agli occhi la
consistenza di quanti svolgono attività
professionali nel sociale privi di qualifiche o titoli di studio mirati. Tale dato,
insieme alla presenza di figure professionali variamente denominate e formate
nei diversi contesti regionali all’interno
del sottogruppo «altre qualifiche» (16%
del campione), evidenzia una preoccupante frammentazione della filiera professionale sociale nella quale accanto a
professioni normate e regolamentate (e
spesso in concorrenza con queste) troviamo «operatori senza titolo», ovvero
con qualifiche rilasciate dopo percorsi
formativi talmente eterogenei da rendere incerto il reale possesso delle competenze e delle abilità necessarie all’esercizio della relazione di aiuto e di cura.
Ci sembra, questo, l’esito inevitabile
di definizioni, normative, percorsi di
qualifica decisi e organizzati in questi
anni su base esclusivamente regionale e
con un numero consistente di regioni
che non hanno assunto alcuna decisione in relazione alle figure professionali
del sociale, alla loro definizione, alla determinazione dei relativi piani di studio.
Di tale criticità appaiono ben consapevoli gli operatori intervistati: solo 1 su
10 non ritiene necessario giungere a
una definizione nazionale dei profili
professionali e dei titoli di studio (a oggi
mancante) necessari per lavorare nel sociale, a fronte del 70% degli intervistati
per i quali dare finalmente attuazione
all’art. 12 della legge 328 del 2000 sulla
definizione dei profili professionali so-
ciali recherebbe un sicuro vantaggio ai
lavoratori e agli utenti dei servizi territoriali.
Il lavoro sociale: un identikit
Il 66% del campione è costituito da
donne, a ribadire la marcata femminilizzazione del lavoro sociale. Ancor oggi si ritiene che le professioni di cura,
come quelle più strettamente educative,
appartengano al genere femminile, e
forse questa prevalenza culturale ancora così marcata influenza anche la determinazione dei livelli economici e
contrattuali degli addetti. Il lavoro femminile è infatti storicamente meno retribuito di quello maschile, e la contrattualistica italiana ci insegna che i contratti collettivi a salari mediamente più
bassi sono quelli a maggiore concentrazione di presenza femminile (tessile e
commercio in particolare).
Circa la metà degli intervistati
(54%) svolge il proprio lavoro a tempo
pieno. Di questi, il 64% guadagna tra
gli 800 e i 1.200 euro al mese.2 Forse in
questo pesa anche l’idea che le professioni sociali richiedono un contenuto di
conoscenze e di competenze non necessariamente elevato. È probabilmente il
segnale che evidenzia come l’aspetto assistenziale e caritatevole sia l’elemento
ritenuto più caratterizzante per queste
mansioni: il buon cuore e la «vocazione» più che la professionalità e la competenza.
Altro elemento significativo è la distribuzione per età degli operatori sociali che hanno risposto al questionario.
Il 45% dei lavoratori e delle lavoratrici
intervistate ha meno di 36 anni; il 42%
Una condizione critica
I punti di forza e di debolezza del
comparto sociale – pubblico e non profit – appena esposti sono corroborati da
ulteriori dati, emergenti dall’inchiesta,
che evidenziano condizioni di lavoro,
sul terreno salariale e dei diritti, molto
pesanti per chi lavora in questo settore
spesso con titoli di studio medio-alti.
La ricerca conferma quanto si coglie
nella quotidiana esperienza lavorativa
nel comparto sociale: c’è un’innegabile
questione salariale, connessa al fatto che
8 operatori sociali su 10 non arrivano a
1.200 euro al mese lavorando a tempo
pieno. Ciò chiama sicuramente in causa
la sistematica contrazione della spesa sociale e la precarizzazione degli interventi, con un sistematico affidamento tramite bandi con sistemi di premialità al
ribasso, che penalizzano il riconoscimento delle professionalità e innescano
fenomeni di dumping, con l’esito di livellare verso il basso le retribuzioni.
L’altra criticità è rappresentata dalla
frattura Nord-Sud, in relazione sia al
numero degli addetti – che, proporzio-
La logica della concorrenza
Altri dati interessanti, e probabilmente non scontati, riguardano il giudizio sulle politiche di welfare e gli indirizzi del settore sul tema del cosiddetto «mercato del lavoro sociale». La
gran parte degli operatori intervistati
esprime una critica piuttosto forte ai
meccanismi di concorrenza inseriti nel
mondo «sociale», attribuendo loro
un’influenza negativa tanto sul terreno
della collaborazione tra servizi e della
qualità, quanto sul piano dei diritti degli operatori: il 61% degli intervistati
sostiene questa tesi, mentre solo il 14%
ritiene che la concorrenza favorisca la
qualità del servizio. D’altra parte
emerge con forza un’idea di qualità del
SALARIO MENSILE IN EURO
30%
28%
24%
25%
19%
20%
15%
15%
10%
8%
5%
3%
1%
2%
non
nonrrisponde
isponde
oltre 2.000
oltre 2.000
1.500-2.000
1.500-2.000
1.200-1.500
1.200-1.500
1.000-1.200
1.000-1.200
0%
800-1.000
nalmente, nel Mezzogiorno si riduce
notevolmente –, sia alle caratteristiche
dei rapporti di lavoro.
Nel Meridione solo il 43% dei lavoratori svolge la propria attività a tempo
pieno, l’11% in meno della media nazionale rilevata sul campione e 19 punti in meno rispetto al Settentrione, mentre il part time arriva al 32% (+4% sulla media nazionale e +3% rispetto al
Nord) e la modalità lavorativa flessibile
sulla base delle esigenze del servizio sale al 22% (+7% sulla media nazionale e
+ 15% rispetto al Nord). Sul totale delle retribuzioni per contratti full time
cresce il peso della fascia 500-800 euro,
cui afferisce il 10% dei lavoratori contro
l’1% rilevato nel Settentrione; nella fascia 800-1.000 euro ricade il 27% dei
lavoratori contro il 16% di quelli attivi
nelle regioni settentrionali; analoga percentuale ricade nella fascia tra i 1.000 e
i 1.200 euro contro il 48% registrato al
Nord; la forbice si attenua per la fascia
1.200-1.500 euro, dove si situa il 23%
del subcampione meridionale e il 27%
di quello settentrionale.
Sono elementi che interpellano fortemente l’azione di governo e le scelte
delle autonomie regionali: la frammentazione su base territoriale e di genere
non può più essere accettata se non si
vuole definitivamente prendere atto che
l’Italia è un paese a più velocità anche
in relazione alla garanzia offerta ai cittadini e alle cittadine di poter incrociare nel proprio territorio una rete efficace ed efficiente di servizi alla persona
con operatori qualificati, motivati e riconosciuti.
800-1.000
rientra nella fascia 36-50 anni; poco più
del 9% ha un’età compresa tra i 50 e i
60 anni; poco più del 3% ha più di 60
anni. Tale distribuzione, incrociata con
quella relativa all’anzianità professionale e ai ruoli ricoperti, evidenzia una tendenza a entrare relativamente presto
nel comparto lavorativo del sociale e
una propensione a investire nello stesso
in termini di stabilità lavorativa e di sviluppo professionale.3
Si entra relativamente presto quindi
nel comparto dei servizi alla persona e
alle comunità, come «prima scelta» e
non «per ripiego». Chi dunque pensasse all’operatore sociale come a un lavoro «di passaggio», un’esperienza giovanile o comunque qualcosa che «capita»
si deve ricredere.
Risulta altrettanto interessante rilevare come dalla ricerca emerga una forte consapevolezza della funzione pubblica che il lavoro sociale riveste, della
sua diretta relazione con l’esercizio della responsabilità sociale e l’esigenza di
garantire i diritti di cittadinanza minima a tutti. Il 26% degli intervistati dichiara esplicitamente l’attenzione alla
finalità di cambiamento sociale che il
suo lavoro comporta, dichiarandosene
consenziente.
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servizio molto legata alla capacità di
coinvolgere gli utenti, la comunità e il
territorio nella costruzione degli obiettivi stessi dei servizi e, in questo senso,
creare un clima di competizione tra le
strutture del terzo settore che hanno in
gestione i servizi stessi non sembra facilitare i processi di partecipazione sociale e condivisione.
Sui cambiamenti ritenuti necessari e
urgenti nel sistema di welfare e in particolare relativamente ai servizi alla persona, emergono dalle persone intervistate richieste e proposte abbastanza
nette. Infatti il 44% degli intervistati
chiede di aumentare la spesa sociale sino alla media europea in un momento
in cui l’attuale governo ha tagliato le già
scarse risorse dedicate alle politiche sociali; dall’altra parte, un 36% chiede
una maggiore integrazione tra servizi
sociali, sanitari ed educativi. Infine un
numero consistente di operatori, il
27%, chiede di definire i livelli essenziali di assistenza sociale come previsto
dalla legge 328 del 2000.
Sembra quindi delinearsi la richiesta
di un welfare non residuale, che integri il
privato sociale nelle politiche pubbliche,
ma non in un’ottica assistenziale e caritatevole, bensì con attenzione alla qualità, alla professionalità e all’efficacia dei
servizi, un progetto dunque d’investimento nel settore che lo faccia uscire da
una logica emergenziale.
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U n vo l to
composito e variegato
Un’ultima considerazione va fatta
relativamente al giudizio che gli operatori esprimono in relazione al mondo del terzo settore. La domanda diretta sul tema sembra indicare la
consapevolezza di non poter parlare
di terzo settore in maniera omogenea, ma che si debba tener conto della grande varietà presente al suo interno. Infatti, alla domanda che chiede un giudizio su associazioni e cooperative il 29% risponde che non è
possibile generalizzare, perché sono
troppo diverse l’una dall’altra.
In ogni caso bisogna segnalare
che anche quando viene operata una
critica alle organizzazioni del terzo
settore, l’ipotesi di internalizzare i
servizi in un’ottica statale non racco-
Ve scov i l o m b a rd i
Immigrati
Stranieri,
non criminali
A
l termine della sessione estiva della
Conferenza episcopale lombarda
(comprendente le diocesi di Bergamo, Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi,
Mantova, Milano, Pavia, Vigevano), riunita a
Caravaggio (BG) il 6-7 luglio 2009, i vescovi
hanno reso noto un comunicato sul tema
dell’immigrazione e in particolare sui recenti provvedimenti legislativi del governo
italiano, anche alla luce della recente enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in
veritate. Lo riprendiamo qui integralmente.
«“Il fenomeno delle migrazioni impressiona per la quantità di persone coinvolte,
per la problematiche sociali, economiche,
politiche, culturali e religiose che solleva,
per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale.
Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che ri-
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collasso del sistema dei servizi che
non può che ricadere sulle spalle dei
soggetti più deboli: gli utenti e gli
operatori.
Lucio Babolin*
glie consenso, a smentire alcune tesi
sostenute in questi anni in campo sindacale e politico. Gli operatori chiedono invece alle proprie organizzazioni una maggior partecipazione e
una più chiara assunzione di responsabilità sul terreno politico e culturale, ma non si considerano generalmente in contrapposizione con esse.
Abbiamo tra le mani la fotografia
di un sistema che continua a tenersi
in piedi con una certa efficacia, malgrado stiano mancando sempre di
più le condizioni minime per la sua
sopravvivenza, sul piano delle risorse
economiche e della programmazione
delle politiche. Questo racconta della
grande flessibilità del comparto, della dimensione di attivazione di società civile ancora rappresentata nel
terzo settore, ma anche del rischio di
* Presidente del Coordinamento nazionale
comunità di accoglienza (CNCA).
1
1.267 nelle regioni settentrionali, 861 nelle regioni centrali, 661 nel Meridione.
2
Di questi il 23% dichiara di guadagnare
tra gli 800 e i 1.000 euro mensili, e il 41% tra i
1.000 e i 1.200.
3
Solo un lavoratore su dieci, tra gli intervistati, ha un’anzianità lavorativa inferiore ai 2
anni, la metà circa di quanti ricadono nella fascia di anzianità 3-5 anni, mentre un terzo
(29%) lavora nel sociale da 6-10 anni. Parimenti significativo il dato relativo al subcampione
con un’anzianità di servizio compresa tra gli 11
e i 15 anni (16%) e il 9% totalizzato da quanti
hanno tra i 16 e i 20 anni o che addirittura lavorano da oltre 20 anni nel sociale.
chiede una forte e lungimirante politica di
cooperazione internazionale per essere
adeguatamente affrontato (…). Nessun
paese da solo può ritenersi in grado di far
fronte ai problemi migratori del nostro
tempo. Tutti siamo testimoni del carico di
sofferenza, di disagio e di aspirazioni che
accompagna i flussi migratori” (Caritas in
veritate, n. 62).
A partire dai pronunciamenti del magistero pontificio, i vescovi lombardi sentono il dovere pastorale di rivolgersi ai fedeli
delle comunità cristiane della Lombardia
per invitarli alla riflessione.
Il consenso ad alcune parti della legge
contenente “Disposizioni in materia di sicurezza”, emerso anche nelle comunità cristiane, fa nascere interrogativi e suscita
preoccupazione.
Sembra che la paura – in qualche circostanza purtroppo non priva di ragioni –
troppo spesso amplificata artificialmente,
spinga a una reazione emotiva che non aiuta a leggere in verità il fenomeno della migrazione e ostacola la considerazione della
dignità umana di cui ogni persona – anche
quando migrante – è portatrice.
Straniero non è sinonimo di pericolo o
di delinquente: la maggior parte degli immigrati che vivono e lavorano tra noi lo
fanno in modo onesto e responsabile a tal
punto da costituire una presenza fondamentale e insostituibile per molte attività
produttive e per la vita di molte famiglie.
Per sostenere questo sguardo libero da
precomprensioni e paure eccessive, le nostre comunità cristiane devono rinnovare
lo sforzo educativo sui temi dell’accoglienza e della dignità di ogni persona, principi
irrinunciabili dell’autentica razionalità e ancor più dell’insegnamento evangelico.
In una società moderna – come vuole
essere la nostra – che si fonda sul rispetto
delle leggi, sul senso di responsabilità da
parte di tutti, i cristiani sono chiamati a
operare con gli uomini di buona volontà
affinché sia praticata la giustizia e rispettata la dignità delle persone, di tutte le persone.
I cristiani pertanto devono farsi promotori di atteggiamenti e di una legislazione che riconoscano i diritti delle persone
oneste (anche quando immigrate); promuovano e sostengano la responsabilità
sociale di questi “nuovi cittadini” provenienti da altri paesi; favoriscano la solidarietà verso tutti i soggetti più deboli; realizzino procedure praticabili, sensate ed efficienti per la regolarizzazione degli stranieri
presenti da tempo nella nostra regione, ma
formalmente irregolari solo perché la burocrazia rallenta e complica l’applicazione di
regole già in vigore.
Favorire l’integrazione degli immigrati
presenti nella nostra regione alla ricerca di
condizioni di vita oneste e dignitose è la
via più promettente per realizzare una convivenza serena che vinca la paura e giovi al
bene comune».
M.E. G.
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Italia
Caritas
Le tentazioni di sempre
Discernere
per operare
A
cuta percezione di una crisi culturale ed etica, volontà di dare concretezza alla scelta della Conferenza episcopale sul «Prestito della speranza»,
percezione dei mutamenti interni alla Caritas italiana: sono alcuni dei punti focali
emersi dal XXXIII Convegno nazionale delle Caritas diocesane italiane (Torino, 22-25
giugno). Oltre 600 i partecipanti, in rappresentanza della quasi totalità delle diocesi.1
Realismo al l’italiana
«“Non conformatevi a questo mondo”
(Rm 12,2). Per un discernimento comunitario» e «Quanto manca alla notte? Vivere da
cittadini in tempo di crisi»: il primo è il titolo generale del convegno, il secondo è il tema dell’intervento del sociologo Ilvo Diamanti. La corrispondenza fra meditazione
biblica sul difficile discernimento in tempo
di crisi e la lettura critica dei processi storici che interessano le comunità cristiane e
civili del paese si è sviluppato con coerenza
nei quattro giorni dell’incontro.
«Siamo una società di realisti che affermano ciò che non esiste»: la provocazione
di Diamanti denuncia l’utilizzo politico e
mediale di insicurezza sociale e sfiducia
verso le istituzioni. La paura e il sospetto
sono redditizi dal punto di vista del consenso politico e vengono alimentati a forza, grazie alla compiacenza dei media, con
una serie di identificazioni (insicurezza =
criminalità, criminalità = stranieri, stranieri =
altro da me) che rendono drammatiche
delle condizioni sociali considerate normali in altre nazioni europee. Il 70% degli italiani diffida degli altri, eppure allo stesso
tempo oltre il 60% della popolazione mette in atto attività altruistiche, centinaia di
migliaia di persone affollano le piazze per i
festival, tre milioni e mezzo di cittadini
hanno esposto la bandiera della pace. «Ci
stiamo rassegnando a ciò che non c’è e
non vogliamo riconoscere la luce che già
arriva» ha concluso il sociologo.
Resistere alle grandi tentazioni di sempre: è stata l’indicazione ripetuta nelle lectio di Enzo Bianchi. Contro la libido amandi che riduce gli altri a cosa, la libido possidenti che trasforma le cose in fine e la libido dominandi che con l’ostentazione di sé
pretende la sottomissione altrui, è necessario confermare la resistenza agli idoli con
l’opzione per gli ultimi, l’alleanza per l’umanizzazione, la coerenza di stile fra messaggio evangelico e comportamenti personali
e collettivi. Il pericolo per la Chiesa è di alzare muri fra sé e gli altri, paganizzando il
mondo, e di identificarsi impropriamente
con progetti mondani, sacralizzandoli di
fatto.
Per mons. Lorenzo Chiarinelli la paradossalità del vivere il Vangelo oggi si traduce nella scelta di cercare l’uomo (aver cura
dell’umano comune), di amare con un
amore più grande (nonostante l’ambivalenza delle situazioni), di camminare nella speranza (dentro le fratture epocali).
I semplici titoli delle assemblee tematiche indicano i luoghi di tensione e possibili
fratture: le politiche sociali; migrazioni e sviluppo; Chiese, povertà e ambiente; volti e
orizzonti del volontariato; bene comune e
stili di vita; periferie nelle città frantumate.
La crisi finanziaria ed economica è
scoppiata a livello mondiale con una «cacofonia» che interesserà varie generazioni.
Per il card. Oscar A. Rodríguez Maradiaga,
presidente della Caritas internationalis, ha
già schiacciato 150 milioni di persone sotto
la soglia della povertà e nei prossimi sei anni si prevede la morte di due milioni di
bambini (cf. Regno-doc. 11,2009,381). «La situazione peggiorerà anche per i paesi ricchi se ridurranno gli aiuti alla cooperazione
e adotteranno in casa misure populiste e
protezioniste», come ha fatto l’Italia che ha
«diminuito del 56% il suo aiuto all’estero
per il 2009. La percentuale più bassa da
vent’anni, lo 0,09% del PIL, nonostante le
promesse dello 0,7».
A tutti gli sperimentati strumenti di attenzione ai poveri la Caritas ha ora aggiunto la gestione del «Prestito della speranza»,
voluto dalla CEI per alcune vittime specifiche dell’attuale crisi economica, cioè quelle famiglie in difficoltà per la disoccupazione. Mons. Giampietro Fasani, economo
della CEI, ha presentato l’iniziativa sottolineando che è in capo alla CEI e all’Associazione bancaria italiana (ABI), che è indirizzata alle famiglie numerose, che è un fondo di garanzia (previsto in 30 milioni che diventano 180 per l’impegno delle banche)
con tassi d’interesse non superiori al 4,5%.
Per un anno o due la famiglia riceverà 500
euro mensili e potrà poi restituirli nell’arco
di 5 anni. L’iniziativa parte dal 1° settembre.
Nell’assemblea non è mancato un vivace
dibattito sui fruitori, sulla pertinenza dello
strumento Caritas, sul partner scelto (le
banche sono all’origine della crisi e non la
soluzione; perché non escludere almeno le
banche che investono in armamenti?). Le
risposte sono risuonate credibili, anche
quando mons. Fasani ammetteva la necessità di approfondimenti. Soprattutto è apparso evidente che i vescovi riconoscono
alla Caritas radicamento territoriale, credibilità ed efficacia. Erano decenni che non
accadeva in questa misura.
La Caritas 38 anni dopo
Ma che cos’è oggi la Caritas? A 38 anni
dalla nascita rimane invariata l’indicazione
statutaria di organismo pastorale per l’animazione della carità con funzione prevalentemente pedagogica; il suo radicamento
diocesano è totale; il suo ruolo largamente
riconosciuto; la qualità delle sue ricerche e
della sussidiazione assai apprezzata. Senza
però dimenticare i problemi. Mentre le prime generazioni dei direttori diocesani erano i leader naturali del clero, e oggi sono
sempre più facilmente dei diaconi e in parte anche dei laici che hanno più difficoltà a
relazionarsi col clero. La scomparsa dell’obiezione di coscienza e le drastiche limitazioni al servizio civile hanno impoverito la
presenza giovanile. Mons. V. Nozza, attuale
direttore, ha accennato nella sua convincente relazione finale anche a questi interrogativi che toccano il peso dei servizi, la
gestione burocratica, la delega alla carità
da parte delle comunità, la maggiore difficoltà alla denuncia, il rischio connesso all’amministrazione. Ciò non oscura il fatto
che la Caritas costituisca una fra le invenzioni più geniali della pastorale italiana e
uno dei luoghi di maggiore libertà e credibilità della Chiesa.
L. Pr.
1
Il convegno si è svolto a Lingotto di Torino e ha visto susseguirsi le relazioni di mons. G.
Merisi (prolusione), prof. I. Diamanti, mons. L.
Chiarinelli («Vivere da cristiani nel mondo: alla
ricerca dei segni di Dio nel tempo»), mons. G.
Perego («Animare attraverso il discernimento»),
mons. G. Fasani. Alle assemblee tematiche hanno partecipato: P. Fantozzi, M. Revelli, G. Battistella, F. Soulage, A. Bobbia, L. Prezzi, M. Ambrosini, R. Frisanco, L. Bruni, A. Smerilli, P. Cappelletti, M. Martinelli, R. Rauty. La tavola rotonda ha visto la presenze di: A. Chiara, L. Ciotti, E.
Olivero, D. Ricca, A. Sarotto. Le relazioni finali
sono state di V. Nozza e del card. O.A. Rodríguez Maradiaga. Le lectio sono state dettate da
E. Bianchi.
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I TA L I A
l
N
ella prossima Assemblea
generale della Conferenza episcopale italiana
(novembre 2009) andrà
probabilmente in discussione anche il nuovo rituale per le esequie che, approvato dai vescovi e «recognito» dalla Santa Sede, sostituirà l’attuale, pubblicato nel 1974. Senza entrare sui temi di fondo vi sono alcune discussioni e pratiche circoscritte che segnalano tuttavia mutamenti di rilievo
nelle consuetudini sociali sul morire. Fra
queste, la cremazione dei cadaveri e la
prassi, legittimata dalla legge n. 130 del
2001, di disperdere le ceneri o di custodire le urne in casa. Sono gesti compatibili con la memoria pubblica dei morti e
con i valori cristiani?
Mons. Mario Meini, vescovo di Pitigliano (Grosseto), ha scritto ai suoi preti
– citando il can. 1184 del Codice di diritto canonico e ampi brani del sussidio pastorale Proclamiamo la tua risurrezione
della Commissione episcopale per la liturgia – indicandole come «scelte contrarie alle fede cristiana» con la conseguente «privazione delle esequie ecclesiastiche». Più possibilista mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì: «Non
ha senso vietare il funerale a una persona che voglia disperdere le ceneri e che
intenda farlo non in una forma ostile»
alla fede (cf. La Stampa, 8.6.2009). Pochi
giorni dopo puntualizza la distinzione
fra decisione pastorale (mons. Meini) e
opinione personale (la propria), con un
pieno appoggio al vescovo di Pitigliano
pur ponendo l’accento sull’illuminazione della coscienza (cf. Avvenire,
20.6.2009). In un convegno della Commissione liturgica regionale dell’Emilia
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Pastorale delle esequie
a cremazione
Custodia delle urne e dispersione delle ceneri
Romagna (Imola, 1-2.6.2009; cf. Settimana, 21.6.2009, 3), mons. Adriano
Caprioli di Reggio Emilia ha manifestato la sua contrarietà a quelle pratiche,
mentre mons. Felice Di Molfetta, vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano e presidente della Commissione episcopale per
la liturgia, le considera censurabili, ma
non facilmente gestibili nel concreto lavoro pastorale. In una nota del 2005
l’Ufficio pastorale della diocesi di Bolzano ritiene la custodia delle ceneri in casa come non garantita sui tempi lunghi
e come una privazione, imposta alla comunità dei vivi, «della pubblica memoria di quanti ci hanno preceduto». Nel
sussidio della Commissione episcopale
per la liturgia Proclamiamo la tua risurrezione (2007) vengono considerate pratiche molto discutibili «che possono sottintendere motivazioni o mentalità panteistiche o naturalistiche». «Avvalersi
della facoltà di spargere le ceneri, di
conservare l’urna cineraria in un luogo
diverso dal cimitero o prassi simili, è comunemente considerato segno di una
scelta compiuta per ragioni contrarie alla fede cristiana e pertanto comporta la
privazione delle esequie ecclesiastiche».1
Scandali e competenze
Nell’ambito dei funerali, delle tombe, di cimiteri e del ricordo dei morti si
censiscono spesso comportamenti illegali. Un esperto ha ricordato nel convegno di Imola come sia urgente dare moralità al settore. In Lombardia ci sono
stati recentemente 61 arresti. I giornali
ricordano gli scandali delle esumazioni
a Torino nel 2004, a Roma nel 2002 per
favoritismi nell’assegnazione delle tombe, a Imperia nel 1999 per riciclaggio
dei loculi. Ma anche la cremazione è già
stata intaccata dalla corruzione. Nel
2007 si scopre nel crematorio di Massa
Carrara la pratica illegale di bruciare
più salme assieme, di rivendere gli effetti personali e gli addobbi dei feretri e di
consegnare ai parenti ceneri di altri
morti. Nei sotterranei si ritrovano 600
kg di ceneri (pari a circa 500 cremazioni) conservate alla rinfusa. Ma va anche
ricordato un progressivo affinamento
delle aziende di onoranze funebri, attraverso riviste, approfondimenti culturali,
cure estetiche, offerte differenziate (anche per gli animali domestici). Appuntamenti come la Tanexpo, l’esposizione
biennale internazionale di arredi, arte,
trasporti funerari, diventano luoghi da
seguire con maggiore attenzione anche
da parte dei pastori.
Fra le pratiche nuove in maggior crescita vi è appunto la cremazione e cioè
la consunzione del cadavere o attraverso
il fuoco o attraverso getti d’aria ad altissima temperatura. Tramontata la sua
proposta in funzione anticristiana in nome del positivismo ideologico della fine
dell’Ottocento, oggi la pratica sta prendendo piede. In Italia nel 1987 le cremazioni erano 3.600. Nel 2000 sono diventate 30.000, nel 2005 48.000, cioè
l’8,5% dell’insieme delle sepolture. Oggi
siamo a circa il 10%. Fra 40 anni si prevede di raggiungere il 30% e cioè
178.000 cremazioni. Per la dislocazione
dei 45 attuali impianti crematori il fenomeno è prevalentemente collocabile al
Nord (11% in Piemonte, 30% in Lombardia, oltre l’11% in Veneto ed Emilia
Romagna, 8,5% in Toscana, 10% nel
Lazio) e nelle città (Milano 70%, Bolzano 50%, Torino, Genova, Bologna
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Pagina
35%, Roma 30%). In Europa le cremazioni interessano circa il 35% dei defunti, ma sono il 71% in Gran Bretagna, il
76% in Cechia, il 67% in Svezia, il 68%
in Svizzera, il 48% in Olanda, il 39% in
Germania, il 31% in Belgio, il 15% in
Francia. Rispetto all’Italia è un fenomeno con una storia più lunga. La linea di
separazione è stata in parte ideologica
(forte presenza della cremazione nella
Germania dell’Est rispetto a quella dell’Ovest), in parte religiosa. Le società più
protestanti e laicizzate sono quelle più
inclini alla pratica. Il caso più evidente
riguarda l’ex Cecoslovacchia. In Cechia
siamo al 76%, in Slovacchia al 13%.
Ragioni per l’inumazione
Una pratica più lunga permette anche l’emergere di elementi imprevisti.
Come i traumatismi derivanti dalla visione dell’entrata dei corpi nel forno crematorio, o il semplice ascolto dei rumori del forno. Come le ribellioni dei parenti assenti, una volta disperse le ceneri, davanti all’impossibilità di riconoscere un luogo certo della sepoltura. Come
l’irritazione dei sopravvissuti nello scoprire che, dopo la cremazione, le ossa
più resistenti vengono sbriciolate con le
presse per renderle omogenee alla cenere. Come le proteste di quanti abitano
vicino ai crematori rispetto alla polluzione ambientale prodotta dai camini dei
forni e, in ogni caso, al difficile riciclo dei
filtri. Come l’assenza di riti che distendano nel tempo l’elaborazione del lutto.
Sociologi e psicologi sono sempre più
critici verso la custodia in casa delle ceneri. Significa confondere gli spazi dei
vivi e dei morti, col rischio di bloccare il
lutto in uno stato patologico e di esporre
la ceneri a violenze come le rotture casuali, il furto (nel caso di urne di valore)
o situazioni imbarazzanti (vendita dell’immobile o subentro degli eredi).
Elementi che danno un tono più relativo alle ragioni portate per la scelta
crematoria: non dare disturbo ai sopravvissuti, evitare la polluzione ambientale,
rifiuto del cimitero, costo del funerale,
risparmio di spazio, convinzioni filosofiche o culturali, mobilità, novità. La legittima sottolineatura della scelta personale sul dopo-morte si scontra con il sospetto del disprezzo del corpo, della
scarsa fiducia nei discendenti, di una
scelta per sé, ma non per i viventi. Le ragioni dell’inumazione (sepoltura in terra
451
o nei loculi) viene giustificata come più
adeguata alla dignità del corpo, più rispettosa dei sentimenti dei congiunti,
meno brutale rispetto al cadavere, più
compatibile coi riti e le cerimonie funebri. Ma essa contrasta con il problema
degli spazi nei cimiteri attuali.
La Chiesa cattolica ha sempre proposto l’inumazione come via privilegiata per la sepoltura. La sua opposizione
alla cremazione è scattata rispetto al positivismo ideologico (cf. il Codice di diritto canonico del 1917), ma già nel 1963,
pur continuando a raccomandare l’inumazione, si permetteva la cremazione
(istruzione del Sant’Uffizio Piam et costantem). Posizione recepita nell’attuale
Codice di diritto canonico (1983) e confermata nel Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2301) e nel Direttorio sulla
pietà popolare del 2002.
Sui casi specifici della custodia familiare delle ceneri o della dispersione in
luoghi anonimi le posizioni degli episcopati convergono nel considerarle non
apprezzabili, ma divergono in ordine al
ritenerle motivo per rifiutare o meno le
celebrazioni funebri.
I ve scovi
e il dopo-cremazione
La Chiesa francese in una nota della
Commissione episcopale per la liturgia
del 2001 chiede che la celebrazione funebre sia fatta in presenza del cadavere,
di accompagnare con la preghiera il
tempo della cremazione e della riposizione dell’urna in un luogo definitivo
(colombario nel cimitero o loculo o abitazione). Esclude un rituale per l’accompagnamento dell’eventuale dispersione
delle ceneri. Per offrire del tempo alla
decisione dei familiari in merito è divenuta prassi l’accoglienza delle ceneri per
un periodo prefissato in colombari custoditi nelle chiese (cappelle e cripte).
I vescovi statunitensi in una nota del
Segretariato per la liturgia del 1999, che
fa seguito a un precedente documento
(Riflessioni sul corpo, sulla cremazione e
sui riti funebri cattolici, 1998) e all’Ordinamento per i riti funebri, permette la
sepoltura in mare, ma scoraggia la pratica della dispersione delle ceneri in mare, nell’aria o sui terreni, come non corrispondente al rispetto che la Chiesa
chiede per i morti.
I vescovi del Canada, in una nota
del 2006, scrivono: «Spargere le ceneri
in mare, in aria, sulla terra o tenerle in
casa non dimostra un rispetto appropriato e la Chiesa non offre un servizio
di preghiera quando si sceglie questa tipologia». I vescovi del Quebec in una
lettera del 2005 sul «fine vita» confermano: «In virtù dello stesso rispetto dovuto alla persona umana e alla sua condizione corporea, ci pare sconveniente
che le ceneri siano gettate nell’acqua, disperse nell’aria o conservate in un luogo
privato la cui proprietà e uso potrebbero cambiare. Conviene piuttosto che siano deposte in un luogo pubblico, cimitero o mausoleo, assicurando così un luogo della memoria per le generazioni future. C’è infatti da chiedersi se certi gesti non tradiscano la perdita del rispetto
che l’insieme delle civilizzazioni, anche
primitive, hanno generalmente accordato ai propri morti».
Sempre di grande attualità è l’ampio
documento dei vescovi tedeschi sulla cura dei morti (cf. Regno-doc. 5,1995,135).
Fra i molti temi che tratta non dice nulla sulla dispersione delle ceneri, ma insiste su un fenomeno parallelo e cioè le sepolture anonime (senza accompagnamento dei parenti, senza nomi e riferimenti personali, senza alcuna possibilità
di riconoscimento). La pratica, nata in
Danimarca e fortemente in crescita nella Repubblica federale tedesca, era ampiamente praticata nella Repubblica democratica tedesca. Essa pone seri interrogativi all’intera cultura cimiteriale. La
Chiesa non rifiuta i riti liturgici così nel
caso della cremazione come nel caso
della sepoltura in mare o nelle sepolture
anonime, ma ne denuncia la radici romantico-panteistiche e la loro contraddizione rispetto all’idea cristiana della
dignità dell’uomo «come immagine di
Dio, come colui che è stato chiamato da
Dio per nome». Indicazioni che ritornano nel documento Seppellire i morti e
consolare gli afflitti (Regno-doc. 3,2006,
91), in cui si specificano i diversi casi della deposizione dell’urna cineraria. Per la
prima domenica di Avvento (29.11.
2009) diventerà obbligatorio in Germania l’uso del nuovo rituale per le esequie.
Alle spalle delle determinazioni pratiche – se e come fare le esequie in determinati casi – si aprono orizzonti di
grande significato: in teologia come sul
piano delle civilizzazioni e, più radicalmente, su quello della memoria.
«La morte può essere vinta soltanto
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perché non è originaria. Vi è qualcuno,
Dio, più primordiale e quindi più forte
della morte, che può sconfiggerla, anzi
che sicuramente la vincerà» (Regno-att.
4,2009,139). Lambire il tema della morte significa andare al centro della fede
cristiana: l’affermazione della presenza
di Dio e della risurrezione di Cristo.
L’opportunità di sottolineare la speranza della risurrezione è all’origine del sussidio edito dalla CEI e della revisione in
atto del rito delle esequie.
«Un popolo è giudicato da come
seppellisce i suoi morti»: l’assioma di Pericle attraversa la civiltà occidentale e interpella ogni civilizzazione. Anche secoli ateisti e anticristiani (come il Settecento) hanno custodito con cura il rilievo
culturale e civile dei sepolcri. L’espandersi delle dimenticanze dei morti, delle
sepolture anonime o della dispersione
delle ceneri prefigurano la riduzione dei
cimiteri a «non luoghi», a contenitori
privi di identità che riflettono e rilanciano la mancata identità della civiltà corrispondente.
«I milioni di morti delle due guerre
mondiali e della distruzione razzista, i
campi di concentramento e i cimiteri
militari, le tombe di massa e i morti rimasti per sempre senza sepoltura sono
diventati oggi lo sterminato contesto
dell’atteggiamento nei confronti dei
morti, ma anche della posizione che si
assume di fronte al morire, alla morte e
al lutto: la morte è stata resa ancora più
anonima e aliturgica; l’aspetto politico
della morte è diventato, dopo Auschwitz, una parte irrinunciabile del nostro modo di pensare, parlare e agire nel
senso di una cultura della memoria». Le
parole dei vescovi tedeschi (Regno-doc.
5,1995,139) trovano una verifica nelle
ferite ancora aperte dei cimiteri balcanici mai riconosciuti (cf. Regno-att.
12,2008,362). Privarsi della memoria significa privarsi del futuro.
Lorenzo Prezzi
1
L’interpretazione del passo citato ha già sollevato diverse riflessioni. In un caso relativo alla
diocesi di Aosta (gennaio 2008), il liturgista Silvano Sirboni ha interpretato il testo come un
«orientamento pedagogico». A favore della celebrazione delle esequie si è espresso anche il responsabile dell’Ufficio liturgico della diocesi di
Torino, don Paolo Tomatis. Illuminante per l’intera questione il saggio di G. CIOLI e C. NARDI,
«La dispersione delle ceneri dei defunti. Problemi
teologici, giuridici e pastorali», in Vivens Homo
(2009) 2 di prossima uscita.
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Italia
Cattolici
e battisti
Accordo sui
matrimoni misti
I
l 30 giugno, a Roma, è stato firmato il
Documento comune per un indirizzo
pastorale dei matrimoni tra cattolici e
battisti in Italia da parte del card. Angelo
Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), e della pastora Anna
Maffei a nome dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI). Si conclude
così un processo redazionale, nato sull’onda dei due documenti sui matrimoni misti
tra la Chiesa cattolica e la Chiesa valdometodista. I primi passi di questo documento si ebbero nel 2004 con la presentazione da parte dell’UCEBI di un primo testo
da sottoporre alla CEI per una comune riflessione, avviatasi nel successivo settembre 2005.
Il Documento comune si apre con una
premessa, si articola in quattro parti e si
conclude con una breve dichiarazione. La
prima parte parla di ciò che i cristiani possono dire «insieme sul matrimonio dal punto di vista teologico, malgrado le differenze e divergenze confessionali che ci caratterizzano», esprimendo i punti fondamentali sul matrimonio. Nella seconda parte si
descrivono le questioni ancora aperte, sulle quali non è stato possibile offrire alcuna
sintesi condivisa, dal momento che rimangono posizioni e prassi sul matrimonio diverse tra cattolici e battisti. La terza parte
affronta la dimensione pastorale del matrimonio, poiché «offre agli sposi appartenenti a confessioni cristiane diverse, alle
loro famiglie, nonché ai ministri delle due
comunità religiose, indicazioni e orientamenti circa la preparazione, la celebrazione
e la pastorale dei matrimoni interconfessionali». La quarta e ultima parte presenta i
contenuti e i tempi della preparazione, della celebrazione e le conseguenze del matrimonio interconfessionale.
Un iter laborioso
Al momento della firma del documento il card. Bagnasco ha ricordato che si
tratta della fine «di un iter laborioso, segno dell’attenzione e della cura che gli si è
dedicato, ma anche occasione di un’intensa e proficua collaborazione» tra la CEI e
l’UCEBI.
Dopo aver ricordato il pastore Franco
Scaramuccia «prematuramente scomparso
nel 2007, mentre i lavori della Commissione
erano ancora in corso», il cardinale è entrato nel merito del testo dicendo che non si
tratta di un compromesso al ribasso, ma di
un documento di carattere prevalentemente pastorale, che mette in evidenza ciò
che unisce cattolici e battisti «senza ovviamente sottacere o sminuire le differenze
dottrinali e disciplinari, che pure esistono».
I matrimoni misti rappresentano
«un’occasione quanto mai significativa per
ribadire l’importanza della famiglia fondata
sul matrimonio, cellula base della convivenza sociale e strumento incomparabile
di evangelizzazione». Per Bagnasco non
mancano i motivi di potenziale tensione in
una coppia interconfessionale, dall’educazione dei figli alla loro formazione religiosa, ai rapporti con le famiglie e le comunità
di provenienza. Con il documento firmato
si è voluto però trasformare questi motivi
di tensione nella vita della coppia «in occasioni feconde di crescita nella fede personale e di testimonianza di comune adesione e sequela dell’unico Signore».
Nella redazione del testo da parte cattolica si è tenuto conto dell’esortazione
apostolica Familiaris consortio (1981) di
Giovanni Paolo II, così come del Direttorio
per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo (1993) del Pontificio
consiglio per la promozione dell’unità dei
cristiani in modo da armonizzare questo
documento alla riflessione della Chiesa
cattolica sul matrimonio, anche da un punto di vista ecumenico.
Per la pastora Anna Maffei: «un piccolo passo verso la conoscenza, la comprensione reciproca e il servizio comune al
mondo è stato compiuto fra i cristiani in
Italia» che vivono un cammino ecumenico
creato dallo Spirito e alimentato dalla preghiera, che spinge all’unità della Chiesa.
Con questo documento battisti e cattolici
italiani hanno fatto sì che la differenza
confessionale che c’è e resta fra i futuri
coniugi non sia vissuta come un ostacolo
ma come un arricchimento, tanto che per
la pastora le Chiese dovrebbero essere
luogo di ascolto e di spinta verso la comunione, mettendo in evidenza tutto ciò che
unisce già i cristiani.
R. B.
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D
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Diocesi di confine
vescovi e le piccole patrie
B o l z a n o – Tr i e s t e – A o s t a
opo il processo di integrazione europea che
ha segnato la storia
del continente nel dopoguerra, sembra ora
iniziata una fase di dis-integrazione,
con una grave crisi dell’idea politica
di Europa e un riemergere di movimenti nazionalisti, di scomposizione su base etnica e di ripiegamento identitario.
Proseguendo la riflessione iniziata con
l’articolo «Cechia e Slovacchia. La
Chiesa e i due stati» su Regno-att.
10,2009,308, rivolgiamo alcune domande a tre vescovi italiani: mons.
Karl Golser di Bolzano-Bressanone,
mons. Eugenio Ravignani di Trieste e
mons. Giuseppe Anfossi di Aosta (da
sinistra nelle foto sotto).
Bolzano-Bre ss anone:
m o n s . K a r l G o l se r
– Nella lettera pastorale dei vescovi
del Tirolo (cf. quia p. 454) vi è un passaggio di pieno apprezzamento e di spirituale relativizzazione dell’Heimat
(patria). Perché oggi, all’indomani di
una votazione per il Parlamento europeo non particolarmente sentita, è così
rilevante declinare assieme le patrie locali con l’appartenenza all’Unione Europea (UE)? Stiamo forse sottovalutando la garanzia di libertà e di convivenza che l’Unione rappresenta?
«L’Unione Europea è sentita dalla
gente come un qualcosa di lontano dai
problemi della quotidianità, è vista soprattutto come un apparato burocratico. Come vescovi siamo invece convin-
ti che l’appartenenza all’UE, dove con
il Trattato di Schengen sono venute
meno le frontiere tra gli stati, sia l’antidoto al patriottismo nazionalistico. La
costruzione di un’Europa comune è un
cantiere continuamente aperto. Qui in
Trentino-Alto Adige/Sudtirolo si sente
ripetere spesso “siamo in Italia”, quasi
a dire che non sarebbe necessario per
gli abitanti di madrelingua italiana imparare e conoscere il tedesco. Sull’altro
versante, da parte dei partiti della destra tedesca viene nuovamente ripetuto il desiderio dell’autodeterminazione, intesa come riannessione all’Austria, o della creazione di uno stato indipendente. In questo contesto risulta
chiaro e necessario il richiamo ad
aprirsi a una visione europea del pre-
Mons. K. Golser.
Mons. E. Ravignani.
Mons. G. Anfossi.
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T I RO LO - F E STA
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DEL
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SACRO CUORE
La devozione e l’Europa
A
due secoli dal voto del popolo tirolese di celebrare
annualmente la festa del Sacro Cuore (1809), i quattro
vescovi dell’allora territorio della monarchia austriaca
(Trento, Bolzano, Innsbruck e Salisburgo) hanno scritto una breve, inusuale e significativa lettera pastorale in occasione della festa liturgica del Cuore di Gesù. Dopo le vittorie militari dei tirolesi al Bergisel (Innsbruck), il comandante
Andreas Hofer diede continuità al voto espresso dalla Dieta
tirolese nel 1796, all’apparire del pericolo dell’invasione delle
truppe bavaresi sostenute dalla Francia rivoluzionaria. La popolare devozione si fuse con l’istanza della libertà e dell’identità etnica.
La liber tà ieri e oggi
Nella lettera pastorale, una profonda radice storica e popolare viene visitata con l’intelligenza della fede e del presente. I sottotitoli indicano il contenuto: la festa del Sacro Cuore
di Gesù; il vero senso della libertà; libertà religiosa; libertà politica; il Sacro Cuore di Gesù, la patria e la pace. Fra gli elementi portanti vi sono: la libertà, l’identità etnica, la devozione.
Il richiamo alla libertà politica dalla Baviera introduce la riflessione sulla libertà oggi. Da un progetto di cristianità conservatrice si passa a una meditazione sulla libertà in una so-
sente, a guardare alla realtà dell’Europa, dove sono garantiti i diritti di tutti
i cittadini e dove l’appartenenza a un
determinato stato non è più così importante. Non esiste in Europa uno
stato in cui non ci siano delle minoranze etniche o linguistiche. La volontà di
convivenza, che parte dalla consapevolezza della propria identità che si
sente garantita e che è capace di riconoscere nella presenza di un altro
gruppo etnico un’occasione di arricchimento, diviene così un obbligo etico. Questo vale anche nei confronti
delle popolazioni immigrate che sono
arrivate nel nostro paese negli ultimi
anni».
– L’irrisione da parte di un laicismo di maniera per alcuni simboli cristiani può giustificare un identitarismo religioso che nega riconoscimento e
spazio alle altre fedi?
«Quanto più si è sicuri della propria identità religiosa, si conosce la
propria fede e la si sa raccontare e
spiegare a persone di un’altra fede o
anche a non credenti, tanto più facilmente si è disposti a riconoscere alle
altre fedi il loro diritto di espressione.
La protesta, invece, contro l’irrisione
della religione e di alcuni suoi simboli
da parte di un certo laicismo nasce
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cietà liberale. In un’omelia del predicatore del duomo di Bressanone (1799), J. Hepp, si indicavano i rivoluzionari francesi come «coloro che minacciano un pericolosissimo colpo di stato
sovvertendo i troni e desiderano alimentare la linfa dell’albero dell’anarchia sopra le macerie delle corone e degli scettri».
Il testo della lettera si interroga su cosa «possa voler significare libertà nel ventunesimo secolo. Libertà non significa fare e
lasciar fare tutto quello che uno vuole», ma rapportarsi alla
domanda sul senso della vita umana, sulle opere e gli impegni
che questo richiede. «In ultima analisi la libertà è orientata all’amore». Davanti a espressioni laiciste che si potrebbero indicare come cristianofobiche va difesa la libertà costituzionale
e la libertà di religione per tutti. «Libertà di religione significa
anche consentire alla Chiesa di impegnarsi, al servizio del bene comune, per i diritti di tutte le persone, compresi i bambini non nati, i diversamente abili, i malati e coloro che hanno
bisogno di assistenza».
Patria ed etnia
«Heimat» (patria) è l’espressione che nella lingua tedesca
riassume la consapevolezza, gli affetti e le relazioni dell’identità etnica e nazionale. Le trasformazioni e il significato per
dalla convinzione che ciascuna persona ha il diritto di essere rispettata nelle proprie convinzioni».
Tr i e s te :
mons. Eugenio Ravignani
– La dimensione spirituale e religiosa comune è spesso un prezioso patrimonio per superare conflittualità storiche particolarmente dolorose. Pensa
che nell’area di confine, in cui lei è pastore, questi decenni di pace siano stati
sufficienti per lenire le memorie conflittive? Come giudica il testo pastorale dei
vescovi del Tirolo?
«Ho molto apprezzato l’iniziativa
pastorale dei vescovi austriaci e italiani
dell’antico Tirolo. Vivo in una città e
diocesi, Trieste, posta ai confini. E non
posso dimenticare che nuovi confini sono seguiti ai tragici eventi della guerra
e del dopoguerra creando situazioni di
sofferenza e di divisione, di cui permangono ancora qua e là tracce anche
nell’azione pastorale. La fede cristiana,
nel rispetto della sua espressione in forme di religiosità di lingua e di tradizione diversa, è indubbiamente una forza
per sanare ferite non ancora rimarginate e creare una nuova più intensa comunione nella nostra realtà ecclesiale.
Ma anche con le Chiese oltre confine».
– I conflitti non risolti e le memorie
non riconciliate quanto pesano nell’azione pastorale concreta?
«Credo che a tal fine sia determinante la reciproca stima, la sincera
amicizia, un dialogo aperto e fiducioso
tra i pastori per dare vita a una comunione tra le nostre Chiese. Posso dire
che, proseguendo l’opera di chi mi ha
preceduto, ho la gioia di sentire
profonda e viva la fraternità dei vescovi della vicina Slovenia e della Croazia. Un cammino è stato fatto e fiduciosamente prosegue. Questo giova
pure a rendere ancor più sereno nella
diocesi il rapporto tra italiani e sloveni,
insieme con altre presenze minori, fratelli nell’unica fede e cittadini di questa
città».
A os t a :
m o n s . G i u se p p e A n foss i
– Il bilinguismo dell’area della
Valle d’Aosta, confermato nel dopoguerra dopo una stagione di monolinguismo sotto il fascismo, quale attenzione ha richiesto alla Chiesa locale? In
altri luoghi è stata necessaria una doppia struttura pastorale, mentre da voi
non mi risulta. Perché?
«Il bilinguismo valdostano non
esprime l’appartenenza a gruppi etnici
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l’oggi di quel concetto sono esemplificate nell’appartenenza
europea, nell’identità di una regione di frontiera, nell’apertura alle nuove presenze degli immigrati. È forse il passaggio più
delicato di fronte alla riemersione delle appartenenze etniche, ma anche davanti al rovesciamento del senso del «fatto
regionale». Nel contesto dell’Unione Europea il «fatto regionale» indica quelle aree di confine in cui si incrociano le appartenenze nazionali. Il legame continentale dovrebbe farlo
diventare luogo di vicinanza e confronto, mentre spesso, per
ragioni ideologiche o di interesse, è ancora proposto nella
vecchia accezione dell’identitarismo etnico contro gli altri e i
diversi, preferendo lo scontro muscolare al confronto progettuale. Per i vescovi bisogna valorizzare «il faticoso sforzo
dei popoli dell’Europa di unirsi gradualmente insieme e di abbattere le varie barriere», mentre la globalizzazione economica suggerisce di operare in modo «che anche persone di lingue e culture differenti possano sentirsi “a casa” in questa
nostra terra».
La devozione al Sacro Cuore appartiene a tutti i popoli e
a tutte le lingue e non solo alle «popolazioni tirolesi di lingua
tedesca e ladina». Essa è ricevuta con gratitudine e amore dalla tradizione e va alimentata nel senso di un maggior radicamento biblico, cristologico e morale. Il Sacro Cuore invita alla
meditazione del racconto della trasfissione (Gv 19,31-37). Fa
appello «al nostro cuore: ci invita ad aprirci, ad amare e a do-
diversi, ma ha radici nella storia del
popolo valdostano. Fino all’unità d’Italia (1861) i valdostani avevano come
loro lingua ufficiale il francese, mentre
usavano come lingua corrente e familiare il patois franco-provenzale (tuttora in uso e molto praticato). Bisogna
subito dire che il francese non venne in
Valle d’Aosta dall’esterno; è lingua
cresciuta in loco, parallelamente ad altre regioni, dal Medioevo in poi.
Pastoralmente era la lingua della
predicazione e della catechesi, dei documenti ufficiali dei vescovi e di tutte
le comunicazioni ecclesiali ai vari livelli. L’italiano si aggiunse solo dopo l’unità d’Italia (1861). A dire il vero, si
trattò di un’imposizione, particolarmente violenta durante il fascismo. La
Chiesa continuò ugualmente a utilizzare, almeno in parte, il francese. All’imposizione politica della lingua si
accompagnò anche la fortissima immigrazione da altre regioni d’Italia. Al di
là dei disegni politici a monte, la popolazione locale ha comunque sempre
accolto bene gli immigrati integrandoli nel proprio tessuto. Per questo motivo l’origine etnica diversa non ha di
fatto spezzato la continuità del popolo
valdostano.
Dopo la liberazione dal fascismo,
narci a lui, nostro Dio, e con lui trovare la pienezza dell’amore
e della vita». La centralità cristologica della passione («quel
volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo», Benedetto XVI) ci ha «aperto la possibilità di diventare uomini nuovi». Gli impegni per assicurare
«alla nostra patria un futuro» e per garantire la pace e la tutela dell’ambiente non nascono dal rigonfiamento malato di un
io collettivo localistico, ma dalla radicalità spirituale della fede nel Signore Gesù.
Alla presentazione del documento, il 9 giugno, il vescovo
di Bolzano-Bressanone, mons. Karl Golser, è stato sollecitato
a identificare nell’oggi un pericolo similare a quello di Napoleone. Non è ricorso né al laicismo, né alla burocrazia europea,
né al complottismo anticristiano. Nella crisi «c’è sempre il rischio che emergano personalità forti, c’è il pericolo del populismo». Forme nuove di «signoria» nazionale minacciano il progetto europeista come l’ethos popolare. Ed è significativo
che, oltre alla sua firma, ci siano anche quelle di mons. Luigi
Bressan, arcivescovo di Trento, di mons. Alois Kothgasser, arcivescovo di Salisburgo, e di mons. Manfred Scheuer, vescovo di
Innsbruck. Esempio di come un giudizio pastorale possa trarre
il meglio dalle «piccole patrie» e dalle spinte etnico-identitarie che attraversano non solo le Alpi, ma anche l’Europa.
il nuovo stato democratico riconobbe
ai valdostani il diritto di ricuperare la
loro lingua francese, ma i lunghi decenni di italianizzazione non erano
passati invano. Se le istituzioni pubbliche e la scuola usano il francese
per i documenti, le comunicazioni e
l’insegnamento, rimane vero che nella vita ordinaria prevale la lingua italiana. La Chiesa, da parte sua, segue
il ritmo e la lingua dei fedeli e per
questo motivo ha progressivamente
adottato in larga misura la lingua italiana. Con questo la diocesi aostana
non ha mai abbandonato le sue radici linguistiche. Vorrei ricordare che
furono spesso i parroci a tenere lezioni di francese ai propri parrocchiani
che durante il ventennio erano cresciuti senza poter studiare la lingua
dei loro padri.
Attualmente la Chiesa – senza
escludere celebrazioni totalmente in
francese qualora richieste dai fedeli o
consigliate dalle circostanze – privilegia un bilinguismo di fatto. La liturgia viene normalmente celebrata in
italiano, con l’uso del francese per
una parte della liturgia della Parola e
soprattutto per i canti, il cui repertorio è in gran parte francofono. Sono
state conservate molte preghiere tra-
L. Pr.
dizionali in francese e, spesso, nella
catechesi i bambini imparano ancora
le preghiere del buon cristiano sia in
italiano sia in francese. Per questi
motivi non abbiamo in diocesi una
doppia struttura pastorale».
– La tradizionale difesa di una
propria appartenenza etnica facilita o
complica l’accoglienza degli stranieri
che stanno arrivando fra noi?
«La tradizionale e giustificata difesa di una propria identità e appartenenza non crea problemi nel momento in cui gli stranieri, compresi
quelli extracomunitari, arrivano tra
di noi. Ciò è dovuto all’atteggiamento accogliente già vissuto e sperimentato con gli immigrati nostrani, e poi
alle ragioni che valgono in tutto il
nostro paese, come la necessità di coprire posti di lavoro abbandonati dai
residenti, ad esempio nei lavori turistici, nell’agricoltura, nell’edilizia e
nel servizio di assistenza a domicilio
di persone gravemente invalide. Il
numero molto alto di immigrati musulmani, in particolare marocchini,
pone come ovunque non pochi problemi d’integrazione e talora di assistenza».
a cura di
Lorenzo Prezzi
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STAT I U N I T I
o
I
Chiesa cattolica
bama e i vescovi
Dopo Notre Dame riparte il dialogo
Boston, 21 giugno 2009.
rapporti tra l’amministrazione
Obama e la Chiesa cattolica
statunitense stanno assumendo una fisionomia propria,
con riflessi significativi sui rapporti interni al cattolicesimo americano. Dopo le prime esitazioni e attese
(legate anche ai tempi della nomina, il
27 maggio, del nuovo ambasciatore
degli Stati Uniti presso la Santa Sede, il
teologo laico cubano-americano
Miguel Diaz),1 è cresciuta la capacità
della nuova amministrazione di interagire e di valutare le sfaccettature della
Chiesa americana.
Ma il caso dell’invito e del conferimento di un titolo honoris causa
dell’Università di Notre Dame al presidente Obama ha costituito una prova
per la coesione della Chiesa americana,
e la prova ha lasciato segni profondi. Di
fronte alle feroci contestazioni contro
Notre Dame provenienti da circa 80
vescovi, sulla base delle posizioni prochoice del presidente, la grande maggioranza degli ordinari e ausiliari delle 194
diocesi della Conferenza episcopale
USA (tra cui tutte le sedi cardinalizie, se
si eccettua Chicago, sede del presidente
della Conferenza, card. Francis
George) aveva scelto una linea più dialogante e ignorato gli appelli alla crociata anti-Obama lanciati da vescovi
convinti di dover combattere un nuovo
totalitarismo morale inaugurato dal
presidente appena eletto.
L’intransigentismo
e l ’ i so la m e n to d e l la C h i e s a
Fedele a una «bussola morale»
essenzialmente centrista e moderata,
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che lo rende impopolare sia nel Partito
repubblicano sia nell’ala più liberal del
Partito democratico, Obama aveva
ripetutamente lanciato, sia da candidato alla presidenza sia da neopresidente,
segnali di apertura sulla questione che è
la sola dirimente per le Chiese americane più intransigenti e nostalgiche dell’era Bush, vale a dire l’aborto.
La calda accoglienza riservata a
Obama il 17 maggio dai docenti e dagli
studenti di Notre Dame e il discorso del
presidente (ricco di riferimenti alle sue
esperienze personali con il cattolicesimo sociale nella Chicago del card.
Bernardin, ma non reticente nell’affrontare la questione dell’aborto e il suo
carattere lacerante)2 hanno fatto il resto
nell’isolare quella parte di episcopato
che ha parlato della necessità di muovere una «guerra culturale» contro la
Casa bianca.
Nelle settimane successive, le accuse lanciate da alcuni portavoce del cattolicesimo neoconservatore contro
L’Osservatore romano, a loro avviso
reo di «ignoranza» delle posizioni del
presidente sulle questioni di morale,
hanno reso ancora più evidente lo
stato della Chiesa americana e le sue
spaccature: spaccature esistenti non
tra Chiesa e amministrazione Obama,
ma all’interno dell’episcopato, tra i
vescovi e il laicato, tra la gerarchia e la
teologia cattolica.
Nei giorni precedenti l’assemblea
dei vescovi della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (USCCB;
San Antonio, 17-19 giugno) e gli editoriali dei periodici cattolici più diffusi
hanno dato voce al senso di malessere
per un’incipiente polarizzazione all’interno della Chiesa americana. È emersa chiaramente la sensazione che, più
che le posizioni pro-choice dell’amministrazione, siano l’elezione di Obama e
Biden e il sostegno che hanno ricevuto
dai cattolici ad aver «esasperato parecchi vescovi».3 Al di là delle posizioni
espresse da alcuni rappresentanti dell’episcopato nei primi mesi del 2009, il
caso di Notre Dame è stato analizzato
anche come un esame impietoso dell’atteggiamento dei vescovi americani
dell’era di Giovanni Paolo II.
La discontinuità e parzialità delle
posizioni di buona parte dell’episcopato
rispetto all’agenda sociale del cattolicesimo è risaltata in modo particolare con
la svolta dell’elezione del 2008, se si
tiene conto che nei tre decenni precedenti, durante gli anni delle amministrazioni dei presidenti Reagan e dei
due Bush, «i vescovi cattolici hanno tollerato politici che ignoravano o perfino
attaccavano il magistero sociale della
Chiesa in cambio di promesse, largamente non mantenute, di combattere
l’aborto».4
Il rifiuto dei vescovi più intransigenti e del cattolicesimo neoconservatore di
parlare con l’amministrazione democratica ha prodotto un isolamento non
solo rispetto alla Casa bianca, ma anche
rispetto a tutti gli altri attori sulla scena:
il laicato, l’elettorato americano, il
Vaticano. La retorica incendiaria usata
da alcuni vescovi è stata definita «una
minaccia alla credibilità della Chiesa» e
un impedimento alla sua possibilità di
essere una forza capace di produrre
cambiamento: «Dobbiamo trovare una
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via per alimentare un dibattito civile e
un dialogo su come incorporare e condividere i nostri valori in una società
pluralistica», e per questo i cattolici
guardano ai vescovi come coloro che
possono «aiutare a sanare le ferite della
divisione, e non aggravarle».5
I ve scovi
e il rischio polarizzazione
I vescovi sembrano aver colto la gravità della situazione, a giudicare dalla
cautela con cui l’assemblea della
USCCB a San Antonio ha trattato il
caso Notre Dame, evitando di riprendere la polemica e di inasprire i toni o
di comminare sanzioni contro
l’Università. Da più parti si moltiplicano gli appelli a recuperare un common
ground, un terreno comune che si basi
sullo «spirito del Vaticano II» e su una
visione di Chiesa capace di superare le
tensioni per aprire un confronto sulle
questioni sociali ed etiche.
Sembra ancora attuale la lezione del
card. Joseph Bernardin (1928-1996, dal
1982 arcivescovo di Chicago), che nei
primi anni Novanta (erano i tempi della
prima presidenza Clinton) aveva visto
una crescente polarizzazione tra individui, gruppi e organizzazioni all’interno
della Chiesa. Sulla base di un’interpretazione della Gaudium et spes che
impegna la Chiesa a essere socialmente
attiva come «componente essenziale del
suo ministero»,6 Bernardin aveva lanciato la «Catholic Common Ground
Initiative»: «Utilizzando gli insegnamenti del concilio Vaticano II come
base di dialogo, questo progetto intende
avvicinare persone di diverse prospettive alla ricerca di un “terreno comune”.
Lavorando all’interno dei confini del
magistero autentico della Chiesa, que-
sto progetto affronterà con fedeltà e
creatività la miriade di sfide che abbiamo di fronte come Chiesa e come
società».7
La polarizzazione ideologica all’interno della Chiesa non viene avvertita
come problema dai cattolici neoconservatori orfani dell’amministrazione
repubblicana,8 che si erano impegnati,
nel corso delle due decadi precedenti, a
dirottare l’agenda sociale della Chiesa
americana sull’esclusivo obiettivo di
un’abrogazione della sentenza della
Corte suprema «Roe versus Wade» del
1973.
Nonostante la forza organizzativa e
– in alcuni casi – la violenza non solo
verbale del movimento antiabortista
americano, al momento non esiste un
minimo di volontà politica necessario
ad avviare il dibattito per un’abrogazione della «Roe versus Wade», ed è
chiaro che solo delle politiche tese a
rafforzare la rete di tutele sociali per le
madri e le famiglie potranno limitare
l’enorme numero di aborti e tendere
ad azzerarlo.9
Obama ha promesso di agire in questo senso e di far avanzare il dibattito in
vista di un terreno comune, aperto alle
nuove sfide della convivenza civile. La
sua elezione ha aggiornato l’agenda del
confronto tra Chiese, società e politica
negli anni a venire: il terreno di dibattito etico e sociale in America si è già spostato sui temi della tutela della salute per
tutti i cittadini, dei diritti delle coppie
omosessuali e dell’immigrazione.
1
Diaz, nato a L’Avana nel 1963, docente
alla Saint John’s University a Collegeville in
Minnesota e già consigliere della campagna
elettorale di Obama, è membro del board
della Catholic Theological Society of
America, co-curatore di From the Heart of Our
People. Explorations in Catholic Systematic
Theology (Orbis, New York 1999) e autore di
On Being Human. U.S. Hispanic and
Rahnerian Perspectives (Orbis, New York
2001), premiato come migliore libro dell’anno
dalla «Hispanic Theological Initiative» al
Princeton Theological Seminary.
2
Cf. J.W. O’MALLEY, «Barack Obama
and Vatican II», sul sito web di America,
www.americamagazine.org, 25.5.2009. È da
ricordare anche il discorso di John T. Noonan
a Notre Dame sul rapporto tra cammino
della storia e sviluppo della visione morale
nella Chiesa e nella società, specialmente alla
luce dell’esperienza sociale e politica degli
Stati Uniti. Cf. anche Regno-att. 8,2009,239;
il testo del discorso è su Regno-doc. 13,2009,
453.
3
«Episcopal Vacancy», editoriale di
Commonweal 136(2009) 12, 19.6.2009.
4
«Obama and the Catholics», editoriale
di National Catholic Reporter, 9.6.2009.
5
«Community of Disciples», editoriale di
America 200(2009) 19, 22.6.2009, 5.
6
Cf. J. B ERNARDIN , «The Pastoral
Constitution on the Church in the Modern
World: Its Impact on the Social Teaching of
the US Bishops (Notre Dame, October 1,
1985)», in Selected Works of Joseph Cardinal
Bernardin, vol. 2, Church and Society, a cura
di A.P. Spilly, The Liturgical Press, Collegeville (MN) 2000, 148.
7
J. BERNARDIN, Catholic Common Ground
Initiative. Foundational documents, Crossroad
Pub., New York 1997, 47. Cf. anche Regnodoc. 17,1996,522.
8
Cf., per esempio, J. BOTTUM, «At the
Gates of Notre Dame», in First Things (2009)
giugno/luglio e «God and Obama at Notre
Dame», in The weekly Standard, 18.5.2009.
9
È atteso per l’estate un piano della Casa
bianca per un «terreno comune» sulle questioni legate alla difesa della vita: riduzione del
numero degli aborti, sostegno alla salute delle
madri, incoraggiamento delle adozioni.
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ricevuto in udienza da Benedetto XVI, 10 luglio 2009.
Massimo Faggioli
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Sri Lanka
Conflitto etnico
Né guerra, né pace
D
opo la guerra dimenticata, ora lo Sri
Lanka – o almeno una parte della
sua popolazione – rischia di dimenticarsi la pace. La decennale guerra civile
che ha contrapposto il governo di maggioranza singalese all’organizzazione nazionalista delle Tigri per la liberazione della patria
tamil (LTTE) è finita nella sua fase militare lo
scorso 17 maggio, e due giorni dopo è stata
annunciata l’uccisione del leader ribelle
Prabhakaran, e tuttavia la situazione continua a presentare gravi criticità e nessun segnale incoraggiante di pacificazione.
Verità da nascondere
Innanzitutto le condizioni dei profughi:1
quasi 300.000 civili, per la maggior parte tamil, spostatisi dalle loro abitazioni per sottrarsi al rischio delle operazioni di guerra e
rifugiatisi nell’area di Mullaitivu controllata
dal governo, si trovano in una situazione di
emergenza disperata. Sono concentrati forzatamente in campi sovraffollati gestiti dall’esercito; anche chi avesse parenti o amici
disposti a ospitarlo non può uscire.
Il successo militare, secondo più osservatori, è stato accompagnato da gravi violazioni del diritto umanitario internazionale
da entrambe le parti in conflitto. Secondo
le Nazioni Unite ai primi di maggio si potevano già contare 7.000 vittime civili, tra le
quali un migliaio di bambini, e le ultime due
settimane di battaglia ne hanno sicuramente accresciuto il numero. Tuttavia il divieto
posto dal governo al Comitato internazionale della Croce rossa di accedere alla zona
di guerra ha reso impossibile quantificare il
disastro. Anche nelle settimane successive
sono state imposte forti restrizioni all’attività delle organizzazioni umanitarie, delle
agenzie dell’ONU e della stampa. Il 9 luglio,
secondo un comunicato stampa della Croce rossa, il governo le ha chiesto di «ridurre
le operazioni» nel paese (che consistevano
sia in soccorso medico sia in assistenza legale per le denunce di rapimenti ed esecu-
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zioni extragiudiziali), dal momento che «sono terminate le ostilità». Vi è il fondato sospetto che l’amministrazione del presidente Mahinda Rajapaksa desideri limitare il più
possibile la circolazione di notizie sulla situazione effettiva dei profughi. Ma vi sono
anche altri sospetti.
Il 10 luglio il giornale britannico Times,
riportando addirittura la cifra di 1.400 morti
ogni settimana nel campo di Manik Farm,
ha riferito le parole dell’ex ministro degli
Esteri singalese Mangala Samaraweera, ora
passato all’opposizione, secondo il quale
«circola la voce che il governo tenti di modificare la composizione etnica dell’area».
Cinque medici dello Sri Lanka, che avevano
sostenuto di aver assistito a esecuzioni di
massa e che erano stati incarcerati con l’accusa di propaganda a favore dei tamil, hanno ritrattato le loro affermazioni in una
conferenza stampa. Sei preti cattolici, due
della diocesi di Jaffna e due oblati di Maria
Immacolata, sono tenuti in isolamento nei
campi profughi. Il vescovo di Jaffna ha chiesto il loro rilascio ai primi di luglio, senza ricevere risposta dal ministro della Difesa.
Molte persone sospettate di coinvolgimento con le Tigri tamil (che fino all’ultimo
hanno fatto massicci arruolamenti forzati,
anche di bambini, e hanno usato i civili come scudi umani) sono state separate dalle
loro famiglie e detenute per interrogatori,
spesso in località segrete. Vi è un ragionevole timore per la loro sorte: si parla di almeno 2.000 sparizioni dal 2006. In mancanza di liste dei «rifugiati» nei campi profughi
e di quanti sono detenuti per sospetto
coinvolgimento con le LTTE, è impossibile
sapere chi e quanti siano i dispersi.
L’inefficacia della
pre ssione internazionale
Un secondo motivo di preoccupazione,
dopo l’atteggiamento assunto dal governo
di Colombo verso la minoranza sconfitta, è
costituito dallo sfascio del sistema giudizia-
rio, che non è in grado di tutelare i diritti
umani e costituzionali.2 Invece di attenuare i
conflitti, le corti hanno corroso lo stato di
diritto e inasprito le tensioni etniche. Invece
di limitare la militarizzazione e tutelare i diritti delle minoranze, una magistratura politicizzata al seguito dell’ex presidente della
Corte suprema Sarath Silva ha favorito gli alleati fedeli, punito i rivali e bloccato i compromessi con la minoranza tamil. Una
profonda riforma del sistema e una revisione della legislazione d’emergenza appaiono
dunque essenziali per passare dalla sconfitta delle LTTE a una pace durevole che goda
del sostegno di tutte le comunità etniche.
Infine, ultima ma non meno grave considerazione, c’è da riflettere sul ruolo giocato
dalla cosiddetta «comunità internazionale»
nella partita.
La vittoria militare dell’esercito è stata
favorita da una politica di acquisto massiccio di armi, che ha avuto la Cina come principale fornitore, ma anche Israele, il Pakistan, la Russia e l’Ucraina. Questi ultimi due
paesi hanno armato imparzialmente anche
le LTTE. Ma non c’è dubbio che il maggior
investitore sia stata la Cina (27,8 milioni di
euro nel 2007), interessata a una presenza
strategica nell’oceano Indiano, tanto da sostituire il Giappone nel suo ruolo storico.
L’appoggio cinese al governo di Colombo è
stato prezioso anche sul piano diplomatico,
poiché è valso a bloccare nel Consiglio ONU
per i diritti umani la richiesta di verificare le
accuse di crimini commessi nella fase finale
della guerra.
L’appoggio di questi paesi non troppo
«fiscali» sui diritti umani può forse spiegare
perché il governo Rajapaksa abbia potuto
ignorare gli appelli rivoltigli in maggio dal
Consiglio di sicurezza e dall’Unione Europea
a fermare il bagno di sangue e a concedere
una tregua umanitaria. Peraltro tra i paesi
che hanno venduto armi allo Sri Lanka per 4
milioni di euro dal 2007 figurano anche Francia, Italia, Regno Unito, Cechia, Slovacchia,
Lituania, Bulgaria, Paesi Bassi e Polonia, a dispetto delle restrizioni imposte dal Codice
di buona condotta di cui l’UE si è dotata nel
2000.
Il momento nel quale il paese cerca di
ottenere dal Fondo monetario internazionale un prestito di 1,9 miliardi di dollari è anche il momento per far pesare la necessità
di fondare la ricostruzione sulla pacificazione, e quindi sul rispetto dei diritti della popolazione civile. Questo sarebbe possibile
se le ragioni della Realpolitik non fossero,
sempre e comunque, il criterio ultimo di decisione.
D. S.
1
Cf. Regno-att. 4,2009,97.
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Sri Lanka’s judiciary: politicised court, compromised rights. Asia
Report n. 172, 30.6.2009; www.crisisgroup.org.
2
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Honduras
Crisi istituzionale
Legalità incerta
L’
intervento con cui il 28 giugno l’esercito honduregno ha costretto a
salire su un aereo diretto in Costa
Rica il presidente della Repubblica Manuel
Zelaya e la successiva nomina di Roberto
Micheletti a capo dello stato ad interim da
parte del Parlamento hanno suscitato l’unanime reazione della comunità internazionale, che ha condannato il «colpo di stato» e chiesto l’immediato ritorno in carica
del «governo legittimo».
Divisa
la Chiesa
Assai più articolata, invece, la posizione
della Chiesa locale. Il 3 luglio la Conferenza
episcopale dell’Honduras (CEH) ha emesso
il comunicato Edificare a partire dalla crisi, affermando che «le istituzioni dello stato democratico honduregno sono in funzione e le loro sentenze in materia giuridico-legale sono state conformi al diritto. I
tre poteri dello stato (esecutivo, legislativo
e giudiziario) sono vigenti sul piano legale e
democratico secondo la Costituzione».
Come ha spiegato il card. Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, «non si è trattato di un golpe, perché i
passi compiuti sono quelli previsti dalla
Costituzione. Lo sarebbe stato se il capo
dello stato fosse un militare o fossero stati
sciolti il Parlamento o la Corte suprema di
giustizia». Secondo l’episcopato, infatti, Zelaya sarebbe automaticamente decaduto
dalla carica nel momento in cui ha proposto una riforma dell’art. 239 della Costituzione, che prevede la non rieleggibilità del
presidente della Repubblica, e i militari
avrebbero solo eseguito un mandato di
cattura spiccato nei suoi confronti dalla
magistratura per reati contro «la forma di
governo, tradimento della patria, abuso di
autorità e usurpazione di funzioni», anche
se i presuli hanno chiesto spiegazioni circa
la sua espulsione dal paese, vietata dalla
stessa legge fondamentale. Perciò hanno
sollecitato l’Organizzazione degli stati
americani, che ha sospeso l’Honduras dalle
proprie sessioni, a «prestare attenzione a
quanto avveniva al di fuori della legalità
prima del 28 giugno».
Il 1° luglio, tuttavia, mons. Luis Santos
Villeda, vescovo di Santa Rosa de Copán,
aveva reso pubblico un messaggio dal contenuto molto diverso: «Ripudiamo la sostanza, la forma e lo stile con cui al popolo è stato imposto un nuovo capo del potere esecutivo. Se il presidente Zelaya ha
commesso qualche illecito ha diritto a un
processo giusto come ogni cittadino. Il colpo di stato del 28 giugno ha provocato
proteste dei cittadini nelle strade, clima di
insicurezza e paura nelle famiglie per la limitazione delle garanzie costituzionali. In
particolare respingiamo il modo violento in
cui è stata zittita Radio progreso (emittente dei gesuiti, le cui trasmissioni sono nel
frattempo riprese, ma sotto stretto controllo dei militari; ndr), le detenzioni illegali, l’esilio di alcuni compatrioti, le persone
picchiate e ferite. Vogliamo ricordare ai 124
deputati del Partito liberale e del Partito
nazionale, responsabili del colpo di stato e
attualmente al potere, che non sono padroni dell’Honduras e nessuno può stare al
di sopra della legge. Se avessero regolamentato il plebiscito e il referendum, come
avevamo suggerito noi vescovi il 19 giugno,
non saremmo in questa situazione. Hanno
preferito essere fedeli ai gruppi economicamente forti, nazionali e transnazionali.
Speriamo che nelle prossime elezioni il popolo li castighi col voto». Il riferimento era
al comunicato con cui la CEH aveva affermato che «le consultazioni dei cittadini,
lungi dal provocare timore, vanno considerate un’importante risorsa di partecipazione politica, a patto che si realizzino nel
quadro della legge».
A far precipitare la crisi, infatti, era stata la decisione di Zelaya di chiamare gli
honduregni alle urne il 28 giugno in una
consultazione non vincolante, in cui i cittadini avrebbero dovuto esprimersi a favore
o contro l’indizione, in contemporanea con
le elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative del 29 novembre, di un referendum sulla convocazione di un’Assemblea costituente; questa avrebbe dovuto
elaborare una nuova Costituzione in sostituzione di quella redatta nel 1982 dall’ultimo dittatore, il generale Policarpo Paz.
La proposta era appoggiata dai movimenti sociali, con in testa il Consiglio civile
delle organizzazioni popolari e indigene
dell’Honduras (COPINH), ma osteggiata
dall’oligarchia tradizionale, che controlla le
istituzioni della democrazia elitaria honduregna. Zelaya ha sempre negato di volersi
ricandidare alla guida della Repubblica, il
che, peraltro, non sarebbe potuto avvenire
in novembre, visto che le prossime presidenziali si sarebbero svolte nel quadro dell’attuale Costituzione.
Rischio chavismo
Tuttavia, secondo i domenicani centroamericani, «la ristrutturazione dei criteri
di profitto delle compagnie petrolifere
transnazionali, l’importazione di medicinali
generici da Cuba a prezzi più bassi di quelli offerti dalla imprese farmaceutiche nazionali e straniere, la decisione di aumentare il salario minimo da 182 a 291 dollari, i
provvedimenti a favore dell’ambiente nei
confronti delle compagnie minerarie hanno causato profondo malessere in diversi
gruppi del settore privato, che li giudicavano contrari ai propri interessi». Il «pronunciamento sul golpe» dei religiosi sottolinea
che «l’alterazione dell’ordine istituzionale
in Honduras crea minacce non solo alla
convivenza pacifica e giusta nel paese, ma
anche al fragile sistema democratico della
regione» e invita a «rifiutare categoricamente il colpo inflitto all’ordinamento democratico honduregno e a sollecitare appoggio per la sua più rapida restaurazione».
Analoga l’analisi della Commissione dell’apostolato sociale dei gesuiti centroamericani.
I vertici episcopali hanno invece puntato il dito contro i legami tra Zelaya e il presidente venezuelano Hugo Chavez: il 25
giugno l’ausiliare di Tegucigalpa, mons.
Darwin Andino, aveva definito «illegale» la
consultazione voluta da Zelaya, sostenendo che «il paese non può essere consegnato al chavismo, perché vogliamo restare liberi e indipendenti». E il card. Maradiaga ha
poi dichiarato di aver «osservato in Honduras qualcosa che prima non esisteva, l’odio
di classe. Era la strategia dei consiglieri venezuelani di Zelaya. Chavez voleva imporci
a ogni costo il suo progetto totalitario».
Mauro Castagnaro
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Brasile
Riforma agraria
Delusione
Lula
L’
irrisolto problema della riforma agraria in Brasile ha compiuto lo scorso 4
giugno un passo avanti, che tuttavia
ha provocato una reazione decisamente
negativa da parte del Coordinamento nazionale della Commissione pastorale della
terra (CPT), l’organismo legato alla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile
(CNBB) che nei suoi 30 anni di vita ha svolto servizio tra i lavoratori agricoli. La «nota
pubblica» è stata divulgata il 9 giugno.1
Ha vinto l’agrobusiness
«Il Coordinamento nazionale della CPT
si unisce al clamore nazionale di fronte a
una nuova aggressione al patrimonio pubblico, all’ambiente e alla riforma agraria. Il 4
giugno 2009 il Senato federale ha approvato la Misura provvisoria 458/2009, che è già
stata approvata con alcune modifiche dalla
Camera dei deputati e che ora va alla firma
presidenziale. È la promozione della “baldoria del grilagem”, come è stato detto in maniera appropriata.
Con il sotterfugio della regolarizzazione
delle aree dei posseiros (piccoli contadini a
cui la legge riconosce il diritto di proprietà
su piccole aree di terre pubbliche o non utilizzate che essi abbiano coltivato per almeno 5 anni, ndt), prevista dalla Costituzione
federale, l’11 febbraio 2009 il governo ha
emesso la Misura provvisoria 458/2009 proponendo la “regolarizzazione fondiaria”
delle occupazioni di terre pubbliche dell’Unione, nell’Amazzonia legale, fino al limite
di 1.500 ettari. Tale regolarizzazione abbraccia 67,4 milioni di ettari di terre pubbliche
dell’Unione, cioè terre devolute già incamerate dallo stato e iscritte nei registri pubblici come terre pubbliche destinate dalla
Costituzione a programmi di riforma agraria. Così la Misura provvisoria 458, ora sul
punto di essere trasformata in legge, regolarizza possessi illegali. Beneficia, soprattutto, persone che dovrebbero essere processate per usurpazione di aree della riforma
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agraria, in quanto, secondo la Costituzione,
solo il 7% dell’area occupata da piccole proprietà fino a 100 ettari sarebbe passibile di
regolarizzazione. I movimenti sociali avevano proposto che la Misura fosse ritirata e
che al suo posto si presentasse un progetto
di legge, in maniera da avere il tempo per un
dibattito approfondito sul tema, prendendo in considerazione la funzione sociale
della proprietà della terra. Il governo federale, tuttavia, ha rifiutato qualunque discussione con i rappresentanti dei lavoratori dei
campi e della foresta.
Questa ufficializzazione del grilagem
dell’Amazzonia ricorda a molti la nefasta
legge sulle terre del 1850, che, elaborata
dall’élite latifondista del Congresso dell’impero e firmata da Pedro II, privatizzò le terre occupate. Oggi è un presidente repubblicano ed ex operaio a privatizzare e cedere
le terre dell’Amazzonia alle stesse mani che
se ne erano appropriate in maniera illegale e
persino criminale.
Questa proposta di legge, che è alla firma del presidente Lula, prepara il terreno
per l’espansione del latifondo e dell’agrobusiness in Amazzonia, per la gioia dei ruralisti. Per questo non è stata senza significato la riduzione, approvata dalla Camera dei
deputati, da dieci a tre anni del limite di
tempo entro cui le terre regolarizzate non
possono essere vendute a chi già possiede
altre proprietà e a persone giuridiche. Da
qui a tre anni nulla impedisce a una stessa
persona o impresa di acquistare nuove proprietà accumulando aree di qualunque dimensione. Così è avvenuto con le immense
proprietà costituitesi in Amazzonia, alcune
di oltre un milione di ettari, beneficiate dai
progetti della Sovrintendenza per lo sviluppo dell’Amazzonia.
Il trat to di penna
d e l p re s i d e n te
Per ironia del destino, Lula, che nel 1998
aveva affermato che, se fosse stato eletto,
avrebbe “risolto il problema della riforma
agraria con un tratto di penna”, invece di
realizzare la riforma agraria promessa, con
un tratto di penna ha proposto la legalizzazione di 67 milioni di ettari di terra grilada
in Amazzonia, un bioma che nell’attuale periodo di crisi climatica mondiale acuta deve
essere preservato per garantire la sopravvivenza del pianeta.
È lo stesso presidente che, in un’intervista rilasciata alla rivista Caros amigos, nel
novembre del 2002, diceva: “Non si giustifica in un paese, per grande che sia, il fatto
che qualcuno possieda 30.000 alqueires
(unità di misura di superficie agraria, ndt) di
terra! Due milioni di ettari di terra! Questo
non può trovare giustificazione in nessun
luogo del mondo! Solo in Brasile. Perché
abbiamo un presidente codardo, che resta
a contemplare la bancada ruralista in cambio di alcuni voti”. Lo stesso presidente che
ha finito per essere ostaggio di questo settore: peggio ancora, è ricorso alla senatrice
Kàtia Abreu, baluardo della bancada ruralista, nemica numero uno della riforma agraria, per l’approvazione della Misura al Senato. Aveva già ceduto alla pressione dei ruralisti approvando la legge sugli organismi
transgenici. Non ha attualizzato gli indici di
produttività stabiliti più di 30 anni fa: cosa
che avrebbe reso possibile l’accesso a nuove aree per la riforma agraria. Non si è impegnato nell’approvazione della proposta
di emendamento costituzionale 438/01 che
espropria le aree in cui si scopra lo sfruttamento di lavoro schiavo. Come se non bastasse, ha promosso alla condizione di “eroi
nazionali” gli usineiros (industriali della canna da zucchero, un tempo aspramente contestati da Lula, ndt) e ha definito come
ostacoli al progresso le comunità tradizionali, gli ambientalisti e i loro difensori.
Lula che, con il programma “Fame zero”
aveva avuto l’opportunità di realizzare un
ampio processo di riforma agraria, lo ha trasformato in una tessera del programma
“Bolsa familia”, che ogni mese concede
delle briciole a chi avrebbe potuto produrre da sé il proprio alimento contribuendo
ad alimentare la nazione.
I movimenti sociali del settore rurale,
compresa la CPT, stanno lottando da anni,
per una questione di saggezza e di buon
senso, perché sia posto un limite alla proprietà della terra nel nostro paese. Ma quello che vediamo è esattamente il contrario.
Cresce la concentrazione di terra, mentre
migliaia di famiglie continuano a restare accampate ai margini delle strade in attesa di
un insediamento che dia loro dignità e cittadinanza, poiché, come hanno giustamente affermato i vescovi e i pastori che hanno
sottoscritto il documento I poveri possederanno la terra, “la politica ufficiale del
paese è subordinata ai dettami implacabili
del sistema capitalista e appoggia e stimola
apertamente l’agrobusiness”».2
Il 10 luglio il procuratore generale della
Repubblica ha presentato al Tribunale supremo federale un ricorso di incostituzionalità contro la nuova legge.
D. S.
1
Da Adista Documenti (2009) 77, 11.7.2009.
Cf. anche Regno-att. 8,2006,224s e 16,2006,527 e
Regno-doc. 17,2006,581.
2
Regno-doc. 17,2006,581.
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ALGERIA
i
U
na delle vicende più
fiabesche dell’agiografia cristiana, narrata
da Gregorio di Tours,
Paolo Diacono e da Jacopo da Varazze nella Leggenda aurea,
ha per protagonisti sette giovani di Efeso che, perseguitati dall’imperatore Decio nel 250 e non volendo abiurare alla
propria fede, si nascosero in una grotta.
Vennero però scoperti e murati vivi.
Preparandosi a morire, si coricarono e
s’addormentarono per 200 anni, finché
un pastore non riaprì il muro alla ricerca di un rifugio per il proprio gregge e
si scoprì il prodigio che rafforzò negli
efesini la fede nella risurrezione. Ma a
quel punto i dormienti morirono e nella grotta furono sepolti.
Nota sia in Oriente sia in Occidente, questa storia ha lasciato molte tracce: innanzitutto nel Corano, dove la
Sura della caverna afferma – tra l’altro
–: «Quando quei giovani si rifugiarono
nella caverna, dissero: “Signor nostro,
concedici la tua misericordia, concedici retto comportamento nel nostro agire”» (Al-Kahf 18,10); in Egitto, dove
Tawfiq al Hakim ne ha scritto una versione teatrale nel 1933; in Algeria,
dov’è ambientato il racconto I sette
dormienti della caverna di Azzefoun,
riportato dal missionario francese Auguste Mouliéras nel 1893.
Il «sonno» dei sette dormienti ha
ritrovato poi anche ai giorni nostri
nuovi interpreti, che hanno sbalordito
i contemporanei con la loro testimonianza di vita. Sono i sette religiosi
trappisti del monastero di Tibhirine, rapiti nel marzo 1996 e uccisi due mesi
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Dialogo islamo-cristiano
l martirio e i suoi frutti
Nel solco dei sette dormienti di Tibhirine
dopo, i cui funerali sono stati celebrati
nella cattedrale di Nostra Signora d’Africa ad Algeri il 2 giugno dello stesso
anno (cf. Regno-att. 8,1996,216;
12,1996,361; Regno-doc. 13,1996,429).
Della vicenda si è scritto molto e
probabilmente si scriverà ancora, se
non altro perché il procedimento giudiziario aperto in Francia nel dicembre
2003 dalla famiglia Lebreton (la famiglia di p. Christophe, il più giovane del
gruppo) assieme all’allora procuratore
generale dei cistercensi, padre Armand
Veilleux (che volle fermamente riconoscere i cadaveri; di qui la scoperta che
nelle bare erano state poste solamente
le teste dei monaci), sembra confermare proprio in questi giorni ciò che lo
stesso Veilleux ha più volte dichiarato (a
Le Monde nel 2003 e a La Stampa nel
2008): che cioè secondo fonti qualificate i monaci sarebbero stati uccisi «per
errore» durante una sparatoria dall’esercito algerino. Per questo i corpi non
sono stati consegnati integri per la sepoltura. Ciò era noto al generale Buchwalter, all’epoca dei fatti di stanza
presso l’ambasciata francese ad Algeri
e che è stato ascoltato a fine giugno
dalla magistratura.
Era noto però anche a un’altra persona che per questo avrebbe pagato
con la propria vita: mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano, ucciso da una
bomba due mesi esatti dopo i funerali
dei monaci (cf. Regno-att. 16,1996,487;
Regno-doc. 17,1996,538), tornando da
un’improvvisa visita ad Algeri per parlare con l’allora ministro degli Esteri
francese Hervé de Charette (cf. Le Figaro 5-6.7.2009; La Croix 7.7.2009).
Amare ciò che l’altro ama
Ma l’importanza della vicenda dei
sette monaci non è tanto legata alla verità sulla loro morte, che pure non è un
dato marginale. Dice infatti p. Veilleux
a giustificazione del suo ricorso alla giustizia francese: «Voglio perdonare, ma
prima voglio sapere chi». Inoltre la loro
scomparsa si aggiunge a quella degli altri religiosi e religiose e dei tantissimi algerini durante l’apice dell’ondata terroristica, nella seconda metà degli anni
Novanta.
Ciò che più sbalordisce è che a partire da quelle morti si è dischiuso un patrimonio di vita spirituale vissuta nel
quotidiano, caro non solo al mondo cattolico, ma anche a quello musulmano, o
semplicemente algerino. Questo è il
frutto più importante di quel martirio,
afferma mons. Teissier, arcivescovo
emerito di Algeri, di passaggio in Italia.
Un frutto ricco di promesse.
Innanzitutto perché il loro martirio
è stato percepito come una ferita per
tutta l’Algeria. Ne è testimonianza l’idea avuta dall’artista algerino – di famiglia e formazione sufi –1 Rachid
Koraichi e da Hubert de Chergé – che
a partire dalla morte del fratello Christian (il priore di Tibhirine) ha dedicato la propria vita al dialogo islamo-cristiano –: quella di preparare un volume in memoria dei monaci, scritto in
sette parti e intitolato Le sept dormants
(Actes Sud, Paris 2004; prefazione di
mons. H. Teissier).
Artisti tra loro molto eterogenei
quanto a credo religioso e a formazione culturale (John Berger, 16h45, peloton d’exécution; Michel Butor, Le lai
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de sept dormants; Hélène Cixous, Chemin de choix; Sylvie Germain, Stèles
des sept dormants; Nancy Huston,
Coupe; Manguel Alberto, Sept dormants; Leila Sebbar, Elle est assise contre la pierre et elle crie) hanno proposto
una riflessione, accompagnata dalle
incisioni di Koraichi, dopo aver letto il
testamento spirituale di p. Christian
(Regno-doc. 13,1996,429). Alla presentazione del volume nel 2005 l’attore
chiamato a declamarne alcuni brani
presso l’abbazia di Aiguebelle (in Francia), da cui dipendeva quella di Tibhirine, ha dichiarato che «è stato importante in quanto algerino manifestare la
propria rabbia e la propria vergogna»
per l’assassinio. «Rabbia perché si tratta di un crimine abominevole e vergogna perché è stato commesso in nome
dell’islam e di un popolo preso in
ostaggio… È un po’ come una confessione in cui si esprime la propria colpa.
Io mi sento responsabile di ciò che è
accaduto».
In secondo luogo il martirio dei monaci sembra dischiudere una promessa
perché il tratto spirituale dell’incarnazione nel quotidiano che vive nell’amore del prossimo anche quando questi è
di altra fede è stato percepito a partire
dalla notorietà del testamento spirituale
di p. Christian.
Per questo è stato pensato di rendere disponibile al più vasto pubblico
questo patrimonio, mettendo in luce
uno stile comunitario che legava assieme la vita del priore con quella di p.
Luc, il medico dal volto burbero, di p.
Christophe, il poeta e giardiniere; di p.
Paul, semplicemente l’abile meccanico, di p. Michel, affascinato dai testi di
spiritualità sufi; di p. Celestin, da sempre a servizio dei più umili; e infine di
p. Bruno, monaco in Marocco, in visita al monastero.
È nata quindi l’idea di pubblicare i
testi dei monaci presso un unico editore. Così il 2 giugno scorso nella sede
della Conferenza episcopale francese,
alla presenza dell’arcivescovo di Algeri,
mons. Ghaleb Bader, p. Philippe Vanneste ocso, direttore editoriale di Bellefontaine, ha tenuto a battesimo la collana «Tibhirine». L’editrice Bellefontaine, nata nel 1968 nell’omonima abbazia cistercense trappista su impulso di p.
Placide Deseille per far conoscere ai
monaci e alle monache i testi spirituali
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del monachesimo, specialmente di matrice orientale, lavorerà in accordo con
l’Associazione per la protezione e la
proprietà degli scritti dei sette monaci
della comunità di Notre Dame de l’Atlas, di cui fanno parte i familiari dei
monaci e i rappresentanti delle tre comunità da cui essi provenivano (Bellefontaine, Tamié e Aiguebelle).
L’idea di fondo – ha detto – è che da
un monastero sperduto in mezzo alle
montagne algerine si è dischiusa una tale ricchezza spirituale da non poterla
più tenere nelle sue mura. «Non si tiene
una lampada sotto il moggio», ma in alto perché faccia luce.
Nostri fratelli comuni
La spiritualità dei monaci di Tibhirine era «incarnata», così quotidiana
che nessuno di essi prima della morte
aveva mai pubblicato un libro. «Si tratta dunque di un retaggio familiare, intimo». Ci sono commenti alla Parola e
omelie, testi dei capitoli della comunità,
prediche per esercizi spirituali, corrispondenza.
Sono testi ordinari che esprimono
«l’amore per Dio e per il suo popolo
(…) che si manifesta attraverso un rispetto infinito, che è più grande di una
semplice simpatia. Il “ti amo” che comprende tutto ciò che anche l’altro ama.
E questo attraverso il dono del proprio
tempo, della propria preghiera profonda, della propria vita sino al dono del
proprio sangue».
Sono testi che parlano del percorso
di «ciascuno nel dono della propria vita» e della «formazione di un gruppo di
uomini che vivendo insieme diventano
comunità che si offre nell’amore».
Nella serie «Paroles» della collana
vedranno la luce come primi tre titoli le
relazioni ai capitoli della comunità e le
omelie di padre Christian de Chergé e
le omelie di p. Christophe Lebreton. La
serie «Presence» verrà inaugurata dalla
teologa svizzera Marie-Dominique Minassian con uno studio su p. Lebreton.
Ma l’operazione editoriale, ha precisato Vanneste, non vuole avere «la
funzione di preparare il processo di
beatificazione dei nostri fratelli. C’è
una commissione e sono stati compiuti studi precisi. Vorrei poi ricordarvi
che i monaci non sono stati i soli a essere uccisi. Ci sono 19 religiosi e religiose provenienti da numerose e diver-
se congregazioni… È stato deciso di
comune accordo che o tutti i 19 insieme saranno un giorno canonizzati oppure nessuno. È la Chiesa intera che
attraverso questi uomini e donne è stata attaccata, così come l’Algeria» attraverso tutte le sue vittime.
Una Chiesa intera, un popolo intero: da un’esperienza di minorità in terra musulmana prende forma una
«Chiesa degli incontri», uno stile per la
Chiesa, uno stile per il dialogo islamocristiano. In questo senso è da ricordare
anche un’altra recente iniziativa artistica, rappresentata per la prima volta a fine maggio nella cattedrale di Valence
(Francia): un oratorio per coro e solisti,
che riprende nel titolo «Les sept dormants» – testi di Yves Letort, ispirati al
contributo di S. Germain tratto dal volume omonimo; musica di Dominique
Joubert – la tradizione di santità dei primi secoli cristiani e non, rielaborandola
attraverso la vicenda di Tibhirine.
Dopo aver assistito alla rappresentazione, così ha scritto il vescovo emerito
di Valence, mons. Didier-Leon Marchand: «Monaci di Tibhirine, nostri
fratelli comuni a cristiani e musulmani e
a tutti gli uomini di buona volontà. Voi
siete i sette dormienti sempre vivi e più
vivi che mai. Voi testimoniate un Dio
più grande delle nostre differenze e che
porta il bel nome di “amore”.
Monaci di Tibhirine, svegliatevi,
uscite dalla caverna della morte per essere testimoni viventi del nostro unico
Dio e per essere nel mondo i segni eloquenti dell’Amore senza i quali non vi è
umanità capace di amare, e pertanto di
esistere».
Maria Elisabetta Gandolfi
1
Il sufismo in Algeria è corrente minoritaria
dell’islam; tuttavia a partire dagli anni della violenza terroristica sempre più persone si sono riavvicinate alla corrente. Recentemente sono stati riscoperti gli scritti spirituali di uno dei padri fondatori del paese, Abd el-Kader. Il sufismo si sta
inoltre diffondendo in Francia, grazie a piccole e
varie iniziative: il movimento legato ad Azzedine
Gaci, presidente del Consiglio regionale Rodano- Alpi per le relazioni con l’islam che nel decimo anniversario del martirio dei monaci ha organizzato un pellegrinaggio islamo-cristiano a
Tibhirine; l’attività di Mouna Mohamed Chérif,
islamologa membro del Gruppo di ricerca islamo-cristiano, impegnata nell’inserimento dei giovani musulmani immigrati in Francia; l’associazione Terres d’Europe, fondata da Betoule
Kekkar Lambiotte; gli Scouts musulmans de
France, fondati nel 1998 da Khaled Bentounès.
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Libera e presente
La Chiesa nella società secolarizzata
N
el suo ultimo volume Libera e presente. La Chiesa nella società secolarizzata il vescovo di Angoulême, mons. Dagens, apre un discorso lineare, concreto e molto stimolante
sulla vita della Chiesa in Francia.1
Il lettore potrebbe pensare che tale
riflessione riguardi quella Chiesa, riferendosi dunque a un preciso contesto di
condizioni civili, culturali, ecclesiali che
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non riguardano il contesto italiano. Il testo che abbiamo davanti, invece, è adatto a suscitare anche nella Chiesa italiana
una riflessione e, se possibile, un dibattito. Infatti il lettore, pur vivendo in condizioni ecclesiali proprie e per molti versi
non paragonabili a quelle della Chiesa
francese, si trova tuttavia di fronte a un
libro significativo e utile per i pastori e
per quanti sono impegnati nella vita delle comunità cristiane.
Un libro significativo
L’autore, in modo sorprendente,
chiama san Gregorio Magno (540-604)
«mio maestro e amico» (p. 96), e in quest’opera egli attualizza la Regula pastoralis, manuale del perfetto sacerdote, nel
quale il grande papa-pastore unisce alla
religiosità ascetica una chiara visione
dell’attività necessaria al vescovo come
rector animarum. Questa nuova Regula
pastoralis è frutto di una profonda esperienza cristiana di un pastore che desidera comunicare la sua passione sacerdotale alla Chiesa di oggi. Il punto di partenza è l’invito a non lasciarsi condizionare
dai sondaggi che mettono in evidenza la
situazione di minoranza numerica e di
debolezza culturale della Chiesa nel
mondo moderno. L’insistenza è, invece,
posta sull’urgenza per la Chiesa di riscoprirsi viva e sulla necessità che essa annunci la ricchezza di ciò che le è dato,
traendo coerentemente da ciò il metodo
e il giudizio sul valore dei mezzi scelti
per una pastorale autenticamente cristiana.
Dal momento che il fine della pastorale è la costruzione della Chiesa, l’autore in tutto il libro invita a comprendere
che la Chiesa «è chiamata a far vivere
ciò che riceve da Dio» (26) perché «il
cuore della Chiesa è il mistero di Cristo»
(27). L’autopercezione che la Chiesa ha
di se stessa è determinante per la sua
presenza nel mondo e per tutta la sua attività di evangelizzazione, che non si può
mai ridurre a una strategia, intesa come
un’operazione calcolata per la quale occorrerebbe determinare in anticipo i risultati da ottenere e i mezzi da attuare.
Con la passione del pastore che ama la
Chiesa, l’autore ci ricorda che «la Chiesa nella sua struttura e nel suo dispiegamento poggia interamente sul mistero
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del Dio vivente rivelato in Gesù Cristo»
(57). «La Chiesa crede, ama e prega perché il dono di Dio sia rivelato e comunicato a tutti i popoli della terra. La sua
vocazione permanente, la sua missione
essenziale consiste nell’aprire nel mondo
le strade dell’incontro con Dio, vivendo
lei stessa di questo incontro e non dimenticando mai che il suo centro e il suo
cuore non si trovano in lei, ma in lui, il
Signore» (76). «La Chiesa vive della rivelazione di Dio e la nostra partecipazione
alla missione della Chiesa è dunque inseparabile da questa rivelazione» (62).
A questo punto, quindi, non si può
sfuggire alla domanda fondamentale:
«Dunque chi è Dio per noi credenti? (...)
In che cosa consiste la novità cristiana o
giudeo-cristiana di Dio, di cui siamo
chiamati a divenire i testimoni?» (62). E
la risposta è: «Occorre, con tutta urgenza, liberare la novità di Dio da tutto ciò
che la copre o la corrode dall’interno»
(62). «Dio è innanzitutto il Dio dell’alleanza. (...) Egli è aperto agli uomini e legato agli uomini a partire dal popolo di
Israele. Egli è l’Emmanuele, Dio con noi
per sempre» (62). «Il punto culminante
(...) di questo movimento di unione porta il nome di Gesù (...) Dio è dunque divenuto per sempre più umano di noi, fino a perdersi nella nostra umanità, fino
a identificarsi con gli umiliati di questo
mondo» (62-63). Il cuore della Chiesa è
dunque questo mistero di Dio che si è reso presente in Gesù Cristo; la Chiesa vive della sua «fedeltà incrollabile al Cristo
(...) e ne è il “sacramento”, cioè il segno
sensibile, efficace, a volte discreto e persino nascosto, ma con l’incarico di manifestarlo al mondo, con parole, silenzi, gesti, azione, preghiera e anche lotte e sofferenze» (27).
Da questo discendono il senso e la
qualità della missione della Chiesa: «La
sua natura sacramentale è totalmente
determinata dalla sua apertura a questo
mistero. La sua missione consiste nel lasciare trasparire questo mistero attraverso le sue parole, i suoi gesti, i suoi riti, i
suoi silenzi e le sue lotte» (57).
Un momento di grande rilevanza
nella riflessione proposta è quello in cui
l’autore fa comprendere che la missione
della Chiesa arriva sino a lasciar trasparire «l’impegno di Dio di fronte alla potenza del male. Colui che si rivela attraverso la croce del Cristo, non è innanzitutto il nemico del male. È colui che vi si
espone totalmente, fino al più profondo
della violenza e della morte. Ecco la no-
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vità cristiana in ciò che essa ha di radicale e senza dubbio di scandaloso: Dio si
prende il rischio, in suo Figlio, di assumere tutto su di sé della nostra umanità,
e anche ciò che la sfigura. Non possiamo
più credere in Dio come a una forza superiore che s’imporrebbe dall’esterno. È
divenuto per noi colui che viene a vivere
e a donare la sua vita dal di dentro stesso di ciò che ostacola e distrugge la nostra esistenza» (65). Se la teologia ci insegna che la Chiesa è il «sacramento» di
questo mistero, dobbiamo sottolineare
che «il mistero profondo e personale della Chiesa è un altro aspetto che abbiamo
dimenticato, mentre fa parte della grande Tradizione cristiana: la Chiesa è un
popolo in pellegrinaggio attraverso la
storia degli uomini e dei popoli. Tutto il
contrario di un blocco immobile: non solo partecipa ai cambiamenti del mondo,
ma è lei stessa in marcia verso il regno
del Padre e in lei si iscrive in permanenza questo passaggio essenziale che si
compie nella pasqua di Gesù» (53).
Da questo prende senso anche la
missione del vescovo e, per quanto gli
compete, di ogni cristiano: «Questa è la
nostra missione essenziale di apostoli:
condurre a questo cuore della Chiesa, il
Cristo vivo, consegnato, dato, ed è possibile che non arriviamo mai a condurre a
lui se non partecipando alla vita, alle lotte, alle prove del suo corpo attuale e mistico, la Chiesa» (27).
E non ci si improvvisa apostoli: «È
un lavoro permanente di educazione che
ci attende, se vogliamo imparare o reimparare la percezione nello stesso tempo
contemplativa e storica della Chiesa: all’interno delle realtà sempre mutevoli del
tempo presente, all’interno anche delle
fragilità o delle sclerosi delle nostre istituzioni e delle nostre strutture, l’amore del
Padre, la pasqua di Cristo, l’energia dello Spirito Santo sono all’opera» (54).
La missione della Chiesa richiede
sempre una riforma delle strutture senza
dimenticare tuttavia che «non può esserci rinnovamento della Chiesa senza la solidarietà intima con Gesù Cristo che
muore e risorge» (66). E questa solidarietà è molto più viva di quanto noi pensiamo, anche in chi ne sembra lontano...
«noi stessi, in certe ore che restano segrete, sappiamo bene che ci è dato di essere
intimamente immersi nella pasqua di
Cristo, attraverso ciò che sembra distruggerci e che può suscitare in noi come delle rinascite, o delle prese di coscienza
nuove della nostra identità cristiana!»
(66). Le riforme di strutture nella Chiesa
«devono essere al servizio della sua vita e
della sua missione ed è sempre utile esaminare questo rapporto essenziale tra le
istituzioni ecclesiali (...) e ciò che esige il
compimento della missione cristiana nei
tempi che sono nostri» (69).
L’intenso messaggio di un pastore
profondamente afferrato da Cristo e dalla Chiesa è espresso mirabilmente nella
preghiera con cui si chiude il libro, che
raggiunge il suo vertice nell’invocazione
che riecheggia quella di Cristo in croce:
Padre, mi abbandono a te. Mi rimetto tutto a te!
Un libro utile ai pastori
e agli operatori pastorali
Per leggere con frutto il libro, cogliendo le similitudini e le differenze tra
la Chiesa francese e quella italiana e lasciandosi interrogare da esse, mi sembra
occorra tener vive due attese presenti
nella sensibilità di ogni credente. La prima: chi ha a cuore la vita della Chiesa
cattolica desidera conoscere gli slanci o
le ricchezze che in ogni Chiesa sorella si
esprimono e ha passione per ascoltare le
sofferenze e i problemi che la travagliano. È questo interesse che consente di
approfondire la propria vocazione di
membra dell’unico corpo di Cristo.
La seconda riguarda l’esperienza positiva del confronto. Una vita di comunità si comprende meglio nelle sue positività e nei suoi limiti proprio attraverso
la lettura comparata dei fatti che la compongono e delle scelte che la qualificano.
Per quanto riguarda due Chiese nazionali, il procedimento del confronto è
fruttuoso per capire se stesso e l’altro.
Certo, occorre avere l’avvertenza di ricordare quali sono gli elementi che hanno chiesto a ogni Chiesa locale di far
emergere le proprie caratteristiche. La
storia l’ha segnata e lo Spirito l’ha plasmata, facendo emergere delle sensibilità
proprie, delle precise eccellenze spirituali, delle fatiche e delle sfide che sono specifiche di quel territorio, della storia vissuta, della cultura che vi si è sviluppata.
Chi coltiva queste due sensibilità vive l’interiore disponibilità a conoscere
più da vicino, anche solo mediante la lettura di un libro, una comunità cristiana
diversa da quella in cui vive. La disponibilità a cogliere assonanze e dissonanze
con la propria esperienza di Chiesa è
sufficiente per trovarsi arricchiti di stimoli nuovi. Si è posti nella condizione di
riflettere sulle ragioni di stili cristiani o di
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priorità pastorali diverse dalle proprie e
si è invitati a comprendere meglio determinate scelte che qualificano la comunità in cui si è maturata la propria esperienza cristiana.
Proviamo ora a far emergere alcune
caratteristiche del lavoro pastorale che il
libro di mons. Claude Dagens descrive.
I riferimenti spirituali
La descrizione realistica del tessuto
della Chiesa di Francia emerge a ogni
passo del testo. Veloci pennellate presentano le sfide a cui la comunità cristiana
deve rispondere; ci vengono incontro così le peculiarità di una società e di una
cultura segnate da sensibilità fortemente
delineate a causa di fatti storici consistenti. I tratti della vicenda politico-sociale dei nostri cugini d’oltralpe sono
presenti anche a noi perché gli avvenimenti parigini hanno sempre trovato in
Italia echi o addirittura conseguenze
puntuali. Dunque, la vicenda rivoluzionaria di fine Settecento, il ritorno
dell’«ancien régime» a metà dell’Ottocento e la conseguente durevole e forte
contrapposizione tra società civile repubblicana e Chiesa francese, con le
profonde tracce lasciate nelle coscienze a
proposito della sensibilità antireligiosa,
ci sono noti, anche se non ne conosciamo tutti i dettagli.
Quei fatti storici hanno lasciato in
Francia un terreno sociale aspramente
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sospettoso nei confronti della religione
cattolica. Tuttavia, il vescovo Dagens ricorda che vi sono correnti di pensiero e
testimoni spirituali che a tutt’oggi rendono quella Chiesa una riserva di energie
evangeliche molto significative. Nel libro
emergono anche i nomi delle sorgenti di
acqua viva che continuano a irrigare
quella cattolicità. Ecco il filone teologico
di de Lubac con il suo straordinario approccio spirituale all’istituzione Chiesa;
fioriscono poi le intuizioni di Simone
Weil e maturano le parole e le scelte di
Madeleine Delbrêl. Sono questi testimoni a recare un contributo specifico alla
sensibilità di una comunità cristiana che
deve imparare a leggere in profondità il
vissuto umano che si sviluppa in una
realtà sociale apparentemente disattenta
alla Chiesa. Il rinnovamento ecclesiale di
oggi è segnato positivamente da queste
vicende, che rendono la Chiesa più attenta e disponibile all’approccio delle
persone che hanno un atteggiamento
esteriore di indifferenza per il Vangelo o
di lontananza dalla comunità cristiana.
Pertanto il vescovo Dagens trova già
un terreno fertile nell’invitare i cristiani a
proseguire in questa attitudine, che egli
descrive come risorsa per la cattolicità
francese. Non si tratta di contrapporsi a
una cultura e a un’istituzione sociale che
si comportano come se il cristianesimo
non interessasse, bensì di ricercare con il
laicismo, diventato fenomeno di costu-
me, una convergenza su valori che la
Chiesa riconosce fondamentali. Del resto è questa l’intuizione della Lumen gentium, che, portandoci fuori da una descrizione giuridica e oggettiva della
Chiesa, ci insegna che essa si riconosce
unita non soltanto con i fedeli cattolici,
ma anche con tutti i cristiani (cf. LG 1415) e con tutti coloro che non avendo ancora accolto il Vangelo sono tuttavia già
avviati interiormente a essere parte del
popolo di Dio (cf. LG 16). Il testo conciliare parla anche di coloro che ignorano
il Vangelo ma cercano Dio con cuore
sincero. Anch’essi possono arrivare alla
salvezza; essi pure sono testimoni di un
cammino spirituale verso Dio.
Da noi le fratture tra Chiesa e società
civile non hanno mai raggiunto la drammatica contrapposizione che ha caratterizzato la situazione francese. Una vicenda diversa ha segnato la nostra cattolicità. Così è avvenuto che la religione cattolica ha permeato con efficacia tutti gli
strati della società italiana e una contrapposizione si è attuata solo per ragioni politiche: dalla questione romana fino
alle prese di posizione contro il comunismo dopo la seconda guerra mondiale.
Se vi sono state opposizioni militanti, e
certo sono state attive, si è trattato di settori minoritari, talvolta essi stessi segnati,
in alcuni dei loro membri, dalla medesima sensibilità cattolica della maggioranza degli italiani.
In una società fortemente organizzata anche dalla Chiesa e che in larga parte non ha perso i contatti con la Tradizione cristiana, per ciò che concerne l’opera di educazione alla fede, nella pastorale della Chiesa italiana hanno prevalso
intuizioni e cammini prevalentemente
intraecclesiali. La missionarietà è stata
vissuta soprattutto nei confronti degli appartenenti alla Chiesa più tiepidi e distratti. È così spesso rimasto in secondo
piano l’impegno all’incontro e al cammino comune con coloro che, pur non appartenendo esplicitamente alla Chiesa
come comunità socialmente delimitabile, hanno tuttavia una sensibilità attenta
ai fatti umani, alle problematiche relative alle scelte di fondo a proposito della
vita umana, intesa nei suoi vari risvolti,
culturali, etici e religiosi.
Vi è dunque nella tradizione della
Chiesa italiana una linea di sensibilità
spirituale che, quando si pone di fronte
al risveglio delle coscienze credenti, opera prevalentemente all’interno della comunità cristiana, al fine di rendere più
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viva e generosa la realtà ecclesiale e i
membri che la compongono. Ricordiamo, a questo proposito, l’opera compiuta da Armida Barelli che organizza le
giovani e poi le donne di Azione cattolica; suscita in ogni parte d’Italia un risveglio di gruppi a loro volta testimoni; avvia e sostiene il movimento liturgico da
lei voluto dopo aver imparato oltralpe
l’importanza della liturgia nella vita della Chiesa.
I testimoni più significativi di un movimento spirituale nella Chiesa d’Italia
portano con sé e fanno presente un’acuta consapevolezza della superficialità
della vita cristiana nella comunità cattolica. Pensiamo alla mobilitazione delle
coscienze credenti, perché siano animate
secondo le esigenze del Vangelo di cui si
è fatto promotore padre Bevilacqua o al
rinnovamento della pratica dei sacramenti proposta con tanta chiarezza dal
vescovo Del Monte e dall’episcopato italiano, che si è fatto carico del problema
dell’evangelizzazione negli anni immediatamente seguenti al Concilio. Le loro
riflessioni e le scelte di quegli anni, realistiche ed esigenti a un tempo, puntano
alla centralità dell’eucaristia e al vissuto
spirituale delle comunità cristiane. Essi
hanno riconosciuto le grandi potenzialità presenti nella comunità cristiana,
hanno operato per muoverne le energie.
Il cattolicesimo italiano ha testimoni
laici straordinari che hanno favorito il
rinnovamento della comunità cristiana
nazionale. Anch’essi segnalano, con le
loro scelte e le loro parole, le caratteristiche della cattolicità italiana. Pensiamo
alla lunga parabola umana e cristiana di
Lazzati, che inizia la sua opera sul finire
degli anni Trenta dello scorso secolo e
volge subito le sue attenzioni al rinnovamento spirituale dei giovani. Il suo riannodare i fili della proposta teologica e
spirituale per il laicato continua addirittura negli anni della sua prigionia in
Germania. La stessa militanza politica è
da lui abbandonata per rivolgere ogni
suo sforzo nel formare persone che sappiano riflettere da credenti a riguardo
dell’agire politico: agire in politica da
credenti e non come credenti (GS 76). Si
vede come la possibilità di offrire un
contributo specifico dei cattolici in quanto cittadini alla costruzione della società
passi per una via che tiene conto del legame tra religione e cultura diffusa e tuttavia ricorda che «la Chiesa (...) in nessuna maniera si confonde con la comunità
politica» (GS 76; EV 1/1580).
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Altri testimoni dell’animazione del
cattolicesimo italiano hanno dato una testimonianza non solo di pensiero, ma
anche di sangue. Ricordiamo in particolare Vittorio Bachelet che viene ucciso
perché, come scrivono le Brigate rosse
nel volantino di rivendicazione dell’assassinio, è responsabile della «trasformazione del Consiglio superiore della magistratura (CSM) da organo formale a
mente politica che ha permesso l’eliminazione delle contraddizioni interne»; è
accusato perché ha «garantito il governo
della magistratura (...) promuovendo
inoltre convegni di studio e di riforma».
Egli è l’uomo che ha chiesto e ha operato per un rinnovamento dei credenti che
tenesse conto delle forze presenti nelle
parrocchie, nell’associazionismo, nel vissuto concreto delle comunità, proponendo a tutti la «scelta religiosa» intesa come «un impegno più rigoroso a ritrovare
le radici della fede e a viverla con coerenza» (21.2.1973, giornale associativo).
Ecco qui delineato un primo aspetto
di quella che io colgo come differenza
tra la tradizione del cattolicesimo italiano e le condizioni in cui si muove la cristianità in Francia. Noi, diversamente da
loro, partiamo da una condizione di cultura cattolica diffusa, nella quale la stragrande maggioranza degli italiani si riconosce. Così per noi il rischio potrebbe
essere quello di pensare che per testimoniare oggi il Vangelo sia sufficiente assicurare questa condizione di cattolicità
convenzionale.
Italia terra di missione?
Il card. Suhard identifica la condizione della Chiesa di Francia come «terra di missione» in cui prendono l’avvio
iniziative coraggiose, anche se controverse, come quella dei «preti operai». Il giudizio da lui proposto è preciso, formulato anche a rischio di critiche. Non sono
mancati infatti coloro che hanno attribuito a questa lettura della realtà una
sorta di responsabilità; si sarebbe accettato che la Francia divenisse un deserto
religioso nel quale i cattolici non si impegnavano a contrastare, né si contrapponevano alle scelte della società. Evidentemente, l’avvertimento fatto risuonare
in quegli anni ha tenuto deste le coscienze perché ha letto con realismo coraggioso la condizione reale.
Proseguendo la riflessione sulla situazione della Chiesa che è in Italia, essa ha
continuato negli anni a ritenersi maggioranza nel paese. Possono certo esservi al-
tre letture, ma a me sembra che le vicende, ad esempio, del divorzio e dell’aborto
abbiano evidenziato che la consapevolezza di essere maggioranza forse non era
più così vera. Nello stesso tempo, il risultato di questi due referendum ha mostrato l’importanza che l’uomo moderno dà
alla propria soggettività e ha rivelato insieme che l’annuncio evangelico non è
entrato in profondità nelle sue convinzioni e nella sua esperienza di vita.
Pur passando gli anni, pur mutando
profondamente la società, la Chiesa italiana ha continuato a manifestare la persuasione che la mentalità cristiana nei
confronti degli avvenimenti, e soprattutto delle nuove urgenti questioni etiche,
fosse garantita dalla condizione di maggioranza dei cristiani. L’immagine di
cattolicità italiana che appare, anche attraverso i media, è quella di una Chiesa
compatta e fedele.
A un’attenzione più analitica, tuttavia, emerge che nella pratica cattolica
degli italiani convivono sub-culture di
cui occorre realisticamente tener conto.
Si professano pubblicamente cattoliche
persone, anche appartenenti al mondo
della cultura e della politica, che traggono le ragioni della loro opinione favorevole al cattolicesimo da radici ideologiche o culturali per nulla appartenenti alla rivelazione cristiana. Vi sono poi alcuni che si rifanno alle idealità cristiane per
ragioni strettamente legate alla polemica
politica. La contraddizione insita in queste situazioni non sembra essere riconosciuta, forse nel tentativo, così facendo,
di poter continuare a coltivare la condizione di maggioranza cattolica in Italia.
Alcune riflessioni a questo proposito
vanno fatte proprio confrontando la cattolicità italiana con la cattolicità descritta da Claude Dagens.
Il silenzio o talora la disponibilità a
ottenere collaborazione da parte delle
istituzioni sociali e politiche, com’è possibile in Italia, ottengono certo il risultato di tenere in vita un equilibrio di norme e di atteggiamenti che continuano la
prevalenza del costume cristiano in Italia, almeno negli spazi di dichiarazioni
pubbliche e di norme legislative, ma non
arrestano l’esodo personale dalla pratica
cristiana e dalle convinzioni coltivate
nella propria interiorità e manifestate
nella vita quotidiana.
Rispetto alla condizione francese e
alle scelte fatte da questa Chiesa, la posizione italiana rischia di porre minore attenzione alla concretezza delle scelte e
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alla possibile apertura verso quanti, pur
venendo da concezioni ideali diverse da
quella cristiana, sono interessati ai cammini interiori delle persone, si fanno carico di interpellarne le ragioni ideali e si
mostrano attenti alla ricerca di senso che
avviene dovunque nella società vi siano
persone pensanti.
In breve: la Chiesa francese si è posta con piena consapevolezza di fronte a
una società non cristiana e si è domandata – e anche in questo libro si domanda e risponde – come evangelizzarla.
Nella Chiesa italiana non sembra
ancora emergere la necessità di evangelizzare una cultura che si ammanta di
cristianesimo, ma in realtà non ha più i
suoi riferimenti dinamici nel Vangelo e
nella Chiesa.
Confronti e domande
Il lettore sarà poi sollecitato a riflettere su alcune scelte pastorali che si intuiscono leggendo quanto l’autore descrive.
Richiamo anzitutto all’attenzione da
porre sulle modalità con cui nella comunità cattolica francese vengono presentate le linee di lavoro pastorale che si intendono condividere con tutti i credenti. Il
metodo privilegiato appare essere il confronto. L’invito è rivolto con un’esortazione che descrive i fatti, il ragionare è
portato alla dimensione quotidiana, l’approccio è quasi personale. Prendiamo ad
esempio la Lettera dei vescovi ai cattolici
di Francia, che l’autore cita più volte e
che presenta come scritta in vista di
«proporre la fede nella società attuale»
(Regno-doc. 7,1997,219). Evidentemente
si tratta di una riflessione che intende interpellare i singoli e le comunità, che
presuppone una riprova sul campo e magari una risposta di ritorno. Si tratta di
un tipo di metodo che favorisce la crescita dell’opinione pubblica all’interno della comunità ecclesiale. Immagino che
questo stile di dialogo sia stato imposto
anche dalla scarsità di mezzi economici
che è caratteristica della Chiesa francese,
ma tuttavia è interessante per l’appello
che di fatto rivolge alla responsabilità di
ciascun appartenente alla comunità cristiana, quale che sia il suo ruolo.
Anche sulla comunicazione delle
priorità di idee e sulle metodologie di
dialogo tra episcopato e comunità cristiana le scelte della Chiesa che è in Italia sembrano essere differenti. Da noi i
grandi convegni nazionali, come Verona
2006, muovono energie di base, suscitano occasioni feconde di confronto. Tut-
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tavia la normalità del dialogo intraecclesiale è affidata alle dichiarazioni ufficiali,
alle prolusioni dei momenti assembleari
dell’episcopato. Inoltre, la relativa disponibilità di mezzi garantisce l’utilizzo di
strumenti come il quotidiano cattolico e
una comune mentalità dei credenti si
spera venga incrementata dalla centralità della ricerca e del confronto affidata
al «Progetto culturale» con i suoi strumenti.
Mi limito dunque, conclusivamente,
a segnalare alcune domande da tenere a
mente mentre si scorrono le belle pagine
del vescovo di Angoulême.
Anzitutto: che cosa pensa della parrocchia la Chiesa francese? L’autore ritiene che la parrocchia sia uno strumento importante per la vita pastorale. Indubbiamente in Francia le parrocchie
hanno una storia e alcune caratteristiche
non del tutto identiche alla vicenda e allo sviluppo della formula italiana. Si tratta tuttavia di un confronto interessante
per noi, che qualche volta abbiamo avuto la tentazione di dichiarare conclusa
l’esperienza parrocchiale. Il confronto è
anche prezioso nel momento in cui tra i
parroci italiani si avvertono talvolta inclinazioni a consegnare la comunità parrocchiale a metodologie di educazione
alla fede che provengono dall’esperienza
dei movimenti piuttosto che dalla genuina «civiltà parrocchiale» che il libro di
Dagens mette in luce nei suoi aspetti positivi.
Una seconda domanda può essere
utile. Il vescovo Dagens, facendosi interprete di una sensibilità diffusa nella
Chiesa francese, mostra quanto sia fecondo puntare sui segni di disponibilità
spirituale presenti nel vissuto quotidiano
della gente. A seguito di ciò, egli esorta a
riconoscere che vi è una diffusa apertura
alla ricerca religiosa e dunque una potenziale attenzione di molti alla proposta
della fede. Nel vissuto della gente opera
dunque lo Spirito; noi siamo chiamati a
cogliere queste ricerche e sensibilità come passi suggeriti dallo Spirito al cuore
di donne e uomini che ancora non hanno sperimentato la via ecclesiale alla fede. Questa attenzione semplice e carica
di simpatia per la quotidianità intessuta
di apertura spirituale della gente, anche
quella che non «frequenta» e non «si dichiara credente», può essere una chance
reale anche per la Chiesa italiana.
Una terza domanda. Qual è la
preoccupazione prima di chi fa pastorale? Il libro ricorda a chi fa pastorale che
non è sufficiente riflettere sui mezzi di
azione e sulle metodologie. Quando si
parla di costruire la comunità cristiana,
occorre fare molta attenzione ai contenuti e l’autore ne parla con intelligenza e
vigore. Appare con chiarezza che, nell’impegno di evangelizzazione, è fondamentale attrezzare i credenti perché sviluppino una vita spirituale vivace e imparino a lottare contro i propri atteggiamenti egoistici che riducono il Vangelo e
i grandi orizzonti della vita cristiana a
scelte piccine e ad accomodamenti mediati dai criteri mondani. La riflessione
di Dagens è efficace nel ricordare che un
credente diviene testimone quando coltiva in sé una ricerca e una vigilante disponibilità allo Spirito.
Un’ultima domanda può aiutare a
stare in dialogo con la comunità cattolica francese per tutta la lettura del libro:
com’è la situazione della cristianità in
quel paese? Si ascoltano non raramente
critiche rivolte alla Chiesa di Francia; si
allude a insufficiente resistenza alla secolarizzazione, si parla di un fallimento
educativo. Seguendo le riflessioni del vescovo Dagens, ci si accorge che la critica
è ingenerosa e che non coglie la complessità dell’ordito su cui la comunità cristiana di Francia tesse la sua opera pastorale. Probabilmente, si ripete un luogo
comune nei confronti di questa cristianità come se fosse una minorità depressa
culturalmente e spiritualmente fragile.
Da queste pagine emerge l’immagine di
una comunità che certo è minoranza,
ma è culturalmente attrezzata e spiritualmente vivace.
Il vescovo Dagens ci propone in questo libro, appassionato e unitario, un sogno a proposito della comunità ecclesiale francese. Ce ne presenta alcune caratteristiche e dichiara le priorità che, a suo
parere, vanno scelte. Affascina il disegno
attraente che ci è proposto. In tal modo
siamo anche noi oggi invitati a sognare
una cattolicità italiana che abbia tutte le
caratteristiche positive della nostra Tradizione, del nostro genio proprio, della
nostra responsabilità verso il futuro della
fede nel nostro paese.
Giovanni Giudici
1
Pubblichiamo con il gentile permesso dell’editore la postfazione di mons. Giovanni Giudici,
vescovo di Pavia, al vol. di mons. C. Dagens Libera e presente. La Chiesa nella società secolarizzata,
EDB, Bologna 2009, 121-131.
Alle pp. 46E e 465: MASACCIO, Il tributo,
Cappella Brancacci (particolari), 1424-1428 ca.;
Firenze, chiesa di Santa Maria del Carmine.
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L
L ibri del mese / schede
I Libri del mese si possono ordinare indicando
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accogliendo alcuni materiali d’insegnamento, l’a. riflette sulla
teologia come narrazione di Dio svolta da Gesù Cristo, individua
la sistematica che in essa si configura, e ipotizza le connessioni e gli
snodi da cui si avviano i distinti trattati di teologia. Fra i temi dei cc.:
la rivelazione, l’umanità di Gesù, l’unico Dio, l’uomo in grazia, i sacramenti, il mistero dell’iniquità, i novissimi.
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il numero ISBN a 12 cifre:
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Vangelo e del libro degli Atti degli apostoli, EDB, Bologna 22009, pp.
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econda edizione riveduta e accresciuta di un saggio dall’omonimo titolo, da tempo esaurito. Dalla prima edizione (1996), gli
studi narrativi sui Vangeli e sugli Atti degli apostoli hanno compiuto enormi progressi. Anche a motivo di ciò, la presente edizione presenta un intero c. – il primo – dedicato alla teoria lucana della testimonianza, che divide piuttosto nettamente gli Atti degli apostoli in
due parti. Con i suoi riferimenti all’attualità, esso aiuta fin dal principio il lettore a scoprire alcune idee fondamentali del narratore lucano, invitandolo a entrare nella dinamica del suo racconto.
S
a cura di Roberto Reggi
Proverbi Giobbe
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D
el libro dei Proverbi e del libro di
Giobbe il volume propone il testo
ebraico (testo masoretico della Biblia
Hebraica Stuttgartensia), la traduzione
interlineare (va letta da destra a sinistra
seguendo la direzione dell’ebraico), il testo
della Bibbia CEI (a piè di pagina con a
margine i testi paralleli). Non si tratta di
una “traduzione”, ma di un “aiuto alla traduzione”: un utile strumento per affrontare
le difficoltà dell’ebraico e introdursi nel
testo biblico in lingua originale.
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Geremia
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S
ulla base dell’urgenza di un dialogo fra teologia della creazione
e teoria dell’evoluzione, l’a. offre i principali passaggi che hanno
reso possibile a Darwin la formulazione della sua famosa teoria sull’origine delle specie per selezione naturale. In un 2o c. illustra l’attuale status quaestionis della discussione. Poi affronta le ipostesi di
soluzione di alcuni grandi teologi come Rahner, Ganoczy, Pannenberg e Moltmann. Per arrivare infine a quello che l’a. chiama «il fondamentale apporto della riflessione ratzingeriana». Cf. anche in questo numero a p. 489.
CANOBBIO G., Il destino dell’anima. Elementi per una teologia,
Morcelliana, Brescia 2009, pp. 144, € 12,00. 978883722315
e neuroscienze riconducono l’insieme degli orientamenti e della libertà umana nella mente, propiziando così una «neurofilosofia» che sostituisce la mente all’anima e conferma una deriva materialista. L’a. elabora una risposta teologica ripercorrendo la tradizione teologica e filosofica, riaffermando la legittimità di continuare a parlare d’anima come «apertura del mondo materiale a un fine». La qualità della spiegazione della tradizione è quella di chiarire il salto ontologico riscontrabile fra animali e umani, quel salto
che il cervello non produce da sé. «L’anima è l’uomo nel suo volgersi consapevole al principio e al fondamento di tutto».
L
CANTALAMESSA R., PENNA R., SEGALLA G., Gesù di Nazaret tra storia e
fede, EDB, Bologna 2009, pp. 84, € 6,90. 978881060463
L’
Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, nell’ambito dei
propri Colloqui teologici, ha affidato un approfondimento del
tema del Gesù storico a tre insigni studiosi. R. Penna evidenzia come fin dalle origini la fede cristiana si radichi nella storia del maestro, in un intreccio inestricabile. Dal canto suo, G. Segalla ripercorre tutto lo sforzo compiuto dalla ricerca storica moderna su Gesù negli ultimi duecento anni, presentando la teoria che guida la ricerca,
la metodologia seguita, le conseguenze per la teologia. R. Cantalamessa sottolinea, infine, la rilevanza antropologica che la figura di
Gesù può avere per l’uomo contemporaneo: la «vera» umanità di
Gesù viene riletta a partire dal contesto culturale odierno.
DE SIMONE G., La morale sociale dei padri. Fondamenti patristici della
teologia morale sociale, Ursini Edizioni, S. Maria di Catanzaro (CZ)
2008, pp. 102, € 15,00. 978887486002
«T
utta l’impalcatura della teologia morale sociale, infatti, poggia su questo principio non tanto e non solo dottrinale, quanto di vita: la carità, virtù teologale cristiana, che ha una dimensione
chiaramente sociale e diviene, dunque, “carità sociale”, frutto e dono del Risorto». A questa conclusione approda l’inconsueto interesse per la morale nei padri e specificamente per la morale sociale. Fin
dall’origine della predicazione cristiana ci si è posto il problema di
dare un senso al fatto sociale, all’essere inseriti in esso. È quanto l’a.
ha fatto, sviluppando in particolare le relazioni interpersonali, il significato dei beni terreni, matrimonio e famiglia, vita politica.
PELLEGRINO C., San Paolo e le radici cristiane d’Europa. Il “nuovo inizio” degli Atti degli apostoli tra narrazione e teologia, Servi della sofferenza, San Giorgio Jonico (TA) 2008, pp. 262, € 19,00. 978889610601
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N
onostante la sovrapposizione un po’ precipitosa fra «radici cristiane» dell’Unione Europea e patrimonio biblico, il vol. ha il
pregio di leggere la vicenda di Paolo come narrazione teologica che,
ripercorrendo la vicenda del suo maestro il Signore Gesù, fa della
meta romana lo snodo cruciale dell’ingresso del cristianesimo in Europa. La biografia del discepolo rivive il cammino di Gesù verso Gerusalemme e, attraverso citazioni di altre vicende bibliche, come
quella dei figli di Noè, giunge a identificare il continente europeo
come destinatario del messaggio evangelico. Il naufragio di Paolo, figura della successiva morte martiriale, avvia un nuovo inizio nella
storia umana.
TARANTO S., Gregorio di Nissa. Un contributo alla storia dell’interpretazione, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 726, € 45,00. 978883722328
regorio di Nissa è il più giovane dei padri Cappadoci (335-395)
su cui si è concentrata l’attenzione degli interpreti a partire dall’Ottocento. Il vol. si propone una ricostruzione storico-critica del
Cappadoce, ritenuto uno dei più grandi autori dell’epoca tardo-antica. Il significativo lavoro si articola su due elementi fondanti. Il primo è un rapporto d’opposizione per differenziazione (creato/increato, intelleggibile/sensibile, tempo/eternità) o per inconciliabilità (bene/male, essere/non essere). Il secondo, attorno alle categorie dell’amore e del linguaggio. Si tratta di una dottrina integralmente positiva che fa dell’amore (dalle origini al suo compimento
escatologico) il comune denominatore di un’autentica comprensione dell’esistenza umana. Testo di studio.
G
Le Lettere di Paolo. Dalla Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna
2009, pp. 232, € 5,90. 978881082060
FERRARI M. (a cura di), Celebrare la Parola, EDB, Bologna 2009, pp.
185, € 17,20. 978881041137
ati in occasione della settimana liturgico-pastorale del 2008 (43a
edizione), i vari contributi riflettono attorno alla celebrazione
della Parola per rispondere all’invito del n. 35 della Sacrosanctum
concilium, d’organizzare le celebrazioni in modo che sia «evidente
che, nella liturgia, rito e parola sono intimamente connessi».
N
FUSCO V., La sete e la sorgente. Incontri di avviamento alla lectio divina, EDB, Bologna 2009, pp. 208, € 14,90. 978881080835
l vol. è un ricordo dell’a., a dieci anni dalla morte, e insieme costituisce un suo testamento. Esso infatti raccoglie gli incontri di
lectio divina da lui tenuti tra il 1996 e il 1997, nei tempi liturgici di
Avvento e di Quaresima.
I
GALLAZZI S., Piccola guida alla Bibbia. Attraverso la storia del popolo
d’Israele, del suo libro e della sua fede, EMI, Bologna 2009, pp. 214,
€ 13,00. 978883071812
ol. d’introduzione allo studio delle Scritture, di un a. che vive in
Brasile, alle foci del Rio delle Amazzoni, ed è impegnato nella
Commissione pastorale della terra della Conferenza dei vescovi del
Brasile. L’interrogativo che muove questa ricerca non è: «Che cosa
ci vuol dire il testo?», ma piuttosto: «Dalla parte di chi il testo ci chiede di metterci?». La chiave ermeneutica delle Scritture diviene dunque – nel solco del biblista carmelitano Carlos Mesters – «conoscere
la storia d’Israele cercando di essere fedeli al Dio dei poveri e ai poveri di Dio».
V
RAVASI G., Il Cantico dei cantici. Quattro conferenze tenute al Centro
culturale S. Fedele di Milano, EDB, Bologna 2009, CD, € 16,20.
REGGI R., Daniele. Traduzione interlineare italiana, EDB, Bologna
2009, pp. 64, € 6,60. 978881082057
Renzo Lavatori - Luciano Sole
Pastorale, Catechesi, Liturgia
BARBON G., PAGANELLI R., Sono con voi tutti i giorni. 7 momenti della
giornata per educare ed evangelizzare, EDB, Bologna 2009, pp. 138,
€ 10,00. 978881062140
o spazio e il tempo sono le due dimensioni del nostro esistere e
del nostro vivere quotidiano. Dopo il vol. dedicato alla presenza
di Gesù nei luoghi della quotidianità (Si seppe che Gesù era in casa,
2008), gli aa. propongono una catechesi sull’uso del tempo, articolata nei vari momenti della giornata. Il testo propone un itinerario
sapiente che permette al lettore di fare luce sulla propria esperienza umana e cristiana. Di ogni momento della giornata si analizzano
quattro dimensioni: antropologica, biblica, catechistica ed educativo-pastorale, con narrazioni e commenti, testi, poesie, brani per la
meditazione e la preghiera, spunti per la catechesi e la celebrazione.
L
FACCHINETTI A., NEVI G., In forza del suo battesimo. Dall’infanzia alla
scuola primaria, EDB, Bologna 2009, pp. 144, € 9,00. 978881071206
erza e ultima parte di un progetto di catechesi battesimale ampio e particolarmente accurato, che punta sui genitori come veicolo della formazione dei bambini più piccoli: esso ha preso avvio
con Il suo battesimo. Richiesta, preparazione, celebrazione (2007), rivolto a parroci e catechisti battesimali, ed è proseguito con Dopo il suo
T
battesimo. Dalla celebrazione del battesimo ai primi tre anni di vita nella fede, dedicato alla catechesi post-battesimale (0-3 anni) e in particolare ai genitori dei battezzati. Per continuare il cammino di approfondimento della fede da parte dei bambini in età prescolare (36 anni) agendo sulla formazione delle loro famiglie con l’attuale
vol., ricco di schede e materiali utili alla pastorale.
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Marco. II
Sconcerto, sdegno e stupore
davanti a Gesù
L’
opera costituisce il completamento di
un commentario in due parti al Vangelo
di Marco, il cui testo è presentato in una
traduzione letterale degli autori. Nel secondo
volume, col procedere dell’itinerario
salvifico di Gesù, il lettore è posto di fronte
alle reazioni dei suoi interlocutori: sconcerto
e sbandamento nei discepoli, sdegno e
veemenza nei suoi nemici, stupore e luce
in coloro che lo guardano e credono.
«Lettura pastorale della Bibbia sez. Bibbia e spiritualità»
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ibri del mese / schede
NICOLINI G., Lo sperpero di Dio, EDB, Bologna 2009, pp. 117, €
7,90. 978881051069
C’
è «un verbo della Scrittura, appunto il verbo “sperperare”,
che nella parabola del figliol prodigo ha un significato negativo, indica un dono sciupato, una ricchezza inutilmente dilapidata. Ma lo stesso verbo compare in un antico salmo, il 111 (112).
Vi si legge che l’uomo di Dio “dona largamente ai poveri”: letteralmente suonerebbe “sperperò, diede ai poveri...”. È lo sperpero
di Dio, la sua sovrabbondanza. Ognuno di noi e ogni nostra comunità hanno nel cuore la meraviglia per la sproporzione inevitabile
tra il sovrabbondante dono di Dio e la mediocrità della nostra risposta». A cura della Caritas italiana.
RATTIN P. (a cura di), Libro di pellegrinaggio. Volume 2. Sinai e
Giordania, Siria, Turchia, Grecia, EDB, Bologna 2009, pp. 320, €
21,00. 978881082059
L’
a. mette a disposizione dei pellegrini – dopo il vol. sulla Terra santa – tracce di celebrazione, liturgie della Parola, suggerimenti spirituali riguardanti ogni meta più importante e i testi
biblici che si riferiscono ai luoghi visitati, ampliando la fortunata
edizione del 1999. Non una guida, ma uno strumento che mira a
far «incontrare la Bibbia nei luoghi della Bibbia».
RE P., R IVA M.G., Paolo di Tarso. Apostolo delle genti, Ares, Milano
2009, pp. 175+DVD, € 16,00. 978888155447
a sintetica presentazione della vita, delle opere, del pensiero
e della spiritualità dell’Apostolo delle genti a cura di don Pie-
L
ro Re è accompagnata da un commento ad alcune opere pittoriche che raffigurano Paolo a firma di suor Maria Gloria Riva. Nel
DVD approfondimenti dell’iconografia paolina in Bruegel, Caravaggio, Elsheimer, Rembrandt e Beccafumi.
SARTOR P., C IUCCI A., Buona notizia 1. Pronti... via! Prima evangelizzazione per bambini e famiglie. Guida, EDB, Bologna 2009, pp.
128, € 9,50. 978881061346
SARTOR P., C IUCCI A., Buona notizia 1. Pronti... via! Prima evangelizzazione per bambini e famiglie. Sussidio, EDB, Bologna 2009,
pp. 46, € 3,50. 978881061347
voll. inaugurano un itinerario d’iniziazione cristiana per bambini (in 5 anni) di tipo catecumenale. Il punto di partenza di tale scelta è la presa di coscienza delle attuali condizioni socio-religiose in Italia: quando si presentano a frequentare la parrocchia
o il catechismo, molti bambini non hanno ricevuto alcuna iniziazione alla fede e sanno a malapena chi è Gesù. È pertanto necessario un tempo di «prima evangelizzazione», a cui il percorso fa
seguire tre anni di discepolato-catecumenato durante i quali i
bambini possono gradualmente sperimentare la vita cristiana e al
termine ricevere i sacramenti.
I
SCATTOLINI A. (a cura di), Venite... È pronto! Itinerario per l’iniziazione cristiana con le famiglie. IV anno. Guida, EDB, Bologna
2009, pp. 159, € 10,50. 978881061344
SCATTOLINI A. (a cura di), Venite... È pronto! Itinerario per l’iniziazione cristiana con le famiglie. IV anno. Schede, EDB, Bologna
2009, pp. 109, € 5,00. 978881061345
n linea con gli attuali orientamenti dell’Ufficio catechistico nazionale della CEI, l’itinerario propone un percorso di catechesi e iniziazione cristiana dei bambini che coinvolge attivamente le
famiglie. Sue caratteristiche sono la completezza dei materiali offerti e la scelta di proporre attività semplici ma non banali, che
sappiano affascinare e divertire i bambini. Il percorso, distribuito
in cinque anni, ha già visto la pubblicazione dei voll. Mi racconti
di Gesù? (2007), Un regalo per te (2007) e Un cuore di Padre
(2008).
I
Clara D’Esposito
Donna quando
l titolo del volume unifica tante
situazioni che la donna vive e in cui
ritrova se stessa, le proprie contraddizioni, le nostalgie, la speranza.
Figure di donna s’intrecciano con
racconti che hanno come riferimento
la vita quotidiana, assieme a medaglioni
di storia rivisitata con tocco inatteso o
a temi e personaggi biblici filtrati con
libertà interiore. Una lettura agile e
piacevole per tutti.
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Io sono Bartimeo
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Dehoniane
Bologna
SOVERNIGO G., Con Pietro al seguito di Gesù. Itinerario di formazione spirituale. 1. I passi decisivi, EDB, Bologna 2009, pp. 138, €
13,00. 978881062141
l percorso vocazionale, suddiviso in due voll., propone la figura
di Pietro quale occasione di confronto per quanti – giovani o
meno giovani – sono in ricerca della propria strada nella vita. Il
cammino dell’apostolo è infatti scandito da tappe precise e si snoda secondo i passaggi tipici del discepolato.
I
SPINELLI S. (a cura di), Catechesi battesimale. Strumenti per il lavoro personale e di équipe, EDB, Bologna 2009, pp. 159, € 12,00.
978881012103
I
a catechesi battesimale sta assumendo un’importanza crescente
nell’attuale contesto sociale e pastorale italiano, sia come strumento di avvicinamento e responsabilizzazione dei genitori che
scelgono il battesimo per i loro figli, sia come opportunità di prima evangelizzazione per i bambini in età prescolare. A fronte di
questa prospettiva, si ridisegna anche il ruolo e la figura del catechista battesimale: all’équipe battesimale viene chiesto «non solo
di preparare i genitori, ma di avviare una relazione con loro; non
solo di informarli sul senso del sacramento, ma di prepararne e
gestirne la celebrazione; non solo di donar loro contenuti e sussidi, ma di attivarne la soggettività in materia di fede». Tali compiti
richiedono una formazione specifica e non superficiale, da realizzarsi singolarmente oppure in gruppo.
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ALIOTTA M., LIA A., Io, Paolo scrivo a voi ragazzi. Una lettera di Saulo
di Tarso, Pazzini stampatore editore, Verucchio (RN) 2007, pp. 77,
€ 8,00. 978886257000
BERTINETTI M., Preghiere bibliche alla Trinità. Con la santa famiglia,
Effatà, Cantalupa (TO) 2007, pp. 92, € 5,00. 978887402343
BIANCO E., 365 idee per pensare a Dio, LDC, Leumann (TO) 2008, pp.
95, € 7,00. 978880103919
BIFFI I., La sapienza che viene dall’alto, Jaca Book, Milano 2007, pp.
77, € 9,00. 978881630442
P
ubblicato per la prima volta in italiano nel 1982, il vol., a firma
di un gesuita a lungo docente di Spiritualità presso la Gregoriana, approfondisce la devozione del sacro cuore, privilegiando la
chiave di lettura simbolica a quella teologica. Essa infatti, percorsa
da tutti i contemplativi, è in grado d’alludere alla ricchezza e alla polisemia dell’immagine del cuore di Cristo, collegandolo con altri
simboli presenti nell’episodio giovanneo della trafittura del costato
e della storia della salvezza nel suo insieme. Diventa così possibile
apprezzare questa particolare devozione: «l’unione spirituale al cuore di Gesù ha per funzione non solo di condurci al centro del mistero, ma anche di stabilirci al centro di noi stessi, là dove abita Cristo».
D’ESPOSITO C., Donna quando, EDB, Bologna 2009, pp. 182, € 16,00.
978881054504
CEI - COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai
cercatori di Dio, LDC, Leumann (TO) 2009, pp. 95, € 2,50.
978880104322
COASSOLO I., ROCCIA R., Missione successo. Copione per ragazzi,
EDB, Bologna 2009, pp. 64, € 3,00. 978881061348
ELLIS G., SMALLMAN S., Leggiamo insieme la Bibbia. Oltre 200 storie
bibliche, LDC – Velar – ISG-Edizioni Istituto San Gaetano, Leumann
(TO) – Gorle (BG) – Vicenza 2008, pp. 420, € 22,00. 978880104005
MANNS F., Trenta domande (e trenta risposte) su Maria e la nascita di
Gesù, Vita e pensiero, Milano 2007, pp. 143, € 14,00. 978883431476
«D
onna è quando...» è una specie di ritornello unificatore di
tante situazioni che la donna vive e in cui ritrova se stessa, le
proprie contraddizioni, le nostalgie, la speranza. Figure di donna
s’intrecciano con racconti di vita quotidiana, assieme a medaglioni
di storia rivisitata con tocco inatteso, o a temi e personaggi biblici filtrati con libertà interiore. E sempre il tema della soggettività: il tempo del distacco, la casa, l’amicizia, la preghiera, il corpo.
EVDOKIMOV P., Il matrimonio, sacramento dell’amore, Qiqajon,
Magnano (BI) 2008, pp. 222, € 14,50. 978888227272
rima edizione italiana di un testo del 1944 del grande teologo ortodosso, quasi sconosciuto perché erroneamente ritenuto una
sorta di prima versione del Sacramento dell’amore. Il mistero coniugale secondo la tradizione ortodossa, che invece è del 1962. Come sotto-
P
PORFIRI A., Cantiamo il tuo nome. Commento a inni eucaristici della
tradizione cristiana, Centro eucaristico, Ponteranica 2008, pp. 126, €
10,00. 978888948931
VAGO M., MONTANARI D., Piccole storie di grandi santi, EMP - Edizioni
Messaggero, Padova 2007, pp. 58, € 12,00. 978882501925
VANHOYE A., Messa, vita offerta, ADP - Apostolato della preghiera,
Roma 2007, pp. 94, € 8,00. 978887357430
Spiritualità
Jean-Noël Aletti
Il racconto come teologia
Studio narrativo del terzo Vangelo
e del libro degli Atti degli apostoli
BARSOTTI D., Venga il tuo Regno. Il sermone della montagna nel
Vangelo di Matteo, Edizioni Parva, Melara (RO) 2009, pp. 143, €
10,00. 978888828727
«C
olui che ascolta e mette in pratica, colui che accoglie queste
esigenze divine e come seme le fa germogliare e portare frutto, questo è colui che ha costruito la casa sulla roccia: come la pietra
egli rimane indefettibile, come la pietra incrollabile. Incrollabile come Dio»: sono le ultime parole di commento al Discorso della montagna nel Vangelo di Matteo da parte di don Divo Barsotti, uno dei
più originali commentatori biblici della storia recente della Chiesa
italiana. In una trentina di brevi cc. l’intero discorso viene analizzato e proposto come progetto di vita cristiana.
BARTOLO G.V., Per amore di Mauro. Dire tu anche dopo, EDB,
Bologna 2009, pp. 143, € 12,30. 978881051127
a composizione di un album di fotografie che ripercorrono la vita del marito recentemente scomparso dà modo all’a. d’intavolare un dialogo immaginario con lui e così trasmettere a chi legge la
propria testimonianza e il proprio cammino interiore. La forza del
vissuto comune, i dialoghi e i ricordi riempiono le pagine del libro,
rivelando suggestivamente come il trascendente sia da lei sperimentato quale logico epilogo dell’amore terreno.
L
a seconda edizione, riveduta e
ampliata, del saggio del ’96 tiene
conto degli enormi progressi compiuti
nel frattempo dagli studi narrativi sui
Vangeli e sugli Atti degli apostoli.
Presenta un intero capitolo dedicato
alla teoria lucana della testimonianza:
con i suoi riferimenti all’attualità, aiuta
il lettore a scoprire alcune idee
fondamentali del narratore lucano, per
meglio entrare nella dinamica del suo
racconto.
L
«Biblica»
pp. 248 - € 22,00
BERNARD C.A., Il cuore di Cristo e i suoi simboli, ADP - Apostolato della
preghiera, Roma 22008, pp. 115, € 15,00. 978887357461
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linea nella Prefazione B. Petrà, la prospettiva delle due opere è molto diversa in quanto quella del 1962 espone la teologia ortodossa sul
matrimonio sottolineandone le diversità rispetto alla concezione
cattolica, mentre quella del 1944 qui presentata fa ampio ricorso a
fonti occidentali e orientali, delineando una teologia personalista «a
due polmoni» che concepisce il matrimonio essenzialmente come
consacrazione dell’amore umano dei coniugi.
GIANNOLA F., Ritorno in Tanzania. Esperienza e incontri, EMI,
Bologna 2009, pp. 112, € 9,00. 978883071854
iccolo diario che l’a. ha raccolto nel corso della sua esperienza
di missionario fidei donum in Tanzania, il libro è dedicato in modo particolare a chi si prepara a un viaggio nel Sud del mondo. La
narrazione, scandita da brevi poesie e commenti al Vangelo, diviene
allora un itinerario in punta di piedi verso «la scoperta dell’altro, del
suo volto, della sua storia» perché «l’altro è il nostro pungolo, è colui che non ci lascia in pace, è l’interrogativo che spiazza, ci trasporta senza saperlo alle grandi domande di senso». Prefazione di mons.
Di Cristina, arcivescovo di Monreale.
P
MACCARI D., Africa blu. Il mare nella mia vita, EMI, Bologna 2009, pp.
143, € 11,00. 978883071858
«E
siste un male d’Africa come pure un mare d’Africa. A me sono toccati tutti e due; ma è il mare che ha dato il colore a tutto: una vasta serie di pagine della mia vita è scritta in blu. […] Quanto blu rende più bello il mondo e quanto blu ha colorato anche la
mia vita missionaria, soprattutto in Africa, un’Africa blu, un mare
d’Africa che insieme al suo fascino ha scavato un solco e depositato
il suo tesoro». Attraverso squarci di Mozambico e Uganda, l’a., missionaria comboniana, con questo vol. compone «un mosaico formato da tessere di diverse forme e dimensioni, ma tutte striate da una
sfumatura blu, una spruzzata, una goccia di mare che dà loro un’unità».
NERI M., Il monte e la senape. Meditazioni sul Simbolo apostolico,
EDB, Bologna 2009, pp. 126, € 8,90. 978881080838
gni «volta che confessiamo la fede durante la celebrazione dell’eucaristia iniziamo con “io”. Quello/a che crede sono proprio
io, con la mia storia, i miei desideri, le mie fragilità e le mie passioni. Questo vuol dire che nella fede c’è spazio proprio per me – non
per un’idea di me, ma per quello che realmente sono». Pertanto
poiché «senza di me la fede non ha voce » significa che il Signore è
ben lieto che sia io a confessare la fede, che egli non ha paura di
quello che io sono... e che l’ultima cosa che gli verrebbe in mente è
di pensare che le mie doti personali, come i miei limiti, possano essere qualcosa che nuoce al Vangelo e alla fede. Non c’è credere,
dunque, senza “io”». I vari capitoletti di commento agli articoli del
Credo sono nati da una catechesi ai giovani in forma di lectio brevis:
un tema del Simbolo apostolico, un passo biblico, un breve commento, infine la possibilità di una breve condivisione.
O
REPOLE R., Il gusto del pensiero. Lettera a un giovane studente, EDB,
Bologna 2009, pp. 63, € 4,70. 978881060505
l testo, nella collana di formazione per giovani universitari, parte
dall’idea che il pensare del giovane d’oggi è caratterizzato da risorse e da potenzialità diverse rispetto al passato: anziché il pensiero, oggi si privilegia il «sentire». Avvicinare pensiero e gusto, cioè la
ragione e il sentire, significa accogliere la sfida che è possibile percepire una bellezza e un sapere nel pensare e ritenere che il pensiero sia capace di rendere più saporita e gustosa la vita.
I
MAGGIONI B., L’incessante ricerca, Cittadella, Assisi 2008, pp. 37, €
2,00. 978883080948
Vittorio Fusco
La sete e la sorgente
Incontri di avviamento
alla lectio divina
l volume intende essere un ricordo
dell’autore, a dieci anni dalla morte, e
insieme costituisce un suo testamento.
Raccoglie gli incontri di lectio divina da
lui tenuti tra il 1996 e il 1997, nei tempi
liturgici di Avvento e di Quaresima. Ogni
scheda, che si apre e si chiude con una
preghiera, presenta il testo biblico e
l’interpretazione proposta dall’autore.
I
«Meditazioni»
pp. 208 - € 14,90
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MARTÍNEZ GARCÍA J., Dolori e gioie di san Giuseppe, Ares, Milano
2007, pp. 69, € 10,00. 978888155389
PANONT A., Stando alla finestra, EMP - Edizioni Messaggero, Padova
2007, pp. 127, € 5,00. 978882501888
STINISSEN W., L’inizio è nel silenzio. Meditazioni per un anno, Città
nuova, Roma 2007, pp. 360, € 18,50. 978883114407
Storia della Chiesa
DUFRASNE D., Donne moderne del Medioevo. Il movimento delle
beghine: Hadewijch di Anversa, Mectilde di Magdeburgo,
Margherita Porete, Jaca Book, Milano 2009, pp. 171, € 16,00.
978881640871
A
dispetto della connotazione che ha assunto il termine «beghina» in molte lingue occidentali, il movimento delle beghine fu
un fenomeno medievale con molti aspetti di modernità e grande
profondità religiosa. L’a. li racconta, con un andamento narrativo e
non sistematico ma tuttavia ben documentato: il protagonismo femminile e laicale, la ricerca di una vita di relazione, lo slancio spirituale, la scelta della sobrietà. Il profilo di tre beghine e mistiche ne offre un esempio vivido.
PARRINELLO R.M., Santità, eresia e politica a Bisanzio nel XII secolo.
Costantino Crisomallo, il falso bogomilo, Morcelliana, Brescia 2008,
pp. 170, € 16,00. 978883722288
el 1140 alcuni monaci del convento Kyr Nicolas (Costantinopoli) denunciano post mortem l’opera di Costantino Crisomallo co-
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me eretica. La sua dottrina viene condannata come «bogomilita»
(eresia dualista) all’interno di una crescente diffidenza delle scuole
spirituali monastiche, poco propense a farsi irreggimentare dalla
sinfonia del patriarca e del potere imperiale. La falsa accusa (come
dimostrano le analisi dei suoi discorsi) fu la maschera con la quale
le istituzioni della Chiesa ortodossa intesero sottomettere le correnti spirituali critiche della centralizzazione del governo ecclesiastico e
politico del mondo bizantino.
VACCARO L. (a cura di), Storia religiosa di Serbia e Bulgaria, ITL,
Milano 2008, pp. 440, € 20,00. 978888025667
ll’interno di un ciclo ormai classico di settimane di studio, il vol.
raccoglie gli atti di quella dedicata alla storia religiosa di Serbia
e Bulgaria. Sono una ventina i voll. già editi da diverse editrici sui casi delle Chiese nelle nazioni europee dell’Est e dell’Ovest. L’impresa è in capo alla Fondazione ambrosiana «Paolo VI» (cf. qui a p.
477). Il vol. è frutto della settimana del 2005. Nate al cristianesimo
verso il sec. VIII le due nazioni conoscono un grande splendore di
civiltà e di fede nei primi secoli del secondo millennio. Ma nel 1300
l’occupazione turca ne appanna la libertà e la creatività e favorisce
la progressiva distanza delle due esperienze. Nei saggi contenuti nel
vol. emergono in particolare il ruolo crescente di riferimento all’ortodossia di Mosca, il permanente confronto con l’Occidente (soprattutto in Serbia), le grandezze della spiritualità esicasta e i drammi
dei decenni del Novecento.
A
GIUDICI M.P., BORSI M., Maria Domenica Mazzarello. Una vita semplice e piena di amore, LDC, Leumann (TO) 2008, pp. 206, € 13,00.
978880103914
e internazionali e una bibliografia aggiornata. «Come all’inizio di
questo cammino non ci fu un progetto, oggi non c’è l’intento di assumersi il compito di predisporre un qualche futuro. [Le comunità
di base] sono state e continuano a essere, dunque, una storia imprudente perché si sono chieste e si chiedono ancora: “Ma Dio è in mezzo a noi sì o no?”, mentre proseguono, giorno dopo giorno, il loro
cammino per scoprire il volto di Dio negli uomini, con la Bibbia e
con il giornale, nella comunione e nella libertà di “figli e figlie di
Dio”».
CASTO L., LONGHI A., SAVARINO R. et al., Adolfo Barberis nella Chiesa
torinese, Effatà, Cantalupa (TO) 2008, pp. 166, € 18,00. 978887402450
arberis è stato prete diocesano di Torino (1884-1967). In occasione del centenario della sua ordinazione è stato preparato un
vol. di memoria che sviluppa gli elementi maggiori del suo servizio:
segretario del card. A. Richelmy e fondatore del Famulato cristiano
(una congregazione religiosa femminile per formare le ragazze a
servizio delle famiglie benestanti). Noto anche per la sua attività di
artista e progettista, di predicatore e padre spirituale.
B
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC (a
cura di), L’insegnamento della religione risorsa per l’Europa. Atti della
ricerca del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, LDC,
Leumann (TO) 2008, pp. 461+CD-ROM, € 40,00. 978880104116
u iniziativa della CEI, a partire dall’esigenza di monitorare la situazione europea sull’insegnamento della religione cattolica
(IRC) nelle scuole anche per raccoglierne indicazioni e suggerimenti per l’Italia, è stata condotta questa ricerca che ha coinvolto il Con-
S
Attualità ecclesiale
QUINZI G., MONTISI U., TOSO M. (a cura di), Alla ricerca del bene
comune. Prospettive teoretiche e implicazioni pedagogiche per una
nuova solidarietà, LAS, Roma 2008, pp. 237, € 17,00. 978882130696
n seminario di studio svoltosi all’Università pontificia salesiana
ha dato avvio alle ricerche confluite nel vol. Il tema del bene comune viene affrontato nella I parte nelle sue fondamenta teoriche:
la dimensione antropologica, il rapporto giustizia e democrazia, i
fondamenti biblici, la dimensione etica. Nella II si declina il tema
del bene comune come progetto educativo: le condizioni pedagogiche necessarie, la società multiculturale, l’approccio catechetico e
quello psicologico.
U
CAMISASCA M., CREMONESI P., Viaggio in Terra santa, Marietti, Milano
2008, pp. 95, € 14,00. 978882116465
ochi luoghi al mondo appaiono al visitatore così carichi di suggestioni quanto la Terra santa. Gli aa. ripercorrono le tappe di
un pellegrinaggio da loro effettuato nel luglio 2005. Ogni c. è dedicato a un luogo, schizzato con veloci pennellate nel suo aspetto attuale, nelle sue vicissitudini storiche e nella sua significatività per la
fede cristiana, sottolineata anche da brevi meditazioni. L’ordine seguito è quello della vita di Gesù: Nazaret, Ain Karim, Betlemme, Lago di Tiberiade, Monte Tabor e Gerusalemme.
P
CAMPLI M., VIGLI M., Coltivare la speranza. Una Chiesa altra per un
altro mondo possibile, Edizioni Tracce, Pescara 2009, pp. 215, €
13,00. 978887433555
opo alcuni decenni di grande efflorescenza di scritti, mancava
una sintesi della vita e delle attività delle comunità di base, fenomeno oggi marginale, ma non privo di storia e di vivacità. I due
aa. coprono questa lacuna. Non solo perché provvedono a un racconto ordinato e onesto della vita di queste esperienze dall’immediato postconcilio sino a tutto il 2008, ma anche perché offrono nelle appendici un prezioso materiale difficilmente recuperabile: la
cronologia essenziale (1969-2008), l’elenco degli incontri nazionali
D
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siglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE). Gli intenti dichiarati erano: promuovere un confronto a raggio europeo sull’IRC,
incoraggiare lo scambio di esperienze tra le diverse comunità ecclesiali, favorire un sentire comune circa il contributo che la religione
dovrebbe poter offrire alla costruzione dell’Europa, cogliere le fila
dei principali dibattiti civili in corso sull’IRC, avviare una riflessione
continuativa sull’evolvere dei contesti educativi nelle varie regioni
del continente. L’inchiesta si è concentrata solo sull’insegnamento
della religione cattolica.
GRAULICH M. (a cura di), Il Codice di diritto canonico al servizio della
missione della Chiesa, LAS, Roma 2008, pp. 106, € 8,00. 978882130701
25 anni dalla promulgazione del Codice, la Pontificia università
salesiana ha organizzato un convegno (gennaio 2008) che dà il
titolo anche al vol. Le cinque relazioni affrontano le relazioni del diritto con il singolo fedele, l’evoluzione dell’insegnamento del diritto come disciplina nelle facoltà teologiche, la presenza e il ruolo del
magistero, la responsabilità del primato petrino, l’iter della riforma
del Codice. Fra gli aa.: i cardd. Grocholewski, Bertone, Kasper e i
monss. Coccopalmerio e Corbellini.
A
KHOURY G.S., Un palestinese porta la croce. Minoranza cattolica in
Palestina, EMI, Bologna 2009, pp. 224, € 14,00. 978883071821
iografia e teologia s’intrecciano in questo vol., il cui a., originario della Galilea, è un arabo cristiano della Chiesa melchita, preside del Dipartimento di teologia della Mar Elias Educational Institutions di Ibilin e membro del centro Al-Liqa’ di Betlemme per il
dialogo tra i popoli. A un ritratto storico e personale della Palestina
degli ultimi decenni s’aggiunge una sezione dedicata alla proposta
di una teologia contestuale palestinese che affronti i nodi della pace, dell’incontro di culture, dell’identità nazionale, del fondamentalismo religioso, della povertà strutturale e della terra.
B
a cura di Matteo Ferrari
Celebrare la Parola
ati in occasione della Settimana
liturgico-pastorale di Camaldoli
2008 (43a edizione), gli interessanti
contributi proposti concentrano la
riflessione attorno alla celebrazione della
Parola e alla connessione tra rito e
Parola, che sono due punti centrali per
la liturgia, per la teologia dei sacramenti
e per la spiritualità.
N
«Quaderni di Camaldoli - sez. Ricerche»
pp. 192 - € 17,20
F
PETRÀ B., La contraccezione nella tradizione ortodossa. Forza della
realtà e mediazione della pastorale, EDB, Bologna 2009, pp. 133, €
13,20. 978881040498
uadro storico della posizione ortodossa sulla contraccezione,
posto in parallelo con l’elaborazione cattolica. Da una parte,
emerge la parentela stretta tra teologia ortodossa e cattolica riguardo alla contraccezione, dovuta al ruolo determinante svolto anche
nell’Ortodossia dalla Tradizione e dal magistero, seppure in una forma diversa rispetto a quella cattolica. Dall’altra nell’Ortodossia vi è
stato un progressivo modificarsi dell’atteggiamento nei confronti
della contraccezione nel tentativo da una parte di mantenere la fedeltà ai contenuti essenziali della Tradizione e dall’altra di tener
conto adeguato della forza della realtà sul credente. Un processo
che è intimamente connesso con il concetto ortodosso di «economia», ovvero con il porre in rapporto legge e realtà, norma e dato
dell’esperienza.
Q
SUOR EMMANUELLE, Straccivendola con gli straccivendoli, EMP Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 158, € 20,00. 978882502061
uor Emmanuelle – al secolo Madeleine Cinquin – è morta nel
2008 all’età di 99 anni. Quando ne aveva 63, dopo anni dedicati
all’insegnamento, si era trasferita in una bidonville del Cairo a condividere la vita degli straccivendoli e a cercare di sollevare le loro
condizioni partendo dall’istruzione e dalla trasmissione di vari tipi
di abilità, accogliendo senza distinzione cristiani e musulmani. Il libro, scritto fra il 1977 e il 1987, racconta in brevi flash episodi e persone che hanno incrociato la vita di suor Emmanuelle facendo trasparire la miseria e le difficili situazioni della gente del luogo – soprattutto di donne e bambini – ma anche la loro semplicità, gioia e
speranza.
S
BALCONI G., Gino Frigerio testimone gioioso della croce, ITL, Milano
2007, pp. 107, € 9,00. 978888025602
CORTESI A., OLIVA A., Una vita di studio nel convento San Domenico a
Pistoia. Padre Armando Felice Verde, Edizioni Nerbini, Firenze
2007, pp. 132, € 12,00. 978888862563
DI LIBERO G., Don Bosco. Apostolo della Parola, LDC, Leumann
(TO) 2007, pp. 87, € 8,00. 978880103709
Filosofia
Dello stesso curatore:
Il frutto delle labbra
Quale idea di sacrificio per la liturgia cristiana
pp. 248 - € 23,00
EDB
PERSANO D. (a cura di), Gli edifici di culto tra stato e confessioni religiose, Vita e pensiero, Milano 2008, pp. 320, € 26,00. 978883431668
rutto di una ricerca specialistica del Centro studi sugli enti ecclesiastici dell’Università cattolica di Milano e di un convegno celebrato nel 1994, il vol. si presenta come strumento di comprensione
e di consultazione sul tema degli edifici sacri. La quindicina di saggi (di altrettanti aa.) indaga dapprima l’ambito della questione: la libertà di culto e la sua esigenza d’edifici in cui esercitarla, la disciplina della costruzione dei templi e il suo allargamento alle confessioni a-cattoliche. Successivamente si affrontano temi più specifici come la legislazione regionale, l’attività delle fabbricerie, gli edifici dismessi, il regime tributario, la caratteristica di beni culturali. Manca
un riferimento agli edifici religiosi di altre religioni, sollecitato invano dal curatore.
Edizioni
Dehoniane
Bologna
BERTI E., Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica, Morcelliana,
Brescia 2008, pp. 279, € 20,00. 978883722164
erzo vol. della collana «Nuovi studi aristotelici» che l’editrice
bresciana presenta a firma dell’a., uno dei massimi esperti di
Aristotele. Sono articoli e saggi pubblicati nell’arco di alcuni decenni e riguardano la filosofia pratica contenuta nelle due Etiche (nicomachea ed eudemea) e nella Politica. I primi dieci cc. riguardano te-
T
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Giovanni Nicolini
mi d’etica (come teoria e prassi, ragione pratica e normatività, la
prudenza, la giustizia come proporzione, il piacere, il concetto di
amicizia, le emozioni). Gli altri sette riguardano tematiche di filosofia politica (la concezione aristotelica dello stato, la società civile, il
filosofo e la città, i barbari di Platone e Aristotele). Testo di studio.
Lo sperpero
di Dio
GUARDINI R., Opera omnia/III. 2. L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, vol. 2, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 596, € 35,00.
978883722296
A cura di Caritas Italiana
E
sce in prima edizione assoluta un testo recuperato dagli inediti
di Guardini e custodito nell’archivio della Katholische Akademie di Monaco di Baviera. Scritto negli anni Trenta e a lungo rimeditato, rappresenta la forma compiuta dell’antropologia cristiana
nel pensiero guardiniano. In parallelo al pensiero dialogico del Novecento, l’immagine dell’uomo si attua nel rapporto strutturale e
fattuale con l’altro, e in particolare con la persona del Cristo. Le sette parti trattano rispettivamente: la posizione del problema, l’incontro con sé e col mondo, l’origine e la creazione, prova e colpa, redenzione, esistenza cristiana, compimento. La connessione fra dimensione religiosa e filosofica dà al testo la caratteristica forma del
pensiero circolare in cui ogni parte è uno spaccato compiuto di un
intero complessivo. Un classico.
ROZANOV V., La leggenda del Grande inquisitore, Marietti, Milano
2008, pp. 186, € 18,00. 978882116589
la ristampa di un testo pubblicato a San Pietroburgo nel 1891 e
tradotto in Italia nel 1989. Lo scrisse Vasilij Vasilevic Rozanov
(1856-1919), scrittore russo apocalittico e tormentato, riprendendo
e «manipolando» la narrazione già divenuta classica del racconto di
Dostoevskij nel romanzo I fratelli Karamazov. Più che un racconto o
un’indagine filologica si tratta di un testo filosofico per una riflessione sui problemi dell’uomo contemporaneo. Rovesciando l’impostazione di Dostoevskij, R. non declina l’inquisitore in senso anticattolico, ma come denuncia valida per l’intera esperienza cristiana. Il
cristianesimo ha svuotato il mondo della sua energia e lo ha consegnato al disastro apocalittico della rivoluzione.
2
È
TOLONE O., Il sorriso di Adamo. Antropologia e religione in Plessner,
Gehlen, Welte e Guardini, Marietti, Milano 2008, pp. 159, € 18,00.
978882118699
I
l percorso filosofico della riflessione dell’a. non segue il tragitto
consueto che dall’indagine antropologica sfocia nella prospettiva
religiosa, ma parte dalla comparazione dell’uomo e dell’animale, radicati nel mondo della vita, mostrando l’eccedenza di cui l’umano è
capace. Un essere a-centrato che può essere interpretato come effettiva disponibilità alla trascendenza. Attorno a questo nucleo si sviluppano vari percorsi come quello della malattia mentale (Plessner)
intesa come naufragio esistenziale, il tema politico (Guardini) e cioè
lo sfondo antropologico delle strutture politiche e quello religioso
(Welte). Di particolare originalità l’indagine sul riso e il sorriso, indice di un possibile trascendimento della costituzione naturale dell’umano, capacità di prendere distanze del mondo, dagli altri e da
se stessi.
VICINI A., Genetica umana e bene comune. Manoscritto, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 578, € 38,00. 978882156136
esuita, pediatra e docente di teologia morale, l’a. sceglie di affrontare le problematiche sollevate dai recenti progressi della
genetica umana assumendo come criterio il bene comune. Nella I
parte è quindi presentato il principio del bene comune a partire da
un itinerario storico-ermeneutico; quindi (II) vengono identificate
le nuove sfide morali, in particolare l’informazione genetica. Infine
nella III parte si esprimono con prudente equilibrio delle «aperture
interdisciplinari critiche», che riescono efficacemente a rendere la
complessità della materia e la necessità di porsi in modo critico, ma
anche propositivo e innovativo, «sulla soglia».
alle 35 brevi meditazioni di don Nicolini
emerge l’invito a costruire percorsi di
incontro e di condivisione coi poveri che aiutino
ad allargare lo sguardo. Con grande talento
comunicativo l’autore offre pagine agili, vive e
penetranti, che rendono il testo una piacevole e
stimolante lettura, adatta a ogni credente e non
solo a chi si occupa di carità.
D
«Itinerari»
pp. 120 - € 7,90
G
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Dello stesso autore:
Cose di questo mondo
pp. 232 - € 18,00
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
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ibri del mese / schede
Storia, Saggistica
CAMPANINI M., L’esegesi musulmana del Corano nel secolo Ventesimo,
Morcelliana, Brescia 2008, pp. 158, € 14,00. 978883722283
el Novecento ha avuto luogo nell’islam un’intensa attività interpretativa sul Corano, non inferiore a quanto avvenuto nel Medioevo, perché – come in quell’epoca di profonda evoluzione – i
musulmani si sono dovuti confrontare con l’Occidente della modernità. Accanto a correnti di esegesi radicale si sono fatte avanti scuole che, per spianare la strada alla riforma e al rinnovamento, hanno
sostenuto che il Corano vada inteso come un testo della prassi, partendo dalla scoperta della sua testualità. Qui sono accuratamente
presentate tutte le scuole principali del secolo scorso, da quelle classiche a quelle che spingono verso la storicizzazione e contestualizzazione, comprese quelle «della liberazione», e a quelle radicali o politiche.
N
DAKOURI S., La donna araba tra presenza e assenza. L’harem del XXI
secolo, Marietti, Milano 2008, pp. 157, € 16,00. 978882116450
viluppando gli spunti già tracciati nel saggio scritto per Il Regno
(«Donne, religione, sessualità. Nell’islam di oggi, una riflessione
dall’interno», in Regno-att. 16,2006,514), l’a. – musulmana sunnita,
ricercatrice presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Damasco
– documenta accuratamente a partire da fonti storiche, letterarie,
religiose, economiche, legislative e sociali tutte le forme di discriminazione a cui sono condannate le donne dalla strutturazione maschilista del mondo arabo: lo stereotipo culturale della donna angelo-demonio, le tradizioni che la limitano al ruolo di procreatrice, le
S
legislazioni discriminatorie sul lavoro, l’umiliante vita sessuale, la responsabilità che le stesse donne hanno nel perpetuare lo status quo.
Il velo, su cui tanto si dibatte in Occidente, a ben vedere è un falso
problema rispetto alle proporzioni incommensurabili della crisi sociale che sta investendo tutta quella cultura.
DE FRANCESCO I. (a cura di), La ricerca del Dio interiore. Nei detti dei
precursori del sufismo islamico, Paoline, Milano 2008, pp. 364, €
18,50. 978883153523
«N
on ho servito Dio per timore del suo inferno né per amore
del suo paradiso. (…) L’ho servito per amore di lui e per desiderio di lui»: è uno dei detti di Rabi‘a, la donna considerata simbolo del sufismo islamico, l’ultima dei ventitré personaggi di cui si presentano qui detti e aneddoti e che sono considerati dei precursori
del sufismo. Un’ampia Introduzione contestualizza i testi nel loro
ambiente storico e geografico, la Bassora compresa fra la metà del
VII secolo e l’inizio del I, ne anticipa i temi, ne mette in luce le risonanze comuni ad altre religioni – ebraismo e cristianesimo in primis
– e fornisce notizie biografiche sui personaggi. L’Appendice sinteticamente espone gli sviluppi successivi del misticismo islamico e i
suoi conflitti con dottori della legge e teologi. Un libro significativo
perché «in un tempo in cui il tema del dialogo tra le culture tiene
banco, la via più semplice e sicura (…) è quella di rintracciarlo direttamente nella miniera delle fonti antiche».
DI SAPIO A., MEDI M., Il lontano presente: l’esperienza coloniale italiana. Storia e letteratura tra presente e passato, EMI, Bologna 2009,
pp. 288, € 14,00. 978883071857
e «il futuro non esiste senza memoria», allora il domani dell’Italia s’intreccia con la ricerca del suo passato, anche nelle pagine
più dolorose e coperte da oblio. Il colonialismo italiano in Africa è
stato per decenni il capitolo più ampio di questo meccanismo di rimozione collettiva. Il lavoro storiografico sulla presenza italiana nel
Corno d’Africa è cresciuto negli ultimi anni in maniera decisa. Il vol.
intreccia storiografia e didattica, presentando il colonialismo italiano come un fenomeno con cui gli insegnanti non possono più evitare di fare i conti, offrendo numerosi spunti e fonti cui ricorrere,
dalla memorialistica alla cinematografia. Particolarmente interessante la parte dedicata alle scritture africane e meticce.
S
Basilio Petrà
La contraccezione
nella tradizione ortodossa
Forza della realtà e mediazione pastorale
autore delinea un quadro storico
della posizione ortodossa sulla
contraccezione, allo scopo sia di verificare
l’atteggiamento proprio di quella Chiesa
sul tema, sia di creare un parallelo con
l’elaborazione della Chiesa cattolica. Il
testo apre a interessanti confronti tra le
diverse posizioni delle due Chiese su un
argomento di grande attualità pastorale.
L’
P
SCHWARZ A., La donna e l’amore al tempo dei miti. La valenza iniziatica ed erotica del femminile, Garzanti, Milano 2009, pp. 277, € 19,60.
978881174079
L’
«Etica teologica oggi»
pp. 136 - € 13,20
Dello stesso autore:
La Chiesa dei Padri
Breve introduzione all'Ortodossia
pp. 120 -
EDB
MAGNANI A., Giulia Domna. Imperatrice filosofa, Jaca Book, Milano
2008, pp. 142, € 15,00. 978881643521
rosegue il percorso della collana dedicata a figure femminili di
spicco nel periodo di passaggio fra la tarda antichità e il Medioevo. Questa tappa è incentrata su Giulia Domna, presumibilmente vissuta fra il 170 e il 218, moglie dell’imperatore Settimio Severo e madre del suo successore, Caracalla. L’a. traccia la storia dell’imperatrice inquadrandola negli ambienti e nei momenti storici da lei attraversati al fine d’intravvedere nei resoconti delle fonti il ruolo da lei
rivestito nelle politiche del marito e del figlio, in particolare nella
progressiva assolutizzazione del potere e nell’orientalizzazione dell’impero romano. Un racconto godibile oltre che interessante.
Edizioni
Dehoniane
Bologna
€ 11,70
a., tra i massimi esperti di cabbala e alchimia, rielabora qui alcuni dei lavori prodotti in decenni di attività. Il tema è la descrizione del valore iniziatico detenuto dal principio femminile in
molte religioni e mitologie preistoriche e pagane originarie di varie
parti del mondo, con una particolare attenzione verso l’induismo. Il
femminile, indissolubilmente legato all’amore erotico e alla capacità
di generare, è associato alla luce e all’acquisizione della conoscenza.
Il percorso, con frequenti riferimenti alla psicanalisi junghiana, termina con la concezione dell’amore nell’arte indiana, nell’alchimia,
nella cabbala e nel surrealismo.
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Gianfranco Ravasi
SEDAKOVA O., Solo nel fuoco si semina il fuoco. Poesie, Qiqajon,
Magnano (BI) 2008, pp. 174, € 12,00. 978888227270
la prima antologia in italiano dedicata a questa poetessa russa
contemporanea, molto apprezzata in patria e soprattutto all’estero e insignita di numerosi e prestigiosi riconoscimenti. Le opere
proposte – in cui risuonano reminescenze bibliche – sono tratte da
diverse raccolte e sono corredate di note esplicative al termine del
vol., talvolta della stessa a. L’Introduzione, seguita da una sintetica
nota bio-bibliografica sull’a. ne contestualizza la vita e la formazione, descrivendo brevemente l’Unione Sovietica degli anni Settanta e
lo sforzo da parte degli intellettuali della sua generazione di recuperare la tradizione letteraria russa e occidentale.
Il Cantico
dei Cantici
È
Quattro conferenze
tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano
VACCARO L. (a cura di), Storia religiosa dell’islam nei Balcani, ITL,
Milano 2008, pp. 536, € 20,00. 978888025668
completamento del trittico sui popoli balcanici (gli altri voll. sono Storia religiosa di Croazia e Slovenia e Storia religiosa di Serbia
e Bulgaria, cf. qui a p. 473), il vol. propone i saggi presentati alla
XXVIII Settimana europea della Fondazione ambrosiana «Paolo
VI». Vi si analizzano fasi, metodi e risultati della conquista e della diffusione dell’islam, e di riflesso anche delle confessioni cristiane nei
Balcani prima durante il processo d’islamizzazione e poi in quello di
de-islamizzazione. Tutto questo in vista di aiutare le Chiese cristiane
ad assumersi oggi il compito di una pacificazione di quella regione,
che appare ancora una polveriera.
A
BUONANNO M., La bella stagione. La fiction italiana, l’Italia nella fiction. Anno diciottesimo, Rai, Roma 2007, pp. 347, € 20,00.
978883971425
MASSA R., L’evoluzione. Il viaggio della materia vivente, Jaca Book,
Milano 2007, pp. 238, € 80,00. 978881660370
ZANETTO M., Donne veneziane. Sensibilità e volontà femminili nella
Serenissima, Firenze Atheneum, Firenze 2008, pp. 157, € 14,20.
978887255322
Politica, Economia, Società
AGASSO R., AGASSO D. JR, Il piombo e il silenzio. Le vittime del terrorismo in Italia (1967-2003), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008,
pp. 237, € 15,00. 978882156201
«Q
uesto è un libro di parte. Dalla parte dei caduti, dei feriti e delle loro famiglie. (…) Dalla parte dello stato»: la frase riassume
l’intendimento del libro, che vuole fare memoria di tutte le vittime di
tutti i terrorismi nel nostro paese per contrastare l’abitudine dell’«Italia vigliacca e smemorata» di riabilitare troppo facilmente personaggi
macchiatisi di gravi delitti, talvolta ammettendoli ai livelli più alti delle istituzioni. Dopo una Presentazione che sostiene queste tesi e afferma che la sinistra ancora oggi rifiuta di fare i conti con le proprie responsabilità in questo senso, il libro nomina in ordine cronologico le
356 vittime del terrorismo – talvolta velocemente, talvolta con profili
più ampi – coi rispettivi carnefici, arrivando fino al 2003.
BERTIN G. (a cura di), Invecchiamento e politiche per la non autosufficienza, Erickson, Gardolo (TN) 2009, pp. 300, € 21,00. 978886137389
l consistente invecchiamento della popolazione dei paesi occidentali e in particolar modo del nostro inducono a domandarsi quali
saranno le ripercussioni sui sistemi di welfare. Il libro, scaturito dalle
attività di ricerca dell’Università di Venezia per conto della Regione
Veneto, offre i contributi di diversi specialisti – sociologi, demografi, geriatri, urbanisti – per arricchire la comprensione del fenomeno
e le sue possibili tendenze di sviluppo. La I parte descrive i cambiamenti demografici in atto nell’età della popolazione e nell’organizzazione delle famiglie, la II le politiche potenzialmente attuabili,
con uno sguardo alle esperienze europee.
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ons. Ravasi commenta il Cantico dei
Cantici: le quattro conferenze sono
proposte in un unico CD formato MP3. Uno
strumento adeguato al pubblico di oggi, che
si avvale della chiarezza espositiva e della
profondità del rinomato biblista.
M
«Lettura della Bibbia»
Cofanetto con CD/MP3 - € 16,20
Dello stesso autore:
Il libro della Genesi 1 e 2
Dieci conferenze
tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano
Cofanetto con 2 CD/MP3 - € 32,40
EDB
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ibri del mese / schede
D’A MBROSIO R., P INTO R., La malpolitica, Di Girolamo Editore,
Trapani 2009, pp. 61, € 5,90. 978888777846
«S
e vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo
sguardo sulle fioche luci lontane» (I. Calvino). Per aiutare
la riflessione nei percorsi di cittadinanza attiva e responsabile nel
mezzo di una crisi che è politica ma anche sociale, culturale, religiosa, economica, un filosofo e una psichiatra – avvalendosi delle
categorie proprie delle loro specializzazioni – cercano di capire
quanto buio abbiamo intorno proprio concentrandosi sulle fioche luci. Sono brevi suggestioni, ma offrono spunti per pensare.
DATI R., Il viaggiatore responsabile. Un altro turismo in Africa,
Asia, Medio Oriente e America Latina, Infinito edizioni, Castel
Gandolfo (RM) 2009, pp. 208, € 14,00. 978888960248
ulminato sulla via del turismo, si potrebbe dire dell’a., che a
partire dagli anni Novanta è diventato un instancabile divulgatore dell’idea di responsabilità applicata al viaggio, troppo
spesso invece vissuto come mero svago. Così propone nel vol. 10
itinerari tra Africa, America centrale, Asia e Medio Oriente, con
la raccomandazione di «mettere in valigia il cuore senza dimenticare la testa».
F
DELLA RATTA D., V ALERIANI A. (a cura di), Un Hussein alla Casa
Bianca. Cosa pensa il mondo arabo di Barack Obama, Casa editrice Odoya, Bologna 2009, pp. 215, € 15,00. 978886288027
L’
elezione di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti ha certamente aperto una stagione nuova da molti
punti di vista, più o meno evidenti. L’ipotesi che il presente vol. si
Mario Aldegani
è incaricato di dimostrare, attraverso un’ampia ricognizione sui
mass media arabi più rappresentativi e su una serie di blog criticamente selezionati, è che in particolare questa nuova stagione interessi i rapporti tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, che nei confronti del nuovo presidente non ha nascosto di nutrire aspettative. Il discorso di Obama al Cairo (cf. Regno-doc. 13,2009,446), tenuto quando il libro era già sugli scaffali delle librerie, ha offerto
una risposta positiva all’interesse documentato dal vol.
FERRETTI G., Cattolici e politica. Dal romanticismo alla diaspora,
LibreriadelSanto.it, Padova 2008, pp. 130, € 11,50. 978888903427
i professione insegnante di materie economiche e revisore
contabile, in questo lungo saggio l’a. racconta in stile divulgativo la vicenda dei cattolici impegnati in politica a partire dalla metà dell’Ottocento fino a oggi. Il fatto di guardare all’esperienza della DC come «un’esperienza davvero unica» e di riferimento fino al suo «sorprendente tracollo e conseguente scioglimento» condiziona l’interpretazione del successivo quindicennio
di transizione e «diaspora» dei cattolici come una situazione gravida di pericoli, soprattutto per quelli tra loro che hanno scelto
di aderire al Partito democratico.
D
FOSCHI M., Vite senza permesso. Interviste ad ambulanti immigrati, EMI, Bologna 2009, pp. 157, € 12,00. 978883071209
«I
l mio sogno è avere il permesso di soggiorno per lavorare
onestamente e tornare in Senegal, per sempre, a fare il
commerciante e a coltivare la terra». Storie di migranti venditori
ambulanti, raccolti dall’a., giornalista free lance, che con questo
libro dà voce a «coloro che giungono da altri continenti per sfidare l’ignoto, alla ricerca di una vita dignitosa», «a donne e uomini migranti che nonostante le difficoltà e le tragedie sono messaggeri di pace e vita e seminano speranze, umanità e utopia nel
ricco Nord del pianeta». 14 storie migranti, voci di un’altra Italia
che sfata pregiudizi e insegna culture.
MOVIMENTO ECCLESIALE DI IMPEGNO CULTURALE , Progetto Camaldoli.
Idee per la città futura, Studium, Roma 2008, pp. 140, € 15,00.
978883824080
“Levate lo sguardo”
Un pensare positivo
sulla vita religiosa di oggi
a vita consacrata si trova in un
momento particolare: di cambiamento
ovunque e di difficoltà in molti contesti.
In tale situazione, l’autore individua i
pericoli più frequenti nelle fughe, in avanti
o all’indietro. Il volume insegna ad abitare
il presente recuperando una spiritualità
non legata alle cose da fare, ma radicata
nell’interiorità del singolo e della vita
comune.
L
«Problemi di vita religiosa»
pp. 96 - € 7,90
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
I
n un contesto qualificato unanimemente come di decadenza
della politica e più in generale della società italiana, «il titolo
dato a questo lavoro evoca volutamente la straordinaria esperienza spirituale e ambientale di Camaldoli, come legame ideale con
una vicenda iniziata oltre 65 anni fa, quando i nostri diretti predecessori del Movimento laureati di Azione cattolica diedero vita
a un documento tra i più interessanti della storia italiana del Novecento, quei Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo
di studiosi amici di Camaldoli poi conosciuti come “Codice di Camaldoli”». L’intento è di aprire un dibattito comune sul futuro
del paese sui temi dell’umanesimo, del lavoro, dell’ambiente e
della cittadinanza partecipata.
Pedagogia, Psicologia
BUGINI F., G RUPPO ASPERGER ONLUS (a cura di), Uno di loro.
Adolescenza e sindrome di Asperger, Erickson, Gardolo (TN)
2008, pp. 134, € 12,00. 978886137317
«Q
uesti Asperger hanno una cosa in comune: non riescono
a farsi molti amici anche se un po’ vorrebbero»: è la descrizione semplice della sindrome di Asperger, solo da pochi anni riconosciuta come specifica patologia, fatta da un ragazzo che
ha un cugino che ne soffre. Il libro affronta le difficoltà derivanti dalla malattia soprattutto nella fase adolescenziale, in cui ogni
ragazzo vorrebbe costruirsi un’autonomia attraverso la socializzazione. Il 1o c. descrive la sindrome, il 2o fornisce suggerimenti
pratici per farvi fronte a scuola, il 3o riporta l’esperienza di una
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Le Lettere
di Paolo
madre, il 4o raccoglie testimonianze di familiari di questi ragazzi
«particolari».
CORBELLA C., Resistere o andarsene? Teologia e psicologia di fronte alla fedeltà nelle scelte di vita, EDB, Bologna 2009, pp. 190, €
16,90. 978881050842
nche per le scelte di vita un tempo ritenute irrevocabili, perché legate alla fede – consacrazione religiosa, sacerdozio,
matrimonio sacramentale –, si assiste al loro sbriciolarsi nelle età
più diverse e per le circostanze più varie. Ciò sta portando alcuni, anche all’interno del mondo cattolico, a teorizzare l’impossibilità, oggi, di una fedeltà per sempre. Il vol. si colloca in questo
dibattito, domandandosi se la fedeltà sia necessariamente connessa con il crescere e svilupparsi dell’identità personale oppure
sia una forzatura esterna. E nella ricerca di una risposta mette in
dialogo le ragioni della teologia con le acquisizioni della psicologia del profondo.
Dalla Bibbia di Gerusalemme
A
Prefazione di Romano Penna
FERRISI P.A., F ERRISI P., Il dialogo della vita. Testo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo
grado. Volume 1, EDB, Bologna 2009, pp. 207, € 8,90.
978881061234
FERRISI P.A., F ERRISI P., Il dialogo della vita. Testo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo
grado. Volume 2, EDB, Bologna 2009, pp. 160, € 8,90. 978881061235
FERRISI P.A., F ERRISI P., Il dialogo della vita. Testo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo
grado. Volume 3, EDB, Bologna 2009, pp. 207, € 8,90.
978881061236
I
l testo presenta l’ora di religione come punto d’intersezione
tra varie discipline con l’intento di favorire nell’allievo lo sviluppo della capacità di cogliere come la dimensione religiosa
non costituisca una sfera autonoma e separata rispetto alle altre
manifestazioni della cultura, ma al contrario abbia contribuito alla loro elaborazione, fin dal più lontano passato. D’altro canto, la
comprensione del fenomeno religioso presuppone ed esige la conoscenza delle altre forme del sapere umano, senza le quali esso
risulterebbe del tutto inavvicinabile. Queste operazioni di collegamento sono state attuate mediante quattro tipi di schede: «Il
vocabolario» (schede lessicali riguardanti unicamente la terminologia specifica della disciplina); «L’approfondimento» (schede
tematiche su contenuti specifici dell’IRC); «Saperi in dialogo»
(schede interdisciplinari, distinte in quattro categorie: storia –
letteratura – arte – scienza – musica); «Non tutti sanno che...»
(schede-curiosità volte a legare la dimensione religiosa a contenuti di cultura generale).
TRIANI P., V ALENTINI N., L’arte di educare nella fede. Le sfide culturali del presente, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2008, pp.
191, € 14,50. 978882502232
l papa porta frequentemente l’attenzione verso «l’emergenza
educativa», che ci troviamo oggi ad affrontare. Il libro raccoglie i contributi di pedagogisti, teologi e operatori pastorali –
contributi frutto di seminari e conferenze promossi dall’Istituto
superiore di scienze religiose «A. Marvelli» e dall’Ufficio catechistico della diocesi di Rimini – sul tema dell’educazione alla fede,
partendo dalla lettura del tempo presente e dal recupero delle
motivazioni all’educazione e sottolineando il ruolo imprescindibile della comunità. Un’attenzione particolare viene dedicata all’età adolescenziale.
I
e Lettere di Paolo e la Lettera agli Ebrei sono
proposte nella nuova traduzione CEI,
accompagnate dalla ricchezza degli apparati della
nuova Bibbia di Gerusalemme: nuovi commenti,
introduzioni e note degli studiosi dell’École
Biblique di Gerusalemme. La prefazione di uno
specialista degli scritti dell’Apostolo, quale il
prof. Romano Penna, costituisce un ulteriore
importante contributo alla fruizione del testo.
L
«Bibbia e testi biblici»
pp. 240 - € 5,90
COX J., H OLDEN J., Maternità e psicopatologia. Guida all’uso
dell’Edinburgh postnatal depression scale, Erickson, Gardolo
(TN) 2008, pp. 189, € 20,00. 978886137323
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EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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J. WESLEY,
LA PERFEZIONE
DELL’AMORE.
Sermoni,
Claudiana, Torino
2009, pp. 323,
€ 30,00.
978887016736
P
astore instancabile che compose ed
espose a tutte le fasce sociali, a cominciare da quelle più disagiate, più di
40.000 sermoni; teologo dotato di solida preparazione universitaria, «homo unius libri»,
vale a dire uomo della Bibbia come egli stesso ebbe modo di definirsi, John Wesley resta
ancora, per la maggioranza dei lettori italiani,
un autore pressoché sconosciuto.
Di questo cristiano, dalla cui predicazione
iniziò il fenomeno del «Risveglio» che tanto
profondamente influenzò il mondo anglosassone posto sulle due sponde dell’Atlantico,
l’editrice Claudiana con il volume La perfezione dell’amore, a cura di F. Cavazzutti Rossi
e con introduzione di P. Ricca, propone una
scelta di venti sermoni che, cronologicamente disposti, ripercorrono la sua intera esistenza spirituale.
Venti sermoni su 40.000 potrebbero sulle
prime sembrare una goccia del tutto insignificante per delineare un profilo del fondatore
del metodismo. Eppure in essi è racchiuso il
cuore pulsante di un cristiano che, come ha
sottolineato Karl Barth nella sua Dogmatica,
«con il suo appello veemente alla cristianità
senza dubbio battezzata, ma non convertita
e che aveva sommo bisogno di essere convertita, ha avuto una tale influenza sulla morale del suo popolo e del suo paese, che si è
potuto parlare, non senza ragione, di due Inghilterre del tutto diverse: quella “prima” e
quella “dopo” Wesley».
Chi era, dunque, John Wesley? Quale fu il
messaggio evangelico di questo pastore itinerante che predicava due o tre volte al giorno con una media di 800 sermoni annui? Nato a Epworth, in Inghilterra, il 17 giugno 1703
dopo aver compiuto i suoi studi all’Università
di Oxford diviene pastore della Chiesa d’Inghilterra.
Debitore per un verso nei confronti del
pietismo – la corrente che insisteva sull’aspetto interiore della religione accompagnato da un’assidua lettura biblica – e per un altro alla tradizione seicentesca dei puritani –
che si battevano per riportare la pietà, la liturgia, la teologia della Chiesa alla purezza del
cristianesimo delle origini –, Wesley fu un
personaggio scomodo, qualità inevitabile per
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chi, pur senza definirsi tale, ebbe un ruolo da
«profeta».
La sua predicazione consolava e, al tempo stesso, irritava, costruiva nel rinnovare le
coscienze, ma demoliva certezze fondate
sull’ipocrisia: la sua predicazione dovette fare
i conti – e li fece sino in fondo – con un’Inghilterra caratterizzata dall’indifferenza religiosa e dalla rivoluzione industriale contrassegnata dal passaggio, certamente non indolore, dall’economia agricola a un’economia
nella quale diventano perni centrali la fabbrica, la catena di montaggio, lo sfruttamento
sempre più sistematico della forza lavoro delle masse a cui sempre più affievolito giunge,
da parte della Chiesa anglicana, la parola della Bibbia, la speranza del suo Regno.
In tale congiuntura economica e sociale
la storia personale di Wesley ancora oggi sorprende, sconcerta, cattura. Sorprende perché
il nostro, pur provenendo da un ambiente
borghese di cui fece parte integrante sino alla fine, si pose in relazione con i diseredati,
con i proletari ante litteram dell’epoca: è in
assoluto la prima evangelizzazione nella storia cristiana moderna, come giustamente sottolinea Paolo Ricca nel denso saggio introduttivo al volume.
Sorprende anche perché pur non essendo amato dalle gerarchie della Chiesa anglicana non volle mai rompere con quest’ultima: si
batté affinché le sue «società metodiste» vi
restassero dentro come una sorta di lievito
per una rigenerazione cristiana che si sarebbe
estesa non solo nel corpo ecclesiale, ma anche all’intera società. Wesley, d’altra parte,
sconcerta anche per il fallimento («il fiasco
umiliante») che subì durante il suo periodo
americano – dal febbraio 1736 al dicembre
1737 –, durante il quale non riuscì nell’opera di
evangelizzazione tra gli indiani e si attirò le
aperte ostilità dei coloni inglesi, e per il modo in cui avvenne la sua seconda conversione
(la prima era avvenuta nel 1725).
Da come si può leggere dal suo Journal
erano le 9 meno un quarto della sera del 24
maggio 1738 e si trovava in Aldersgate Street
a Londra. Si era recato a una riunione di Fratelli moravi che nella capitale britannica avevano una loro comunità.
Mentre leggevano una pagina del commento di Lutero alla Lettera ai Romani riguardante il cambiamento che Dio compie nel
cuore dell’uomo per il tramite della fede in
Cristo, «sentii – scrive Wesley – il mio cuore
riscaldarsi stranamente. Sentii che confidavo
in Cristo e in Cristo soltanto per la mia salvezza; e ricevetti l’assicurazione che aveva tolto i
miei peccati e che mi salvava dalla legge del
peccato e dalla morte».
Certamente l’equipaggio di pesanti ombre che gravavano sul suo animo non furono
tutte dissolte nel corso di quella sera: ciò che,
invece, è importante rilevare da questo episodio è che Wesley si dichiara figlio della
Riforma luterana del XVI secolo, figlio, dunque, risvegliato che, pur nelle differenze che
lo separeranno dal Riformatore di Wittenberg, pone come «pietra angolare dell’intero
edificio cristiano» la giustificazione per grazia
mediante la fede.
Infine, cattura. Tutta la sua teologia è racchiusa in primo luogo nei suoi sermoni, nei
quali risuona come Leitmotiv la parola biblica
«santificazione». Per Wesley, infatti, se è vero
che non c’è «santificazione» senza giustificazione, è anche vero che «la vera e propria salvezza cristiana – per cui è per grazia che siamo salvati mediante la fede – (…) si compone
di due grandi elementi: la giustificazione e la
santificazione. Con la giustificazione siamo
salvati dalla colpa del peccato e siamo restituiti al favore di Dio; la santificazione ci salva
dal potere e dalla radice del peccato e restaura in noi l’immagine».1
Questa restaurazione comporta che la
stessa «giustificazione e la nuova nascita sono inscindibili [ma]… di natura diversa. La giustificazione implica un cambiamento relativo
(cioè nella relazione che Dio stesso vuole instaurare con noi esseri umani; ndr) e la nuova
nascita un cambiamento effettivo: quando
Dio ci giustifica opera qualcosa per noi; nel
darci una vita nuova opera in noi. Nel primo
caso egli muta il nostro rapporto con lui così
che, da nemici quali eravamo, diveniamo suoi
figli; nel secondo egli cambia nel profondo la
nostra interiorità così che, da peccatori, siamo trasformati in santi. Il primo ristabilisce in
noi il favore di Dio, il secondo la sua immagine; l’uno toglie la colpa, l’altro il potere del
peccato su di noi».2
Forte di questo presupposto Wesley
poté parlare di «circoncisione del cuore»,3
cioè la perfezione cristiana intesa come l’amore perfetto che il cristiano nel corso della
sua esistenza si prefigge di raggiungere nei
confronti di Dio e nei confronti del suo prossimo, amore che affonda le sue radici nella
fede in Cristo. Se a Wesley fu vietato di predicare in una parrocchia tutta sua, questo
non lo disarmò nella sua missione: il mondo
dei diseredati, degli umili, dei vinti, degli offesi fu la sua parrocchia. A essi dedicò i suoi sermoni che restano fra le più alte testimonianze di un cristiano catturato dall’amore per la
Parola vivente.
Domenico Segna
1
Sermone «Adoperarsi al compimento della propria salvezza», 278.
2
Sermone «Il grande privilegio di chi è nato da Dio», 125.
3
Sermone «La circoncisione del cuore», 37.
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A. FOA,
DIASPORA.
Storia degli ebrei
nel Novecento,
Laterza, Roma –
Bari 2009, pp. 288,
€ 19.00.
978884208832
T
utte le opere di sintesi richiedono il
coraggio di lasciar fuori qualcosa di
quanto, in principio, era ritenuto pressoché indispensabile. Perciò più di altre esse
esigono dall’autore decisioni non semplici e
soggette, fino all’ultimo, a ripensamenti. Se
ciò vale in generale, la constatazione si fa particolarmente vera per un volume di storia
che, senza far ricorso a una base documentaria di prima mano, vuole proporre al lettore
un quadro d’assieme. Con tutta consapevolezza, proprio in questa direzione si è mossa
Anna Foa.
Tipico del lavoro dello storico è trovare
pietre miliari per demarcare un tempo diverso dal fluire omogeneo caratteristico dei calendari. L’autore deve individuare sia continuità, sia punti di svolta. Rispetto alla storia
del Novecento, qualunque sia l’approccio
adottato si è concordi almeno su un punto:
essa non inizia nel 1900 e non termina nel
1999. La più nota periodizzazione è quella legata all’espressione «secolo breve»; essa però
non risulta particolarmente significativa per
la storia ebraica. Foa ne propone un’altra che
inizia e finisce prima, dal 1880 circa alla fine
degli anni Settanta. La scelta giustifica il titolo, Diaspora, che altrimenti rischierebbe di
suonare sconcertante per un secolo in cui si è
realizzato il progetto sionista di fondare lo
Stato d’Israele. Dal canto suo l’arco scelto,
che prende le mosse dalle grandi emigrazioni
ebraiche dall’Europa dell’Est, addita a un tempo la perdita di centralità dell’ebraismo europeo e la sua irrinunciabile portata storicomemoriale.
Come ben documenta il libro, allo scadere del XX secolo, gli sviluppi della storia ebraica si decidono in Israele e negli Stati Uniti e
non più nel Vecchio continente. Eppure è
proprio nel corso degli anni Settanta che si
assiste all’irreversibile acquisizione della
Shoah come punto di svolta dell’intera vicenda ebraica. A renderla tale è stato non semplicemente l’accaduto, bensì la presa di coscienza storica a essa collegata, fenomeno
che ha avuto, forse, la sua prima grande manifestazione pubblica in occasione del processo Eichmann (1961; cf. 213-223). Forzando
un po’ i termini, si potrebbe affermare che
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l’Europa ebraica orientale ha riversato fuori di
sé nell’ordine: una parte della sua popolazione, il programma politico sionista e le memorie legate al progetto, in gran parte riuscito,
del suo annientamento. Diaspora, appunto.
La scelta di terminare la narrazione con la
fine degli anni Settanta sta implicitamente a
indicare che l’oggi ebraico è in parte già diverso da quell’immediato ieri. Il fattore discriminante, va da sé, si trova nella vicenda che ha
il proprio punto di partenza nella rivoluzione
iraniana del 1979 da cui dipendono, in buona
misura, l’ineliminabile presenza dell’islam politico nel mondo contemporaneo e, più nello
specifico, il suo confronto con Israele e, di riflesso, con l’intera realtà ebraica. In effetti,
qui siamo all’inizio di una storia che, a buona
ragione, potrebbe essere qualificata post-novecentesca.
Le considerazioni fin qui esposte valgono
soprattutto in relazione all’impianto interpretativo del volume. Tuttavia il testo di Foa si
presenta anche come un manuale che espone e ordina la storia degli ebrei nel corso del
XX secolo. Un lettore che voglia orientarsi
sulla presenza degli ebrei nella modernità, sugli antisemitismi, sul sionismo, sulla Shoah,
sulla nascita dello Stato d’Israele, sugli attuali
problemi connessi alle identità ebraiche e così via troverà in questa pagine una guida capace di ricapitolare per lui i contenuti più rilevanti.
Piero Stefani
G. BRUNI,
MARIOLOGIA
ECUMENICA.
Approcci –
Documenti –
Prospettive.
EDB, Bologna 2009,
pp. 576, € 44,90.
978881080856
I
nvitare un valdese come me a presentare
un libro di mariologia, anche se ecumenica, è un rischio. Perché un rischio? Perché
i valdesi e i protestanti in genere s’interrogano da sempre sull’utilità, sulla necessità e
persino sulla legittimità di una mariologia,
anche se val forse la pena ricordare che la nostra Confessione di fede, riformata nel 1655, si
conclude con una «breve giustificazione» intorno a quei punti della dottrina cristiana
«dei quali i dottori della religione romana sono soliti accusare le nostre Chiese». «Siamo
ordinariamente accusati» di 15 atteggiamenti
e posizioni che invece non sono affatto no-
stre. La 15a riguarda Maria e dice: «Perché non
invochiamo la santa Vergine, e gli huomini già
glorificati (i santi), siamo accusati di sprezzargli, là dove noi gli stimiamo beati, degni di lode e imitazione; e particolarmente teniamo la
gloriosa Vergine benedetta sopra tutte le
donne».
Ma anche se è vero che «teniamo la gloriosa Vergine benedetta sopra tutte le donne», la distanza tra la mariologia cattolica, anche ecumenica, e quella evangelica (nella misura in cui si può parlare di «mariologia evangelica»), resta davvero grande. Perciò non è
senza un certo imbarazzo che mi accingo a
presentare questo libro, perché da un lato lo
debbo lodare sia per il suo contenuto sia per
lo spirito che lo anima, dall’altro non posso
non chiedermi se la via qui indicata per giungere alla piena comunione tra cattolici, protestanti e ortodossi sia quella buona o quella
migliore.
Anzitutto le lodi che il volume merita. La
prima riguarda il contenuto. L’orizzonte del
volume è effettivamente ecumenico, direi
dalla prima all’ultima pagina, con due caratteristiche salienti: il dibattito attuale, grosso
modo a partire dal Vaticano II – e qui devo segnalare il rilievo dato alle posizioni dell’evangelismo italiano –, e i dialoghi ufficiali (pp.
169-376, dunque più di 200 pagine in cui i documenti (cattolici-evangelici, anglicani-cattolici, anglicani-ortodossi, ortodossi-vecchio cattolici, cattolici-luterani USA, ortodossi-ortodossi orientali) non sono semplicemente riprodotti, ma vagliati, valorizzati, sintetizzati) e
documenti non ufficiali (qui c’è un piccolo lapsus: il documento sinodale sull’ecumenismo
è un documento ufficiale [424]), in cui grande
rilievo è dato al Gruppo di Dombes (429-534).
Quindi insomma ci troviamo davanti a una
documentazione amplissima, non solo riprodotta, ma elaborata, quindi una grande ricchezza di dati, di pensieri, di prospettive.
La seconda lode, più che sul contenuto,
sul metodo è che Bruni utilizza ampiamente
e coraggiosamente la categoria della «gerarchia delle verità», quindi distingue tra verità
primarie e verità secondarie o derivate,
aprendo spazi di comunione finora inesistenti, in quanto le verità derivate non sarebbero
obbliganti, per tutti, tanto più che i dogmi
mariani sono stati proclamati dalla sola
Chiesa cattolica, non possono quindi essere
imposti a Chiese che non sono neppure state
consultate quando furono proclamati. La seconda categoria utilizzata dall’autore è quella del consenso differenziato – applicato in
particolare alla Dichiarazione sulla giustificazione, ma anche prima – per cui si è d’accordo su affermazioni fondamentali e si differisce su questioni di minor rilievo. Il fatto di
utilizzare queste due categorie è positivo e
meritevole di elogio.
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C’è poi una lode sullo spirito che anima
queste pagine: spirito di ascolto anche di posizioni fortemente critiche nei confronti della mariologia, che Bruni descrive come «dialogo faccia a faccia» (388), un po’ come quello
tra Paolo e Pietro ad Antiochia; ascolto vuol
dire prendere sul serio le obiezioni, e questo
avviene – per quanto ho potuto constatare –
sempre; spirito quindi di un dialogo autentico che punta alla comunione, cioè a non fare più di Maria un motivo di divisione tra cristiani e specialmente tra cattolici e protestanti: le posizioni possono essere differenziate – e lo sono, anche nelle punte più avanzate del dialogo (Dombes) – ma questo, secondo Bruni, non impedisce la piena comunione e il sedersi insieme alla mensa eucaristica. Com’è possibile questo? Ciascuna delle
due parti deve rinunciare a qualcosa: non in
ciò che crede, ma nel rapporto tra ciò che
crede essa stessa e ciò che crede o non crede l’altro cristiano.
Prima di vedere quali sono queste rinunce, diciamo quali sono i problemi: sono i due
dogmi mariani che protestanti e ortodossi
non accettano, gli ortodossi perché non sono
di un concilio ecumenico e forse anche per i
loro contenuti dottrinali, e così, a fortiori, i
protestanti. È il culto di Maria, cioè l’invocazione del suo nome, che il protestantesimo
rifiuta da sempre e invece l’ortodossia pratica. Quali rinunce della parte cattolica?
Credo che i cattolici debbano accettare
che i protestanti considerino i due dogmi
non dei dogmi, ma dei theologoumena, cioè
delle dottrine teologiche, non degli articoli di
fede. In nome di che cosa? In nome del fatto
che si tratta di verità derivate, non obbliganti per tutti, come necessarie all’unità. L’autore cita sovente l’adagio classico attribuito a
sant’Agostino: in necessariis unitas, in dubiis
libertas, in omnibus charitas.
Devono poi accettare di stabilire piena
comunione con cristiani che non praticano il
culto mariano in nessuna forma: diranno insieme il Padre nostro, ma non l’Ave Maria,
che non è una preghiera ma un saluto. La parte protestante a che cosa deve rinunciare?
Deve accettare che i cattolici considerino
l’Immacolata concezione e l’Assunzione dogmi, cioè articoli di fede che loro non condividono come tali, ma che accettano che vengano ritenuti tali dai cattolici «non ritenendoli contrari all’Evangelo né alla fede, ma considerandoli conseguenze libere e legittime di
una riflessione della coscienza cattolica sulla
coerenza della fede» (531). «L’interpretazione
di tali dogmi non comporta nulla che sia contrario all’annuncio evangelico» (527). Deve accettare in secondo luogo la pietà mariana, rispettandola.
Infine esprimo la mia perplessità sull’intero progetto di Bruni e sull’idea stessa di una
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«mariologia ecumenica» per quattro motivi. Il
Vaticano II ha voluto contrastare uno sviluppo autonomo della mariologia che rischiava
di proiettare sempre più Maria nel cielo della
divinità, e perciò ha lodevolmente (da un certo punto di vista) collegato la mariologia da
un lato all’ecclesiologia e dall’altro alla cristologia, secondo il motto caro, tra gli altri, a
Paolo VI: per Mariam ad Christum. Senonché
il risultato di questo doppio collegamento è
che la mariologia è ormai diffusa nella trattazione di tutta la dottrina cristiana, per cui, anziché avere un suo ridimensionamento, se n’è
avuta un’ulteriore dilatazione.
Lo sviluppo (secondo noi eccessivo) della
mariologia affonda le sue radici teologiche in
un doppio deficit della teologia cristiana soprattutto nel Medioevo, ma già nella Chiesa
antica. Il primo deficit è quello della mancata
elaborazione del valore dell’umanità di Gesù,
perché è stata messa in luce o la sua divinità
(grande sviluppo del Cristo giudice, ad esempio: pensiamo al Cristo giudice della cappella
Sistina), oppure la sua umanità crocifissa, ma
non la sua umanità, che, non trovata in Cristo,
è stata cercata e trovata in Maria, che è diventata per innumerevoli cristiani il volto
umano della Divinità. Il secondo deficit è il
mancato sviluppo della pneumatologia, cioè
della dottrina dello Spirito Santo, per cui tutta una serie di titoli attribuiti dalla tradizione
liturgica e devozionale a Maria, in realtà competono allo Spirito Santo, al quale vengono
attribuiti dal Nuovo Testamento (un solo
esempio: Maria è spesso chiamata avvocata,
che è un titolo che appartiene a Cristo e allo
Spirito Santo). La mariologia surroga un mancato sviluppo di un aspetto della cristologia e
della pneumatologia.
I dogmi mariani contraddicono la Scrittura in quanto attribuiscono a Maria quello che
il Nuovo Testamento attribuisce espressamente a Cristo. E non c’è nella Scrittura il
benché minimo accenno alla necessità che la
mediazione di Cristo abbia bisogno di sottomediazioni come quelle di Maria e dei santi.
La mediazione di Cristo è perfettamente sufficiente, essa copre l’intera distanza tra Dio e
noi, tra noi e Dio.
Credo che su questo, come su altre questioni, in campo ecumenico sia meglio auspicare una concordia discors piuttosto che una
concordia tout cout: il dissenso, che c’è, non
va taciuto, ma manifestato. Non bisogna temere di suscitare tensioni all’interno dal corpo di Cristo. Ci sono – è vero – tensioni paralizzanti che vanno evitate, ma vi sono anche
«tensioni creatrici» (M.L. King) che invece vanno incoraggiate. Meglio la guerra dei vivi che
la pace dei morti! Qui non si tratta, ovviamente, di guerra, ma di un confronto aperto
e critico su una questione altamente controversa. La comunione in Cristo è talmente
profonda che è in grado di reggere vittoriosamente molte tensioni, che rendono la comunione più viva e più vera.
Paolo Ricca
* Riproduciamo qui, come recensione al volume di Bruni, l’intervento che il prof. Paolo Ricca ha tenuto a Roma, il 19 maggio 2009, presentandolo. Esso individua questioni che consentono un ulteriore sviluppo del dibattito ecumenico proprio a partire dal lavoro di Bruni.
F. CRÜSEMANN,
LA TORÀ.
Teologia e storia
sociale della legge
nell’Antico
Testamento,
Paideia, Brescia
2008, pp. 538,
€ 53,70.
978883940746
I
l volume, la cui stesura risale agli inizi degli
anni Novanta, traccia una tappa importante nella ricerca di questo studioso, in seguito culminata nell’importante raccolta di
saggi Kanon und Sozialgeschichte (Canone e
storia sociale) del 2003. Professore emerito di
Antico Testamento alla Kirchliche Hoschschule di Wuppertal–Betel, l’autore mira a ricondurre al loro contesto storico e sociale,
ma anche teologico, i diversi repertori di leggi individuati dalla ricerca biblica e di mostrare i modi in cui i grandi corpi giuridici giungono a comporsi nella forma assunta infine dal
Pentateuco a noi noto. I discorsi sulla formazione dei testi sono integrati da riferimenti
alla loro ricezione avvenuta nel giudaismo
postbiblico e nel cristianesimo delle origini.
L’opera, nel suo insieme, propone tanto
un approccio esegetico quanto la necessità di
ripensare in modo nuovo la storia dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. Su questo
ultimo fronte si prendono le distanze anche
dagli ultimi residui legati a una stereotipata
contrapposizione tra legge e Vangelo. In tal
senso non è un caso che si opti per la parola
«torà», termine dotato di significati ben più
estesi di quello di legge.
Il volume manifesta anche un evidente
interesse per la risposta dell’etica cristiana ai
problemi d’oggi. Nel complesso si tratta di
una ricerca di prim’ordine che consente di cogliere orientamenti presenti anche nel mondo riformato italiano, specie nella Facoltà valdese di teologia di Roma.
Piero Stefani
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Storie per il Sinodo
AFRICA
f
ragile e imprevedibile
Guerre e alleanze
t r a C o n g o , Ru a n d a , U g a n d a e S u d a n
L
a metà delle morti in
guerra tra il 1990 e il
2005 sono avvenute in
Africa». Qui i conflitti
«durano più tempo e
causano più morti di quelli che avvengono in altre regioni». Inizia così il rapporto annuale presentato a maggio della Banca africana per lo sviluppo.1 Un
esempio per tutti: nella Repubblica democratica del Congo i morti per la
guerra sono stati stimati 5 milioni.
Per questo «i costi economico-sociali dei conflitti sono più alti in Africa.
Peraltro i costi si diffondono molto oltre i confini dei paesi teatro dei conflitti. Essi inoltre durano ben oltre la fine
delle operazioni militari. In termini di
costi sociali, mentre gli uomini totalizzano il più alto tasso di morte per combattimenti, il disagio maggiore pesa in
maniera sproporzionata su donne e
bambini».
Vive re insicuri
I conflitti violenti continuano a uccidere a lungo anche dopo la cessazione degli scontri. Il settore sanitario delle economie postbelliche è devastato e
incapace di far fronte all’enorme domanda di servizi sanitari. Di norma,
poi, poche risorse sono disponibili per
affrontare i traumi di un conflitto violento. Le guerre provocano conseguenze sanitarie anche nei paesi confinanti.
I programmi di controllo per le malattie regionali vengono interrotti e così in
Africa le malattie trasmissibili ancorché
prevenibili continuano a mietere vittime (…).
I conflitti violenti in Africa causano
anche spostamenti di popolazione su
ampia scala. Così l’Africa genera un’alta percentuale del totale complessivo
dei rifugiati o sfollati in tutto il mondo.
Capire e affrontare i costi di un conflitto è la sfida più importante per ricominciare» e per evitare che – come
confermano le statistiche – i paesi che
sono nella «fase postbellica scivolino di
nuovo verso la guerra».
Sembra proprio questo il caso della
regione su cui si affacciano Nord Uganda, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Repubblica centrafricana. Seguendo quasi per intero la linea della Rift Valley su cui si trovano i
Grandi laghi, da Sud verso Nord, Tanganika, Kivu, Edoardo e Alberto per
poi deviare verso Nord-ovest, – e se si
eccettua il caso somalo – si trovano lì
raccolti i conflitti africani che sono di
più lunga data e ricorrenti, che hanno
GLI ATTACCHI DEL LORD RESISTANCE ARMY, FEBBRAIO 2009
Le azioni del LRA colpiscono Sud Sudan,
l’Est della Repubblica Centrafricana e il
Nord-ovest dell’Uganda.
REPUBBLICA
CENTRAFRICANA
Alto Huele: le operazioni congiunte
degli eserciti congolese, ugandese e del
Sud Sudan contro lo LRA provocano
morti e sfollati nella popolazione civile.
R.D. CONGO
Ituri: gruppi dissidenti e milizie
si scontrano con la popolazione
locale e l’esercito congolese.
Nord Kivu: ripetuti combattimenti tra
gruppi dissidenti armati e fuga dei civili.
Intensificazione delle operazioni militari
degli eserciti ruandese e congolese contro i ribelli delle Forze democratiche di
liberazione del Ruanda.
Fonte: UNOCHA country offices.
Cartografia OCHA ROCEA, 4.2.2009.
Movimenti di civili.
Bassa intensità: aree con conflitti
continui, perdite umane, anarchia
e banditismo.
Alta intensità: aree con conflitti e
violenze costanti.
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Città di Nzara, Sudan (foto C. Tassi).
provocato il maggior numero di vittime
e soprattutto che colpiscono in maniera
indiscriminata e particolarmente efferata i civili.
Sono conflitti, inoltre, che hanno
influenze reciproche, rendendo ogni
negoziato particolarmente complesso.
Le trattative non possono più essere
semplicemente bilaterali (stato-guerriglia), ma devono coinvolgere più stati
contemporaneamente, più gruppi
guerriglieri, finanziati volta a volta a seconda degli equilibri locali da uno stato o dall’altro, nonché tenere conto del
panorama internazionale.
E poi l’interesse economico: in questa macro-regione c’è chi, complice
una sostanziale anarchia, sfrutta illegalmente risorse naturali e pozzi petroliferi, mettendo in moto una vera e propria «economia di guerra» (cf. Regnoatt. 16,2002,559).
Dopo il congelamento del conflitto
in Uganda del Nord (cf. Regno-att.
12,2009,383), due sono i fuochi principali: la guerra quasi permanente della
regione orientale della Repubblica democratica del Congo, a sua volta eredità di quelle che hanno portato alla
presidenza del paese Joseph Kabila e
del genocidio ruandese; e l’instabilità
del Sud Sudan, che a quattro anni dall’accordo di pace è teatro del doppio
conflitto tra gruppi interni e contemporaneamente delle incursioni del Lord
Resistance Army (LRA), oggi ridislocato sulla frontiera tra Sudan, ex Zaire e
Centrafrica.
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14 dicembre 2008: ha inizio «Lightning thunder» (tuoni e fulmini), l’operazione militare che vede alleati gli
eserciti ugandesi, sudsudanesi e congolesi i quali sferrano un attacco aereo e
poi di terra contro le truppe di Kony
nascoste nella foresta congolese di Garamba. L’azione militare, durata complessivamente tre mesi, non ha portato
il frutto sperato della cattura di Kony o
quello della drastica riduzione dei suoi
contingenti. Ha creato anzi una crescente insicurezza lungo tutto il confine
sudanese e congolese per la popolazione civile, sottoposta a durissime rappresaglie. Se l’obiettivo-Kony non è stato
raggiunto, quello di proteggere la popolazione non era stato neppure messo
in conto, né sono stati previsti strumenti per il reintegro dei guerriglieri in fuga. In compenso gruppi di autodifesa
di civili si sono autonominati controllori del confine.
«Sono suor Giovanna Calabria,
suora comboniana. Lavoro a Nzara, a
15 miglia da Yambio nello stato della
Western Equatoria. Dal settembre
2008 la popolazione che vive al confine
con il Congo è soggetta a frequenti aggressioni da parte del LRA con conseguenze che tutti noi conosciamo: razzie, rapimenti, violenze sessuali, uccisioni perpetrati con violenza inaudita.
Lo scorso dicembre forze aeree e
truppe militari d’assalto ugandesi si sono insediate nella pista d’atterraggio di
Nzara. All’inizio ci siamo sentiti sollevati sentendo che le truppe di Uganda,
Congo e Sud Sudan si erano unite per
fermare le attività del LRA. Per settimane, aerei, elicotteri hanno attraversato il confine e noi potevamo sentire i
bombardamenti che sono andati avanti persino durante le festività natalizie.
Purtroppo non è cambiato nulla e il
LRA è diventato ancora più violento e
crudele. Il numero dei rifugiati dal
Congo e degli sfollati è in continuo aumento e quasi ogni giorno persone cercano soccorso dalle nostre parti»: 3.000
rifugiati in tre mesi.
È il testo dell’appello che la religiosa ha rivolto alla comunità internazionale, accompagnato da alcune testimonianze di sopravvissuti alle violenze.
Una afferma che il giorno di Natale il
LRA è arrivato a Dorima: «Sono entrati nella chiesa di Batande e hanno
ucciso i civili. Poi hanno circondato il
villaggio di Duanye e hanno ucciso la
gente, neonati compresi, andando di
casa in casa per poi dare fuoco a tutto.
La stessa cosa è avvenuta a Bagugu,
Batando, Manguri, Nayure, Bagindiyo,
Manungo, Naturuba, Nabandu, sulla
strada per andare verso Nambori».
Gli uomini del LRA «uccidono con
asce, manganelli, machete, pugnali per
non far rumore con i fucili. Tra gli uccisi c’erano anche anziani; alcuni handicappati sono stati bruciati vivi. Alcune madri sono state costrette a percuotere a morte i propri neonati per poi essere a loro volta uccise. Alcune persone
nascoste nella foresta hanno contato fino a 250 corpi facendo ritorno al proprio villaggio».
Queste testimonianze sono state
confermate dall’Ufficio delle Nazioni
Unite per il coordinamento delle azioni
umanitarie (OCHA), secondo il quale il
LRA avrebbe ucciso in tre giorni 189
persone. Per la Caritas congolese i morti nella settimana dopo Natale potrebbero arrivare a 400, contando anche le
perdite di civili a causa dei bombardamenti dei tre eserciti, effettuati indiscriminatamente sulla foresta. Numerosi
sono poi i bambini rapiti per farne dei
combattenti.
Ma chi sopravvive deve fare i conti
con l’AIDS, la seconda ragione di morte nella zona. Suor Giovanna gestisce
un centro polifunzionale chiamato
Rainbow Centre, dove 350 persone ricevono assistenza medica, avviamento
al lavoro e i bambini vengono accuditi.
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Ma non si possono chiudere gli occhi
sui bisogni degli sfollati congolesi e in
alcuni giorni della settimana c’è una
paziente fila di congolesi, per lo più
donne, che aspettano per ore sotto il sole per avere un po’ di farina, qualche
abito e qualche attrezzo per poter ricominciare una nuova vita.
Frammentate
e traumatizzate
Le conseguenze di questa azione
militare ricadono su un paese complessivamente a equilibrio instabile. A
quattro anni dalla firma del Comprehensive Peace Agreement tra il governo di Khartoum e il Sudan’s People
Liberation Army, l’eredità di «comunità frammentate e traumatizzate» è
sostanzialmente irrisolta; la comparsa
del LRA complica il quadro, rendendo
permanente la conflittualità e l’insicurezza (cf. Regno-att. 4,2004,121;
12,2004,421; 16,2005,531).
I programmi di reintegrazione o di
sostegno alle comunità del Sud che vedono il ritorno dei rifugiati dal Nord –
sono 2,2 milioni le persone che hanno
fatto ritorno dal 2005 a oggi nei propri
territori! – e la smobilitazione dei gruppi armati sono infatti scarsi, inadeguati
quanto a diffusione e soprattutto possono innescare risentimento in chi è sempre rimasto nel Sud e patisce una forte
povertà.
Il fatto che la questione dei confini
tra Nord e Sud Sudan sia ancora in sospeso, a motivo della presenza di giacimenti petroliferi da assegnare all’una o
all’altra zona; e il fatto che sia ancora in
sospeso l’attribuzione delle rendite petrolifere (dei 2.888 milioni di dollari su
6.566 totali, dovuti a fine 2008 al Sud,
a febbraio 2009 ne mancavano ancora
210), considerando anche il forte calo
del prezzo del greggio in questi ultimi
tempi, fanno sì che la ricostruzione nel
Sud sia ancora una meta lontana.
Mancano strade, scuole, ospedali.
Qualcosa è stato costruito a Juba, la capitale, ma la corruzione è diffusa e i
metodi piuttosto autoritari: basti pensare che a fine maggio 30.000 baracche
abusive sono state distrutte per far posto a nuove costruzioni, mettendo in
strada coloro che le abitavano.
Infine sono cresciuti i conflitti tra
gruppi etnici, già in lotta durante la
guerra Nord-Sud: tra gruppi di pasto-
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ri nomadi che vivono anche di razzie
di capi di bestiame e popolazione
stanziale; tra gruppi di agricoltori sul
possesso delle terre. D’altra parte lo
stesso segretario generale dell’ONU,
nel suo rapporto sul Sudan dell’aprile
scorso, dice che la neonata forza di
polizia locale manca delle «risorse necessarie».
Potrebbe essere lo stesso governo di
Khartoum il regista di questi scontri,
attraverso l’invio di armi a un gruppo
contro l’altro? In molti dicono di sì, così come è avvenuto a partire dal 2003 in
Darfur (cf. Regno-att. 8,2006,261). Tuttavia anche il solo fatto di lasciare che
questi scontri avvengano senza intervenire è già una scelta, tanto per preparare il terreno al referendum che nel 2011
La seconda
«Storia per il Sinodo»
racconta i complessi
intrecci delle
guerre che stanno
devastando l’Africa
centro-orientale.
Alla ricerca di
giustizia e pace per i
popoli che vivono un
martirio quotidiano.
potrebbe preludere a un’eventuale distacco del Sud del paese.
Il panorama, qualunque sia la scelta, è comunque molto precario. «Decenni di guerra hanno distrutto quel
poco che c’era d’infrastrutture di base,
hanno eroso i livelli di vita e l’attività
economica e hanno creato una generazione perduta dal punto di vista della
formazione. La coesione è minata dal
lutto, dalle memorie dolorose, dalla diffusione dell’alcolismo e dall’uso di droghe, dalla mancanza di direzione. Gli
scontri intergenerazionali sono causati
dalla violenza, in modo particolare tra
coloro che hanno combattuto nei gruppi armati e ora mettono in questione
l’autorità tradizionale degli anziani.
Sono troppo poche le iniziative continuative che aiutano a dar corpo allo
sviluppo. L’insicurezza, al contrario,
inibisce la ricostruzione».2
« N os t ra l i b e r t à »
A metà marzo l’Uganda si ritira
dall’azione militare nella foresta di Garamba, dichiarandola un successo. Rimangono in campo il Sud Sudan e il
Congo: ma posto che il primo non ha
mezzi adeguati, potrà il secondo fornire sicurezza quando in patria nello
stesso periodo hanno aperto un altro
fronte?
Il 20 gennaio, infatti, un po’ più a
Sud, è iniziata un’altra operazione militare congiunta. Condivide con la precedente il territorio del Congo – anche
se riguarda l’Est, tra Nord e Sud Kivu
– e anche il fatto che è stata condotta
prescindendo dalle missioni dell’ONU
presenti sul territorio.
Si tratta di «Umoja wetu» (nostra
libertà), l’azione militare condotta dal
Congo che dopo anni di conflitti si è
alleato con il Ruanda, per ridurre drasticamente il contingente del Forces
démocratiques de libération du Ruanda (FDLR). A dodici anni dalla fine
della prima guerra del Congo (19961997) il disarmo dei ribelli hutu ruandesi è infatti ancora incompiuto; le
FDLR sono una della principali fonti
di destabilizzazione regionale, nonché
una fonte permanente d’insicurezza
per le popolazioni del Kivu (cf. Regnoatt. 16,1998,549; 22,1998,767;
12,1999,416).
Il loro disarmo era stato previsto
anche dall’Accordo di Lusaka firmato
nel 1999 da Angola, Congo, Namibia,
Ruanda, Uganda e Zimbabwe a sancire la fine della guerra regionale che
apertasi nel 1998 è di fatto terminata
nel 2003 (Regno-att. 4,2001,120;
16,2001,554; 12,2003,411; 2,2004,53).
Ma le FDLR hanno una rete internazionale ben diffusa, proteggono al
proprio interno alcuni dei principali assassini del genocidio ruandese e, per
sfruttare al meglio le risorse minerarie
della regione, hanno instaurato un clima di pesante violenza nei confronti
della popolazione. Secondo l’International Crisis Group di Bruxelles, «scaturite dagli avvenimeni drammatici che
sono avvenuti in Ruanda, le FDLR sono ormai un gruppo criminale che do-
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mina intere zone del Congo in violazione del diritto nazionale e internazionale». Il rapporto della Missione ONU in
Congo (MONUC) del 2008 aveva constatato che la sua sopravvivenza avveniva grazie a un sistema d’intimidazione
e di prassi criminali simili a quelle utilizzate dalle organizzazioni mafiose.
Sono una decina almeno i gruppi
armati nelle due province del Kivu.3
Oltre al FDLR, con cui il governo congolese si era a volte alleato, c’è il Congrès national du peuple (CNDP) del generale Nkunda, sostenuto dal Ruanda
(cf. Regno-att. 20,2008,673). Ma l’insurrezione dell’autunno 2008, dove
Nkunda ha messo in campo mire un
po’ troppo vaste, ha spinto il presidente
congolese Kabila a cercare l’appoggio
dell’omologo ruandese Paul Kagame,
con cui ha concluso segretamente un
accordo: la destituzione di Nkunda,
con l’assorbimento delle sue forze nell’esercito congolese, in cambio di un’azione militare congiunta sul proprio
territorio contro le FDLR.
Ma sia per mancanza di un reale
coordinamento tra le truppe regolari,
sia per l’inefficace campagna in favore
della smobilitazione delle FDLR, i vertici di queste ultime rimangono intatti;
viene solo ridotta la loro zona d’influenza al Kivu del Sud. E per quanto
riguarda i civili, si può solo dire che l’operazione militare ha nettamente peggiorato la situazione. Il rivale di Nkunda, che dopo il suo arresto nel gennaio
2009 entra a far parte dell’esercito regolare congolese, è Bosco Ntaganda,
soprannominato «terminator» e sotto
mandato d’arresto dal 22 agosto 2006
da parte del Tribunale penale internazionale per crimini commessi nella provincia dell’Ituri dal 2000 al 2006.
E come nel caso di «Lightning
thunder», anche qui i massacri dei civili sono drammatici. Il 13 febbraio Human Rights Watch li denuncia pubblicamente, individuando i responsabili
principali nelle FDLR. Ma sia l’esercito congolese sia quello ruandese compiono stupri.
A fine febbraio, quando viene annunciata la fine dell’operazione, tutti si
dichiarano vincitori. Kabila, per aver
incassato la resa di Nkunda e per aver
parallelamente messo a tacere l’opposizione politica che a Kinshasa chiedeva
ragione dell’alleanza col Ruanda:
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«Marzo 2009 – infatti – è stato contrassegnato da una serie di arresti arbitrari,
minacce e intimidazioni contro i difensori dei diritti umani, dei parlamentari
e dei giornalisti che mettevano in causa
l’indipendenza del Parlamento rispetto
all’esecutivo».4
Kagame ha potuto dichiararsi vincitore per aver definitivamente fatto
tramontare l’accusa di appoggiare
Nkunda e per aver dimostrato di essere
in grado d’intervenire in maniera professionale per poi ritirarsi di buon grado. Tanto da meritare lo sblocco da
parte dell’Unione Europea di 175 milioni di euro per l’aiuto allo sviluppo del
Ruanda. E alla fine anche le FDLR,
che possono dichiarare di aver subito
poche perdite e di aver mantenuto saldamente la posizione.
Chi ha pagato ancora una volta il
conto è stata la popolazione civile: per
l’OCHA sono 30.000 gli sfollati a causa
dell’azione militare; a cui occorre aggiungere altri 18.000 scappati da Lubero, nel Nord della provincia, a motivo
delle violenze e degli stupri di un gruppo vicino al FDLR. Ma in aprile l’Alto
commissariato per i rifugiati dichiara
che a Lubero gli sfollati sono saliti a
100.000 e gli attacchi notturni ai villaggi continuano a colpire, con uccisioni
all’arma bianca quasi a centinaia per
volta.
Le FDLR, poi, una volta ritirate le
truppe di Kagame, si sono alleate con le
Forces nationales de libération del Burundi (FNL) e con uno dei gruppi MayiMayi (Zabuloni) – scontenti dell’alleanza tra Congo e Ruanda – e il 9 aprile sono riuscite a liberare 200 prigionieri del
FNL dalla prigione di Uvira.
Se l’alleanza Ruanda-Congo dovesse però fallire, lo scenario potrebbe ulteriormente peggiorare. Per questo è necessaria una strategia di disarmo che sia
in grado d’imparare dagli errori del
passato.
Un compito per il Sinodo
Difficile poter indicare vie risolutive
nell’accavallarsi di interessi economici e
strategici diversi, nella pluralità e fluidità degli interlocutori, ma anche nel
sostanziale disinteresse delle cancellerie
occidentali: aiuti sporadici, sia in termini economici sia d’intelligence, sono venuti sinora da Stati Uniti e Francia.
Emergono nuove presenze come la Ci-
na o anche la Corea. Potrebbe venire
qualche novità dalla presidenza Obama, che scegliendo come meta del suo
primo viaggio in Africa il Ghana, ha dichiarato che «il continente africano è
un luogo di straordinarie promesse e
sfide. Ma non potremo ottemperare a
quelle promesse finché non vedremo
un migliore stile di governo».
Manca poi in generale una visione
d’ampio respiro in grado di leggere gli
avvenimenti al di fuori di alcune categorizzazioni semplicistiche, quali «povertà» o «etnicizzazione». Il ruolo delle
missioni ONU è statutariamente debole e pertanto inefficace. Tante, troppe le
armi, specialmente quelle leggere, che
circolano e sono facilmente disponibili
a chiunque. Vi è una crescente difficoltà rispetto al Tribunale penale internazionale, la cui azione è vissuta come
intempestiva e inopportuna (Regno-att.
8,2009,238).
Un approccio regionale che tenga
conto dell’insieme degli interlocutori
sul territorio è imprescindibile ed è
chiesto sia dalle ONG sia dalle Chiese
(cf. ad esempio il Civil society joint
analysis workshop del marzo scorso per
la regione ugandese-congolese; o il
messaggio della Conferenza episcopale
nazionale del Congo del 10 luglio).
Ma occorre un approccio macro-regionale che sia in grado di fornire interpretazioni di lungo periodo che vadano
oltre alcuni particolarismi di cui anche
le Chiese e le comunità locali rischiano
di essere vittime. Per costruire una pace
che oggi è «fragile» e un futuro che è
«imprevedibile».5 Potrebbe essere anche questo un compito del prossimo Sinodo continentale africano. Sicuramente per la giustizia e per la pace del
continente è uno dei più urgenti.
Maria Elisabetta Gandolfi
1
AFRICAN DEVELOPMENT BANK GROUP,
Conflict Resolution, Peace and Reconstruction in
Africa, maggio 2009.
2
CONCILIATION RESOURCES, Perilous Border: Sudanese Communities Affected by Conflict on
the Sudan-Uganda Border, 24.11.2008, 4; cf. anche ID., After Operation «Lightning Thunder»:
Protecting Communities and Building Peace,
28.4.2009.
3
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Congo:
una strategie globale pour desarmer le FDLR,
9.7.2009.
4
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Congo, 11.
5
Report of the Secretary-generale on the Sudan, United Nations Security Council,
17.4.2009.
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d iario ecumenico
GIUGNO
Dialogo cattolico-ortodosso. Dal 1° al 3, a New York, si tiene il 76° incontro della Commissione per il dialogo teologico cattolico-ortodosso dell’America settentrionale. Nell’incontro, copresieduto dal metropolita ortodosso di Pittsburgh Maximos e da
mons. Daniel Pilarczyk, arcivescovo di Cincinnati, si prosegue lo
studio del Documento di Ravenna del 2007 (cf. Regno-doc.
21,2007,708), attraverso la discussione di due relazioni di presentazione, una cattolica e una ortodossa, del Documento. Si decide di
redigere una risposta ufficiale al Documento di Ravenna che verrà
fatta circolare tra i membri della Commissione, con l’impegno di
giungere alla sua approvazione in occasione del prossimo incontro,
previsto per i giorni 22-24 ottobre 2009 a Washington.
Evangelici svizzeri e libertà religiosa. Il 3, a Berna, la Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera (FEPS) pubblica un
documento, Se solidariser pour agir, sulla libertà religiosa dove si
afferma che essa è un diritto umano che non può essere messo in
discussione, neanche quando si vuole contestare la libertà di scegliere una religione diversa da quella alla quale si appartiene fin dalla nascita. Nel documento si esortano i cristiani a ricercare la collaborazione di tutte le comunità di fede nella difesa della libertà religiosa, così come viene definita nella Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo.
Luterani statunitensi e dialogo islamo-cristiano. Il 4, a
Washington, si ha una dichiarazione a favore del dialogo islamo-cristiano da parte della Chiesa evangelica luterana degli Stati Uniti (ELCA). Il pastore Mark S. Hanson, presidente della ELCA, formula un giudizio più che positivo sul discorso del presidente degli Stati Uniti Barack Obama al Cairo (cf. Regno-doc. 13,2009,446). Per Hanson i luterani statunitensi, così come nel resto del mondo, non solo appoggiano
la posizione del presidente Obama, ma se ne sono fatti portavoce in
varie occasioni, della convinzione che il dialogo islamo-cristiano sia
fondamentale per il superamento dei pregiudizi e per la costruzione
della pace nel mondo, soprattutto in Medio Oriente. Si dà anche notizia che oltre 50 delegati di comunità religiose di diversa tradizione
hanno sottoscritto una lettera inviata al presidente Obama, con la
quale si è rinnovata la richiesta di mettere al centro della politica
estera statunitense la ricerca della pace tra Israele e Palestina.
Passi per il dialogo islamo-cattolico. Il 5, a Roma, il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita si incontra con il card. Tauran,
presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Nell’incontro si ha una valutazione complessiva dello stato del dialogo
islamo-cattolico. Si concorda sul fatto che il cammino è stato
rafforzato da una serie di incontri internazionali, come il convegno
di Madrid dell’estate scorsa (16-18.7.2008) che è stato voluto e organizzato dal governo dell’Arabia Saudita per manifestare la propria
volontà di promuovere il dialogo islamo-cristiano.
Dialogo e missione dei cristiani in Europa. Dal 7 all’11, a
Pullach (Germania), si tiene un seminario di studio su «Nuovi ed
emergenti movimenti di missione oggi in Europa». Il seminario, promosso dalla Commissione Chiese in dialogo della Conferenza delle Chiese europee (KEK), riunisce 15 delegati di Chiese evangeliche
e ortodosse in Europa per approfondire la riflessione sulla natura
missionaria della Chiesa nella testimonianza quotidiana delle comunità locali. Da più parti si sottolinea l’importanza della forma-
zione spirituale, oltre a quella in campo teologico, e si affronta il
tema dei diversi contesti culturali nei quali si svolge l’azione missionaria della Chiesa in Europa, ponendo l’accento sulla necessità di
superare le divisioni e le contrapposizioni, che impediscono la testimonianza evangelica.
Dialogo tra cattolici e indù. Il 12 , a Bombay, si tiene un incontro tra cattolici e indù sulla situazione religiosa in India, anche
alla luce dei recenti episodi di violenza contro alcune comunità cristiane (cf. Regno-doc. 17,2008,580). In India a riconoscere la pluralità di tradizioni cristiane, tanto che spesso alla Chiesa cattolica
vengono attribuite posizioni e prassi di comunità evangeliche oppure di gruppi che si richiamano molto vagamente al cristianesimo.
Per questa ragione si concorda nel promuovere una capillare campagna di informazione sul cristianesimo, in modo tale da rimuovere l’idea che i cristiani siano favorevoli alle conversioni forzate.
Per la libertà religiosa in Italia. Il 13, a Roma, si tiene una
manifestazione in favore della libertà religiosa con lo slogan «Ugualmente libere». La manifestazione, alla quale aderiscono la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (FCEI), l’Alleanza evangelica
italiana (AEI), la Federazione delle Chiese pentecostali (FCP) e l’Unione delle Chiese cristiane avventiste, si conclude con la sottoscrizione di un documento nel quale si chiede, tra l’altro, al Parlamento di
riprendere il progetto per una legge sulla libertà religiosa.
I cristiani contro il razzismo. Dal 14 al 17, a Door, nei pressi
di Utrecht (Paesi Bassi), si tiene l’incontro «Chiese contro il razzismo». Con questo incontro, promosso dal Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) e reso possibile dal sostegno di varie organizzazioni
ecumeniche olandesi, si vuole ricordare il 40° anniversario dell’inizio
del progetto contro il razzismo da parte del CEC e riaffermare l’impegno ecumenico contro ogni forma di discriminazione.
Oasis - Dialogo islamo-cristiano. Dal 22 al 23, a Venezia, si
tiene la seduta annuale del Comitato scientifico della Fondazione
internazionale Oasis di Venezia. Il tema dell’incontro, al quale prende parte anche il card. Tauran, presidente del Pontificio consiglio
per il dialogo interrreligioso, oltre che il card. Scola, patriarca di Venezia, è il valore della tradizione nel cristianesimo e nell’islam e il
ruolo della tradizione nella prospettiva del dialogo islamo-cristiano. Si sottolinea la necessità di approfondire il dialogo tra cristiani
e musulmani, superando le paure che possono essere generate dai
pregiudizi e dalla scarsa conoscenza dell’altro e si mettono in evidenza gli elementi comuni alle due religioni: l’unicità di Dio, la sacralità della vita, l’insegnamento della religione nell’educazione, la
trasmissione di valori morali ai più giovani.
Viaggio ecumenico. Il 29, a Roma, nel monastero di S. Daniil,
il patriarca di tutte le Russie Cirillo riceve mons. Vincenzo Paglia,
presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della
Conferenza episcopale italiana. Nel corso dell’incontro si parla della presenza delle comunità russe in Italia e dei loro rapporti con la
Chiesa cattolica e si osserva una sintonia su molte posizioni, soprattutto per quanto riguarda la dottrina sociale e la natura del dialogo interreligioso, tra Roma e Mosca.
Accordo sui matrimoni misti. Il 30, a Roma, viene firmato il
Documento comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra
cattolici e battisti in Italia. Cf. in questo numero a p. 452.
Riccardo Burigana
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agenda vaticana
GIUGNO
Baldelli, Sardi, Patabendige. Il 2 l’arcivescovo Fortunato
Baldelli – del clero di Assisi, 73 anni, arcivescovo dal 1983 e ora nunzio a Parigi – viene nominato penitenziere maggiore in sostituzione
del cardinale statunitense James Francis Stafford (77 anni a luglio). Il
6 viene nominato pro-patrono del Sovrano militare ordine di Malta
l’arcivescovo e nunzio con incarichi speciali (presiedeva la sezione
della Segreteria di stato addetta alla redazione dei discorsi del papa)
Paolo Sardi. Il 16 viene nominato arcivescovo di Colombo (Sri Lanka)
Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, fino a ora segretario della
Congregazione per il culto.
Dimissioni dallo stato clericale. Con un’intervista del 5 alla Radio vaticana l’arcivescovo Mauro Piacenza, segretario della Congregazione per il clero, conferma notizie di stampa su nuove facoltà
concesse dal papa alla congregazione il 30 gennaio a semplificazione
delle procedure di «dimissione dallo stato clericale» di «chierici che
abbiano attentato al matrimonio anche solo civilmente e che ammoniti non si ravvedano e continuino nella condotta di vita irregolare e
scandalosa». Previste anche procedure più rapide «per infliggere una
giusta pena o penitenza per una violazione esterna della legge divina
o canonica» e per dichiarare «la perdita dello stato clericale dei chierici che abbiano abbandonato il ministero per un periodo superiore
ai cinque anni consecutivi». Cf. Regno-doc. 13,2009,392.
«Tutto e solo amore». «Tre persone che sono un solo Dio
perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è
tutto e solo amore, amore purissimo, infinito ed eterno. Non vive in
una splendida solitudine, ma è piuttosto fonte inesauribile di vita
che incessantemente si dona e si comunica»: è un brano dell’Angelus pronunciato il 7 dal papa, nella festa della Trinità. E ancora: «In tutto ciò che esiste è in un certo senso impresso il “nome” della santissima Trinità, perché tutto l’essere, fino alle ultime particelle, è essere-in-relazione e così traspare il Dio-relazione, traspare ultimamente
l’amore creatore (…). La prova più forte che siamo fatti a immagine
della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in
relazione e viviamo per amare ed essere amati. Usando un’analogia
suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-amore».
Irlanda – preti violenti e pedofili. «Il papa è restato visibilmente turbato nell’ascoltare i dettagli contenuti nel rapporto (sulle
violenze contro i minori nell’arco di 60 anni in 216 istituti retti da religiosi cattolici, pubblicato il 20 maggio dalla Commissione presieduta
dal giudice Sean Ryan) e ha sollecitato ancora una volta i vescovi e
tutta la Chiesa a continuare a operare per stabilire la verità su che cosa sia successo e perché; ad assicurare che giustizia sia fatta a tutti; a
vigilare affinché le misure poste in essere per prevenire il ripetersi di
simili violenze siano pienamente applicate»: così l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin parla a Dublino l’11 del colloquio avuto con papa Benedetto su questa materia il 5. Un comunicato della Conferenza episcopale afferma nella stessa data che la Chiesa ha fallito «nel
proteggere i bambini». Cf. Regno-doc. 13,2009,436ss.
Vescovi dell’Austria. Il 15 e 16 si tiene in Vaticano un incontro
di capi dicastero con i vescovi dell’Austria e con il papa che «richiama l’urgenza dell’approfondimento della fede e della fedeltà integrale al concilio Vaticano II e al magistero postconciliare della Chiesa, e
del rinnovamento della catechesi alla luce del Catechismo della
Chiesa cattolica».
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Preti lefebvriani illegittimi. Un comunicato del 17 a proposito delle ordinazioni sacerdotali della Fraternità San Pio X in programma per fine mese rinvia a quanto affermato dal papa nella lettera ai vescovi del 10 marzo («Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano in
modo legittimo alcun ministero nella Chiesa») e così continua: «Le
ordinazioni sono quindi da considerarsi tuttora illegittime. Nella
stessa lettera, il papa ha annunciato la sua intenzione di provvedere a un nuovo status della Commissione Ecclesia Dei in collegamento con la Congregazione per la dottrina della fede. Vi è ragione di pensare che la definizione di tale nuovo status sia prossima.
Ciò costituisce la premessa per l’avvio del dialogo con i responsabili della Fraternità San Pio X in vista dell’auspicato chiarimento
delle questioni dottrinali e, conseguentemente, anche disciplinari,
che rimangono tuttora aperte».
Anno sacerdotale. Il 18 viene pubblicata una lettera del papa
ai presbiteri per la proclamazione di un anno sacerdotale nel 150° del
dies natalis del santo Curato d’Ars. In essa Benedetto rivolge ai sacerdoti «un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che
lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo
attraverso i movimenti ecclesiali e le nuove comunità» e così continua citando una propria omelia tenuta alla vigilia della Pentecoste
del 2006: «Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove
vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate» (Regno-doc. 13,2009,388s).
San Giovanni Rotondo e rifugiati. «Preghiamo quest’oggi
anche per la situazione difficile e talora drammatica dei rifugiati. Molte sono le persone che cercano rifugio in altri paesi fuggendo da situazioni di guerra, persecuzione e calamità, e la loro accoglienza pone non poche difficoltà, ma è tuttavia doverosa. Voglia Iddio che, con
l’impegno di tutti, si riesca il più possibile a rimuovere le cause di un
fenomeno tanto triste»: così il papa all’Angelus del 21 da San Giovanni Rotondo, dove ha reso omaggio a padre Pio che «restò sempre unito a Gesù e combatté lo spirito del male con l’armatura della fede».
Incontro con la delegazione del Patriarcato Ecumenico. Il 27 Benedetto XVI riceve a Roma una delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli per la festa dei santi Pietro e Paolo.
La presenza della delegazione non è soltanto «segno di fraternità ecclesiale» – afferma il papa –, ma testimonia il continuo impegno nella ricerca di ogni mezzo per favorire la piena comunione tra i cristiani.
Grande fiducia è riposta nella Commissione mista internazionale per
il dialogo teologico tra ortodossi e cattolici, che terrà la sua prossima
sessione in ottobre, affrontando il tema del «ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel corso del primo millennio».
Vietnam. «Voi sapete che è possibile una sana collaborazione
tra la Chiesa e la comunità politica. (...) In nessun modo la Chiesa vuole sostituirsi ai responsabili governativi, ma vuole solo prendere parte alla vita della nazione, a servizio di tutto il popolo, in uno spirito
di dialogo e collaborazione rispettosa»: così Benedetto parla il 27 ai
vescovi del Vietnam in visita ad limina, con l’obiettivo di rassicurare
il governo che teme «interferenze» vaticane e negli ultimi mesi ha
confermato il rifiuto di restituire i beni ecclesiastici incamerati nel
Nord nel 1954 e nel Sud nel 1975. In occasione della visita ad limina il
presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo Pierre Nguyen
Van Nhon, esprime il «sogno» di «poter accogliere un giorno il papa
sul suolo vietnamita».
Luigi Accattoli
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Il cristianesimo
n e l l ’e t à
della scienza
Teologia
ed evoluzione
L’idea che la teoria dell’evoluzione, elaborata dalla
scienza moderna a partire dalle scoperte di Darwin
150 anni fa, debba necessariamente andare a braccetto con il materialismo ateo è ormai sostenuta
solo dalle posizioni fondamentaliste rispettivamente
assunte dai creazionisti, i quali negli Stati Uniti s’oppongono all’insegnamento dell’evoluzione nell’ora
di scienze, e da alcuni sedicenti scienziati, che affermano che la scienza abbia dimostrato l’inesistenza
di Dio.
Il magistero della Chiesa cattolica in realtà ha da
tempo accolto la teoria dell’evoluzione, per quanto
essa abbia ricadute critiche sulla concezione dell’uomo e del mondo (e modo) in cui esso agisce, molto
più di altre teorie scientifiche concettualmente
altrettanto dirompenti. È quindi più che mai aperta
per la teologia – e non per il discorso scientifico –
la sfida di pensare Dio nell’età della scienza,
approfondendo e valutando criticamente i tentativi
avanzati in tale ambito (S. Morandini) e cercando di
sviluppare le risorse offerte sinora dal discorso teologico (J. Polkinghorne). Con la consapevolezza che
un discorso metodologico rigoroso non può che
rimarcare la separazione degli ambiti, e confermare
la natura della teologia come conoscenza non assoluta (P. Stefani).
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È
denso di celebrazioni per il mondo della
scienza questo 2009: «anno galileiano»,
a ricordo delle prime osservazioni col telescopio del grande fisico toscano, ma
anche «anno darwiniano», a 150 anni
dalla pubblicazione de L’origine delle
specie e a 200 dalla nascita del suo autore. Un tempo particolarmente favorevole, dunque, per
riflettere – anche da un punto di vista teologico – sul valore illuminante della conoscenza scientifica e sulle novità da essa apportate alla nostra immagine del cosmo e
del mondo vivente. Si tratta di realtà di portata così
grande da essere difficile da realizzare per chi abita fin
dalla nascita un mondo segnato dalla scienza e gode i
frutti della tecnologia associata – dall’uso quotidiano
dell’informatica e delle telecomunicazioni, ai progressi
della medicina o della robotica. La varietà degli eventi
(convegni, mostre…) dedicati quest’anno all’una e all’altra celebrazione è, quindi, un’occasione preziosa per rimeditare una traiettoria così lunga e feconda, che suscita un giusto orgoglio nella comunità scientifica.
È l’occasione, in particolare, per comprendere la portata della radicale svolta concettuale introdotta da Charles Darwin, misurando l’ampiezza del percorso avviato
dal suo «lungo ragionamento», che offre ormai il quadro
interpretativo per gran parte del sapere biologico.1 È una
situazione consolidatasi a partire da quella «sintesi neodarwiniana», che alla metà del secolo scorso ha consentito d’integrare positivamente nella prospettiva evoluzionista tutta la ricchezza d’informazione offerta dalla genetica,2 permettendo l’avvio di prospettive inedite sul piano
conoscitivo, ma anche su quello dell’applicazione. Davvero oggi – lo riconosceva anche Giovanni Paolo II – quella evolutiva non è una teoria in mezzo ad altre;3 essa costituisce piuttosto l’orizzonte stesso del discorso biologico,
con cui anche la teologia è chiamata a confrontarsi.4
È una realtà che non viene scalfita neppure dal particolare status epistemologico della biologia evoluzionista
che – nella sua componente storico-ricostruttiva – non
può certo esibire una completa riproduzione in laboratorio dello sviluppo della vita. Tale dimensione non può,
però, essere considerata ingenuamente come fattore che
ne infirmerebbe la scientificità: a essa s’affianca una miriade di conferme – dirette e indirette, paleontologiche e
genetico-molecolari – che collocano saldamente la prospettiva avviata dalla riflessione darwiniana nell’ambito
del sapere scientifico consolidato.
Tra luce e oscurità…
Potremmo piuttosto trarre maggior frutto da una
considerazione epistemologica di quella «parzialità» dell’intero sapere scientifico, che trova espressione, ad esempio, in alcuni risultati emersi dalle osservazioni astronomiche degli ultimi anni. Effettuate con strumenti che Galilei neppure avrebbe potuto immaginare, esse costringono a concludere che qualcosa come il 22% della massa
esistente nell’universo è costituito da «materia oscura»,
mentre il 74% è «energia oscura». Due espressioni – è
quanto interessa evidenziare in questa sede – utilizzate
per indicare realtà la cui esistenza è evidente soltanto per
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gli effetti sul comportamento di altri corpi celesti, ma sulla cui natura sono disponibili al momento solo ipotesi.
Mi pare che tale dato sia indicativo di una dinamica
conoscitiva che – proprio mentre approfondisce e amplia
continuamente il nostro sapere – ne scopre anche, sempre e di nuovo, la provvisorietà e il limite. A essere segnato dalla temporalità evolutiva, insomma, non è solo il
mondo che si rivela alla ricerca scientifica, ma anche la
ricerca stessa. Per esprimerci con una metafora, le zone
(sempre più ampie e rilevanti) via via illuminate da nuove conoscenze si rivelano appunto come zone, circondate da vaste aree di oscurità o di penombra, sulle quali al
presente il discorso scientifico può solo formulare ragionevoli ipotesi (magari in attesa di riuscire a illuminarne
ulteriori porzioni).
Del resto, la stessa nozione di energia oscura offre ulteriori elementi di riflessione in tale direzione: essa è stata
introdotta a partire da osservazioni recenti che rivelano
come, imprevedibilmente, l’espansione dell’universo stia
accelerando – invece che rallentare, come previsto dalle
teorie cosmologiche precedentemente accettate. La conoscenza scientifica si rivela, dunque, nella sua provvisorietà,
espressiva della realtà di un mondo articolato, che «resiste» ai modelli precostituiti, rivelando sempre e di nuovo
la propria eccedenza rispetto a essi. Questo non riduce
certo la consistenza e il valore di quanto sappiamo e di
quanto scopriamo e, anzi, proprio tale «resistenza» è un
segnale chiaro dell’effettiva presa sul mondo dell’impresa
scientifica. Al contempo, però, essa indica la ricca complessità di un reale che non cessa di stupirci, costringendo
ad affinare e ridisegnare le teorie su di esso formulate.
… una tensione anticipatrice
D’altra parte, quella stessa curiosità che muove la ricerca scientifica rende insoddisfatti di tale parzialità,
spingendo a costruire narrazioni che consentano di dire
in modo più ampio il reale, anche a partire da descrizioni che attualmente non possono che essere parziali. Si
tratta di una considerazione che vale in particolare per
la teoria evoluzionista, che in alcuni autori viene ad assumere il ruolo di metanarrazione antropologica fondamentale, quasi a colmare lo spazio lasciato vuoto dal collasso delle grandi narrazioni della modernità (inclusa
quella della globalizzazione, spazzata via da una crisi lacerante).5 Certo l’istanza che opera qui è per alcuni
aspetti analoga a quella che orienta alla formulazione
coraggiosa di ipotesi, alla generalizzazione di risultati aldilà del campo ristretto cui essi si riferiscono, all’ardita
estrapolazione. Si tratta di elementi essenziali per la dinamica scientifica, caratterizzata da una tensione anticipatrice tutta positiva; essa introduce, però, anche una
sottile tensione rispetto a ciò che costituisce un sapere
scientifico ormai consolidato, come – d’altro lato – a ciò
che va considerato piuttosto come narrazione interpretante del sapere stesso.
Solo in tale prospettiva possiamo comprendere perché, anche tra coloro che condividono uno stesso corpo
di conoscenze scientifiche, possano esistere letture del
reale che – su un piano «meta-fisico» – risultano profondamente differenti. Si pensi, ad esempio, all’ambito del-
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le neuroscienze: a una narrazione in termini puramente
causali delle dinamiche psichiche (che alcuni autori qualificano come l’unica ormai scientificamente accettabile), se ne affianca una più attenta alla pluralità di linguaggi e all’irriducibilità dell’esperienza soggettiva alla
fattualità fisicamente rilevabile (pur senza negare la loro
correlazione). La scelta tra l’una e l’altra prospettiva,
però – a detta di uno specialista del settore come A. Oliverio – non è determinata univocamente dalle conoscenze scientifiche disponibili.6 È in gioco, quindi, piuttosto un’attiva interpretazione del nostro essere, una decisione circa la rilevanza da riconoscere alla percezione
che abbiamo di noi stessi e a quelle forme di riflessione
che da essa prendono le mosse.
È solo un esempio, ma basta a comprendere quanto
vitale sia per un serio confronto teologico col discorso
scientifico, un serio e informato discernimento di quanto
da esso viene offerto. Esso consente, ad esempio, di evitare il rischio di una superficiale identificazione dell’evoluzionismo con l’etica competitiva del «darwinismo sociale», che pure a esso intendeva richiamarsi, o quello di una
semplicistica associazione della prospettiva darwiniana a
un certo razzismo eurocentrico. È importante comprendere che i risultati della ricerca biologica recente tolgono
a esso ogni preteso fondamento scientifico,7 proprio mentre rivalutano – pur in forme talvolta problematiche – il
valore evolutivo dell’altruismo e dei sentimenti sociali.8
D’altra parte, proprio a una mancata percezione della varietà di livelli che s’intrecciano nel dire scientifico
sembra legata anche una certa acredine, presente nei dibattiti sul rapporto tra scienza e fede suscitati da questo
anno darwiniano. La capacità di coglierne l’articolazione (l’intreccio di conoscenza consolidata, di ipotesi ancora in attesa di conferma e di narrazione anticipatrice)
aiuta, invece, a comprendere la legittimità di una pluralità di interpretazioni del reale, che il dispiegarsi del discorso scientifico non elimina, ma torna sempre e di
nuovo a ravvivare.
È un’affermazione – sia chiaro – che non intendiamo
in alcun modo colorare di connotazioni relativiste, come
se la provvisorietà del sapere scientifico autorizzasse il
discorso sul senso a dirsi prescindendo completamente
dal suo procedere. Il reale su cui si esercita l’interpretazione (eventualmente critica) del filosofo e del teologo è
pur sempre quello stesso che viene colto dalla ricerca
scientifica. Recedere dal confronto con essa, pretendendo di costruire una conoscenza che ne ignori il portato,
è illusione pericolosa e insostenibile, dalla quale la ragione filosofica e quella teologica devono prendere decisamente le distanze.
Conf lit ti d’interpretazioni:
c rea z i o n i s m o e d i se g n o i n te l l i ge n te
Se, però, guardiamo alle diverse voci presenti nel recente dibattito sul darwinismo ci rendiamo conto che è
proprio quest’ultima prospettiva ad animare quella posizione «creazionista»,9 che respinge l’evidenza delle prove dell’evoluzione, in nome di un preteso riferimento alla Scrittura, quale infallibile fonte di sapere scientifico.10
È l’affermazione della contrapposizione di fede e scien-
za, di creazione ed evoluzione, una prospettiva che resiste soprattutto nel mondo evangelicale più fondamentalista, ma che nel mondo cattolico trova ormai ben pochi
sostenitori. Anche grazie alla riflessione pionieristica di
P. Teilhard de Chardin, infatti, esso è in gran parte giunto ad accogliere serenamente la possibilità di pensare la
fede nel Creatore anche in un quadro evolutivo e dinamico.11 Lo stesso magistero cattolico – come il pensiero
delle principali Chiese della Riforma – è passato da un’iniziale diffidenza a uno sguardo possibilista, per giungere oggi a un atteggiamento sostanzialmente positivo.
Più ampia (e questa sì estesa anche ad alcuni settori
del mondo cattolico) è invece l’attenzione raccolta negli
ultimi anni dal movimento dell’Intelligent design (ID, disegno intelligente), che pure si colloca in un orizzonte
per molti aspetti analogo.12 Certo, si riconosce qui il mero fatto dell’evoluzione, ma si contesta in radice l’adeguatezza della spiegazione offertane dalle teorie postdarwiniane. Vi sarebbe infatti – a detta di autori come
Dembski o Behe13 – una «complessità irriducibile», di
cui essa non riuscirebbe a rendere effettivamente conto.
Sarebbe, dunque, la stessa riflessione scientifica a esigere il riconoscimento dell’esistenza di un progetto intelligente operante nella storia del cosmo, e conseguentemente di un’intelligenza progettante. È su tale base che
i teorici dell’ID rivendicano – al momento peraltro senza successo – una parità di trattamento per la loro posizione, che essi ritengono meritevole di essere presentata
nei corsi di scienza al pari dell’evoluzionismo darwiniano. Non intendiamo soffermarci in questa sede sulle
convincenti contro-argomentazioni scientifiche presentate dai biologi evoluzionisti (tra i quali troviamo anche
numerosi credenti, a partire da figure come Ayala, Collins o il premio Nobel De Duve);14 ci limitiamo a segnalare che alla luce di tali contro-argomentazioni la complessità segnalata dai teorici dell’ID appare assai più «riducibile», tanto da essere ben interpretabile in orizzonte post-darwiniano.
Ci interessa invece sottolineare in questa sede il netto rifiuto opposto dall’ID a una struttura teorica che – a
giudizio della grande maggioranza degli addetti ai lavori
– costituisce il solido riferimento per l’intero sapere biologico contemporaneo. Il desiderio di ritrovare uno spazio per Dio nell’immaginario intellettuale di un tempo
così profondamente segnato dalla scienza si fa qui sfida
nei suoi confronti, quasi la sottrazione di spazio al sapere
scientifico si traducesse immediatamente in guadagno
per quello teologico. C’è la nostalgia di un passato – quello della «teologia naturale» di W. Paley (talvolta esplicitamente richiamata) o del Deus pantocrator di I. Newton15
– in cui un sapere scientifico nelle prime fasi del suo sviluppo doveva pronunciare il nome di Dio, appoggiandosi a esso per gestire la complessità di un reale altrimenti
incontrollabile.
Nel momento in cui – anche per il contributo dello
stesso Darwin – la riflessione scientifica matura in direzione di un austero «ateismo metodologico», in alcuni
credenti il disagio diviene insostenibile e conduce al rifiuto. Ecco, allora, che, per evitare tale conflitto di interpretazioni, l’ID forza l’interpretandum, costruendo la narra-
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zione di un’invincibile lacunosità del sapere biologico,
che potrebbe essere colmata solo dal ricorso a un’intelligenza ultramondana.
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Il naturalismo
Quello dell’ID appare, insomma, come un (assai poco
eroico) tentativo di riportare indietro la storia del sapere,
sfuggendo alla durezza del confronto con la scienza postdarwiniana. Un tentativo, in particolare, di evitare alcuni
interrogativi che emergono per la teologia da uno sguardo più attento alla descrizione evoluzionista del reale. Ci
riferiamo, in primo luogo, alla difficoltà di cogliere una direzionalità in una traiettoria evolutiva, che allo sguardo
del biologo appare mossa piuttosto da un cieco giuoco di
caso e necessità. Diversi autori evidenziano, anzi, come la
stessa terminologia possa essere ingannevole: «evoluzione» evoca un movimento prefissato, con un fine ben definito. È proprio questo, però, che svanisce dall’orizzonte
della biologia post-darwiniana: nella crescita di complessità del vivente essa legge il risultato dell’interazione tra il
flusso casuale di variazioni genetiche e il vaglio costituito
dall’interazione con l’ambiente. Né si tratta di una posizione limitata a pochi autori o a una specifica corrente (il
cosiddetto neodarwinismo): la scoperta di un meccanismo
siffatto, capace di rendere ragione dello sviluppo e del differenziarsi della vita, sta al cuore del «lungo ragionamento» darwiniano.
Ben comprensibile, in questo senso, la posizione di
Franceschelli,16 che vi vede la prima legittimazione davvero consistente di una lettura naturalistica del reale, capace com’è di dire la storia del bios senza ricorrere a forme
di causalità ultramondana o vitalistica. Dopo Darwin, insomma, è possibile narrare una storia della vita che non
pronuncia il nome di Dio.
Si tratta, in effetti, di una narrazione pienamente compatibile con l’attuale corpo di conoscenze circa l’evoluzione biologica, ma – è importante sottolinearlo – non certo
dell’unica. È un dato evidente nel pensiero di S.J. Gould:
il grande biologo recentemente scomparso praticava un
approccio naturalistico e rigorosamente non teleologico
all’evoluzione, ma riconosceva anche chiaramente la piena legittimità di altri livelli di lettura delle dinamiche evolutive.17 Uno sguardo davvero attento, insomma, sa andare oltre il mito del nudo dato, per riconoscere la complessità di un reale, che – al di là della comprensione scientifica consolidata – resta aperto a una varietà di narrazioni
interpretanti.
In tale prospettiva neppure la questione del male – indubbiamente l’altro grosso interrogativo posto al discorso
religioso da un approccio evoluzionista, col suo «eccesso»
di morte e inevitabile dolore presente nella storia della natura – può essere considerata come conclusiva, ma piuttosto come l’apertura di uno spazio problematico, che chiede una meditazione attenta.18 Per la teologia è soprattutto la sfida a dirsi in forme efficaci, capaci d’indicare significati salvifici, nella luce della fede, anche per l’immemorabile storia del cosmo e della vita; a recuperare quella dimensione cosmica della Croce, che forse attende ancora
di essere pienamente esplicitata nella sua capacità d’interpretare il gemito di una creazione sofferente.
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Darwinismo ateo?
Certo, occorre uno sguardo davvero lucido e sereno
per evitare reazioni scomposte di fronte all’arroganza
con cui autori come Dawkins o Dennett (o, in Italia, Pievani) liquidano il discorso religioso in nome del riferimento a Darwin. La loro notorietà presso l’opinione
pubblica tende a legittimarli nel ruolo di interpreti autentici del suo pensiero, quasi ogni posizione differente fosse
un attacco fondamentalista all’integrità della scienza.19
Essi possono così presentare come strutturalmente contraddittoria rispetto alla forma di pensiero evoluzionista
ogni forma di confessione del Creatore – e non solo la
sua interpretazione creazionista o la teoria del disegno
intelligente –,20 denunciando germi di fondamentalismo
antidarwiniano anche in autori del tutto alieni da esso.
Manca in realtà qui un serio confronto con un pensiero
della creazione davvero elaborato, cui si preferisce spesso
una presentazione caricaturale, riduttiva e carica di connotazioni negative e irrazionaliste, facile bersaglio per
un’argomentazione demolitoria.
Laddove l’elaborazione si fa più articolata, il primo riferimento è spesso all’evoluzione religiosa dello stesso
Darwin (da convinto credente ad agnostico), che viene a
saldarsi con l’uso di elementi di psicologia evoluzionista21
o di antropologia culturale,22 per elaborare una descrizione puramente naturalistica dello stesso pensiero religioso.
È la costruzione di una narrazione in cui il nome di Dio
viene sì evocato, ma solo per bandirlo, dichiarandolo illusione, patologia, sottoprodotto distorto dell’evoluzione
culturale, dal quale occorrerebbe purificare la coscienza
dell’umanità. La stessa espressione «ateismo» secondo
questa visione andrebbe superata, a favore di altre che
evitino di evocare un nome così sgradito, fosse pure per
prenderne le distanze. In realtà la risonanza suscitata da
tali posizioni è superiore alla loro diffusione nella comunità scientifica, come abbastanza limitata è la loro consistenza concettuale. Gli stessi autori riconoscono lo status
largamente congetturale della psicologia evoluzionista da
essi utilizzata, mentre i riferimenti antropologici interessano prevalentemente fenomeni religiosi abbastanza elementari.
È importante comprendere che qui ci troviamo soltanto a livello di narrazione interpretante, in un turbine
di affermazioni che va ben al di là non solo del sapere
consolidato, ma anche di quanto costituisce ipotesi scientificamente testabili. D’altra parte, un interlocutore attento dovrà chiedere se tale narrazione renda realmente
ragione del fenomeno da interpretare, se la descrizione
dell’humanum offerta sia all’altezza della complessità che
lo caratterizza. Se, in particolare, sia possibile interpretare adeguatamente le dinamiche della vita psichica, dell’elaborazione etica e di quella religiosa in assenza di un’adeguata meditazione del rapporto tra l’evoluzione biologica e quella culturale, che non pretenda di ridurre alla
seconda le dinamiche della prima.23 Se, ancora, la domanda sul senso del nostro esserci possa davvero essere
considerata un semplice prolungamento patologico di
quella ricerca di spiegazioni causali che caratterizza gli
stessi esseri umani, e non piuttosto il suo compimento.
È proprio la singolare libertà dell’humanum a porgli
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JACOPO DE’ BARBARI, Ritratto di Luca Pacioli (1495), Napoli, Museo di Capodimonte; a p. 5, parte di disegno di frattale.
il problema di leggere il reale, di definire la propria posizione collocandosi in esso, d’individuare un senso su cui
orientare il proprio agire. Una teologia della creazione è
proprio una siffatta interpretazione del reale; un’interpretazione rischiosa fatta a partire da testimonianze di fede e da tradizioni di riflessione, che dice il mondo e gli
umani come abitati da una Parola e da un amore fondante. Essa non si contrappone in alcun modo alla descrizione evoluzionista del reale, ma si colloca ad altro livello –
come narrazione anticipatrice – secondo modalità che
cercheremo adesso di accennare.
D i o p re se n te e n a scos to
L’esame critico di tante posizioni problematiche non
esonera, infatti, dalla sforzo di articolare una prospettiva
positiva, capace di dar corpo a una considerazione che
pensi l’evoluzione alla luce della fede. Manca lo spazio per
un’elaborazione compiuta in questo senso e rimando per
essa al mio Darwin e Dio. Fede, evoluzione, etica; certamente, però, è necessario offrire almeno qualche indicazione essenziale, richiamando alcune figure che con tali
tematiche si sono confrontate.
È innanzitutto necessario valorizzare la lezione galileiana, col suo richiamo contro usi impropri della Scrittura, che pretendano di cogliervi realtà che nulla hanno a
che fare con l’intenzionalità salvifica che la caratterizza.
Come aveva ben compreso il grande scienziato, la Bibbia
è certamente normativa per ciò che attiene al sapere del
senso; la descrizione del reale fisico in cui esso trova
espressione, però, è storicamente condizionata e può essere tranquillamente considerata come mero documento
culturale. Chi conosce la costituzione dogmatica sulla rivelazione divina Dei verbum del concilio Vaticano II sa bene che fedeltà alla verità della Scrittura non significa fondamentalismo biblicista.
Occorre poi valorizzare la lezione teilhardiana, col
suo intreccio di passione per la scienza e per la fede, per
la paleontologia e per il pensare teologico. Di fronte al
nuovo, il credente non può ritrarsi preoccupato, ma deve
cercare le forme per dire la propria fede nei contesti culturali (e scientifici) sempre nuovi che emergono. La stessa
ricerca di Teilhard de Chardin evidenzia tutta la fecondità
di un pensiero che sa lasciarsi interpellare in tal senso: la
comprensione dinamica del reale che egli ci ha offerto è
guadagno concettuale di grande portata per la teologia
cristiana della creazione.
Sarà necessario infine valorizzare la lezione rahneriana, col senso della complessità che la caratterizza,
con la sua capacità di distinguere tra quanto la fede deve affermare come qualificante e ciò che appare allo
sguardo delle scienze della natura. La descrizione programmaticamente non teleologica del reale che le caratterizza non andrà vista, allora, in contrapposizione
alla confessione credente di un amore creativo di Dio
che opera entro le dinamiche del reale. L’affermazione
teologica della presenza divina va fatta in tutto il suo
realismo, ma anche nel riconoscimento del suo nascondimento; il tempo pasquale richiama con forza tutta
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particolare tale caratteristica del Dio cristiano. Nella
prospettiva biblica la fede non nasce immediatamente
dall’esame del mondo fisico, ma dall’accoglimento di
un annunzio di salvezza, riconosciuto nella sua capacità
di interpretare efficacemente il nostro essere di uomini
e donne che abitano il mondo stesso.
Tale prospettiva rende la teologia cristiana ben attrezzata ad affrontare anche quelle sfide che il pensiero evoluzionista ha fatto emergere in forma più nitida negli anni successivi all’elaborazione teilhardiana. Penso, in particolare, a quella lettura della dinamica evolutiva che ne
accentua la natura non direzionale e la dimensione di casualità. Difficile, in questo contesto, utilizzare un’espressione come «disegno», quale luogo di incontro tra discorso scientifico e teologico, ma anche indicare nell’immagine scientifica del mondo tendenze e intenzionalità che essa stessa non riconosce. Meglio, piuttosto, valorizzare
teologicamente la nozione di contingenza – secondo le
indicazioni presenti, ad esempio, in W. Pannenberg – per
dire di un indeducibile agire di Dio, che opera nel segreto entro e attraverso l’intreccio delle realtà intramondane, senza forzarle.
Va in tal senso anche la riflessione elaborata da quella teologia anglofona (J. Haught, ma ancor più A. Peacocke e J. Polkinghorne, del quale si veda il saggio qui di
seguito a p. 495) così attenta a sottolineare le opportunità
offerte dal non-determinismo della fisica contemporanea
(meccanica quantistica, teoria del caos…) per dire l’azione di Dio nel reale descritto dalla scienza.24 Non è questa
una riedizione del Dio tappabuchi giustamente criticato
da Bonhoeffer – un Dio invocato come soluzione per
problemi conoscitivi umanamente insolubili – ma, al
contrario, la positiva valorizzazione di quelle componenti della conoscenza scientifica del mondo che meglio consentono di dar corpo a una teologia della creazione at-
tenta alla contingenza del reale. È possibile così tornare
a narrare l’evoluzione della vita pronunciando il nome di
Dio, ma senza profanarlo, senza ridurne cioè l’azione a
quella di un ente in mezzo ad altri. Si tratterà piuttosto di
confessarlo come la fonte radicale dell’essere, come lo
spazio delle possibilità sempre aperte, come la Parola che
interpella il reale per farne emergere tutta la ricchezza di
potenzialità.
In questo quadro è pure possibile far fronte alla sfida
antropologica posta dal pensiero evoluzionista: non con
la mera presa di distanza dal suo preteso materialismo,
né con un’arrendevole resa all’istanza riduzionista, che
indubbiamente caratterizza alcuni autori. Piuttosto con
una lettura serena e articolata, attenta a valorizzare appieno il portato di conoscenza che la scienza ci offre, ma
anche a richiamare gli elementi di discontinuità-nellacontinuità presenti nel percorso che conduce al sorgere
dell’humanum. Certo, non è facile indicare luoghi e momenti precisi per l’emergere di ciò che diciamo libertà o
coscienza; resta il fatto che la dinamica evolutiva rivela
una transizione, dalla quale emerge una specie che – al di
là dell’adattamento all’ambiente che la accomuna agli altri viventi – sa adattare a sé l’ambiente stesso (dapprima
localmente, poi via via su scala più ampia). La cultura e
l’etica – di cui indubbiamente vi sono vestigia anche altrove nella dinamica evolutiva – divengono determinanti
per la comprensione del comportamento umano, irriducibile a descrizioni puramente etologiche.
È una figura che orienta anche a una forte istanza di
responsabilità: proprio in quanto vivente non immediatamente determinato da vincoli comportamentali, l’essere
umano si scopre chiamato a modulare il proprio agire secondo ragione, nella ricerca di ciò che è giusto. La percezione della solidarietà con la storia della vita si esprime,
in particolare, nella forma dell’attenzione ecologica, del-
* Coordinatore del progetto «Etica, filosofia e teologia» della Fondazione Lanza di Padova e docente di Teologia della creazione presso la Facoltà teologica del Triveneto e l’Istituto di studi ecumenici San Bernardino.
1
Un buon quadro d’assieme in Le Scienze (2009) 486, febbraio, numero speciale su L’evoluzione dell’evoluzione.
2
B. FANTINI, «La teoria sintetica dell’evoluzione», in P. ROSSI (a cura
di), Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. III, tomo II, Tea, Milano 2000, 879-903; P. DURIS, G. GOHAU, Storia della biologia, Einaudi,
Torino 1999, 92-96. Una seria comprensione del valore scientifico della
sintesi neodarwiniana è essenziale per evitare d’identificarla semplicisticamente con le posizioni riduzioniste di specifici autori che a essa si rifanno
(come accade, ad esempio, in F. BRANCATO, Creazione ed evoluzione. La
grammatica di un dialogo possibile, Città aperta, Troina [EN] 2009).
3
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Pontificia accademia delle scienze, 23.10.1996, in www.vatican.va.
4
Per una riflessione più articolata, con ampie indicazioni bibliografiche cf. S. MORANDINI, Darwin e Dio. Fede, evoluzione, etica, Morcelliana,
Brescia 2009. Contributi di rilievo anche in ID., «Evoluzionismo e fede cristiana», in Credere oggi 29(2009) 1.
5
Sul tema rimandiamo al bel volume di P. COSTA, Un’idea di umanità. Etica e natura dopo Darwin, EDB, Bologna 2007.
6
A. OLIVERIO, «Il cervello e la mente», in E. BELLONE (a cura di), La
scienza, vol. 10, La mente e il cervello, UTET, Torino 2005, 19-39.
7
S. OLSON, Mappe della storia dell’uomo. Il passato che è nei nostri geni, Einaudi - Le Scienze, Milano 2008.
8
F. DEWAAL, La scimmia che siamo. Passato e futuro della natura
umana, Garzanti, Milano 2006.
9
Utilizziamo qui tale termine nell’uso corrente, che lo riferisce a quei
gruppi che, muovendo da un’interpretazione letteralista della Scrittura, si
oppongono a una descrizione evolutiva del reale. È evidentemente una restrizione, per un’espressione che di per sé indica semplicemente quella
confessione nel Creatore, che può trovare espressione anche in figure ben
diverse. Una considerazione analoga vale per l’espressione «disegno intelligente», il cui sequestro da parte dell’omonimo movimento ne ha reso difficile diversi usi concettuali.
10
Rimandiamo per questa sezione a J. ARNOULD, La teologia dopo
Darwin, Queriniana, Brescia 2000; ID., Dieu versus Darwin. Les créationnistes vont-ils triumpher de la science?, Albin Michel, Parigi 2007.
11
C. MOLARI, Darwinismo e teologia cattolica, Borla, Roma 1984; A.
PIOLA, «Quale dialogo tra evoluzione e creazione?», in V. DANNA, A. PIOLA (a cura di), Scienza e fede: un dialogo possibile? Evoluzionismo e teologia
della creazione, Effatà, Cantalupa (TO) 2009, 91-132.
12
La continuità tra i due movimenti è attestata anche dalle biografie
di alcuni autori, passati dall’uno all’altro (cf. G. BRANCH, E.C. SCOTT, «Il
nuovo volto del creazionismo», in Le Scienze [2009] 486, febbraio 2009,
96-103).
13
W. DEMBSKI, Intelligent Design. Il ponte fra scienza e teologia Alfa &
Omega, Caltanissetta 2007; M.A. BEHE, La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione, Alfa & Omega, Caltanissetta 2007.
14
Particolarmente illuminante F.J. AYALA, Darwin’s Gift to Science
and Religion, Joseph Henry Press, Washington 2007.
15
W. PALEY, Natural Theology or Evidence of the Existence and Attributes of the Deity, Collected from the Apperances of Nature, Oxford University Press, Oxford 2006. Sulla prospettiva newtoniana: S. MORANDINI,
Teologia e fisica, Morcelliana, Brescia 2007.
16
O. FRANCESCHELLI, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana
saggezza, Donzelli, Roma 2007.
17
S.J. GOULD, I pilastri del tempo. Sulla presunta inconciliabilità di
scienza e fede, Il Saggiatore, Milano 2000.
18
Si pensi alla suggestiva meditazione espressa in M. LUZZATTO, Preghiera darwiniana, Raffaello Cortina, Milano 2007; ID., «Darwin e Qohelet», in Micromega, Almanacco di scienza. Darwin 1809-2009 (2009) 28-33.
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l’istanza di salvaguardia del creato, più volte richiamata
anche da Benedetto XVI. La sostenibilità ambientale appare anche come la condizione necessaria perché il cammino della vita possa continuare sul nostro pianeta, mantenendolo nella sua condizione di casa della famiglia
umana e dei viventi tutti.25
Sono prospettive che devono essere dette in forma serena e non polemica. La ricerca scientifica non sta di
fronte alla teologia come un sapere antagonista, cui occorrerebbe contendere un primato conoscitivo. Abitare il
reale complesso che ci sta dinanzi, con le grandi sfide etiche e sociali che lo caratterizzano, esige piuttosto la valorizzazione di tutte le risorse intellettuali e di senso disponibili: il grande tema conciliare del dialogo dovrebbe costituire il quadro di riferimento per una positiva relazione tra scienza e fede.
Il Dio amante della vita ama anche la comprensione
che gli uomini e le donne sanno elaborare della vita stessa; il Logos mediatore della creazione invita e orienta alla ricerca e alla conoscenza delle strutture del reale; lo
Spirito creatore è il grande simbolo della presenza di Dio
presso le sue creature, efficace nella sua potenza eppure
libera, nascosta e indeducibile. Sono riferimenti che non
coartano certo la capacità indagatrice della ricerca scientifica, ma che disegnano piuttosto l’orizzonte di una narrazione più ampia, ricca di una speranza che radicalizza
la tensione anticipatrice del pensiero e dell’esserci.
Tanti gli uomini e le donne di scienza che hanno abitato e abitano questa narrazione, testimoniando di una
fede che sa essere stimolo per un ricercare faticoso ed
esaltante, nella piena fedeltà ai metodi e alle pratiche delle rispettive discipline. Alla loro opera preziosa vorrei dedicare queste pagine, ormai giunte alla loro conclusione.
Simone Morandini*
19
T. PIEVANI, Creazione senza Dio, Laterza, Roma 2005; R.
DAWKINS, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007.
20
T. PIEVANI, «Ratzinger e Küng uniti contro Darwin», in Micromega (2006) 8, 83-96; i riferimenti – non particolarmente puntuali – sono al
discorso di Benedetto XVI all’Università di Regensburg e a H. KÜNG,
L’inizio di tutte le cose. Creazione o evoluzione? Scienza e religione a confronto, Rizzoli, Milano 2006. Abbastanza curiosa anche la disamina critica
delle prospettive legate al convegno tenutosi alla Pontificia università gregoriana presente in ID., «L’evoluzione addomesticata ovvero come Ratzinger vuole annettersi Darwin», in Micromega, Almanacco di scienza.
Darwin 1809-2009 (2009) 3-27; essa, infatti, è fatta prima del suo svolgimento, basandosi semplicemente sui materiali reperibili sul relativo sito
(francamente abbastanza essenziali).
21
L. WOLPERT, Sei cose impossibili prima di colazione. Le origini evolutive delle credenze, Codice, Torino 2008; V. GIROTTO, T. PIEVANI, G.
VALLORTIGARA, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, Torino 2008.
22
D.C. DENNETT, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno
naturale, Raffaello Cortina, Milano 2007.
23
È a questo che sembra mirare la «memetica» dawkinsiana, una
posizione che ha incontrato un certo favore tra alcuni autori, ma anche
critiche severe e puntuali (un resoconto in A. MCGRATH, Dio e l’evoluzione. La discussione attuale, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2006).
24
Per uno sguardo d’assieme si veda R.J. RUSSEL, N. MURPHY, W.R.
STROEGER (a cura di), Scientific Perspectives on Divine Action. Twenty
Years of Challenge and Progress, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.
25
Rimandiamo a S. MORANDINI, Teologia ed ecologia, Morcelliana,
Brescia 2005; ID. (a cura di), Per la sostenibilità. Etica ambientale ed antropologia, Fondazione Lanza – Gregoriana libreria editrice, Padova 2007.
Ce rca re D i o n e l l ’e t à d e l la sc i e n z a
L’universo
come creazione
G
li scienziati sono mossi dal desiderio di
comprendere cosa succede nel mondo.
La loro ricerca ha raggiunto finora
grandi successi, allargando i propri
obiettivi ben oltre quei processi quotidiani, la cui comprensione potrebbe
plausibilmente essere spiegata dalla necessità evolutiva che ha sviluppato il nostro cervello per essere all’altezza di questo compito.1 La scienza ci aiuta a
capire il regno della fisica subatomica e la natura dello
spazio-tempo dell’universo, sistemi assai lontani dall’avere un impatto diretto su di noi, e con caratteristiche la cui
comprensione richiede modalità di pensiero alquanto differenti da quelle richieste dalla necessità quotidiana.
I l l i ve l l o d e l l ’ i n te r p re t a z i o n e
Tuttavia il successo della scienza è stato ottenuto grazie alla natura limitata della propria ambizione nel ricercare spiegazioni. Essa non tenta di domandare e di rispondere a ogni quesito che si potrebbe legittimamente
porre. Si limita invece a investigare i processi naturali,
attenendosi alla domanda sul come le cose siano accadute. Altre domande, come quelle relative al significato e
allo scopo, sono deliberatamente scartate. Questa presa
di posizione scientifica è semplicemente una strategia
metodologica, senza alcuna implicazione che altre domande, che potremmo definire domande sul perché, possano essere completamente rilevanti e necessarie per ottenere una comprensione totale della questione.
Eppure, anche in relazione al proprio campo di ricerca autocircoscritto, la scienza non può funzionare come una disciplina completamente a sé stante, in grado di
rispondere in modo esaustivo alle proprie domande sul
come. Le questioni relative alla causalità illustrano questo punto. La presa in considerazione della causalità è
certamente limitata da ciò che la scienza ha da dire, ma
il risultato di questo dibattito non è interamente determinato solo dalla scienza. Capire la natura della causalità richiede anche la considerazione di atti di decisione
metafisica.
La teoria quantistica lo dimostra piuttosto chiaramente.2 Il mondo quantico è necessariamente caratterizzato dalla presenza di imprevedibilità intrinseche il cui
accesso epistemologico è limitato dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo è quanto può dire
la fisica. Ma ci si può chiedere se questi fenomeni emergano da un’ignoranza inevitabile di alcuni dettagli più
precisi relativi a una realtà fisica la cui natura sottesa è
fondamentalmente deterministica, o se siano espressione
della natura intrinsecamente indeterministica del mon-
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do quantico. In base all’evidenza empirica offerta dalla
fisica, risulta che sono possibili entrambe le risposte.
Mentre la maggioranza dei fisici concorda con Niels
Bohr nel fornire la seconda risposta, sussiste una teoria
ingegnosa elaborata da David Bohm3 che dimostra che
anche la prima risposta è plausibile. La scelta tra queste
due opzioni non può essere operata su basi puramente
scientifiche, ma bisogna fare ricorso ai criteri metascientifici, quali giudizi di economia, eleganza e naturalezza (l’assenza di pianificazione/contrivance).
Coloro che hanno sete di conoscenza non l’appagheranno solo ricorrendo alla scienza. Mentre alcuni scienziati ostentano una sorta di scetticismo professionale nei
confronti del pensiero metafisico, la realtà è che nessuno
può fare a meno di una prospettiva più ampia di quella
meramente scientifica. Lo scientismo riduzionista che
proclama che la conoscenza scientifica è tutto ciò di cui
disponiamo, o di cui abbiamo bisogno, fa un’affermazione che non deriva dalla scienza stessa, propriamente
concepita. Gli esseri umani pensano naturalmente e immancabilmente in termini metafisici, così come parliamo in prosa.
Nulla viene dal nulla, e qualsiasi schema metafisico
deve essere stabilito su un fondamento inesplicato e inderivato, che poi servirà come base per uno sviluppo interpretativo successivo. Nella tradizione occidentale ci
sono stati due punti di partenza dell’indagine metafisica
fondamentalmente distinti. Uno esamina l’esistenza del
mondo materiale come principio base e considera le leggi della natura come fondamento per le spiegazioni successive. David Hume fu uno degli esponenti di spicco di
questa metafisica materialistica. L’altro approccio considera l’esistenza di un Agente divino autosufficiente come fondamento base e vede sia il mondo sia la storia regolati dal volere di questo Agente come espressione del
suo progetto. Teismo è quella parte della metafisica che
cerca di capire l’universo nei termini del suo esistere come creazione divina.
Argomentazioni a favore o contro queste due grandi
tradizioni di pensiero hanno imperversato per molti secoli. Di recente è stata proposta una sorta di nuova difesa a favore della posizione teistica – o forse si potrebbe
meglio dire che si tratta di una vecchia difesa riapparsa
in vesti intellettuali nuove. All’interno della corrente di
pensiero dell’Intelligent Design (ID, disegno intelligente),
questo nuovo movimento afferma di essere capace di discernere gli aspetti scientifici del nostro sapere del mondo vivente, la cui esistenza non può essere compresa se
non attraverso il ricorso all’azione diretta di un’intelligenza disegnatrice che opera nel corso della storia. Mentre i sostenitori di questa visione sono molto cauti nel dichiarare qualsiasi cosa di definito sulla natura di questa
intelligenza attiva – è una tattica del loro discorso di evitare l’uso di parole come Dio o Creatore –, sembra abbastanza chiaro che la teoria sottesa al movimento ID sia
quella di offrire una particolare difesa tacita a favore della metafisica teistica. Prima di tentare una valutazione di
questo movimento di pensiero, è necessario dare uno
sguardo preliminare ai vari contesti scientifici e teologici
attraverso i quali deve essere esaminato.
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LE
P R O S P E T T I V E O F F E RT E D A L L A S C I E N Z A
Abbiamo visto che la fisica non determina la metafisica, ma la limita certamente, quasi come le fondamenta di una casa non determinano l’edificio sulle quali
verrà eretto, eppure ne limitano la forma possibile. Ci
sono cinque aspetti della visione della scienza o della
realtà che sono particolarmente rilevanti per la presente
discussione.
Descrizioni frammentarie
La fisica procede attraverso l’analisi dettagliata di
campi fondamentali: la fisica subatomica, la fisica della
materia condensata, la meccanica del continuo, e così
via. In ogni campo si può raggiungere una comprensione ragguardevole dei processi coinvolti, ma le relazioni
tra i diversi settori sono spesso lungi dall’esser comprese
in modo soddisfacente. Per essere del tutto franchi, il
contributo della fisica alla descrizione di un nesso causale del mondo è particolarmente incostante.4
Un esempio convincente della natura frammentaria
della comprensione della fisica è fornito dalle perplessità
che rimangono ancora irrisolte riguardo al modo in cui
la fisica quantistica e quella classica possano relazionarsi
l’una all’altra. La questione si presenta ancora problematica dopo ottant’anni di grandi successi ottenuti nella
computazione. Sappiamo fare le somme, ma non capiamo completamente cosa accade. La difficoltà più nota è
quella relativa al problema della misurazione. La fisica
quantistica si basa sul principio della superposizione, che
permette la combinazione di stati che il pensiero newtoniano, o il buon senso, direbbe essere strettamente non
mescolabili. Un elettrone può essere in uno stato che è un
misto tra l’essere «qui» e «lì». Non solo questa possibilità
riflette la stranezza inafferrabile del mondo quantistico,
ma si collega anche alla natura probabilistica della fisica
quantistica. Se la posizione di un elettrone in tale stato di
superposizione è in realtà misurabile, a volte il risultato
sarà «qui» e a volte «lì». Il formalismo permette di calcolare con incredibile precisione le relative possibilità di ottenere queste due risposte, ma non c’è una spiegazione
teorica soddisfacente comunemente condivisa sul perché
un particolare risultato si presenti in una data occasione.
Questa aporia scientifica è il problema della misurazione.
In altre parole, è imbarazzante per un fisico dover ammettere che non capiamo come l’oscuro mondo dei
quanti e il chiaro mondo della fisica classica siano connessi l’un l’altro attraverso il ponte della misurazione.
Come risultato c’è un grande buco della scienza nella descrizione della struttura causale della fisica.
Un secondo esempio di incertezza risiede nell’incapacità di conciliare in modo coerente la teoria quantistica con quella del caos. I sistemi caotici posseggono una
tale spiccata sensibilità nel più piccolo dettaglio delle loro circostanze, che la previsione del loro futuro comportamento richiederà presto un grado di conoscenza esatta che l’indeterminazione di Heisenberg rifiuta. Ciò implica che dovrebbe esserci un intreccio delle due teorie,
ma di fatto i due formalismi, per come sono attualmente configurati sono incompatibili. La teoria quantistica
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ha una scala, fornitaci dalla costante di Planck, ma il carattere frattale della dinamica caotica indica che questa
non possiede una scala, poiché presenta le stesse caratteristiche in qualsiasi misura venga presa in esame. Le due
teorie insieme non sono dunque compatibili.
La fisica è incapace di offrire un resoconto uniforme
di ciò che accade nel mondo. È chiaro che ha fallito nell’impresa di stabilire la chiusura causale dell’universo in
base ai principi della fisica.
L’imprevedibilità
La scienza del XX secolo ha scoperto l’esistenza di
imprevedibilità intrinseche al processo fisico. Le prime si
sono manifestate al livello subatomico della fisica quantistica, e in seguito se ne sono scoperte altre al livello microscopico della teoria del caos. È importante spiegare
pienamente la portata del termine «intrinseco». Non
stiamo facendo riferimento a situazioni dove tecniche di
misurazione migliori, o strumenti di calcolo più potenti
potrebbero risolvere le imprevedibilità. L’imprevedibilità è una proprietà epistemologica che si riferisce a ciò
che possiamo o non possiamo sapere riguardo il comportamento futuro. Non c’è nessun nesso logico fondamentale tra l’epistemologia e l’ontologia (il che è il nostro caso).
Come già abbiamo visto nel principio d’indeterminazione di Heisenberg, è necessaria una decisione metafisica su che tipo d’interpretazione ontologica adottare
(deterministica o indeterministica?). È una strategia perfettamente coerente e accettabile per interpretare le imprevedibilità fisiche come segnali della presenza di apertura causale, permettendo l’operazione d’influenze causali sopra e sotto quelle che risultano dallo scambio di
energia tra costituenti che è stata la storia tradizionale
raccontata dalla scienza. Un ovvio candidato per questo
principio causale addizionale potrebbero essere gli atti di
volontà degli agenti umani intenzionali. Un’altra possibilità potrebbe essere l’azione provvidenziale divina,
continuamente operante all’interno della natura.5 Una
scienza onesta non è nella posizione di rifiutare entrambe le possibilità.
La re lazionabilità
Il pensiero newtoniano ha concepito il processo fisico in termini di collisioni di particelle che si muovono in
un contenitore di spazio assoluto nel corso dello svolgimento del tempo assoluto. Il XX secolo ha sostituito
questa visione con qualcosa nel complesso più intrinsecamente relazionale. La teoria di Einstein della relatività
generale ha combinato spazio, tempo e materia in una
singola descrizione integrata. La materia incurva lo spazio-tempo e la curvatura dello spazio-tempo influenza i
percorsi della materia. Nel mondo dei quanti, una volta
che due particelle hanno interagito, esse rimangono mutualmente intrecciate, divenendo effettivamente un singolo sistema cosicché, quand’anche si separassero nella
distanza, l’agire sull’una produrrà un effetto immediato
sull’altra (questo è il famoso «effetto EPR»). Parrebbe,
dunque, che anche il mondo subatomico possa non essere trattato atomisticamente.
Co m p le ss i t à e m e rge n te e d evo l u t i va
L’universo 13,7 miliardi di anni fa era solo una piccola palla, quasi uniforme, di energia in espansione. Oggi è un cosmo vasto, abitato da strutture ricche e diverse. Quella palla di energia è diventata la dimora dei santi e degli scienziati. I processi che hanno prodotto questa
incredibile trasformazione feconda sono stati di natura
evolutiva, sia nel caso si consideri la storia del cosmo agli
albori, nel corso della quale l’universo divenne grumoso
e denso di stelle e galassie, sia nel caso dei 3,5 miliardi di
anni di storia dello sviluppo della vita sulla Terra.
Il processo evolutivo è il risultato di una fertile interazione di due tendenze contrastanti, che potremmo definire «caso e necessità». La necessità sta a rappresentare la regolarità del mondo in base a delle leggi. Il caso
indica la particolarità contingente, il fatto che accada
questo invece di quello. La serie di eventi possibili è così
vasta che anche tra 13,7 miliardi di anni solo una piccola frazione di ciò che sarebbe potuto accadere accadrà
realmente. Potremmo fornire molte illustrazioni dell’interazione simbiotica tra queste due tendenze.
La scienza ha imparato a riconoscere che la vera innovazione può emergere soltanto in regimi che possiamo dire si trovino «al margine del caos», un regno dove
l’ordine e la contingenza si collegano per costituire il dominio del caso e della necessità. La pura necessità corrisponderebbe a un mondo troppo rigoroso in natura per
permettere l’apparizione di qualsiasi innovazione. Il puro caso corrisponderebbe a un mondo talmente caotico
che non permetterebbe ad alcuna novità di sopravvivere. Senza un grado di mutazione genetica, non esisterebbe nessuna forma di vita, non ci sarebbe alla base nessuna delle specie metastabili su cui il processo di vaglio della selezione naturale potrebbe agire.
La potente fecondità dell’universo si manifesta attraverso l’apparizione puntuale di intere nuove forme
di complessità, le cui nature non erano prevedibili in
base a ciò che le aveva precedute: la vita che nasce dalla materia inanimata; la coscienza dalla vita; l’autocoscienza umana (proprio gli stessi strumenti attraverso i
quali l’universo divenne cosciente di se stesso, e quindi
facendo della scienza una possibilità eventuale).6 Tuttavia non è chiaro in quale senso il pensiero evolutivo
convenzionale costituisca la descrizione scientifica
completa di come tutto ciò sia accaduto. Si è appena
riusciti di recente a studiare il comportamento dei sistemi moderatamente complessi, considerati nel loro insieme piuttosto che decomposti in parti costituenti. Attualmente la maggior parte di questo lavoro è allo stadio della storia naturale di considerare semplicemente
esempi specifici, spesso modelli generati al computer.
Comunque, è già chiaro che i sistemi complessi manifestano spesso poteri incredibili di auto-organizzazione
spontanea, entrando a far parte della generazione dei
nuovi modelli di struttura e comportamento. È totalmente concepibile che l’apparizione della novità sia in
parte influenzata dalla formazione di modelli olistici
delle leggi della natura, un genere non considerato in
precedenza dalla scienza e ancora ben lontano dall’essere compreso completamente.7
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Potenzialità sintonizzata
Gran parte della discussione sul significato evolutivo si è concentrata sul caso, una delle due metà della
dualità, ma la necessità non dovrebbe essere considerata da meno. Uno sviluppo sorprendente della comprensione scientifica è stato il riconoscimento che la
regolarità dettata dalle leggi abbia dovuto ottenere
una forma quantitativamente precisa molto specifica,
visto che per la vita a base carbonica è stato possibile
evolversi ovunque nel corso della storia del cosmo. Un
universo capace di essere la dimora della vita è davvero un universo molto speciale. Mentre la vita sembra
che si sia sviluppata solo circa 10 miliardi di anni fa
nella storia del cosmo, il nostro universo era gravido
di questa possibilità dal momento del big bang in poi,
nel senso che la sua matrice fisica di partenza possedeva già la qualità giusta per farlo accadere. La sintesi delle osservazioni scientifiche che hanno portato a
questa conclusione straordinaria e imprevedibile è stata definita con il termine di «principio antropico».8
Un esempio sarà sufficiente a indicare il tipo di pensiero che ne è alla base.
Poiché l’universo agli albori è molto semplice, produce conseguenze molto semplici. Gli unici elementi
chimici che può generare sono i due tra i più semplici, idrogeno ed elio. Per manifestare la vita c’è bisogno
di molta più diversità di risorse chimiche. In particolare serve il carbonio, la cui capacità di generare catene lunghe di molecole sta alla base di tutti gli esseri viventi. C’è solo un posto in tutto l’universo dove il carbonio può essere prodotto: nelle fornaci nucleari interne delle stelle. Siamo esseri che provengono dalla
polvere delle stelle, generati dalle polveri delle stelle
morte.
La persona che per prima capì questa evoluzione
fu Fred Hoyle. In un momento di grande intuizione,
realizzò che la produzione di carbonio stellare era
possibile, in modo affascinante e delicato, perché sussisteva un effetto d’intensificazione (una risonanza, diciamo di solito) con l’esatta energia per permettere ciò
che altrimenti sarebbe stato uno sviluppo mancato.
Hoyle inoltre realizzò che se le forze nucleari fossero state leggermente differenti, non ci sarebbe stata
alcuna giusta risonanza e di conseguenza nessuna vita
a base carbonica. Malgrado l’ateismo durato tutta
una vita, risulta che egli abbia affermato che l’universo è un «affare losco». In altre parole, Hoyle non poteva credere che l’esistenza del carbonio fosse semplicemente un felice incidente. Dato che non nutriva alcun interesse per la parola «Dio», disse che doveva esserci un’Intelligenza che aveva fissato le leggi della natura per manifestare l’universo in quel modo. Potremmo dire che Hoyle sentì di aver percepito il disegno
intelligente presente nella matrice del mondo.
Questo sarebbe, naturalmente, alquanto diverso
dalla tesi del movimento ID, che sostiene di discernere un tipo diverso di disegno intelligente, presente nelle reali strutture dettagliate di alcuni esseri viventi. La
prima visione si collega alle regole del gioco cosmico;
quest’ultima alle mosse specifiche di quel gioco.
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RISORSE INTUITIVE DELL A TEOLOGIA
La precedente discussione si è concentrata sulle intuizioni scientifiche relative a ciò che potrebbe riscuotere largo consenso nella comunità scientifica competente. Ma la
comprensione totale delle implicazioni di queste scoperte
sorprendenti richiede la loro collocazione in un contesto
più avanzato di intelligibilità, permesso da una prospettiva metafisica a tutto tondo. Abbiamo già osservato che
non ci sarà nessuna inevitabilità logica o unicità necessaria riguardo a questo procedimento, e di conseguenza non
ci sarà nessun consenso universale su quale schema metascientifico adottare. La mia tesi è che vedere l’universo come creazione divina offre un ambito di comprensione più
intellettualmente soddisfacente. Esplorare questa argomentazione richiede l’identificazione di alcune delle risorse intuitive offerte dal teismo. I concetti di particolare rilevanza sono tre: la creazione, la kenosi e la Provvidenza.
La creazione
Vedere il mondo come creazione è credere che la
mente di Dio sia soggiacente al meraviglioso ordine e che
il volere di Dio sia dietro la sua ricca storia. Il potere
straordinario della mente umana di capire le strutture
profonde del mondo – lo stesso fatto che ha reso la scienza possibile, ma che la scienza stessa non sa spiegarsi –
può essere reso intelligibile attraverso l’antico credo che
gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio (Gen 1,2627). La bellezza razionale svelata nella fisica fondamentale, che permette agli scienziati il premio della meraviglia
come ricompensa di tutto il lavoro svolto nelle loro ricerche, non è più vista dunque come un incidente felice, ma
è riconosciuta come puro riflesso della mente del Creatore, incontrata attraverso la matrice meravigliosamente ordinata della creazione.
La sintonizzazione antropica di quella matrice, che è
stata necessaria a permettere la straordinaria fecondità
della storia del cosmo e della terra, è concepita da un punto di vista teistico come dono offerto dal Creatore per permettere alla creazione di compiere il progetto divino della sua storia creativa.
Queste intuizioni si riferiscono tutte agli aspetti delle
leggi della natura che una metafisica materialistica tratterebbe come un semplice fatto rudimentale, ma il cui carattere significativo sembra richiedere una spiegazione se
vogliamo davvero colmare la nostra sete di conoscenza.
Vedere l’universo come creazione significa discernere un
disegno intelligente costruito all’interno della sua matrice
fisica. Sotto questa prospettiva, Dio non è raffigurato come il grande Artefice, limitando strutture ingegnose e particolari, ma come il magnifico Ordinatore della potenzialità e dell’ordine inerente senza il quale il mondo sarebbe
un caos piuttosto che un cosmo.
Questa comprensione s’incontra con la critica di Hume ai fisico-teologi del XVIII secolo, personaggi come
John Ray e William Paley, il cui fascino per l’adattamento
(aptness) funzionale degli esseri viventi era un tema, a livello degli organismi, simile a quello attualmente provato
dal movimento ID a livello dei meccanismi molecolari.
Hume affermò che la figura di Dio proposta dai fisico-
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GALILEO
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DARWIN 2009
Scienza e fede,
dialoghi e confronti
I
l 12 febbraio 1809 nasceva a Shrewsbury, nei pressi di Birmingham, il biologo e zoologo Charles Darwin, autore
nel 1859 del celebre L’origine delle specie, dove per la prima volta veniva formulata la teoria dell’evoluzione. Le iniziative per celebrare il bicentenario della nascita del grande
scienziato e il 150° della pubblicazione de L’origine delle specie sono state numerosissime, soprattutto in Inghilterra.
Limitandoci alle principali celebrazioni organizzate in
Italia da soggetti religiosi, già nel 2008, dal 31 ottobre al 4
novembre, in Vaticano è stata dedicata all’evoluzione la sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze sul
tema «Approcci scientifici sull’evoluzione dell’universo e
della vita», con la partecipazione tra gli altri dell’astrofisico
Stephen Hawking. In tale occasione gli scienziati partecipanti erano invitati a «presentare un contributo che possa
confermare o, al contrario, confutare le teorie sull’evoluzione». A Roma la Pontificia università gregoriana in collaborazione con l’Università di Notre Dame (Indiana, USA) sotto il
patrocinio del Pontificio consiglio della cultura e nell’ambito del Progetto STOQ (Scienza, teologia e ricerca ontologica) ha promosso e organizzato la conferenza internazionale
«L’evoluzione biologica: fatti e teorie» dal 3 al 7 marzo 2009.
Quello in corso è anche «anno galileiano», in quanto ricorrono i quattrocento anni dalle prime osservazioni della
luna di Galileo (1609): a Firenze dal 26 al 30 maggio ha avuto
luogo il convegno internazionale di studi «Il “caso Galileo”.
una rilettura storica, filosofica, teologica», organizzato congiuntamente da numerose istituzioni laiche e religiose, tra
cui il Pontificio consiglio della cultura e la Specola vaticana,
ma su iniziativa dell’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze,
diretto da padre Ennio Brovedani. L’intento dichiarato era
quello di dare luogo a un dibattito sereno e rigoroso sul «caso Galileo» per giungere a un giudizio storico «definitivo».
D. S.
teologi era troppo antropomorfa, in quanto consideravano l’atto della creazione come se fosse paragonabile a un
falegname che costruisce una nave. Ma manifestare un
mondo dotato di potenzialità inerente è piuttosto diverso
dal manipolare materiale esistente in modo da produrre
forme nuove. Nella terminologia ebraica, il primo caso è
definito bara (un termine particolare usato solo per la
creazione divina), invece del termine ‘asah (parola comune per ogni forma di creazione).
La kenosi
La teologia cristiana concepisce l’amore come la natura di Dio. Di conseguenza non può né raffigurare il Creatore come uno spettatore deistico indifferente, che avendo
messo in moto il tutto lo lascia poi andare semplicemente
da solo, né come un burattinaio cosmico che tira le fila nel
teatro della creazione.
Il dono dell’amore deve sempre includere un giusto
grado d’indipendenza concessa all’oggetto d’amore.
Prendendo atto di ciò, questa visione ha condotto molti teologi contemporanei a concepire l’atto della creazione come un atto di kenosi del Creatore, prevedendo
un’autolimitazione divina in modo da permettere all’alterità creata di essere veramente se stessa e, in realtà, di
autogenerarsi.9
L’idea creazionista del farsi da soli (vecchia quanto la
reazione iniziale di Charles Kingsley alla pubblicazione
de L’origine delle specie) è il modo teologico di interpretare l’evoluzione, vista come esplorazioni mescolate del caso attraverso cui la potenzialità divina dell’universo è portata a realizzare specificamente la sua attuazione. Si può
sostenere che il mondo caratterizzato da quel genere di fecondità evolutiva sia un bene maggiore rispetto a una
creazione già pronta. Ma quel bene ha un costo necessario. Sussiste un lato oscuro inevitabile al processo evolutivo, poiché l’esplorazione contingente risulta non solo in
nuovi generi di fecondità, ma porta anche a dei confini irregolari e vicoli ciechi. In un mondo in evoluzione, la
morte di una generazione è il costo necessario per la vita
della nuova che segue.
Sappiamo che l’evoluzione biologica è stata determinata dalla mutazione genetica, ma se i microbi sono capaci di mutare e produrre nuove forme di vita, allora le cellule somatiche saranno capaci, attraverso lo stesso processo, di mutare e di diventare a volte maligne. Un aiuto ci
viene qui dato dalla teologia, in quanto si confronta con le
perplessità della teodicea. L’angosciosa realtà del cancro
non è un qualcosa di gratuito, come se si potesse pensare
che il Creatore, se fosse stato un po’ più competente o un
po’ meno crudele, l’avrebbe facilmente eliminato. È il costo necessario della creazione, nella quale alle creature è
permesso di farsi da sole.
La Provvidenza
Abbiamo visto dunque che una valutazione onesta del
sapere effettivo della scienza sul nesso causale del mondo
è compatibile con una visione più sottile e flessibile del suo
processo, piuttosto che concepire la creazione come un
pezzo gigantesco di orologio cosmico. Non sussistono motivazioni scientifiche adeguate che ci richiedano di scartare una metafisica dell’agente, che include la possibilità di
un’interazione provvidenziale divina nel corso dello svolgimento della storia.10
L’idea di un universo in divenire, aperto sul futuro,
permette una comprensione della divina Provvidenza
operante all’interno della natura creata, invece di vederla
contro di essa, il cui carattere, dopo tutto, è in sé espressione della volontà del Creatore. Si è proposto in precedenza che il luogo della flessibilità causale necessaria possa risiedere negli oscuri domini dell’imprevedibilità intrinseca che sono stati scoperti dalla scienza. Se questo è il caso, ne consegue che il processo del mondo non può essere considerato a parte e non si possono specificare minuziosamente gli eventi uno per uno, come se si potesse affermare che la natura ha fatto questo, gli esseri umani faranno quello, e la divina Provvidenza la terza cosa. Sussiste un coinvolgimento intrinseco. Gli atti della Provviden-
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za si possono discernere attraverso la fede, ma non saranno mai dimostrabili tramite l’esperimento.
Cosa dire allora dei miracoli? Il cristianesimo deve affrontare la questione, poiché alla base di questo credo risiede la risurrezione di Cristo e nessuno potrebbe far finta di credere che un uomo che risorga dalla morte per
giungere a una vita nuova di gloria infinita sia riuscito nell’impresa attraverso una strumentalizzazione intelligente
delle imprevedibilità dei quanti e del caos. In questo caso
ci deve essere stata un’azione diretta di Dio, di una natura completamente senza precedenti. Dal momento che la
scienza s’interessa di cosa accade di frequente, non può
logicamente escludere la possibilità di eventi unici. Eppure la stessa teologia vieta di concepire Dio come un mago
celeste capriccioso che fa giochi di prestigio solo per stupire la gente. Se eventi unici, come i miracoli, in realtà accadono, ciò può essere solo perché circostanze senza precedenti li hanno resi una possibilità che è in armonia con
la coerenza del volere divino.11 Se Gesù era l’incarnazione del Figlio di Dio, come credono i cristiani, allora la sua
risurrezione può in effetti essere vista come forma coerente dell’azione divina, e concepita anche come segnale e sigillo all’interno della storia di ciò che Dio voleva fare per
tutta l’umanità oltre la storia (cf. 1Cor 15,22). Questo approccio interpreta la questione dei miracoli come eventi
che aprono delle finestre sui livelli più profondi della natura divina, permettendone un’intuizione più profonda di
quella rivelata dall’esperienza quotidiana. Corrisponde a
ciò che il Vangelo secondo Giovanni chiama «segni».
IL
D I S E G N O I N T E L L I G E N T E : U N A VA L U TA Z I O N E
Il concetto di Provvidenza appena proposto raffigura
Dio come colui che interagisce incessantemente con la
creazione per mezzo di un’azione continua che ha sede all’interno, divinamente ordinato, della natura. Azioni divine speciali in circostanze speciali di svelamento rivelatorio
non sono escluse, ma l’aspettativa è che questi atti siano
relativamente rari e che accadano per ragioni altamente
significative. Se lo scopo dei miracoli è effettivamente
quello di costituire dei segni di significato profondo, non
saranno sparsi in modo avventato e generoso per tutta la
storia. Infatti, l’esame delle storie dei miracoli biblici dimostra che si concentrano intorno a periodi di particolare importanza nella storia della salvezza: l’esodo, l’alba
della profezia di Israele, la vita di Gesù Cristo e la fondazione della Chiesa.
Benché il linguaggio attentamente scelto del movimento ID rifugga dall’uso della parola «miracolo», il
quadro che esso propone sull’evoluzione della vita porta
la chiara implicazione che essa sia disseminata da numerosi interventi miracolosi, atti discontinui nei quali entità
nuove vengono create in modo speciale. In quale altro
modo si potrebbe supporre il sorgere di sistemi disegnati complessi, se non attraverso un’azione diretta dell’intervento divino compiuta da un agente disegnatore intelligente? Bisogna chiedersi quale prova potrebbe essere
fornita a sostegno di un’affermazione estremamente forte come questa.
William Dembski ha avviato le ricerche per identifica-
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re il tipo di prova in grado di sostenere in modo logico e
convincente la presenza di un disegno intelligente.12 Il suo
concetto chiave è ciò che egli chiama il «criterio di specificazione di complessità». Ci sono tre elementi che vengono identificati come necessari al funzionamento del criterio: contingenza, complessità e specificazione.
La contingenza sta a significare che l’entità non è
qualcosa che era destinata a divenire attraverso processi di
necessità inesorabile. Quando si usa un computer, premendo il comando «stampa» si otterrà un testo perfettamente corrispondente alle parole che apparivano sullo
schermo. Qualunque intelligenza abbia preso parte alla
stesura originale del testo, nessun’altra è stata coinvolta
nel produrre una copia automatica.
La complessità indica che l’entità non è così semplice
da formarsi attraverso un puro caso. Se si battono quattro
lettere a caso sulla tastiera, queste corrisponderanno di rado a una parola inglese, ed è sufficientemente probabile
che, quando ciò accade, all’evento non venga attribuito
alcun significato rilevante. Ma se si battono a macchina
cento lettere a caso e si scopre che possono essere suddivise in una sequenza di parole inglesi, si può giustamente
pensare che l’evento richieda un’ulteriore spiegazione.
La specificazione è la condizione più elusiva da definire. Richiede la presenza di un modello, il cui carattere sia
così naturale da indicare un ruolo per l’intelligenza nella
sua formazione. Se si dovesse scoprire che quelle cento
lettere corrispondono alle parole di un sonetto di Shakespeare, allora sicuramente c’è un qualcosa che accade di
natura altamente superiore. Un problema per la condizione di specificazione risiede nell’identificazione della presenza di significato. Se le cento lettere formassero la traduzione del sonetto nella lingua urdu, sarebbe anche questo un fatto rilevante, ma che passerebbe probabilmente
inosservato a un parlante inglese monoglotta.
Sembra ragionevole concordare sul fatto che un atto
di disegno intelligente debba soddisfare in qualche modo
il criterio di specificazione di complessità. Ciò che è più
controverso è l’asserzione che la soddisfazione del criterio
sia una condizione sufficiente per provare il disegno intelligente. Dopo tutto, la tesi darwiniana della selezione naturale propone precisamente un modello in cui gli effetti
di vagliatura dello smistamento ambientale e della preservazione, che operano di continuo su piccole differenze
fortuite e che si accumulano durante lunghi periodi di
tempo, possono provocare conseguenze per l’adattamento di entità viventi nei loro ambienti contingenti e complessi, e possono essere considerati nel soddisfare la specificazione, non nel senso presente, ma nel senso che i risultati sono funzionalmente efficaci a un alto grado. È stata
precisamente l’abilità del pensiero evolutivo a spiegare la
manifestazione del disegno senza bisogno di invocare l’intervento diretto del disegnatore, sovvertendo le argomentazioni dei fisico-teologi. Comunque in entrambi i casi c’è
bisogno di molto di più che di generalizzazioni. Ciò che
sarà convincente è l’attenta analisi di casi particolari.
Qui i teorici del movimento ID si rivolgono a un concetto che è stato discusso a fondo da Michael Behe. È l’idea della complessità irriducibile, che Behe definisce come «un singolo sistema composto da diverse parti intera-
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genti che contribuiscono alla funzione di base, e per il
quale la rimozione di una qualunque delle parti causerebbe la cessazione del funzionamento del sistema».13 Risulta chiaro che l’evoluzione di questo sistema, a meno che
non venga trattato come isolato, non potrebbe essere spiegata dalla nozione darwiniana dello sviluppo graduale incrementale, in cui a ogni stadio si ritiene raggiunto un ulteriore grado di sopravvivenza efficiente. Behe ritiene di
essere in grado d’identificare alcuni di questi sistemi di
complessità irriducibile. Uno dei suoi esempi preferiti è
quello delle ciglia che permettono agli organuli di nuotare. Questo discorso è l’omologo molecolare delle difficoltà
sollevate subito dopo la pubblicazione de L’origine delle
specie, che si chiedeva come gli organi complessi quale
l’occhio si fossero evoluti. Lo stesso Darwin si era dibattuto su questo punto, sebbene ricerche successive siano state capaci di fornire percorsi evolutivi plausibili, e il fatto
che gli occhi si siano sviluppati diverse volte indipendentemente nel corso della storia evolutiva fa pensare che non
ci sia un vero problema. Sono realmente differenti le materie a livello molecolare?
Non credo che Behe abbia stabilito l’esistenza irrefutabile della complessità irriducibile. Non è sufficiente considerare un sistema singolo come se fosse semplicemente
isolato. Il processo evolutivo è costituito da molte trame
complesse, e caratterizzato dalla cooptazione improvvisa
di sotto-sistemi, che si sviluppano per uno scopo e successivamente vengono appropriati per un altro scopo completamente differente. Risulterebbe molto difficile provare che non vi sia stato un percorso attraverso il quale si sia
evoluta una struttura identificata come complessa e irriducibile, così come risulterebbe difficile stabilire con certezza il vero tragitto del suo sviluppo evolutivo. Allo stato
attuale, un verdetto aperto è il massimo che si possa avanzare. Tuttavia, dato che l’affermazione del movimento ID
è potenzialmente di tale rilevanza, l’onere della prova
spetta sicuramente a coloro che se ne fanno promotori.
Non credo che quell’onere sia stato ancora adempiuto.
Se venisse stabilita la complessità irriducibile, sarebbe
un successo scientifico di enorme portata. In effetti si potrebbe ritenere una scoperta da premio Nobel. Le frequenti polemiche rivolte al movimento ID – che non sia
scientifico perché non si basa su esperimenti – sono ingiuste. Le scienze storiche osservative non hanno accesso diretto alla verifica sperimentale. La loro ricerca dipende
dal proporre la migliore spiegazione di una serie complessa di processi, i cui dettagli sono conosciuti solo in modo
frammentario. Il contributo di Darwin ne L’origine delle
specie possiede proprio questa caratteristica. Gli ideatori
della teoria del «disegno intelligente» si stanno ponendo
una domanda scientifica importante. Il problema è che
non conoscono ancora la risposta.
Una critica importante a questa teoria è che il suo programma teologico nascosto sia fondato su una strategia
errata. Si può concepire un Dio ordinatore della natura
sia che agisca attraverso i processi della natura, sia che lo
faccia in qualsiasi altro modo. Non c’è una distinzione che
debba essere imposta tra la spiegazione naturale e il lavoro del Creatore. Il volere di Dio è altrettanto espresso nel
processo evolutivo che risulta nella continua esplorazione
della potenzialità, così come in qualsiasi degli eventi presunti di intervento divino. Dio è presente sia nel caso sia
nella necessità della creazione.
UN
E V O L U Z I O N I S M O T E I ST I C O
Quest’ultima argomentazione esprime esattamente
come l’evoluzione teistica interpreti la dottrina della creazione. La necessità antropicamente sintonizzata dell’universo è vista come manifestazione del volere del suo Creatore, mentre l’opera della divina Provvidenza è vista all’interno delle contingenze della storia del cosmo, secondo la
visione già data della continua azione provvidenziale operante all’interno della natura. Per usare una metafora musicale utilizzata da Arthur Peacocke,14 la «fuga» della
creazione non è l’esecuzione di uno spartito fisso già scritto nell’eternità, ma è un’improvvisazione che si dispiega
meravigliosamente e alla quale partecipano il Creatore e
le creature.
Questo processo di collaborazione è reso possibile
dall’amore «kenotico» del Creatore per la creazione, attraverso cui le creature possono essere sé stesse e farsi da
sé. La magnifica fuga della creazione giungerà alla sua
risoluzione finale, poiché è una convinzione interamente coerente che Dio realizzerà determinati compiti lungo vie contingenti.15 Nel frattempo, il contrappunto attuale concorda con le intenzioni del Musicista divino
consone alla forma del suo sviluppo, anche se è presente un’influenza notevole delle creature sui dettagli armonici. Non è stato decretato per tutta l’eternità che l’homo
sapiens dovesse apparire nella nostra specificità contingente a cinque dita, ma la nascita di esseri autocoscienti
capaci di comprendere e venerare il proprio Creatore fu
disposto dalla volontà divina.
L’equilibrio raggiunto tra l’orientamento del Creatore
e l’indipendenza delle creature è una questione delicata,
non facile da definire. È una questione teologica ben conosciuta, in quanto è semplicemente quella della grazia e
del libero arbitrio, ma estesa all’intero cosmo. Abbiamo
già osservato che riconoscere l’indipendenza accordata alle creature concede alla teologia un aiuto nell’affrontare le
perplessità della malattia e del disastro. Dio non vuole direttamente che avvenga né un omicidio o un terremoto,
ma entrambi possono accadere nell’ambito di una creazione che è molto più sottile e flessibile di un teatro divino di marionette.
Il concetto dell’evoluzione teistica ci aiuta inoltre a capire le imperfezioni apparenti del disegno osservate in esseri evoluti. Gli organi rudimentali, come l’appendice
umana, che al momento non svolge alcuna funzione utile, sono semplicemente dei residui derivanti dalle necessità funzionali di un tempo, piuttosto che caratteristiche
oziose di un disegno imperfetto. Chiunque abbia sofferto
di mal di schiena sarà consapevole che lo scheletro umano non è disegnato in modo perfetto e intelligente per la
deambulazione bipede.
Un aspetto irritante di una parte del discorso religioso
contemporaneo è il modo in cui ci si è impadroniti di parole importanti nel tentativo di farne proprietà privata di
una minoranza. Come altri teisti, sono un creazionista nel
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vero senso di credere che la volontà divina sia la sorgente
della manifestazione dell’universo e che lo scopo divino
sia espresso nella sua storia, ma non sono certo un «creazionista» nel senso stravagante nordamericano, che dà
un’interpretazione letterale senza riserve dei primi due
capitoli della Genesi. Credo anche in un disegno intelligente costruito all’interno della matrice fisica del mondo,
che trova un’espressione iniziale attraverso processi che
sono guidati, ma non solamente determinati, da Dio, ma
non credo che il Creatore abbia scelto di agire attraverso
atti episodici di intervento diretto, come se il grande atto
della creazione avesse bisogno di una continua riparazione ricostruttiva delle sue parti.
John Polkinghorne*
* Teologo anglicano e docente emerito di Fisica matematica all’Università di Cambridge (Gran Bretagna), noto anche in Italia per i suoi
saggi Il mondo dei quanti, Garzanti, Milano 1986; Scienza e fede, Mondadori, Milano 1987; Quark, caos e cristianesimo. Domande a scienza e
fede, Claudiana, Torino 1997; Credere in Dio nell’età della scienza, Raffaello Cortina, Milano 2000; Teoria dei quanti, Codice, Torino 2007. Il
saggio è stato pubblicato sul forum teologico dell’editrice Queriniana
Teologi@Internet n. 126, 13.1.2009. © 2008 by Associazione culturale
don G. Pressacco. © 2009 by Teologi@Internet. Traduzione dall’inglese di Angelo Vianello.
1
Cf. J.C. POLKINGHORNE, Exploring Reality. The Intertwining of
Science and Religion, SPCK - Yale University Press, New Haven (CT)
2005, c. 3.
2
Per le nozioni sulla fisica quantistica si veda ad esempio J.C.
POLKINGHORNE, Quantum Theory: A very short introduction, Oxford
University Press, New York 2002; trad. it. Teoria dei quanti, Codice,
Torino 2007.
3
D. BOHM, B. HILEY, The Undivided Universe, Routledge, London
1993.
4
POLKINGHORNE, Exploring Reality, c. 2.
5
J.C. POLKINGHORNE, Belief in God in an Age of Science, Yale University Press, New Haven (CT) 1998, c. 3.
6
Si veda P. CLAYTON, Mind and Emergence. From Quantum to
Consciousness, Oxford University Press, New York 2004.
7
S. KAUFFMAN, The Origins of Order, Oxford University Press,
New York 1993.
8
J.D. BARROW, F.J. TIPLER, The Cosmological Anthropic Principle,
Oxford University Press, New York 1986; trad. it. Il principio antropico,
Adelphi, Milano 2002; J. LESLIE, Universes, Routledge, London 1989.
9
J.C. POLKINGHORNE (a cura di), The Work of Love: Creation as Kenosis, SPCK - Eerdmans, Grand Rapids (MI) – Cambridge (UK) 2001.
10
Cf. R.J. RUSSELL, N. MURPHY, A.R. PEACOCKE (a cura di),
Chaos and Complexity. Scientific Perspectives on Divine Action, CTNS Osservatorio vaticano, Città del Vaticano 1995; R.J. RUSSELL, P. CLAYTON, K. WEGTER-MCNELLY, J.C. POLKINGHORNE (a cura di), Quantum Mechanics. Scientific Perspectives on Divine Action, CTNS - Osservatorio vaticano, Città del Vaticano 2001; e nota 5.
11
J.C. POLKINGHORNE, Science and Providence, Templeton Foundation Press, West Conshohocken (PA) 22005, c. 4; trad. it. Scienza e
Provvidenza: l’interazione di Dio col mondo, Sperling & Kupfer, Milano
1993.
12
W. DEMBSKI, Intelligent Design. The Bridge between Science and
Theology, InterVarsity Press, Downers Grove (IL) 1999; trad. it. Intelligent Design. Il ponte fra scienza e teologia, Alfa & Omega, Caltanissetta
2007.
13
M. BEHE, Darwin’s Black Box, The Free Press, New York 1996,
39; trad. it. La scatola nera di Darwin: la sfida biochimica all’evoluzione, Alfa & Omega, Caltanissetta 2007.
14
A.R. PEACOCKE, God and the New Biology, Dent, London 1986,
97-99.
15
Per una discussione approfondita si veda D. BARTHOLOMEW,
God of Chance, SCM Press, London 1984, c. 4; trad. it. Dio e il caso,
SEI, Torino 1987.
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Teologia e scienze
Discorsi
sul metodo
n un frammento dell’opera giovanile di Sergio
Quinzio Diario profetico si legge che il «cristiano moderno» vive spesso inconsciamente nel
conflitto tra due storie: «“Per fede”, come si usa
dire, aderisce a una storia che va dal peccato
originale alla redenzione, al regno di Dio (ma
questa storia, in contrasto con la storia del
mondo, resta staccata e non operante); e, come
uomo moderno, non può non aderire alla storia “scientifica”, che va dalle interminabili (e mitiche…) ere geologiche, agli ominidi, alle varie religioni e filosofie sempre più evolute, a una meta finale che, nella speranza, è
di continuo progresso dell’umanità nella pace, nella prosperità, nel benessere (…), e, nel timore, di fatale rovina
nella guerra e nella distruzione».1
I
Sul filo del ra soio
Agli inizi del XXI secolo la modernità sta ormai alle
nostre spalle, senza però che se ne sia davvero usciti. Perciò, sia pure in modo meno perentorio, udiamo ancora
in noi l’eco della duplice storia di cui sopra. Anzi, agli
orecchi di molti essa rimbomba in maniera tanto alta da
far sì che, quando il confronto diviene cosciente, la sola
soluzione proponibile sia di mantenerne una e di buttare a mare l’altra. Il simmetrico rigoglio di fondamentalismi e di neoateismi si spiega proprio in ragione dell’opzione tranquillizzante di riuscire a raccontare una storia
sola. Tuttavia non sono mancati e non mancano, da parte di alcuni teologi, sforzi volti a far dialogare tra loro le
due storie. Operazione per definizione ardua, in quanto
deve collegare linguaggi che, per intrinseca natura, devono restare distinti senza essere separati: si cammina
sul filo del rasoio.
Appare scontato che il problema del raccordare, senza confonderli, i due saperi sorge solo in relazione a un
approccio teologico disposto a farsi interpellare dalle descrizioni del mondo proposte dalle scienze. Di contro la
questione non ha ragion d’essere per il conoscere scientifico il quale, in virtù della sua attuale impostazione metodologica, non è più chiamato a confrontarsi con la teologia. Per ben operare, uno scienziato deve, però, far tesoro della filosofia della scienza. Vale a dire, egli è tenuto a conoscere le riflessioni epistemologiche che affrontano il tema della portata, dei limiti e delle metodologie
del sapere scientifico. Una delle conclusioni da trarre da
questa impostazione è che l’«ateismo metodologico»
proprio del sapere scientifico non dovrebbe mai trasformarsi né in teismo, né in ateismo ontologici. Da questo
versante il discorso è risolto. In prospettiva epistemologica, quindi, l’appello apologetico all’esistenza di scienzia-
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ti credenti (metamorfosi dell’antico principio di autorità)
è un semplice non senso mentre, dal punto di vista ideologico, la constatazione vale esattamente quanto il suo
contrario che si richiama alla presenza di scienziati atei.
Il discorso è invece del tutto aperto per il teologo.
Egli, infatti, da un lato è tenuto a fornire un’ermeneutica convincente della visione biblica descrivibile (per usare gli stilemi ereditati dalla catechistica «storia sacra»)
lungo l’asse creazione-peccato-redenzione-regno di Dio;
mentre, dall’altro, è chiamato a rispondere all’interrogativo se sia lecito fornire una lettura teologica del mondo
così come viene descritto dal sapere scientifico. Quest’ultimo compito può essere formulato anche attraverso
un interrogativo: in che modo pensare la natura (spiegata in maniera atea dalla scienza) come creazione? La risposta alla domanda implica, va da sé, un’indagine sui
fondamenti del sapere teologico. La risposta alla questione ruota fatalmente su due termini: ragione e rivelazione. Ne consegue una serie di altri interrogativi: quale ragione? Certo non quella scientifica. Dunque, una ragione metafisica? O non piuttosto una ermeneutica? E quale rivelazione? Vale a dire, quale ermeneutica biblica
può consentire di rapportare il Dio creatore con il cosmo
descrittoci dalla scienza di oggi?
Partiamo da un’asimmetria incontestabile: la natura
nulla dice della Bibbia, mentre quest’ultima compie alcune asserzioni sul creato. In questo contesto il problema diventa acuto quando si tenta di coordinare tra loro
i due termini di creazione e di natura; allora, infatti, diviene pertinente chiedersi se le affermazioni bibliche relative al creato abbiano o meno qualche attinenza con il
campo proprio delle indagini naturali. Il rilievo, se ben
compreso, mostra di per sé che la questione di fondo si
situa nell’ambito dell’ermeneutica biblica: essa sorge o
cade a seconda dei modi adottati per leggere la Scrittura; mentre non si affaccerebbe affatto se ci si limitasse al
lato delle «dispute naturali».
In realtà, a ben guardarci, il contenzioso non è mai
stato tra Bibbia e scienza. È stata infatti la teologia a trasportare in altri linguaggi e a collocare in altri contesti
contenuti ricavati sia dalla rivelazione biblica sia dalla riflessione razionale. Esattamente in base a questa duplice
articolazione la speculazione metafisico-teologica interagisce tanto con la Scrittura quanto con la natura. Proprio questa interconnessione ha fatto sorgere un nugolo
di problemi (o pseudo-problemi) specifici della cultura
occidentale di cui né il mondo greco, né quello biblico
avrebbero mai sospettato l’esistenza.
Quale idea di creazione
Per citare un esempio fra i tanti, riferiamoci a John
Polkinghorne.2 Egli, in un suo recente articolo, cerca di
coniugare tra loro il problema del tempo, l’ordine fisico
del mondo, la libertà umana e l’immagine del Dio biblico.3 Di fronte a questo plesso di problemi, quel che preme sottolineare è dichiarare che il contesto in cui sorgono è solo quello teologico. In altri termini, Polkinghorne
può discutere simili argomenti non nella sua qualità di
scienziato, di filosofo della scienza o di biblista, ma solo
in quanto studioso interessato al sapere teologico. Infat-
ti quelle questioni non sono di casa né in ambito scientifico, né in ambito biblico. Solo una riflessione razionale
che vuole confrontarsi tanto con la rivelazione biblica
quanto con l’ordine della natura può sollevare (molto
più che risolvere) siffatte interrogazioni.
Le osservazioni appena compiute non negano, ovviamente, che nella Bibbia si ritrovino delle visioni cosmologiche e che esse abbiano influito, lungo i secoli, sull’elaborazione di un sapere che ha come proprio oggetto i
fenomeni naturali. Tuttavia la sfera d’azione di quest’ultimo rilievo non è la ricerca scientifica odierna bensì la
storia della scienza. Come affermato proprio da Polkinghorne, al giorno d’oggi un fisico può compiere le proprie ricerche prescindendo dalla lettura delle opere di
Newton.4 Ciò non significa misconoscere l’importanza
di quell’apporto; al contrario esso è stato così decisivo da
far sì che i suoi contributi siano stati tutti inglobati in un
processo di crescita di un sapere sempre più ricco. Di
contro, osserva ancora Polkinghorne, nessun credente
può prescindere dalla convinzione secondo cui la Bibbia
è un libro dotato di perenne attualità in quanto custodisce la parola di Dio. Nessuno può perciò dichiararla superata. Tuttavia è fuori discussione che si tratti di un testo antico legato a visioni cosmologiche, antropologiche,
sociali, culturali molto distanti dalle nostre e largamente
contrastanti con gli attuali approcci scientifici, giuridici
e politici.
La ricerca fisica e cosmologica dell’ultimo secolo è
basata in maniera determinante sulla luce. Più precisamente essa ritiene che in natura non si riscontri nessuna
velocità maggiore di quella della luce. Le dimensioni e
l’età del cosmo si stabiliscono in base a questo principio.
Se non ci fosse quella velocità sarebbe impossibile prendere gli anni luce come unità di misura e cogliere, attraverso questa via, l’immensa estensione spazio-temporale
del cosmo. Per Newton, invece, la luce si diffondeva in
modo istantaneo. Basterebbe quest’unica convinzione
per far sì che l’immagine del cosmo da lui proposta sia
radicalmente diversa dalla nostra. Per lui non era pensabile alcun big bang. A questo punto applichiamo la forma di ragionamento detta a minori ad maius: se quella
newtoniana è una cosmologia non riproponibile nel linguaggio scientifico dei nostri giorni, ben di più lo saranno quelle, mitiche, contenute nella Bibbia in cui il firmamento è una calotta solida che divide le acque di sopra
da quelle di sotto. È scontato che un raffronto tra cosmologie bibliche e ricerca fisica contemporanea è operazione sprovvista di ogni attendibile base teorica.
Di fronte a questa presa d’atto, il terreno da esplorare diviene il seguente: può l’idea di creazione collegata
dalla Bibbia a immagini del cosmo imparagonabili con
le attuali essere riproposta in riferimento alle odierne cosmologie metodologicamente atee? In secondo luogo, l’idea di creazione può scorporarsi dalle cosmologie bibliche a cui era originariamente collegata senza che da ciò
consegua una radicale rilettura delle immagini del Dio
creatore offerteci dalla Bibbia? Il problema è tutt’altro
che recente. Non per nulla, la philosophia perennis, che
leggeva la natura come creato e che perciò riteneva di
poter risalire da essa a Dio, ha presentato, per questa so-
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tudio del mese
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la ragione, una visione del Dio creatore in un modo che
ben poco ha a da spartire con il modo con cui la Bibbia
parla dell’operare di Dio. Perciò, il suo linguaggio era,
coerentemente, assai più aristotelico che biblico.
La descrizione statica e finalistica del cosmo propria dell’impianto scolastico è stata abbandonata ormai da tempo. Di fronte a nuove prospettive cosmologiche più dinamiche delle precedenti, qualche teologo
ha ritenuto di poter recuperare alcune prospettive bibliche. In virtù di questo passaggio, si sarebbe nelle
condizioni di presentare Dio come creatore del mondo così come descritto dalle attuali (metodologicamente atee e ametafisiche) scienze della natura.
Il problema della teodicea
Darwin non ha mutato il mondo della vita; tuttavia
egli ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo
di interpretarlo. A fine Settecento Kant poteva ancora
ritenere che il filo d’erba e il bruco costituissero dei limiti invalicabili al conoscere fenomenico. L’operazione gli sarebbe risultata assai più difficile se avesse conosciuto l’opera darwiniana. Il filosofo critico allora
sarebbe stato costretto a prendere atto che il mondo
della vita è descrivibile con metodologie non dissimili
da quelle proprie della fisica o della chimica da lui così altamente celebrate. Per esprimerci con enfasi, da
150 anni è nato per i teologi (non per gli scienziati) il
problema di come Dio possa essere l’autore di una vita descritta, nel suo evolversi, in modo metodologicamente ateo. Non solo, da allora si è aperta con più pertinenza la questione se lo strumento che abbiamo per
indagare sul mondo della vita, la ragione, non sia, a
propria volta, frutto dell’oggetto che stiamo prendendo in esame. Non sono sfide di poco conto.
Un secolo e mezzo è tempo relativamente breve rispetto alla storia del pensiero. Alle spalle di Darwin vi
erano già state molte elaborazioni non solo filosofiche
e scientifiche, ma anche teologiche. Tra esse un argomento merita la massima attenzione: la riproposizione
tra Sei e Settecento della questione della teodicea (parola, non a caso, sorta proprio allora). Per il pensiero
moderno un’immagine (di matrice biblica) stando alla
quale Dio è, a un tempo, potente e misericordioso torna a essere pressoché incomprensibile (così come lo è
un inferno pieno di dannati visto come espressione
della gloriosa giustizia di Dio). Solo chi non conosce la
storia del pensiero può ritenere che l’incompatibilità
tra bontà e onnipotenza sia esplosa con Auschwitz.
Allo scadere del XVII secolo fecero capolino antiche
visioni dualistiche, ma poi, data l’allergia illuministica al
linguaggio mitico, prevalse la visione deista di una divinità priva di affetti e garante suprema del meccanicismo
universale: Dio divenne un orologiaio privo di mani.
Tuttavia quando, grazie a Darwin (e ad altri), divenne
scientificamente evidente che l’orologio del mondo della
vita viene caricato solo grazie alla sistematica sofferenza
di tutti i viventi, diventò più difficile tessere le lodi dell’elegante razionalità dell’orologiaio. L’esito fu inevitabile:
l’agnosticismo (parola non a caso sorta proprio allora)
prese il posto della teodicea.
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La descrizione scientifica della realtà è avalutativa.
Che la sofferenza sistemica sia un male è per la scienza biologico-evolutiva espressione priva di significato.
Darwin non dà alcuna patente scientifica alle visioni
del mondo proposte dalla gnosi o da Schopenhauer. Il
suo discorso descrive semplicemente come stanno le
cose. Sul piano personale l’andamento fu diverso:
quando si pose il problema religioso, la sua ultima risposta fu che un Dio, presentato dalla Bibbia come
pieno di amore e di misericordia, non può essere stato
il creatore del mondo della vita così come descritto ne
L’origine delle specie.5 Tuttavia il fatto che Charles
Darwin si ponesse questo problema non sta affatto a
significare che esso sia una questione scientifica. Anzi,
per definizione, la questione non sorge affatto dentro
una forma di conoscenza metodologicamente atea.
Volente o nolente, la teologia contemporanea non
può dimenticare il tema della teodicea. Si tratta di un
tarlo che consuma il suo pensiero perché, da un lato,
cresce la constatazione degli orrori presenti nel mondo sia naturale sia storico, mentre, dall’altro, sono ormai improponibili le risposte ripetute per secoli. La
«storia sacra» (non la Bibbia) che imputava alla colpa
dei progenitori la sofferenza dell’intero universo uscito buono e immacolato dalle mani di Dio, non ha più
credibilità alcuna: le sconfinate epoche piene di sofferenza animale e prive di esseri umani l’hanno consegnata all’insensatezza. In questo senso siamo tutti
«darwiniani». Per i teologi (di professione o no), e solo
per loro, si è perciò riaperta la questione della bontà
della creazione. Essa non si dischiude per la scienza
che non giudica affatto un male che le larve del micromalthus, prima di uscire alla luce del sole, divorino
dall’interno il corpo della loro madre.
Di fronte alla sfida molti teologi non si sono scoraggiati: quella che sembrava una debolezza l’hanno
addirittura trasformata in un (presunto) punto di forza. È scandalo il dolore universale? Lo sarebbe a fronte di un Dio che interviene ogni momento, che è lì a
rabberciare i difetti della propria creazione con una
serie di diuturni interventi; ma il Dio creator ed evolutor non compie «atti di creazione speciali». Egli ha
dato origine al tutto e poi ha lasciato che evolvesse da
solo. In questa scelta è racchiuso l’universale prezzo
che tutti pagano a un vivere che, in radice, rimane intrinsecamente buono e positivo. Anzi, esso è tale proprio perché Dio ha fatto un passo indietro e ha lasciato che la realtà si sviluppi secondo la sua potenzialità
originaria.6
My t h os o logos
Attestandosi troppo tenacemente su questo fronte,
si rischia però di giungere a un’immagine di un Dio disinteressato della propria creazione, un Dio faineant,7
o un Dio aristotelico che, nella sua beatitudine, non
può venir turbato dall’imperfezione altrui. Il teologo
che ha impresso dentro di sé l’immagine biblica di Dio
non è in grado di accettare questa prospettiva. Cerca
allora altre vie e riscopre una parola, kenosi, che sembra adatta a rispondere alla sua domanda: «La teolo-
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gia cristiana concepisce l’amore come la natura di
Dio. Di conseguenza non può né raffigurare il Creatore come uno spettatore deistico indifferente, che avendo messo in moto il tutto lo lascia poi andare semplicemente da solo, né come un burattinaio cosmico che
tira le fila nel teatro della creazione. Il dono dell’amore deve sempre includere un giusto grado d’indipendenza concessa all’oggetto d’amore. Prendendo atto di
ciò, questa visione ha condotto molti teologi contemporanei a concepire l’atto della creazione come un atto di kenosi del Creatore, prevedendo un’autolimitazione divina in modo da permettere all’alterità creata
di essere veramente se stessa e, in realtà, di autogenerarsi (…). Sappiamo che l’evoluzione biologica è stata
determinata dalla mutazione genetica, ma se i microbi sono capaci di mutare e produrre nuove forme di vita, allora le cellule somatiche saranno capaci, attraverso lo stesso processo, di mutare e di diventare a volte
maligne. Un aiuto ci viene qui dato dalla teologia, in
quanto si confronta con le perplessità della teodicea.
L’angosciosa realtà del cancro non è un qualcosa di
gratuito, come se si potesse pensare che il Creatore, se
fosse stato un po’ più competente o un po’ meno crudele, l’avrebbe facilmente eliminato. È il costo necessario della creazione, nella quale alle creature è permesso di farsi da sole».8
In senso rigoroso, kenosi indica la scelta di rinunciare al proprio essere «più adatto» per sprofondare
nel posto ultimo segnato da un destino di morte e là
sperare che l’alterità di Dio ti salvi (Fil 2,5-11). La vicenda rappresenta perciò un andamento perfettamente antitetico a quello dell’evoluzione sia nella sua componente discendente sia in quella ascendente compiuta per virtù altrui e non in forza propria. Quello a cui
allude Polkinghorne è piuttosto il mito cabbalistico
dello zimzum (contrazione, concentrazione) contenuto
nel pensiero di Izchaq Luria (XVI sec.).9 Secondo questa visione Dio, prima di creare, si è concentrato in se
stesso al fine di far sorgere lo spazio vuoto in cui troverà posto il creato. Se si vuole non si tratta di una
creatio ex nihilo, ma di una creazione del nulla. Tra
questo primo momento e il sorgere del mondo ha avuto però luogo uno sconvolgimento, a un tempo intradivino e cosmico (detto «rottura dei vasi»), a causa del
quale scintille di luce divina si sono sparpagliate in seno alle tenebre. Da questa situazione confusa si uscirà
a poco a poco attraverso il riaggiustamento del mondo
(tiqqun’olam) compiuto grazie all’osservanza dei precetti della Torah da parte della comunità d’Israele. Si
tratta, con ogni evidenza, di una metamorfosi di un
pensiero di tipo mitico e gnostico (non a caso riproposto da Hans Jonas)10 arduo da estrapolare da quell’ambito. Qual è il fondamento teologico capace di legare
in modo pertinente un mito di autolimitazione di Dio
con un cosmo descritto in base a dinamiche evolutive
contemporanee? Arduo trovare risposte razionali a
una simile interrogazione. La prospettiva potrebbe legittimamente presentarsi solo parlando di mito teologico contemporaneo che, attraverso la trascrizione in
altra chiave di brandelli di discorsi scientifici, sia capa-
ce di dire il sofferente ordine di questo mondo. Ciò potrebbe però avvenire soltanto se, sulla scorta di Paolo,
gli si facesse corrispondere anche un mito di redenzione (cf. Rm 8,18-26).
Vi è chi ha detto che il rivolgersi a Dio esclamando: tu «mi hai tessuto nel grembo di mia madre» (Sal
139,13), equivale a far esplodere, irrisolto, il problema
del male. Come ripetere simili lodi davanti all’handicappato psichico o al deforme?11 Ma forse vale di più
rifugiarsi nelle ambiguità di un Dio a un tempo creator
ed evolutor? In effetti, l’unico modo per affermare la
creazione è di assumere di fronte al reale una posizione che, in modo benedicente, supplicante, imprecante
o lodante, si rivolga al Tu di Dio «senza mediatori». È
una scelta di fede, ma è anche un’opzione ermeneutica. Per questo i Salmi e il Cantico di frate Sole restano
parlanti attraverso lo snodarsi delle più diverse cosmologie e delle più varie biologie, mentre i sistemi teologici che dialogano con le visioni della natura proprie
delle scienze del loro tempo tramontano di pari passo
con lo scolorire di quelle visioni scientifiche. In ciò non
vi è alcuna stonatura. È coerente e giusto che sia così.
Quando la teologia, per quanto distinta dalla scienza, non vuole essere da essa separata, la provvisorietà
di un sapere si trasfonde in quello dell’altro. Ciò non
fa che confermare la sua natura di conoscenza non assoluta, così come è proprio di tutto quanto è umano.
Resta comunque immutata la constatazione che benedizione, supplica, imprecazione e lode abiteranno
sempre le tende della fede, mentre nessuna di queste
componenti può, per definizione, trovar posto nel linguaggio della scienza e, probabilmente, neppure in
quello di una teologia che voglia essere distinta, ma
non separata, dal sapere scientifico.
Piero Stefani
1
S. QUINZIO, Diario profetico, Guanda, Parma 1958, 184-185
(altra ed. Adelphi, Milano 1996).
2
Cf. J. POLKINGHORNE, Scienza e fede, Mondadori, Milano
1987; Quark, caos e cristianesimo. Domande a scienza e fede, Claudiana, Torino 1997.
3
J. POLKINGHORNE, «Ma Dio non è un “orologiaio cieco”», in
Vita e pensiero (2008) 5, 104-110.
4
Ivi.
5
Rimando al testo che, tra quelli a me noti, appare tuttora il
più persuasivo e concettualmente robusto, O. FRANCESCHELLI, Dio
e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma
2005.
6
Cf. S. MORANDINI, Darwin e Dio. Fede, evoluzione, etica, Morcelliana, Brescia 2009, 101-111.
7
Cf. G. BONIOLO, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, darwinismo, Raffaello Cortina, Milano 2003, 22-30.
8
J. POLKINGHORNE, in questo numero a p. 499.
9
Il riferimento si trova in modo corretto in FRANCESCHELLI,
Dio e Darwin, 93.
10
Cf. H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 1989.
11
L’argomentazione si trova in V. MANCUSO, L’anima e il suo
destino, Raffaello Cortina, Milano 2007.
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A n d r e a Te s s a r o l o
ROFILI
16 febbraio 1922
3 luglio 2009
Chiesa che pensa
I suggerimenti degli inizi, l’opera della maturità al CED
D
i p. Andrea Tessarolo ricordo ancora l’atteggiamento sereno e discreto quando propose in comunità di essere sostituito alla direzione delle Edizioni dehoniane Bologna
(EDB). Sereno e discreto restò quando sorse un intoppo che fece slittare la decisione
di alcuni mesi. Eravamo a metà del 1991.
Lui aveva assunto un ruolo determinante
alle EDB fin dal 1965 e ne era diventato direttore nel 1969.
Erano gli anni dell’inizio, con aggiustamenti continui
che coinvolgevano strutture e persone. Elemento portante
del Centro editoriale dehoniano (CED) era allora Il Regno,
diventato quindicinale e dal quale anche la casa editrice era
nata. Formalmente p. Tessarolo era direttore responsabile
di Settimana del clero (ora Settimana), emigrata da PadovaPresbyterium a Bologna-Centro dehoniano nel 1965 assieme ad Ancilla Domini (ora Testimoni). Ne restò alla direzione dal 1965 al 1973 e da quel posto assunse spontaneamente il ruolo di suggeritore e di spinta verso tutti noi che incominciavamo. Fu anche superiore della comunità del Centro
dehoniano dal 1969 al 1972; in questo ruolo dovette gestire
nel 1971 la travagliata crisi de Il Regno, nella quale espresse uno dei tratti tipici del suo carattere: la scelta del dialogo
a tutti i costi.
Dal 1965 al 1991 con le sue scelte e il suo lavoro ha dato vita al Catalogo EDB, la cui strutturazione tematica è uno
specchio delle sue convinzioni e del suo sentire in teologia.
Il Catalogo EDB propone ora 2.730 titoli disponibili. Mette
in primo piano, tematico e quantitativo, la «Bibbia» (15 collane), seguìta da «Teologia e scienze religiose» (15 collane),
da «Teologia morale», e dagli altri settori della teologia:
«Liturgia», «Spiritualità», «La fede nella storia», «Diritto
canonico», «Pastorale», «Catechesi e catechetica»; il catalogo si chiude con un’ampia parte dedicata ai «sussidi» per la
pastorale ordinaria della comunità credente. La parola di
Dio come riferimento costitutivo (la Bibbia letta, spiegata e
vissuta), la Chiesa che pensa (teologia sistematica), la fede
che si lascia interrogare per essere presente (la storia e i segni dei tempi), la missione: portare all’incontro con Dio (liturgia, catechesi e pastorale). È questa l’ossatura alla quale
Tessarolo ci ha sempre richiamato e alla quale ha inteso essere sempre fedele. Anche nei momenti in cui si è esposto in
modi che sono apparsi eccessivi, egli ha sempre voluto pren-
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dere sul serio l’interrogativo degli uomini. Per questo suo tenere uniti aspetti così diversi, come l’approfondimento biblico e sistematico con la pastorale e l’attualità ecclesiale,
Tessarolo è stato un tipico esponente del modo di fare teologia nella Chiesa italiana: una teologia non finalizzata all’accademia e alla biblioteca, ma di risposta alle domande
della comunità cristiana che vive e che crede.
Sono partito da una notazione sul suo carattere e chiudo con alcuni tratti personali. PadreTessarolo era di un’intelligenza intuitiva e pronta che si dispiegava in una semplicità assoluta. Senza complessità verbali o concettuali, senza
ricerca di apparire. Ha parlato ai semplici come ai professori; ha svolto il suo ministero in Azione cattolica e tra i ciechi. Era geloso della libertà di ogni persona e insorgeva di
fronte alla mancanza di rispetto anche verso estranei. A noi
più giovani suggeriva interventi, piste di ricerca, trasmetteva richieste di apostolato che giungevano a lui: ci ha valorizzato sempre e senza diffidenza. Nel lavoro editoriale ha
scoperto nuovi talenti e ci ha suggerito di non battere sempre le stesse strade.
È stato vicino a persone emarginate dalla comunità ecclesiale, valorizzando competenze e creando amicizie
profonde. Il lavoro editoriale era per lui un luogo in cui
creare e vivere rapporti con le persone e con diversi ambienti di vita. Anche per questo il Centro editoriale dehoniano è diventato editore di 18 periodici, che esprimono diversi contesti culturali e diversi riferimenti istituzionali.
Le sue prime pubblicazioni sono sulla teologia e sul culto al Sacro Cuore, cioè sulla spiritualità della congregazione fondata da p. Leone Dehon con il nome di Sacerdoti del
Sacro Cuore. Ha predicato Gesù «mite e umile di cuore» e
ha indicato nella misericordia di Dio il tratto più importante del cristianesimo: con la parola, con gli scritti e con i comportamenti. Il suo ultimo volume, ancora in catalogo, ha come titolo Theologia cordis. Appunti di teologia e spiritualità
del Cuore di Gesù.
P. Andrea Tessarolo è morto la mattina del 3 luglio 2009
nell’infermeria dei padri dehoniani a Bolognano (Trento).
Era nato a Rosà (Vicenza) nel 1922, entrò fra i dehoniani
nel 1940 e fu ordinato sacerdote nel 1948. È stato figura
centrale per la nascita non solo della rivista Il Regno, ma di
tutto il Centro editoriale dehoniano.
p. Alfio Filippi
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p arole
delle religioni
La narrazione
Due modi di raccontare
la storia ebraica
el libro del Deuteronomio vi è un passo famoso anche perché, in seguito, posto al centro della cena pasquale ebraica (seder). Esso, fin da epoca antica, fu
diversamente inteso. La sua peculiarità più stringente è di concentrare in poche righe tutta la storia del popolo d’Israele. Per questo, secondo un’autorevole teologia biblica in auge qualche tempo addietro (cf. G. von Rad), il brano
era considerato esempio per antonomasia di «piccolo credo
storico». Prima di trascriverlo, conviene compiere un cenno
sulla sua ambientazione letteraria.
Il Deuteronomio è costituito da una serie di discorsi pronunciati da Mosè alla fine della sua vita, dopo quarant’anni
di deserto. In questo brano, però, il contesto è proiettato in
avanti, si è in terra d’Israele, presso il Tempio e nel contesto
dell’offerta delle primizie del suolo. La situazione sembra
orientata perciò a celebrare il ritmo ciclico delle stagioni. Eppure, proprio quando si è ormai stanziali e si coltiva la terra,
si racconta la propria storia. Vi è un particolare che merita di
essere evidenziato: il testo afferma che il figlio d’Israele consegnerà la cesta con le primizie al sacerdote e sarà quest’ultimo
a collocarla sull’altare; il racconto lo compierà invece in prima persona. L’offerta esige, quindi, la mediazione sacerdotale, ma l’atto di narrare va compiuto in proprio.
N
L’ebreo dice
L’ebreo dice: «Mio padre (vale a dire Giacobbe-Israele;
nda) era un arameo errante, scese in Egitto, vi stette come un
forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande,
forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono
e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce,
vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e
prodigi. Ci condusse in questo luogo (il Tempio; nda) e ci diede questa terra dove scorrono latte e miele» (Dt 26,5-9). In
questa versione mancano molte tradizioni, a cominciare dal
riferimento al Sinai, destinate a diventare portanti nei racconti successivi. Qui tutto è concentrato in un racconto che
va da un’originaria erranza a una memore stanzialità che si
riconosce figlia legittima di quella vicenda. Si narra perciò
una storia indispensabile per spiegare il proprio presente. È
un succedersi, anche drammatico, di spostamenti, di passaggi e di soggiorni in seno ad altri popoli, ma pure di raggiungimenti.
Nella tradizione ebraica vi è però un altro modo di incominciare il racconto. Leggendo in maniera diversa il verbo
iniziale (in base a operazioni consentite dalla lingua ebraica),
il verso muta radicalmente; ed è in tal modo che è recepito
nella Haggadà di Pasqua. L’influsso di questa opzione lo si
trova però anche in altri ambiti linguistici (l’interpretazione è
fatta propria sia dai LXX sia dalla Vulgata). Il passo, ora, suona così: «L’Arameo (vale a dire Labano) voleva distruggere
mio padre (Giacobbe)». Poi la vicenda si snoda in maniera
analoga alla precedente. La chiave di lettura è però mutata in
modo complessivo: qui si tratta di ripercorrere la vicenda di
un popolo perseguitato fin dall’inizio, ma anche, nel testo biblico, continuamente assistito da Dio. La persecuzione e la risposta presente nell’aiuto divino divengono i perni su cui ruota l’intera storia ebraica.
Non si raccontano due storie diverse: siamo di fronte a
due modi differenti per narrare la stessa vicenda. Questa alternativa lascia tracce evidenti fino a oggi. Nella modernità il
riferimento all’azione divina nella storia è diventato un tema
non più universalmente condiviso; spesso, perciò, il discorso è
dipanato e definito secondo modalità non di rado secolarizzate e identitarie. Tuttavia, pur coniugate in forme diverse, restano percepibili le due polarità prima descritte: da un lato vi
è la volontà di privilegiare in modo affermativo la lunga e
complessa storia degli ebrei, senza dare un peso determinante alla componente di lamento; dall’altro vi è la propensione
a guardare all’identità ebraica come costituitasi, fin dall’inizio, nella persecuzione o forse addirittura resa tale dall’aver
subito l’oppressione.
Le due tendenze trovano riscontro sia fuori sia dentro l’ebraismo. È ovvio che i termini qui adottati indicano divaricazioni eccessive: i sostenitori della prima tesi non negano i soprusi subiti e i propugnatori della seconda non misconoscono
gli autonomi, grandi apporti della civiltà ebraica. Tuttavia,
anche nello spazio intermedio posto tra i due estremi, le due
precomprensioni operano piegando la narrazione di fatti e vicende verso l’una o l’altra polarità.
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Parole delle religioni
L’impostazione del Museo nazionale
In virtù di una legge dello stato (n. 296 del 27.12.2006) è
stato istituito a Ferrara il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (MEIS).1 La decisione riconosce e valorizza l’eccezionale continuità della più che bimillenaria presenza ebraica nella penisola. A seguito di questa impostazione, si
impongono alcune considerazioni: gli ebrei rappresentano un
riferimento indispensabile per comprendere la storia e la civiltà italiane di cui sono parte costitutiva. Straordinario è stato, infatti, il loro apporto culturale tanto all’ebraismo nel suo
insieme, quanto alla civiltà del nostro paese. Nel corso dei secoli gli ebrei hanno contribuito a instaurare numerosi rapporti tra l’Italia, l’Europa e le altre sponde del Mediterraneo. Alla minoranza ebraica va perciò ascritta una preziosa funzione
di collegamento tra culture e civiltà.
Le affermazioni appena compiute esigono di compiere
una scelta tra i due orientamenti prima espressi. Il museo non
opterà per raccontare la storia ebraica da parte delle vittime,
legittimando in tal modo una narrazione volta a suscitare nel
visitatore un senso di identificazione di natura più emotiva
che cognitiva (peraltro esposto al rischio, tutt’altro che teorico, di subire repentini mutamenti in senso opposto). Quanto
cercherà di compiere è una presentazione affermativa della
storia ebraica volta a far conoscere, a più vasto raggio, le acquisizioni, spesso poco note, che contraddistinguono la civiltà
e la cultura ebraiche sviluppatesi in Italia.
Gerard Mannion
Chiesa e postmoderno
Domande per l’ecclesiologia
del nostro tempo
C
he cos’è la postmodernità? È davvero
il paradigma oggi dominante? Quale
significato assume la realtà ecclesiale
nel mondo postmoderno? L’autore
ritiene che, dopo il Vaticano II, la Chiesa
cattolica sia come in un limbo, in attesa
di formarsi una visione chiara del proprio
futuro. Il volume propone piste e
suggerimenti perché essa giunga a una
migliore autocomprensione, riscopra
un’ecclesiologia più positiva, attui una
prassi quotidiana più coerente.
«Scienze religiose - Nuova serie»
pp. 320 - € 21,80
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
L’impostazione di base non indulgerà neppure a presentare, acriticamente, la nostra penisola come una terra solo di
tolleranza, di accoglienza, di tranquilla e positiva accettazione delle diversità. L’amplissimo arco storico in cui si è sviluppata la presenza ebraica in Italia non consente frettolose generalizzazioni; a seconda delle epoche, delle aree geografiche,
dei soggetti coinvolti, il discorso subisce una serie di modificazioni. Neppure la presenza ebraica, del resto, è stata complessivamente ininterrotta su tutto il territorio nazionale. Per limitarsi all’esempio più rilevante, l’Italia meridionale, per secoli
terra ricchissima di comunità ebraiche e luogo di elevate rielaborazioni culturali, a partire del XVI secolo, a causa della
legislazione spagnola, è stata privata per molto tempo della
presenza di ebrei. Non esiste solo continuità: vi sono anche
fratture e vuoti e non solo nel Novecento. Non si tratta di trascurare quanto è innegabile.
Le visioni elaborate dagli «altri»
Quando ci si trova di fronte a prassi persecutorie il discorso riguarda, per definizione, i persecutori, le vittime e le complesse reazioni e interazioni che avvengono nell’uno e nell’altro campo. Perciò bisogna prestare attenzione, in modo riflesso, anche alle visioni degli ebrei elaborate dagli «altri». Per riferirci un’ultima volta all’esempio biblico, occorre, quindi, attuare anche quanto la Bibbia non fa (né avrebbe potuto fare):
ricostruire i modi in cui gli ebrei furono effettivamente visti
dagli egiziani, vale a dire, per estensione, dai non ebrei di
qualsiasi paese, Italia compresa. Pur tenendo conto che fino a
tempi non molto lontani tutte le società si sono fondate sul
principio della disuguaglianza giuridica, le discriminazioni, le
interdizioni e le persecuzioni hanno colpito in modo particolare, in Italia come altrove, proprio gli ebrei. Questo aspetto
va evidenziato sia in relazione ai pregiudizi e alle prassi persecutorie presenti in componenti della maggioranza non
ebraica, sia in riferimento alle risposte elaborate dagli ebrei in
quelle drammatiche circostanze. Non si porrà, però, in rilievo
solo una storia di persecuzioni: vi sono stati molti interscambi e prestiti reciproci nella cultura, nel costume, nelle parlate
e in molti altri aspetti.
Questa impostazione complessiva è dotata di ricadute assai precise sui modi di presentazione della Shoah, colta nella
sua specificità italiana e inserita nel più vasto contesto dell’Europa occupata dalla Germania nazista. Considerare lo sterminio una vicenda storica e non un «male assoluto» non significa ridurne la portata; al contrario, rifuggendo dalla retorica vittimistica, la scelta da un lato colloca l’evento in un contesto legato fortemente all’accaduto e quindi all’accadibile e,
dall’altro, non assegna la parola fine a quel che fine assoluta
non è stata (il termine «Olocausto», che indica una consumazione totale, è dunque parola impropria).
Piero Stefani
1
Al fine di procedere all’attuazione del progetto museale, con la partecipazione del Ministero dei beni culturali, dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e degli enti locali, si è costituita un’apposita Fondazione. La legge prevede inoltre la collaborazione scientifica del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) di Milano.
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
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i lettori ci scrivono
Caso Berlusconi:
è tempo di parlare
Caro direttore,
non poco mi sorprendono le parole di mons. Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina, pubblicate da La Sicilia domenica 28 giugno. Il
vescovo deplora l’uso «strumentale» della morale per delegittimare i propri avversari politici, legittimando così i comportamenti di Berlusconi e dimenticando, visto il ruolo che il suo protetto ricopre, le gravi e negative ricadute dei suoi atteggiamenti sulla collettività.
Ciò che mi scandalizza come cristiano e mi indigna come cittadino
non è che l’uomo Berlusconi, l’imprenditore Berlusconi, il miliardario
Berlusconi trascorra le sue notti nella maniera che desidera, ma che, alle
sue favorite, in tempi in cui la povera gente muore di fame, distribuisca doni e bustarelle con 10.000 euro e prometta loro poi carriere politiche a
ogni tornata elettorale.
Che il sig. Berlusconi nella sua vita privata faccia quello che vuole e si
comporti come crede sono affari suoi, ma che i suoi comportamenti, visto
il ruolo che ricopre, incidano sull’amministrazione della cosa pubblica,
corrompendo la trasparenza e la serietà della vita politica, questo dovrebbe mettere in guardia il vescovo di Piazza Armerina.
Il quale sembra invece preoccupato di perdere l’appoggio che questo
governo dà alla Chiesa quando si tratta di fare leggi e stimolare comportamenti che possono essere proposti solo attraverso la testimonianza cristiana e non imposti dalla sanzione e dalla coercizione.
Un altro esempio di quella «religione civile» coltivata oggi dalle gerarchie ecclesiastiche, che si illudono di aumentare il numero dei cristiani osservanti attraverso l’imposizione di leggi dello stato e che viene coltivata
da quanti, atei più o meno devoti, la favoriscono per ottenere il consenso
della Chiesa. Berlusconi tutto questo lo ha capito benissimo e lo fa altrettanto bene!
Sono i cattolici italiani che stentano a capirlo!
Catania, 28 giugno 2009.
Sac. Salvatore Resca
Caro direttore,
il libro del Qoélet ci insegna che «sotto il cielo» c’è il tempo idoneo
per ogni cosa (cf. 3,1-8). Qui, in particolare, si vuole mettere in rilievo il
richiamo al «tempo per parlare». Il giusto equilibrio fra silenzio e parola
è parte integrante di una condotta umanamente saggia. Riguarda i rapporti interpersonali e quelli sociali, politici, istituzionali. La parola, elemento distintivo dell’uomo, ha una straordinaria varietà di modulazioni,
che ci consentono di esprimere l’intera gamma dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni. Tramite la parola si può insegnare, sostenere, incoraggiare, lenire il dolore, trasmettere vicinanza, comunicare tenerezza, ma
anche ammonire, correggere, dissentire, riprovare, condannare.
Ecco, quando consideriamo le recenti vicende nelle quali è stato direttamente chiamato in causa il nostro presidente del Consiglio (sentenza
di condanna in primo grado per corruzione dell’avv. Mills, caso delle cosiddette veline, ragazza napoletana, feste in residenze di sua proprietà), ci
persuadiamo che è giunto il tempo non del silenzio, ma della parola decisa e inequivocabile.
Contro una lettura minimizzante dei fatti citati, riscontriamo piuttosto il manifestarsi di questioni di singolare rilievo culturale, etico e politi-
co, che ci interpellano e che esigono da noi un giudizio non evasivo. Il
quadro si fa ancora più preoccupante, se consideriamo gli episodi in questione nel contesto di alcune scelte strategiche dell’attuale maggioranza
governativa, a seguito delle quali risulta palese il rischio d’intaccare regole ed equilibri indispensabili per il corretto funzionamento della nostra democrazia. Si pensi, per esempio, alla concezione del partito, strumento
cardine di un sistema democratico, come semplice «appendice» della volontà di un capo assoluto; alla distorsione dei meccanismi di reclutamento del personale politico; alla negligenza ricorrente circa il rispetto della
divisione dei poteri costituzionali; al depotenziamento del principio proprio dello stato di diritto, secondo il quale la legge è uguale per tutti; al
conflitto d’interessi macroscopico nel campo televisivo (emblematiche, in
proposito, anche le ultime nomine RAI).
In tempi di debole senso del bene comune, abbiamo abituato (purtroppo!) i nostri governanti e amministratori a non chiedere molto, ma almeno un livello minimo di decenza etica e istituzionale dobbiamo pretenderla, a motivo del solenne impegno da essi assunto di onorare la Carta
costituzionale e i suoi princìpi-valori d’ispirazione.
Fra i punti qualificanti di un comportamento corretto degli uomini
delle istituzioni in regime democratico vi è l’obbligo di dire la verità ai cittadini. In caso contrario, s’incrina il rapporto fiduciario con gli elettori e
viene inquinato il tessuto della vita civile.
Quanto alle suddette vicende riguardanti il presidente del Consiglio,
abbiamo assistito, da parte del medesimo, a un’evidente sequenza di reticenze, contraddizioni, vere e proprie bugie. I tentativi di addomesticare i
diversi casi che l’hanno chiamato in causa sono risultati inefficaci, quando non controproducenti. Vale proprio la pena di dire, con l’antico proverbio, che anche questa volta il rammendo è risultato peggiore del buco.
Il capo del governo è vincolato, come tutte le altre figure istituzionali, al dovere di dire la verità al paese. Se contravviene a simile regola elementare, menoma il patto di lealtà con il popolo e, di conseguenza, depotenzia la legittimità, morale innanzitutto, di ricoprire l’alto incarico. A tale proposito, nelle democrazie anglosassoni (almeno per questo aspetto
più mature della nostra) non si guarda in faccia a nessuno. Fosse anche il
massimo esponente dello stato, se mente o dà le dimissioni o va soggetto
a impeachment. I casi Nixon e Clinton negli Stati Uniti sono a tutti noti.
Da noi invece non succede niente (o quasi). Ma è mai possibile che, al di
là degli orientamenti politici di ciascuno, non si colga la gravità in sé dei
comportamenti (alcuni dei quali addirittura di rilevanza penale) sopra denunciati? A tanto è giunto il livello di assuefazione degli italiani?
Il tentativo di derubricare a fatto privato, dunque sottratto alla sfera
della responsabilità pubblica, buona parte delle ultime vicende nelle quali è implicato il presidente del Consiglio risulta specioso. Non vogliamo
certo intaccare la sacrosanta distinzione fra le due sfere, privata e pubblica, appunto: in un sistema democratico la prima va debitamente tutelata
per assicurare la legittima privacy di ogni cittadino, garanzia fra l’altro di
rispetto della sua libertà e dignità. Ma nel caso in esame la questione si
presenta con connotati particolari. Come tutti i cittadini, anche le maggiori cariche istituzionali hanno il sacrosanto diritto alla privacy, però quest’ultima non può mai essere invocata quale paravento rispetto al dovere
della responsabilità, della coerenza e della trasparenza nel modo di agire.
Non intendiamo fare del moralismo: semplicemente crediamo sia tempo
di ribadire ad alta voce la grammatica elementare del comportamento
dell’uomo politico in regime di democrazia.
Le vicende in discussione rivelano, da parte del capo del governo, una
visione e gestione disinvolte del proprio ruolo pubblico, al quale – conviene ricordarlo – è intrinsecamente connesso un elevato grado di potere. Un
presidente «ricattabile» costituisce un problema serio per l’intero paese,
oltre che causa di discredito istituzionale nei rapporti con l’estero. Di tutto ciò si ha eco anche su prestigiosi organi di stampa internazionali. È dif-
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Vincenzo Bonato
Il Cantico dei cantici
Significato letterale, teologico e mistico
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l Cantico dei cantici racconta l’amore
di Dio – lo sposo – verso il suo popolo
e il desiderio di questo – impersonato
dalla fanciulla – di continuare a essere
amato da lui. L’interpretazione cristiana
ritiene che a parlare siano lo stesso Verbo
di Dio e la sua Chiesa. L’autore si accosta
al testo indagandone il significato
letterale, teologico e mistico e dando
voce alla grande tradizione spirituale del
cristianesimo e dell’ebraismo.
«Quaderni di Camaldoli – sez. Meditazioni»
pp. 144 - € 12,50
lettori ci scrivono
ficile pensare che giornali stranieri di prima fila siano asserviti a un disegno eversivo predisposto dalla (scombinata) sinistra di casa nostra! Ma
tant’è!
Circa l’inderogabile necessità della coerenza fra parole e stile di vita
degli uomini politici (e il richiamo ha preso spunto proprio dai comportamenti censurabili del presidente del Consiglio) sono intervenute, seppur
con accenti diversi, importanti testate del giornalismo cattolico. Si tratta
di un’esigenza autorevolmente riproposta, per i delicati aspetti etici coinvolti, da esponenti dell’episcopato italiano.
Insomma, abbiamo molto da riflettere sugli ultimi casi che hanno visto protagonista il capo del governo. Lo ribadiamo a chiare lettere: non è,
come qualcuno vuole far credere, una semplice vicenda di gossip. Sono in
gioco, invece, questioni serie, che riguardano il ruolo e la responsabilità
istituzionale, politica e (perché no?) anche educativa di una così alta carica dello stato. Di conseguenza, è in gioco la qualità stessa della democrazia nel nostro paese. Ecco perché non risulta ammissibile il silenzio: piuttosto è il «tempo per parlare», di dire ad alta voce che non possiamo e non
vogliamo rassegnarci a deprimenti spettacoli da basso impero. Pur nella
consapevolezza dei suoi limiti, «Città dell’uomo», l’associazione fondata
da Giuseppe Lazzati e impegnata nel promuovere una cultura politica fedele alla visione cristiana dell’uomo e ai valori della Costituzione, avverte
il dovere di levare alta la voce della denuncia.
Milano, giugno 2009.
Il consiglio direttivo di «Città dell’uomo»
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Padre Raffaele Spallanzani
La Rivoluzione
di Maria
l volume propone l’ultima conversazione che padre Raffaele da Mestre,
di cui è in corso il processo di beatificazione, incise per i suoi studenti
cappuccini. Le sue parole si caricano,
quindi, di un significato ulteriore:
costituiscono il suo testamento spirituale. Egli si sentiva strumento al
servizio di Maria, impegnato in una
“lotta cosmica”.
I
«Spiritualità quotidiana sez. Padre Raffaele Spallanzani da Mestre»
pp. 80 - € 6,20
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Chiuso in tipografia il 17.7.2009.
Il n. 12 è stato spedito il 19.6.2009;
il n. 13 l’8.7.2009.
STAMPA
In copertina: JACOPO DE’ BARBARI,
Industrie Grafiche Labanti e Nanni,
Ritratto di Luca Pacioli (part.),
Crespellano (BO)
Registrazione del Tribunale di Bologna 1495, Napoli, Museo di
Capodimonte.
N. 2237 del 24.10.1957.
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Giovanni Ferro
Come un «giusto» inerme
riuscì a salvare un ebreo e tre Mussolini
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IO NON
MI VERGOGNO
DEL VANGELO
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T
ra i «giusti
delle nazioni» potrebbe entrare presto il padre somasco Giovanni Ferro, che fu arcivescovo di Reggio Calabria dal 1950 al 1977 e per il
quale è avviata da un anno la causa di
canonizzazione: egli accolse al collegio
Gallio di Como, di cui era rettore, un
ragazzo ebreo per tutto il tempo della
persecuzione nazista. Ho conosciuto
l’arcivescovo Ferro – uomo mite e inerme se mai ve ne furono – e sono amico
del Gallio dove fui chiamato tre anni
addietro per una conferenza. È dunque
con esultanza che racconto questa storia, lasciando la parola all’ebreo che fu
messo in salvo.1
«Mi chiamo Roberto Furcht, ho ottant’anni e sono qui per rendere omaggio alla memoria del padre somasco e
vescovo Giovanni Ferro, che mi accolse
al collegio Gallio, qui a Como, durante
l’occupazione nazista e al quale debbo
la salvezza della vita».
IL RETTORE MI ACCOGLIE
E MI PROCURA UNA FALSA IDENTITÀ
«L’armistizio dell’8 settembre 1943
aveva colto di sorpresa la mia famiglia
sfollata dal 1942 a Cittiglio, Varese. Il
12 settembre un convoglio di SS passa
da Cittiglio. Mentre lo zio si rifugia in
Svizzera e il papà si ferma nelle Marche, dove al momento si trova, mia madre decide di lasciare Cittiglio e si reca
con me quattordicenne alla stazione.
Mentre ci troviamo al bar entra un
gruppo di SS che chiedono al barista se
conosce la famiglia Furcht. Sono le
stesse SS che qualche giorno più tardi
attueranno la strage di Meina, Novara,
che sarà la prima strage in Italia di
ebrei non militari.
Mia mamma e io siamo a pochi
centimetri dai militari, ma il barista ha
la prontezza di dire che non conosce
nessun Furcht. Prendiamo un treno per
la prima destinazione possibile che, in
quel momento, è Como. La mamma
cerca e trova un collega d’ufficio (lavorava alla SNIA Viscosa), che ci accompagna al collegio Gallio dove il rettore,
padre Giovanni Ferro, mi accoglie e mi
fornisce, pochi giorni dopo, falsi documenti d’identità. Al Gallio trascorro gli
anni scolastici 1943-44 e 1944-45 con il
padre rettore che ogni due giorni mi
chiama nel suo ufficio per rinfrancarmi
e interessarsi al progresso dei miei studi.
Il padre Ferro in tutto il periodo che
io passo al collegio Gallio non fa mai
richiesta di un qualsiasi pagamento di
retta. Sotto questa protezione si giunge
fino all’aprile 1945, quando finalmente
il grande pericolo è passato. Intorno al
1965, mentre sono in viaggio di lavoro
a Messina, gli faccio visita all’arcivescovado di Reggio Calabria, dove mi riceve con grande affetto. Nel 1994 riallaccio i rapporti con il collegio Gallio e
faccio visita al rettore di allora, padre
Testa, che prepara una cena kasher. In
seguito vengo a conoscenza del processo di beatificazione e mi auguro che
questa mia testimonianza possa contribuire al suo buon esito».
Così ha parlato Roberto Furcht al
collegio Gallio domenica 10 maggio
2009, nella «giornata» di omaggio all’arcivescovo Giovanni Ferro promossa
dai padri somaschi del collegio.
Avevo conosciuto l’arcivescovo Ferro (piemontese di Costigliole d’Asti,
1901-1992) in occasione di un convegno romano di reggini emigrati nella
capitale – ai quali mi trovo affiliato per
ragioni familiari – e ben ricordo la discrezione e quasi la timidezza dell’uomo, così che non faccio difficoltà a intendere come non abbia mai narrato
quel gesto di protezione per il quale
potrebbe essere avviata l’istruttoria da
parte della fondazione Yad Vashem in
vista del riconoscimento del titolo di
«giusto delle nazioni».
IN SEGUITO OSPITÒ
TRE FAMILIARI DEL DUCE
Pare che l’arcivescovo Ferro abbia
mantenuto un totale silenzio – almeno
in pubblico – anche su un’altra vicenda
di protezione di «perseguitati» di cui fu
protagonista, sempre da rettore del
Gallio, all’indomani del 25 aprile:
quando accolse nel collegio e tenne nascosti per sei mesi e mezzo tre giovani
uomini della famiglia Mussolini: il figlio del duce Vittorio; Orio Ruberti,
cognato di un altro figlio del duce, Bruno, che era morto per un incidente all’aeroporto di Pisa nel 1941; Vanni
Teodorani, genero di Arnaldo, defunto
fratello del duce.
Vittorio Mussolini, 28 anni, bussa
alla porta del Gallio il 26 aprile 1945,
cioè tre giorni dopo l’ingresso in Milano dei comandanti delle formazioni
partigiane dell’Alta Italia e mentre il
padre Benito sta fuggendo verso il confine svizzero (sarà fucilato dai partigiani il 28 aprile a Giulino di Mezzegra,
sul lago di Como). Vittorio sceglie il
Gallio perché lì è iscritto alle elementari il figlio Guido, registrato con il cognome della mamma, anche lei rifugiata in Como. Il 27 aprile vengono accolti nel collegio Orio e Vanni.
I Mussolini resteranno al Gallio fino al 12 novembre 1945: cinque giorni
dopo anche il padre Ferro lascia Como
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per Genova, dove gli è stata affidata la
parrocchia della Maddalena.
Resterà a Genova cinque anni, fino
al 1950, quando verrà nominato arcivescovo di Reggio Calabria. In quell’occasione si scrisse a Como a commento della notizia della nomina e in
memoria dei sette anni di rettorato al
Gallio, dei quali cinque in guerra:
«Non seppe e non volle mai negare
aiuto e asilo a nessuno, purché fosse un
perseguitato; mirava diritto, senza rimpianti e senza paura, pieno di fiducia
nella Provvidenza».
Dunque i fatti di protezione, sia del
ragazzo ebreo sia dei «giovani» Mussolini, erano noti nell’ambiente comasco
e somasco. Ma si direbbe che l’arcivescovo Ferro non ne abbia mai fatto parola nei suoi nuovi ambienti di vita, a
Genova e a Reggio Calabria. Tant’è
che fino a oggi nessuno almeno a Reggio Calabria – a esclusione delle persone impegnate nella causa di canonizzazione – sapeva con precisione di quelle
sue avventure del tempo di guerra.
«SUPERIORE A OGNI POLITICA
E PRONTO AD AIUTARE
GLI UNI E GLI ALTRI»
Il fatto dell’ebreo era restato sconosciuto nei decenni all’esterno del Gallio, ma non quello dei Mussolini: la loro presenza al Gallio era stata documentata da Gianfranco Bianchi e Fernando Mezzetti nel volume Mussolini
aprile ‘45: l’epilogo (Editoriale nuova,
Milano 1979). I due storici avevano anche pubblicato una lettera del padre
Ferro al governatore alleato della Piazza di Milano – datata 20 maggio 1945
–, con cui lo informava dell’ospitalità
concessa ai tre «non ancora fuori dal
pericolo di una giustizia sommaria di
parte», facendosi garante della loro intenzione di «non allontanarsi dal luogo
in cui si trovano».
Umiltà, discrezione, distacco dalle
dispute e dalla politica sono le attitudini dell’arcivescovo Ferro – attestate da
quanti lo frequentarono – che spiegano
quel silenzio. Una targa ricordo posta
nella sala d’attesa della direzione del
Collegio Gallio lo descrive come «superiore a ogni politica» e «sempre
pronto a intervenire in aiuto degli uni e
degli altri». C’è chi lo vede come un
«buon uomo» in balia di eventi più
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grandi di lui, ma io trovo un forte segno cristiano in questa sua capacità di
sfiorare la ribalta senza darne riscontro: «Non sappia la tua destra quello
che fa la tua sinistra».
TRENTUNO PRETI DIOCESANI
E VENTISEI TRA FRATI E SUORE
Quando l’arcivescovo Ferro sarà riconosciuto come «giusto delle nazioni»
salirà a cinque il numero dei vescovi e
«futuri vescovi» italiani che figureranno in quella lista. I giusti italiani erano
468 al gennaio 2009, su un totale di
22.765.
Tra essi vi erano due vescovi: Giuseppe Placido Nicolini di Assisi e il
nunzio a Budapest Angelo Rotta; due
futuri vescovi e poi cardinali, ma allora
giovani preti: Vincenzo Fagiolo e Pietro Palazzini, ambedue del clero di Roma; 30 preti: Angelo Bassi, Arrigo Beccari, Enzo Boni Baldoni, Guido Bortolameotti, Alfredo Braccagni, Francesco
Brondello, Michele Carlotto, Leto Casini, Alessandro Daelli, Angelo Dalla
Torre, Giuseppe De Zotti, Giulio Facibeni, Alfredo Melani, Alessandro Di
Pietro, Giulio Gradassi, Vivaldo Mecacci, Alfredo Melani, Ernesto Ollari,
Arturo Paoli, Ferdinando Pasin, Francesco Repetto, Benedetto Richeldi,
Luigi Rosadini, Dante Sala, Carlo Salvi, Beniamino Schivo, Giovanni Simeoni, Gaetano Tantalo, Raimondo
Viale, Federico Vincenti; 11 religiosi:
Armando Alessandrini, Pasquale Amerio, Francesco Antonioli, Aldo Brunacci, Antonio Dressino, Mario Leone
Ehrhard, Giuseppe Girotti, Rufino Nicacci, Francesco Raspino, Cipriano Ricotti, Emanuele Stablum; 15 religiose:
Maria Antoniazzi, Virginia Badetti,
Emilia Benedetti, Anna Bolledi, San-
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MI VERGOGNO
DEL VANGELO
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dra Busnelli, Maria Maddalena Cei,
Maria Corsetti, Maria Angelica Ferrari, Marta Folcia, Marcella Girelli, Elisabetta Maria Hesselblad, Barbara Lavizzari, Marie Marteau, Emma Talamonti, Benedetta Vespignani; 2 pastori
protestanti: il valdese Tullio Vinay (Firenze) e l’avventista Daniele Cupertino
con la moglie Teresa Morelli Cupertino (Roma).
AD
DAL PADRE GIROTTI
ARTURO CARLO JEMOLO
I più famosi tra i preti sono il fiorentino Giulio Facibeni e il lucchese Arturo Paoli, che oggi ha 97 anni. Tra i religiosi le figure di maggiore spicco sono
Giuseppe Girotti, domenicano piemontese morto a Dachau, per il quale
c’è la causa di canonizzazione, e la madre Elisabetta Maria Hesselblad, originaria della Svezia, fondatrice delle Brigidine: ha avuto il titolo di Giusto nel
2004, dopo che nel 2000 era stata proclamata beata da Giovanni Paolo II.
Affascinanti – tra i Giusti – sono
anche le figure di due cristiani laici
morti come Girotti nei campi di sterminio e per i quali è avviata la causa di
canonizzazione: Giovanni Palatucci,
avellinese reggente della Questura a
Fiume, e Odoardo Focherini, emiliano
amministratore del quotidiano Avvenire d’Italia. Suggestiva è anche – tra i
laici – la presenza dello storico e giurista Arturo Carlo Jemolo con la moglie
Adele Maria Morghen Jemolo e la figlia Adele Jemolo.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
1
Al tema dei «giusti», Luigi Accattoli ha
già dedicato diverse pagine nella sua rubrica
Io non mi vergogno del Vangelo. Ricordiamo:
«In memoria della maestra Marina. E dei
“giusti” che nessuno conosce», in Regno-att.
4,2006,143; «La grande avventura dei “giusti
d’Italia”. 387 gesti creativi per salvare gli
ebrei dalla persecuzione», in Regno-att.
10,2006,359; «1943-1945: tra i “giusti” e gli
ebrei nasce il primo dialogo», in Regno-att.
12,2006,431; «Quando l’occhio del giusto
vede il perseguitato. Ancora su Yad Vashem
e gli ebrei italiani», in Regno-att. 14,2006,507;
«I “giusti” d’Italia», in Regno-att. 22,2006,799.