c. GAMBINO-Decentramento copia

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IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE. L’ESPERIENZA ITALIANA
NELL’OTTICA COMPARATA
di Silvio Gambino
(Università della Calabria)
1. Stato e territorio nel costituzionalismo contemporaneo: alcune premesse
teoriche e comparatistiche.
Rispetto al decentramento territoriale dei poteri, le forme di Stato 1 non sempre
e non facilmente risultano comparabili fra loro. Inscrivendosi in una diversità di
esperienze storico-politiche2, le stesse ritrovano un punto comune di riferimento
intorno a tre principali modelli ideal-tipici: quello dello Stato unitario3, quello
dello Stato federale4 e quello dello Stato confederale (quest’ultimo, in verità, co1 Sull’affermazione dello Stato liberale e la sua evoluzione, nell’ampia bibliografia cfr. C. Mortati, Le forme
di governo. Padova, 1973; M.S. Giannini, “I pubblici poteri negli stati pluriclasse”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1979 e dello stesso autore Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1977; G. De Vergottini, Diritto
costituzionale comparato, Padova, 1981; G. Lombardi, Lo Stato federale. Profili di diritto comparato, Torino,
1987. Rimane tuttora fondamentale per la critica del tradizionale approccio alle forme di stato a partire
dall’operatività del principio di separazione dei poteri, in presenza delle nuove fenomenologie caratterizzanti il
modo di essere e di operare degli stati moderni e contemporanei, l’analisi e la proposta metodologica di L. Elia,
nella voce “Governo (forme di)”, in Enciclopedia del diritto.
2 Per un inquadramento generale di questa tematica, si rinvia a P. Biscaretti Di Ruffia nella sua “Introduzione” a “La regionalizzazone in Europa occidentale”, in Aa.Vv. (Archivio I.S.A.P.), La regionalizzazione, Milano,
1983 e a G. Bognetti, “Le regioni in Europa: alcune riflessioni sui loro problemi e sul loro destino”, in Le regioni, 1984, 6. Con diverso approccio, di tipo interdisciplinare, un’attenta analisi in materia, che coinvolge la stessa
comparazione con le problematiche del regionalismo italiano e del sistema autonomistico locale, è svolta da Y.
MÉNY in tre opere (collettanee), Dix ans de régionalisation en Europe. Bilan et perspectives (1970-1980), Paris,
1982; Centres et périphéries: le partage du pouvoir, Paris, 1983; La réforme des collectivités locales, Paris,
1983; Aa.Vv.(a cura di Ch. Bidegaray), L’Etat autonomique: forme nouvelle ou transitoire en Europe?, Paris,
1994.
3 Nell’ampia bibliografia cfr. anche G. Lucatello, “Lo Stato regionale quale nuova forma di stato”, in Atti
Primo Convegno di Studi Regionali, Padova, 1955, e dello stesso autore Lo Stato federale, Padova, 1939 (riedizione nel 1967).
4 L’affermazione del federalismo e della corrispondente forma di stato federale, soprattutto in Europa, risultano più adeguatamente colti alla luce della variabile storico-politica “che è quella ove si manifesta un doppio,
convergente, fenomeno: quello della unificazione di alcuni grandi stati nazionali europei, e quello dell’affermarsi
del principio di nazionalità ... È in questi termini che il tema della disputa sulla sovranità assume proprio – e soprattutto – nel periodo a cavallo fra l’Otto e il Novecento, un ruolo essenziale per la ricostruzione teorica dello
stato federale, sotto il profilo tecnico-giuridico” (G. Lombardi, Lo stato federale. Profili di diritto comparato,
Torino, 1987, pp. 59-60). Per un’attenta analisi delle problematiche dibattute nella dottrina europea e statunitense, relative alla definizione dei profili caratterizzanti la forma di stato federale, e in particolare per una discussione metodologica sulla rilevanza del criterio del “coordinamento fra le sovranità” cfr. G. Lombardi, Lo stato federale. Profili di diritto comparato, Torino, 1987. In tale orientamento viene operata una netta distinzione fra federalismo statunitense e federalismo europeo: “Negli Stati Uniti vale pur sempre il criterio del coordinamento fra
le sovranità, divise fra sovranità esterna ... e sovranità interna ... spettando la prima al solo stato federale ed essendo la seconda coordinata fra stato federale e stati membri, fra i quali è appunto divisa. In Europa, l’accento è
sullo stato federale e, tendenzialmente, malgrado l’ingegnosa costruzione ... volta a rendere irrilevante
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stituendo più un’astratta categoria tipologica che un riferimento organizzativo di
tipo ideal-tipico)5. Gli U.S.A. costituiscono la principale esperienza di riferimento
– l’archetipo – del modello federale, mentre in Europa, se si fa eccezione per la
Germania, ha visto la sua originaria affermazione il modello di Stato unitario,
che, in seguito, in modo graduale e differenziato da Paese a Paese, ha conosciuto,
in modo vieppiù crescente nel tempo, il decentramento di poteri verso la periferia,
prima di tipo esclusivamente amministrativo (deconcentrazione, decentramento
amministrativo) ed in seguito, a partire dalle costituzioni del secondo dopoguerra,
di tipo legislativo (regionalismo) e amministrativo6.
Gli aspetti fondamentali del modello di Stato unitario, come è noto, sono dati
da un rigido accentramento e dalla centralizzazione amministrativa nonché dalla
fondazione di un sistema autoritativo esclusivo dello Stato, fondata su una relazione gerarchica con le collettività locali. Sotto tale profilo, l’archetipo è costituito dal modello francese, che si presenta con forti differenziazioni rispetto
all’assetto organizzatorio dei rapporti fra centro e periferia sperimentato già da
vecchia data dal costituzionalismo inglese (di tipo consuetudinario), con il riconoscimento di forme di autonoma rilevanza politica agli organismi territoriali esponenziali delle realtà territoriali. La centralizzazione e l’uniformità amministrativa,
che sono fra gli aspetti che maggiormente caratterizzano le esperienze europee di
Stato unitario (a partire dal caso francese)7, si fondano sull’argomentazione (istituzionale e politica) secondo cui tali profili organizzatori esprimono, integrano e
perfezionano l’unificazione politica degli stati, divenendone perciò un elemento
l’attribuzione della sovranità ai fini della definizione delle caratteristiche degli stati, sostituendo ad essa come
elemento di classificazione l’imperium, soltanto esso è considerato sovrano” (p. 84). Nella stessa opera l’autore
sottolinea (p. 106-107) come “questa teoria ha l’indubbio vantaggio di collegare il profilo giuridico, in senso
lato, con quello sociologico del problema, saldando, attraverso questo elemento il profilo interno delle strutture
federali con quello a valenza internazionalistica. Non si dà vita, quindi, ad uno “stato di stati”, ma, muovendosi
sul piano esistenziale, più che non su quello normativo, il federalismo rappresenta in ultima analisi ... un processo che segna la coesistenza dei due ordini di comunità, la cui reciproca sfera di competenza è garantita appunto
dalla costituzione rigida”.
Sul federalismo come “ripartizione del potere su base territoriale” cfr. l’analisi di G. De Vergottini, Diritto
costituzionale ... cit., p. 201, con bibliografia ivi citata e dello stesso autore la voce “Stato federale”, in Enciclopedia del diritto, vol. XLIII: “Dal punto di vista scientifico una contrapposizione tra modello federale e modello
regionale desta non poche perplessità e in sede dottrinale si è giunti a concludere ... che la differenza fra i due
modelli non è qualitativa bensì soltanto quantitativa” (p. 859 ss.). Un’acuta analisi critica della questione è svolta
con riferimento all’esperienza federale americana da A. La Pergola, Residui contrattualistici e struttura federale
nell’ordinamento degli Stati Uniti, Milano, 1969. Per una riflessione sulle problematiche attuali e sulla recente
evoluzione del federalismo americano cfr. G. Bognetti, “L’esperienza federale americana e l’attuale vocazione
italiana al federalismo. Una riflessione comparatistica”, in Jus, 1980, 3 e, prima ancora, dello stesso autore “Federalismo, proprietà e libertà. Un ripensamento dell’esperienza federale americana alla luce della giurisprudenza
della Corte Suprema”, in Jus, 1979, I, p. 3.
5 Cfr. G. De Vergottini, “Modelli comparati di autonomie locali”, in Aa.Vv., Organizzazione e diritto delle
regioni, 1982.
6 Sul punto cfr. anche il nostro Decentramento e Costituzione, Padova, 1984.
7 Fra gli altri cfr. sul punto, almeno, L. Vandelli, Poteri locali, Bologna, 1990; S. Cassese, “I caratteri originari e gli sviluppi attuali dell’amministrazione pubblica italiana”, in Quaderni costituzionali, 1987, 3.
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indefettibile. Unità, centralizzazione e uniformità costituiscono, così, altrettanti
profili caratterizzanti la rete istituzionale dei rapporti fra potere politico centrale,
territorio e cittadini, fra autorità politico-amministrative centrali e amministrazioni locali e che, quasi ovunque, come le singole realtà nazionali testimoniano, si
sono riflesse nel disconoscimento e/o compressione dei livelli di governo locale e,
quando previsti in sede costituzionale, nella loro amministrazione attraverso formule di governo standardizzate ed uniformi sul territorio (prescindendo cioè dalle
diversità culturali e politiche delle diverse realtà regionali e locali).
Tali elementi costituiscono una premessa generale relativa alla forma statale
unitaria e alle relative caratteristiche organizzatorie e funzionali, anche se occorre
sottolineare come tale modello costituzionale e amministrativo, nella realtà, costituisce più un ideal-tipo che un modello rigidamente osservabile nell’evoluzione
degli stati contemporanei (almeno di quelli europei)8. In tale modello, caratterizzato sia dalla centralità di un sistema rigido ed uniforme nella circolazione del
comando giuridico e amministrativo (dall’alto verso il basso), sia da elementi di
flessibilità, dovuti al ruolo di snodo fra centro e periferia svolto da autorità centrali, si sono collocate le due principali e originarie modalità di organizzazione dei
poteri sperimentate nella forma di Stato unitario che ne costituisce, in Europa,
l’archetipo: la deconcentrazione e il decentramento amministrativo, seguito nel
tempo dal decentramento politico-amministrativo ed infine dal decentramento politico-istituzionale. Di quest’ultima modalità amministrativa si deve ricordare come la stessa si sia caratterizzata (e si connoti tuttora) quale tendenza imposta
dall’evoluzione dei nuovi e più complessi compiti affidati allo Stato in campo economico e sociale. Essa consiste, sostanzialmente, nell’individuazione di una serie di compiti, anche se non sempre definiti chiaramente ed organicamente, e nel
loro affidamento, come ‘affari locali’, alla cura di enti territoriali istituiti (e distinti) dallo Stato ed amministrati da organi elettivi locali. A tale fondamentale profilo organizzatorio si è conformato lo Stato ad amministrazione centralizzata, che
ha garantito il processo di unificazione politica europea dei singoli Stati-nazione
e, al loro interno, la formazione ed il consolidamento, nel secondo dopo-guerra, di
quei centri di potere politico-comunitari, come i partiti politici, che si sono evoluti
nel tempo come nuove istituzioni (talora con processi di costituzionalizzazione
molto spinti, come nel caso della R.F.T.)9.
8 Nell’ampia bibliografia, sulla questione, Cfr. il cap. IV di A. Delcamp, Les institutions locales en Europe,
Paris, 1990; F.X. Aubry, La décentralisation contre l’État. L’État semi-centralisé, Paris, 1992; CH. Debbash,
Administrations nationales et intégration européenne, Paris, 1987; CH. Debbash, La décentralisation en Europe,
Paris, 1981.
9 Sia consentito rinviare sul punto anche ai nostri Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977, “Politica
e istituzioni nella riorganizzazione dei poteri locali”, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1990, n.
88 e, di recente, a “Partis politiques et forme de giuvernement”, in Revista General de Derecho Público Comparado, 2008, n. 2.
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Fino al primo decennio del secolo scorso, tale modello di Stato, unitario, accentrato e forte, riesce (in qualche modo) ad assolvere alle funzioni per cui era
stato pensato. L’ampliamento delle funzioni d’intervento attivo nel processo economico (‘Stato regolatore’, ‘Stato imprenditore’), prima, e di soddisfazione delle
crescenti domande sociali (‘Stato sociale’), in seguito, mettono in crisi (quasi ovunque) tale modello, rendendo necessaria una revisione dei fini dello Stato ed
una ridefinizione nelle stesse modalità di esercizio dei pubblici poteri in un’ottica
che è stata definita appunto sussidiaria, secondo canoni ispirati al costituzionalismo comunitario10. Ciò avverrà nel modo più solenne e garantito nelle costituzioni del secondo dopoguerra (soprattutto in quella italiana e nella Legge fondamentale di Bonn), che recepiranno tali esigenze soprattutto nella costituzionalizzazione dei ‘diritti sociali’ accompagnata da una tutela accordata ai soggetti economici
diversa rispetto a quella prevista nelle prime costituzioni liberali11. Ciò si esprimerà anche nella ridefinizione dei livelli territoriali di governo, improntati, in
modo più o meno intenso, in Europa, al riconoscimento costituzionale del pluralismo istituzionale a livello territoriale, accompagnato dal principio del decentramento (amministrativo e politico) come regola dell’azione pubblica12.
Sia, dunque, che si pensi al riconoscimento delle regioni e delle autonomie locali (con relative funzioni ed organizzazione del governo) nei testi costituzionali
del secondo dopoguerra (Italia e R.F.T., sia pure con diverso grado), sia a quelle
che hanno trovato una loro attuazione, più tardiva, nell’ultimo decennio (Spagna,
Belgio, Portogallo, Francia13, Gran Bretagna)14, in ognuna di tali esperienze di
decentramento politico, di regionalismo appare evidente un processo di superamento della classica, originaria, modellistica degli stati unitari (centralizzati e accentrati), con il decentramento di poteri e di funzioni nella direzione di strutture
amministrative fornite di (maggiore o minore) autonomia normativa e organizza-
10 Rimane tuttora attuale, sotto il profilo comparatistico, la ricostruzione del processo di evoluzione dei finivalori e delle modalità organizzatorie dello Stato contemporaneo fattane da C. Mortati, Le forme di governo,
Padova, 1973.
11 Per una disamina dei profili costituzionali comparati cfr. P. Biscaretti Di Ruffia, Corso di diritto pubblico
comparato, Milano, 1984; G. De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Padova, 1981; G. Lombardi,
Premesse al corso di diritto pubblico, Milano, 1986; A. Pizzorusso, Corso di diritto comparato, Milano, 1983.
Sulle problematiche dottrinarie connesse alla natura ed alla garanzia in via giurisdizionale dei diritti sociali cfr.
A. Baldassarre, “Diritti sociali”, in Enciclopedia giuridica Treccani.
12 Nell’ampia bibliografia sul punto cfr., almeno, A. Delcamp, Les institutions locales en Europe, Paris,
1990.
13 Sul punto cfr. anche il nostro “Le Regioni in Francia: dalla regionalizzazione economica alla regionalizzazione politica”, in Quaderni regionali, 1985, n. 2.
14 Una presentazione della più recente evoluzione del regionalismo europeo è in Archivio I.S.A.P., “La regionalizzazione ... cit., vol. II: “Le regioni amministrative”.
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tiva e dalla dimensione territoriale tendenzialmente superiore ai livelli tradizionali
dell’amministrazione locale15.
Le esperienze di decentramento politico e amministrativo e le stesse modalità
di attuazione del regionalismo e del decentramento politico, peraltro, sottolineano
la circostanza che nuovi centri di potere politico-comunitari sono venuti a concorrere, se non proprio a sostituirsi, nel processo di centralizzazione del potere politico16. Ai soggetti istituzionali di governo territoriale, infatti, nel costituzionalismo
del secondo dopo-guerra si aggiunge un inedito sistema dei partiti, che si presenta
(melius, si presentava) organizzato e centralizzato e che, nelle diverse esperienze
statuali (e particolarmente in Italia) riesce a condizionare (e talora anche a determinare) l’indirizzo politico di governo e, in taluni contesti, lo stesso indirizzo politico-costituzionale17. Istituite per decentrare verso i cittadini la gestione del potere politico e amministrativo, in modo da renderlo più partecipato e controllato, a
causa della forte presenza dei partiti e della relativa ingerenza nella vita istituzionale e costituzionale, le regioni e le autonomie politiche territoriali infra-regionali
vedono così sottrarsi le decisioni di indirizzo politico e politico-amministrativo,
divenendo, nella migliore delle ipotesi, meri livelli di articolazione territoriale
dell’attività amministrativa dello Stato.
Avviando a conclusione tale inquadramento introduttivo al processo evolutivo
della forma statuale contemporanea e dei relativi rapporti fra centro e periferia 18,
15 Sul punto, fra gli altri cfr. anche S. Gambino (a cura di), L’organizzazione del governo locale. Esperienze
a confronto, Rimini, 1992 e S. Gambino e G. Fabbrini (a cura di), Regione e governo locale fra decentramento
istituzionale e riforme. Esperienze e culture a confronto, Rimini, 1997.
16 Cfr. Y.Mény, nella presentazione del caso francese per gli (Archivi I.S.A.P.), Le relazioni centroperiferia, Milano, 1984, p. 2459, e dello stesso autore “Crises, régions et modernisation de l’état”, in Pouvoirs,
1981, 19; “Checks and balances à la française: les rapports de l’état et des collectivités locales”, in Aa.Vv.,
L’ente intermedio. Esperienze straniere e prospettive di riforma in Italia, Milano, 1981.
17 Così fra gli altri G. Bognetti, “Le regioni in Europa ... cit., p. 1098, per il quale “anche i partiti sono divenuti, nei paesi europei di origine latina, con l’affermarsi dello stato interventista e sociale, degli organismi nazionali dal corpo burocratico esteso, strutturati gerarchicamente pur nella possibile presenza di alcune articolazioni
interne, inclini ad atteggiamenti autoritari verso la società, portatori oltretutto di precisi interessi corporativi propri”. Sulla questione dei rapporti fra struttura statale dei partiti e adeguatezza del decentramento regionale, oltre
al classico studio di M. Duverger (Les partis politiques, Paris, 1961), si veda G.F. Pasquino, “Organizzazione dei
partiti”, in Archivio I.S.A.P., “La regionalizzazione ... cit., Milano, 1983, p. 785 ss.. Per una trattazione approfondita di tale problematica, nella dottrina italiana, si rinvia alle analisi svolte, già da vecchia data, da T. Martines di cui cfr., almeno, “Studio sull’autonomia politica delle regioni in Italia”, in Rivista trimestrale di diritto
pubblico, 1956, p. 102 ss. e Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Milano, 1956. Sui limiti
registrati nell’esperienza italiana di regionalizzazione si veda anche, fra gli altri, S. Bartole, “Il caso italiano”, in
Le regioni, 1984, 3 e, più di recente, il nostro “La difficile riforma della ‘costituzione materiale’ in Italia fra riforme elettorali, partiti politici e Governo”, in Scritti in onore di Vincenzo Atripaldi (in corso di pubblicazione) e
“Competenze legislative, diritti e modelli organizzativi nel quadro del nuovo regionalismo: simbolismi e realtà
di una riforma costituzionale confusa e incerta”, in Scritti in onore di A.A. Cervati (in corso di pubblicazione).
18 S. Cassese, “Concentrazione e dispersione dei poteri pubblici”, in Il comune democratico, 1983; A. Barbera, “Le regioni nel sistema politico”, in Aa.Vv., Seicentosedici dieci anni dopo, Roma, 1988. Per un approdondimento del regionalismo come innovazione organizzativa e funzionale nella distribuzione del potere nel
costituzionalismo liberale cfr. C.J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, New-York, 1950 e
dello stesso autore (unitamente a R.R. Bowie), Studi sul federalismo, Milano, 1959. Sulla teoria friedrichiana
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occorre sottolineare che l’analisi recente del decentramento politico e amministrativo non appare caratterizzarsi per un approccio essenzialmente o prevalentemente teorico, come avveniva nell’analisi della dottrina giuridica che per prima ha affrontato la questione delle forme istituzionali dello Stato moderno. Nella presente
fase di ‘riforma dello Stato’ accentrato, essa suggerisce che, nelle diverse esperienze europee (sia pure con intensità e forme differenziate), non esiste un modello di decentramento politico ottimale e definito, quindi riferibile a tutti gli stati.
Sotto tale profilo, le regioni e le autonomie politiche territoriali (minori) costituiscono la risposta ad un profondo bisogno di cambiamento nelle procedure istituzionali (sussidiarietà e leale collaborazione fra i diversi livelli di governo) e
nell’organizzazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini (razionalizzazione amministrativa nell’ottica della trasparenza ed in quella partecipativa), sia per quanto
concerne la partecipazione politica che l’amministrazione dei servizi. È rispetto a
questo quadro d’insieme dell’esperienza, teorica ed evolutiva, del decentramento
che svolgeremo la nostra riflessione sulle recenti tendenze registrate soprattutto in
Italia (a partire dalla metà degli anni ’90), fino alle scelte con la revisione costituzionale del Tit. V.
2. Regionalismo e federalismo: tendenze recenti
L’analisi teorica che si è fin qui occupato delle forme di Stato ha dovuto riconoscere una limitata efficacia ermeneutica delle classiche tipologie delle forme di
Stato a inquadrare le più recenti tendenze al decentramento politico e di regionalizzazione del potere politico negli stati contemporanei. Dall’analisi emergono categorie interpretative, come quella di Stato regionale (e quella di Stato delle autonomie locali)19 che appaiono maggiormente idonee a cogliere lo stato attuale delcfr., fra gli altri, A. La Pergola, “L’empirismo nello studio dei sistemi federali: a proposito di una teoria di Carl
Friedrich”, in Diritto e società, 1973.
19 Riflettendo criticamente sulla tesi di Lucatello, che omologa la situazione giuridica degli stati membri di
uno stato federale con quella delle regioni in uno stato unitario, G. Lombardi affronta il problema della individuazione degli elementi differenziali, cogliendoli, anche sotto il profilo metodologico, nello studio della forma di
governo. Con tale approccio viene spiegato l’orientamento di Lucatello per il quale occorre “considerare lo stato
federale quale un tipo, ancorché storicamente più rilevante, di stato regionale, distinguibile soltanto per la forma
federale di governo dagli altri stati regionali”, uno stato, come si può osservare, per la cui definizione rileva la
partecipazione (o meno) degli ‘enti autarchico-autonomi’ (gli stati membri) alla “formazione degli organi legislativi e di quelli costituenti dello stato centrale, ovvero dei rispettivi organi primari”, che non risulta presente
nell’esperienza dello stato regionale. Per superare le “zone d’ombra” connesse a tale classificazione della forma
di stato federale fra le forme di stato, G. Lombardi suggerisce un capovolgimento metodologico che porta ad una
valorizzazione dell’elemento personale dello stato e con esso, dunque, a considerare la rilevanza del “popolo più
che della sovranità” (G. Lombardi, Lo stato federale ... cit., p. 103). Come sottolinea l’Autore, infatti, “non vi è
dubbio ... che altra è la funzione politico-costituzionale del popolo negli stati federali, altra negli stati ad autonomia regionale, e altra, ancora nelle ipotesi di decentramento territoriale o istituzionale, o semplicemente burocraico. Per contro è assai modesta, a livello di forma di governo, la qualificazione del decentramento, poichè in
ultima analisi ... delle due l’una: o la forma di governo è data dal rapporto fra gli organi di suprema direzione
politica, intesi come organi costituzionali dello stato ... e allora la struttura decentrata o accentrata non rileva sui
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la distribuzione del potere politico al livello territoriale-locale20. La nuova dimensione territoriale-locale prefigurata per lo svolgimento della democrazia comunitaria appare maggiormente rispondente alle stesse esigenze dì programmazione
dell’intervento pubblico in campo economico 21. Come è stato lucidamente sottolineato da un maestro italiano del diritto pubblico comparato, in una ricerca sulla
regionalizzazione, “La nuova ‘dimensione regionale’ (e autonomistica) è quindi
generalmente scaturita proprio dall’esigenza di dare una soddisfacente soluzione a
taluni problemi ... che richiedevano un opportuno contemperamento fra talune esigenze unitarie (determinate dalla dimensione nazionale, e talvolta addirittura
sovra-nazionale, dei problemi stessi) e il rispetto, ormai largamente preteso, delle
singole individualità territoriali, desiderose di fluire, nei settori menzionati, di una
propria autonomia decisionale” 22.
Così brevemente richiamati i termini essenziali del processo evolutivo caratterizzante la torma di Stato contemporanea di democrazia pluralista – colti soprattutto sotto il profilo del superamento dell’uniformismo amministrativo e dello accentramento dei poteri nei livelli centrali a favore di forme di federalismoregionalismo-decentramento istituzionale – resta da sottolineare un ulteriore elemento che è relativo alla diversa tipologia assunta dagli enti territoriali minori nei
diversi ordinamenti (europei e nord-americano). Sotto tale profilo, si può cogliere
un’evidente volontà da parte delle singole realtà statali nell’istituire enti regionali
e infra-regionali, forniti di maggiore o minore autonomia decisionale e (di più o
meno intensi) poteri di normazione autonoma23. Dal punto di vista più strettamente terminologico, si deve anche osservare come tale analisi si caratterizzi per una
notevole incertezza. Quanto in particolare alla nozione di ‘Regione’, essa viene
estesa ad un numero elevato di processi di decentramento, mentre più appropriatamente essa dovrebbe riguardare quei soli ordinamenti caratterizzati dal passagrapporti fra tali organi, oppure tale struttura si riflette sulla considerazione costituzionale dell’elemento personale
degli enti compresi nell’ambito dell’ordinamento giuridico, e allora si cade nel problema, già accennato, concernente il ruolo da esso svolto sul piano della classificazione della forma di Stato” (così G. Lombardi, Lo stato
federale ... cit., pp. 104-105).
20 Cfr. Y. Meny, “La place de la Région dans le développement et les transformations de l’Etat. Analyse
comparée des politiques de régionalisation en France, Italie et espagne”, in AA.VV. La Région: bilan et... cit., p.
35 ss.. Nella letteratura taliana tale orientamento è stato particolarmente approfondito negli studi di E. Rotelli,
fra i quali cfr. almeno L’avvento della Regione in Italia, Milan, 1965 e Riforma istituzionale e sistema politico,
Rome, 1984. Così anche S. Cassese, “La regionalizzazione economica in Italia: un sistema alla ricerca di un equilibrio”, in Le regioni, 1984, 1-2.
21 Sulla attuazione delle regoni in Italia e sui relativi limiti di tale esperienza cfr., fra gli altri, L. Paladin,
“Riforme istituzionali e autonomie regionali”, in AA.VV., Le riforme istituzionali, Padova, 1985; G. Bognetti,
“Le Regioni in Europa: alcune riflessioni sui loro problemi e sul loro destino”, in Le Regioni, 1984, 1-2;
AA.VV. (ISAP), La regionalizzazione, Milano, 1983; A. Bardusco, Lo stato regionale italiano, Milano, 1980; S.
Gambino e G. Fabbrini (a cura di), Regione e ... cit.; A. Pace (a cura di), Quale dei tanti federalismi?, Padova,
1997; F. Pizzetti, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino, 1996.
22 Così P. Biscaretti di Ruffia, nella “Introduzione” a “La regionalizzazione ... cit., p. 1669.
23 Fra gli altri, cfr. S. Gambino e G.P. Storchi (a cura di), Governo del comune e statuti, Rimini, 1993.
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gio da uno Stato accentrato ad uno decentrato su base regionale (e non sulla base
dei livelli di amministrazione locale). Così, ad esempio, non sarebbero denominabili istituzioni regionali le Regioni belghe prima della riforma costituzionale
(1980), le Regioni francesi prima delle leggi sul decentramento (1981) (e forse
anche dopo), le Regioni di pianificazione economica e territoriale in Gran Bretagna, le Regioni di pianificazione in Grecia, ecc. Se tuttavia si supera questa difficoltà per un’esigenza di sistematizzazione (teorica e pratica) delle esperienze di
decentramento politico-istituzionale, in corso soprattutto in Europa nell’ultimo
decennio24, si osserva che in dottrina sono state adottate tre principali tipologie di
Regione: la ‘Regione funzionale’ (economica), la ‘Regione amministrativa’25, la
‘Regione politica’26, le quali di norma costituiscono la linea di sviluppo prevalente del regionalismo negli Stati europei contemporanei.
Con analoga metodologia, le più significative esperienze di regionalizzazione
e di federalismo sono state inquadrate in una tipologia che ricomprende, in un
primo modello, gli Stati con enti regionali embrionali in via di evoluzione legislativa (c.d. Regioni amministrative: fra cui si enumerano Gran Bretagna e Francia),
in un secondo, gli Stati con enti regionali costituzionalmente istituzionalizzati
(c.d. Regioni costituzionali: fra cui Belgio, Spagna, Italia). In un ultimo tipo possono, infine, ricomprendersi gli Stati federali con Regioni erette a Stati membri 27.
Come si può osservare, il discrimine fondamentale osservabile in tale tipologia
risulta meno quello ispirato alla denominazione delle istituzioni regionali, alla loro natura giuridica e al grado di efficacia delle norme costitutive, come risulta invece nell’analisi della maggioritaria dottrina gius-pubblicistica. Ciò che descrive
il passaggio reale da uno Stato unitario e accentrato a uno ispirato al decentramento politico-istituzionale risulta, secondo tale orientamento, il grado di legalizzazione e di costituzionalizzazione del processo regionalistico e di quello autonomistico, con la conseguente previsione di competenze e di organi atti a risolvere gli inevitabili conflitti che potranno insorgere fra Stato e istituzioni regionalilocali. Risulta facilmente osservabile, così, che l’integrazione nella vita costituzionale dello Stato degli enti regionali e autonomistici appare più spinta in quegli
ordinamenti, come in Italia e in Spagna, nei quali alla Regione viene riconosciuto
un ruolo e un’autonomia costituzionalmente garantiti, anche se, in pari tempo, “si
24 Per un approccio utile in tal senso cfr. R. Leonardi, “Riflessioni conclusive sulle ragioni dello sviluppo
del regionalismo nell’Europa occidentale, in Le regioni, 1984, 3, p. 505 ss.
25 Per un’analisi dell’evoluzione del regionalismo francese, fino alle più recenti riforme degli anni ’80, sia
consentito rinviare anche al mio Decentramento e Costituzione. La riforma regionale francese, Padova, 1984.
26 Per un approccio alla luce di questa tipologia cfr. P.M. Gaudemet, “Les problèmes financiers de la régionalisation” e J. Chapuisat, “Autonomie territoriale et régionalisation politique”, ambedue in Actualité juridiqueDroit administratif, 20 febbraio 1983.
27 Utilizza questa nuova tipologia per analizzare la regionalizzazione attualmente in corso nei paesi europei
P. Biscaretti di Ruffia nella “Introduzione” ... cit., p. 1665.
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considera l’ente stesso intimamente inserito nella struttura unitaria dello Stato
(art. 5 Cost.)”28.
Avviando a conclusione l’inquadramento generale del processo evolutivo della
forma statuale contemporanea in Europa e dei relativi rapporti esistenti al suo interno fra centro e periferia, appare opportuno sottolineare come l’analisi recente
del federalismo-regionalizzazione-decentramento politico appare meno caratterizzarsi per un approccio essenzialmente teorico, come avveniva nell’analisi dei giuristi che per prima hanno affrontato la questione delle tipologie della forma dello
Stato moderno. Nella presente fase di graduale ‘riforma dello Stato’ accentrato,
essa suggerisce che non esiste un modello di decentramento politico e di regionalizzazione ottimali e definiti, quindi riferibili a tutti gli Stati. Compito dell’analisi
può unicamente essere, come viene autorevolmente osservato, quello di “suggerire spunti e soluzioni che possono venire utilizzati con successo anche al di fuori
degli Stati in cui hanno preso inizialmente consistenza e rilievo”29.
Qualche ultima considerazione può essere aggiunta. Una prima riguarda lo sviluppo delle argomentazioni svolte in precedenza con riferimento alle ragioni della
diffusione del decentramento politico, del regionalismo, nei Paesi dell’Europa occidentale. Si deve osservare, sotto tale profilo, che il regionalismo e le autonomie
territoriali costituiscono la risposta ad un profondo bisogno di cambiamento nelle
procedure istituzionali e nella organizzazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini,
sia per quanto concerne la partecipazione politica che l’amministrazione dei servizi. Le analisi (recenti o risalenti) sulla ‘crisi dello Stato sociale’ insistono, infatti, sulle difficoltà registrate dal central government rispetto al sovraccarico delle
domande del Welfare State, soprattutto laddove – come in Italia – si è registrato
un processo di espansione accentuata delle burocrazie statali e parastatali, che
hanno (non di poco) politicizzato l’azione amministrativa30.
La tendenza generalizzata al decentramento politico, nelle forme più o meno
spinte della regionalizzazione e la costituzione di livelli ulteriori di governo locale, registrano, così, una risposta istituzionale che va nella direzione della ristruttuCfr. P. Biscaretti di Ruffia, op. cit., p. 1698.
Ult. op. cit., p. 1698.
30 Tale è in particolare l’orientamento espresso in più occasioni da Y. Mény, di cui cfr. l’“Introduzione”
all’esperienza francese dei rapporti centro-periferia, in AA.VV. (Archivio I.S.A.P.), Le relazioni centro-periferia,
Milano, 1984, p. 2459. Tale orientamento era tuttavia già ben presente negli studi precedenti di questo studioso,
di cui si può ricordare almeno “Crises, régions et modernisation de l’État”, in Pouvoirs, 1981, 19; “Checks and
balances à la française: les rapports de l’État et des collectivités locales”, in AA.VV., L’ente intermedio. Esperienze straniere e prospettive di riforma in Italia, Milano, 1981. Con riferimento all’esperienza italiana viene
chiaramente sottolineata la tesi secondo cui “la riforma regionale ha rappresentato senza dubbio la più importante riforma istituzionale effettuata in Italia non solo durante il periodo repubblicano ma di tutta la storia nazionale
... “ (così E. Cheli, in Dix ans de régionalisation en Europe. Bilan et perspectives (1970-1980), Paris, 1982, p.
195). Sul punto cfr. anche F. Pizzetti, “Il sistema delle regioni e dell’amministrazione locale” (p. 493) in
AA.VV., Verso una nuova Costituzione, Milano, 198; S. Gambino (a cura di), Dirigenza pubblica e innovazione
amministrativa, Rimini, 1992.
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SILVIO GAMBINO
razione degli apparati amministrativi centrali verso un’organizzazione amministrativa territoriale più articolata e una maggiore flessibilità del sistema amministrativo locale. Il fine che si vuole perseguire sembra quello di attenuare gli effetti
dell’eccessiva centralizzazione delle funzioni e degli apparati nonché della eccessiva separazione della rigida distribuzione dei poteri fra i diversi livelli di governo. È opinione diffusa che una simile ristrutturazione dei livelli di governo potrebbe anche consentire più adeguate e differenziate politiche locali, con il contestuale riconoscimento sia dell’esigenza di un controllo della spesa pubblica (ad
opera di meccanismi di cooperazione inter-governativa o di federalismo cooperativo31) sia dello sviluppo di politiche economiche e sociali, con un maggiore
coinvolgimento del sistema amministrativo locale. In termini più immediati, si
potrebbe assumere che la centralità della questione del decentramento politico e la
conseguente rilevanza, di natura sussidiaria, riconosciuta ai poteri locali, sia negli
ordinamenti legislativi-costituzionali che nei rapporti politico-istituzionali, costituiscono una sorta di riforma costituzionale ‘dal basso’, che interviene spesso a
surrogare la mancata riforma dell’ordinamento costituzionale e amministrativo.
La riforma nell’assetto complessivo dei poteri statali, fondativa di una nuova
distribuzione del potere a livello territoriale32, può considerarsi, in tal senso, come
31 Tale è anche l’orientamento di G. De Vergottini, in “Regioni e stato nella dinamica istituzionale. Considerazioni comparative”, Relazione alla Conferenza per la cooperazione fra le regioni del mediterraneo (Assemblea regionale Sicilia, Palermo, 27-28 ottobre 1984), p. 13 e in “Modelli comparati di autonomie locali”, in
AA.VV. (Camera dei deputati e Senato della Repubblica), Organizzazione e diritto delle regioni, 1982 (suppl. n.
4 al Bollettino di legislazione e documentazione regionale), p. 77. La tesi che si fa maggiormente sottolineare in
dottrina per giustificare il processo di centralizzazione consiste nell’osservare che nei paesi con regionalizzazione in atto (il caso italiano appare particolarmente illuminante sotto questo profilo) il trasferimento di mezzi finanziari (ed anche di personale, come nel caso francese) non risulta adeguato o anche solo corrispondente a
quello delle competenze trasferite. Inoltre, le risorse trasferite risultano ampiamente condizionate da decisioni
provenienti dal potere centrale; si hanno in tal modo fondi a destinazione vincolata contrattazione nazionale per
il personale delle regioni e delle collettività locali. Per l’analisi dell’ordinamento interno antecedente alle recenti
riforme legislative e costituzionali, cfr, anche S. Gambino e L. Ammannati, Deleghe amministrative e riassetto
dei poteri locali, Rimini, 1991, nonchè S. Gambino e P: Urbani, a “Le deleghe agli enti locali di fronte
all’attuazione della L. 142/90”, ricerca pubblicata (come numero speciale) da Regione e governo locale, 1991, 34.
32 Per un approfondimento di questa tesi, nella dottrina italiana cfr. almeno G. Bognetti, “Le regioni in Europa ... cit., secondo il quale “una riforma del procedimento amministrativo e un radicale mutamento del rapporto fra partiti politici e pubblica amministrazione” (p. 1121) costituiscono una scelta obbligata laddove “si pensasse di rinforzare il ruolo delle regioni italiane”. Analogamente, sottolinea il ruolo dei partiti come “elemento
frenante nel processo di emancipazione dell’autonomia regionale” S. Bartole (“Il caso italiano”, in Le regioni,
1984, 3, p. 424). Allo stesso orientamento di pensiero perviene l’analisi di chi scrive, con riferimento alle difficoltà registrate dalle autonomie locali infra-regionali nel loro processo storico di attuazione (così in “Politica e
istituzioni nella riorganizzazione dei poteri locali” in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1990, n.
88). Per un approfondimento di questo orientamento appaiono centrali le analisi svolte da J. Chevallier, “La réforme régionale”, in J. Chevallier e altri, Le pouvoir régional ... cit., p. 175 ss. Y. Mény avanza come ipotesi
interpretativa della recente riforma del decentramento (in Francia) una tesi sulle riforme regionali e locali che si
può riassumere nella mera “redistribuzione del potere fra le élites” (così in “Amministrazione statale ... cit., p.
560). La riforma in realtà non cambierebbe “il modo di governare alla periferia”; essa cerca soltanto di “operare
una sostituzione dei beneficiari” (p. 560). Nello studiare il potere locale, una tendenza omologa, nella dottrina
italiana, sottolinea l’insufficienza delle tradizionali categorie giuridiche fondative del governo locale, come quel-
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
11
una reazione di adeguamento ai nuovi contenuti e finalità delle politiche pubbliche (finalizzate al miglioramento nella gestione dei servizi pubblici) ma, al contempo, una reazione di adattamento nelle stesse forme istituzionali, ispirata alla
razionalizzazione amministrativa e al miglioramento dei rapporti fra Stato e cittadini.
Tuttavia, tale analisi, forse tributaria in modo eccessivo del modello giuridico
di ‘autonomia locale’, potrebbe risultare limitata se non si aggiungesse che la effettività di un modello di autonomia politica delle istituzioni regionali e locali non
può farsi meramente consistere nella definizione di nuove regole e nell’istituzione
di nuovi organi se mancano i soggetti comunitari interessati e capaci di promuoverne in modo efficace il funzionamento. Come si può facilmente osservare, si
avverte, a questo livello, l’esigenza di un approfondimento dell’analisi che muova
dall’approccio giuridico verso quello della scienza amministrativa, alla ricerca
degli stessi impatti sulle istituzioni territoriali della classe politica e dello stesso
grado di effettualità degli ordinamenti autonomistici33. L’inadeguatezza dello assetto autonomistico a svolgere in modo efficace i compiti istituzionamente riconosciuti al livello del governo locale e regionale, così (sia pure in modo differenziato nelle diverse esperienze nazionali), trova una sua spiegazione non certamente secondaria nel processo di ‘iper-partecipazione’ svolto dai partiti politici e nel
condizionamento dell’autonomia politica locale da parte delle decisioni nazionali
dei partiti, come pure dei sindacati e degli altri più rilevanti centri di potere politico e politico-economico. Le Regioni e le autonomie politiche locali, così, secondo
un’analisi che è generalmente condivisa vivrebbero in una sorta di condizione di
ostaggio del sistema politico-partitico. La svalorizzazione della funzione degli ordinamenti regionali e locali come “veicoli di valida democrazia” e strumenti di
razionalizzazione nel governo dell’economia e del territorio nonché della gestione
dei servizi sociali evocherebbe quei rischi, già opportunamente sottolineati e che
appaiono di attualità, secondo cui “in una grande atmosfera di disincanto per valori che trascendono, di scarsa speranza di un futuro il cui conseguimento giustifichi i sacrifici presenti, le Regioni sì convertano in semplici mezzi istituzionali attraverso i quali gruppi determinati cerchino di strappare per sé, senza riguardo per
altri e per gli interessi comuni, quanti più vantaggi immediati sia loro dato di conla di ‘autonomia locale’. Ispirandosi a una concezione funzionalista dello stato, concepito come ‘macro-sistema
organizzativo’, essa ritiene che, in presenza di una sostanziale omogeneità dei fini e dei valori delle élites centrali e di quelle periferiche, non avrebbe molto senso parlare di autonomia locale, di centralismo, di gerarchia,
quanto piuttosto di meri “rapporti inter-governativi”, di “reti di relazioni”, di “sovrapposizione-coordinamento
fra sfera pubblicistica e sfera sociale” (in tal senso B. Dente, Governare la frammentazione. Stato, regioni ed
enti locali in Italia, Bologna, 1985).
33 Sur ce point voir aussi G. Guarino, Quale Costituzione?. Saggio sulla classe politica, Romea 1980 e dello
stesso autore “Superdimensionamento della classe politica e disfunzione del sistema”, in Quaderni costituzionali, 1983, 3. Cfr. anche i nostri “Istituzioni e politica nella riorganizzazione dei poteri locali”, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1990, 88 e “Le riforme istituzionali tra patto costituzionale e crisi dei partiti”, in
Politica del diritto, 1991, 2.
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SILVIO GAMBINO
seguire: e che, nella generale debolezza del sistema essi siano in grado di attuare
il loro scopo”34.
3. Distribuzione delle competenze a livello territoriale e rapporti fra i livelli istituzionali infra-regionali: cenni sulle più significative tendenze presenti nelle
esperienze europee.
Non è certo il caso di affrontare in questa sede la complessa problematica posta dalla differenziazione concettuale fra sovranità 35 ed autonomia36 specie alla
luce delle torsioni cui la stessa sovranità, come elemento indefettibile della statualità degli ordinamenti giuridici è da tempo sottoposta. Parrebbe sufficiente, così,
richiamare quell’impostazione dottrinaria secondo cui le entità infra-statuali godono di una mera autonomia politico-costituzionale, vale a dire di una potestà derivata limitata nel suo concreto esercizio da parte dello stesso potere costituente.
In una panoramica molto generale delle esperienze più significative sia a livello europeo che a livello nord-americano, sia pure in modo essenziale, nell’analisi
che segue, si darà conto delle principali modalità di organizzazione dei poteri dello Stato contemporaneo, di quella che d’ora in poi chiameremo forma federale o
unitaria a base regionale. Inoltre, ci si soffermerà sui caratteri, formali e materiali,
delle norme relative all’organizzazione politico-istituzionale delle entità infrastatuali all’interno di stati unitari a base regionale, per poi passare all’analisi della
distribuzione delle competenze e all’analisi dei rapporti esistenti all’interno dei
livelli infrastatali (regionali e locali). Più specificamente, l’attenzione sarà volta,
con ottica comparatistica, dapprima, alla presenza/consistenza di clausole di omogeneità o di altri eventuali limiti costituzionali (espressi o impliciti) alla autonomia organizzativa e istituzionale delle entità territoriali infra-statali nonché ai
procedimenti di approvazione e di revisione delle fonti di autonomia.
L’argomento è di indubbio interesse per l’esperienza italiana stanti i nuovi spazi
di normazione che le ultime novelle costituzionali (leggi costituzionali 1/99 e
3/01) hanno riconosciuto alla fonte statutaria regionale, specie con riferimento alla configurazione di peculiari forme di governo37. Si tratterà, allora, di verificare
34
Cfr. G. Bognetti, “Le regioni in Europa: alcune riflessioni sui loro problemi e il loro destino”, in Le regioni, 1984,6, pg. 1133.
35
Sul punto cfr., di recente, la sent. n. 365 del 2007, con le note di commento di B. Caravita, “Il tabù della
sovranità e gli ‘istituti tipici di ordinamenti statuali di tipo federale in radice incompatibili con il grado di autonomia regionale attualmente assicurato nel nostro ordinamento costituzionale’”, in federalismi.it (n. 22/2007) e
di O. Chessa, “La resurrezione della sovranità statale nella sentenza n. 365 del 2007”, in Le Regioni, 2007.
36 Fra gli altri, cfr. AA.VV., Tecniche di normazione e tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali, Torino,
2007; T. Groppi (a cura di), Principio di autonomia e forma dello Stato. La partecipazione delle collettività territoriali alle funzioni dello Stato centrale nella prospettiva comparata, Torino, 1998.
37
Cfr. M. Olivetti, Nuovi Statuti e forma di governo delle Regioni, Bologna, 2002. Nell’ampia bibliografia
sul punto cfr. anche le Relazioni di A. Ruggeri, M. Volpi, M. Carli, M. Olivetti, R. Bin, e S. Gambino al Convegno "La forma di governo regionale alla luce della sentenza n. 2 del 2004 della Corte costituzionale" (Facoltà di
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
13
se (e in che misura) il caso italiano costituisca un’eccezione nel panorama comparato ovvero affatto peculiare è (o meglio sarà) la configurazione che i legislatori
regionali italiani vorranno dare ai rinovellati Statuti.
3.1. Breve panoramica di tipo comparato
In una breve panoramica di tipo comparato38, si può osservare che, secondo la
Costituzione degli Stati Uniti (art. IV sez. IV), ogni Stato membro dell’Unione
deve darsi una Costituzione con forma di governo repubblicana con ciò ammettendosi, implicitamente, la possibilità di elementi di differenziazione purché compatibili con il principio repubblicano. Eppure, come è noto, gli Stati della federazione statunitense presentano una uniformità pressoché completa per i sistemi elettorali adottati nonché caratteristiche molto similari per quanto concerne la organizzazione istituzionale (in ognuno degli Stati si ripete l’assetto dei poteri in
base al modello ripartito – esecutivo, legislativo e giudiziario) – , tant’è che il figurino istituzionale si differenzia soprattutto a seconda del potere effettivamente
esercitato dal Governatore e, più in generale, degli status funzionali di ciascuno
dei tre poteri sotto il profilo della durata dei mandati, delle competenze, dei requisiti di eleggibilità e/o incompatibilità. Inoltre, le costituzioni statali sono assai più
estese e dettagliate di quella federale.
La Costituzione federale austriaca garantisce sì ai Lander autonomia costituzionale ma si tratta di un’autonomia assai limitata. A norma dell’art. 99, la Costituzione del Land deve essere emanata con legge costituzionale provinciale, potendo, in quanto non venga modificata la Costituzione federale, essere emendata
con legge costituzionale federale.
Gli ambiti di autorganizzazione delle collettività territoriali belghe, così come
delineati dalla Costituzione federale del 1993 (e dalla successive revisioni del
2001 e del 2002-2003, sono ancora alquanto ristretti rispetto alla situazione giuridica in cui versano i Laender austriaci. Con la revisione costituzionale del 2001,
in particolare, alle Regioni vengono attribuite nuove e importanti competenze in
materia di politica agricola, pesca marittima ed esportazioni nonché in tema di
composizione, organizzazione, competenza e funzionamento delle istituzioni provinciali e comunali, elezione degli organi provinciali, comunali e intercomunali;
cambiamenti e rettifiche dei confini delle Province e dei Comuni 39. Tale valorizzazione del livello regionale, tuttavia, si accompagna, con la previsione di imporScienze Politiche dell'Università della Calabria, 5/3/2004), i cui atti sono stati pubblicati in Le istituzioni del federalismo, 2004, nn. 2/3.
38
Per un’analisi più approfondita sul punto cfr. anche S. Gambino (a cura di), L’organizzazione del governo
locale. Esperienze a confronto, Rimini, 1992.
39 Di recente, cfr., sul punto, L. R. Sciumbata, “Un modello di Stato federal: il Belgio”, in www.issirfa.it
(29.12.2007).
14
SILVIO GAMBINO
tanti limiti imposti agli enti locali, quanto al relativo potere di adottare regolamenti, ordinanze o, comunque, “atti contrari a leggi o decisioni dell’autorità
federale, cosi come delle Comunità, spettando eventualmente ad essi una competenza unicamente esecutiva” 40.
L’autonomia dei cantoni svizzeri in materia di organizzazione costituzionale è
ora espressamente prevista nella nuova Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 2000) e specificamente all’art. 47 ove si stabilisce che la Confederazione
salvaguarda l’autonomia dei cantoni. La tradizionale autonomia organizzativa dei
cantoni svizzeri ha consentito che si conservassero istituti anche assai risalenti
quale, ad esempio, il Landesgemeinde. Secondo la Costituzione elvetica, dunque,
i cantoni possono disciplinare nella propria Costituzione la loro interna struttura
ed organizzazione purché nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Costituzione federale. Tali limiti sono ora enucleati dall’art. 51 secondo cui “Ogni Cantone si dà una
costituzione democratica” che richiede “l’approvazione del Popolo” e che “deve
poter essere riveduta qualora la maggioranza del Popolo lo richieda”, laddove
l’ormai abrogato art. 6 della Costituzione del 1874 limitava l’autonomia costituzionale dei cantoni al rispetto della forma di governo repubblicana, rappresentativa e democratica. Le costituzioni cantonali necessitano, dunque, di una prova referendaria dovendo essere approvate dal popolo e devono, altresì, assicurare
all’elettorato il diritto di iniziativa costituzionale. Onde assicurare il principio di
cui all’art. 49 (1), secondo cui “il diritto federale prevale su quello cantonale contrario”, l’art. 51 (2) prevede che le “costituzioni cantonali debbano ottenere la garanzia federale” e tale garanzia è conferita nella misura in cui la “costituzione
cantonale non contraddice al diritto federale”. Ciò significa che le costituzioni
cantonali devono essere approvate dal Parlamento federale anche dopo ogni modifica parziale e che, nella loro interna strutturazione ed organizzazione, i cantoni
devono far sì che il diritto federale possa esservi applicato. Con riferimento alla
forma di governo i cantoni avrebbero potuto prevedere assetti relazionali tra i poteri assai dissimili tra di loro, poiché tale materia rileva dalla loro autonomia costituzionale sempre, però, nel rispetto del principio democratico. Anche nel caso
della confederazione elvetica si è assistito al fenomeno noto come “mimetismo
istituzionale” per cui vi è stata una sensibile omologazione delle forme di governo
cantonali alla forma di governo direttoriale. I membri del governo (il cui numero
varia da cantone a cantone) sono eletti direttamente dal corpo elettorale utilizzandosi, generalmente, il sistema maggioritario (solo nel Cantone di Zug ed nel Canton Ticino l’organo collegiale di governo viene eletto con il sistema proporzionale)41.
Ult. op. cit.
Per un’analisi di tale forma di Stato e di gverno, di recente, cfr. R. Louvin, “La forma di governo svizzera”, in S. Gambino (a cura di), Forme di governo. Esperienze europee e nord-americana, Milano, 2007.
40
41
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
15
Particolarmente interessanti sono i fondamenti ed i limiti dell’autonomia costituzionale dei Laender tedeschi, pur se le loro Costituzioni sono state qualificate,
da una parte della dottrina tedesca, come delle “belle addormentate nel bosco”, a
voler sottolineare contestualmente la loro ridotta pregnanza pratica ma anche le
loro potenzialità inespresse. Per D. Schefold “da un punto di vista sistematico e
per il concetto di Stato federale, l’autonomia costituzionale dei Laender è essenziale. Se i Laender sono Stati, benché federati, gli stessi devono disporre di tutti
gli elementi di Stati almeno potenzialmente completi, e se vogliono essere Stati
costituzionali, come la Repubblica federale”42 allora sono proprio le Costituzioni
dei Laender a costituire “un elemento essenziale del sistema giuspubblicistico tedesco”43. È nell’art. 28.I GG che si rinvengono i principi cui le costituzioni degli
Stati membri della federazione tedesca devono conformarsi (c.d. “clausola di omogeneità”) ed è sempre da questa disposizione che si evince come ai Laender
sia riconosciuta la libertà di determinare autonomamente, entro i prescritti limiti,
il proprio ordinamento costituzionale ed istituzionale. L’art. 28 I GG, nello specifico, impone alle Costituzioni dei Laender di conformarsi ai “principi dello Stato
di diritto, repubblicano, democratico e sociale ai sensi di questa Legge Fondamentale” ed esige la presenza in ciascun Land di un organo rappresentativo del
popolo, eletto a suffragio universale e diretto, con voto libero, segreto ed eguale.
Tale clausola di omogeneità non si limita, però, a prefissare i paletti all’interno
dei quali i Laender esercitano il proprio potere di autorganizzazione ma costituisce, in positivo, “un riconoscimento ed una garanzia nei confronti del Bund”44.
Secondo la giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco, infatti, l’art. 28 I
GG “vincola i Laender ai principi costituzionali fondamentali colà indicati e con
ciò vuole realizzare una certa omogeneità; ma non richiede, per il resto, alcuna
uniformità o conformità”45; anzi, la Legge Fondamentale, partendo dal principio
dell’autonomia costituzionale dei Laender, esigerebbe “soltanto un minimo di
omogeneità” e, dunque, richiederebbe una interpretazione restrittiva dei contenuti
dell’art. 28 I GG 46. Come è stato affermato molto più rilevante è quanto l’art. 28 I
GG non dice poiché, in definitiva, il “taciuto” sostanzia la portata pratica
dell’autonomia costituzionale dei Laender: "niente sul sistema elettorale, che può
... essere proporzionale o maggioritario; niente sulla forma di governo che può razionalizzare più o meno il sistema parlamentare; niente su un capo dello Stato ...;
42 Cfr. D. Schefold, “Federalismo, regionalismo e riforma del federalismo tedesco”, Relazione al X Convegno italo-spagnolo (Certosa di Pontignano, 9-10 giugno 2006), ora anche in astridonline.it (2006).
43 Ult. op. cit.
44 Ult. op. cit.
45 Ult. op. cit.
46 Sul punto cfr. anche il nostro “Regioni e diritti fondamentali. La riforma costituzionale italiana nell’ottica
comparatistica”, in S. Gambino (a cura di), Regionalismo, federalismo, devolution, Milano, 2003.
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SILVIO GAMBINO
niente su elementi di democrazia diretta, niente di esplicito sulla competenza del
Parlamento ...”47. Non costituendo una eccezione nel panorama comparato, anche
nel caso della Germania federale, tutti i Laender hanno optato per un assetto relazionale tra i poteri ispirato al modello parlamentare e, dunque, sulla derivazione
del governo dall’organo legislativo cui è legato (in diversa guisa) da un rapporto
fiduciario.
Ancora più peculiare è il caso delle fonti di autonomia nello Stato autonomico
spagnolo. Il carattere sostanzialmente aperto del disegno di ripartizione territoriale delle competenze contenuto nella Costituzione spagnola del 1978 è, probabilmente, tra i fattori che necessariamente devono essere considerati al fine di comprendere natura, ruolo e limiti degli Statuti delle Comunità autonome48. Essendo
assai rilevante ai fini della costruzione di uno Stato democratico di diritto il decentramento territoriale del potere, il costituente spagnolo del ‘78 ha pensato a delineare i procedimenti per ottenere l’autonomia regolamentando, però, in maniera
minima la materia statutaria ossia quegli elementi che obbligatoriamente devono
essere presenti in ogni Statuto autonomico. Certamente, il potere di cui godono le
CCAA nel delineare i propri Statuti non è esente da vincoli costituzionali; come si
fa notare, infatti, la Costituzione spagnola ha previsto strumenti per assicurare un
“minimo di uniformità dogmatica e strutturale”, tra i quali sicuramente rilevante è
la clausola di cui all’art. 149.1.1 concernente l’eguaglianza fondamentale territoriale in materia di diritti e di doveri.
Paradossalmente un minimum di configurazione istituzionale è stato previsto
per quelle Comunità autonome il cui processo di attuazione si sarebbe svolto secondo quanto previsto dai meccanismi di cui all’art. 151 CE (Comunità autonome
di via rapida) e che, ab initio, avrebbero goduto di un livello superiore di competenze. Per queste ultime l’art. 152 prevede che l’organizzazione istituzionale debba fondarsi “su un’assemblea legislativa eletta a suffragio universale secondo un
sistema di rappresentanza proporzionale che assicuri, inoltre, la rappresentanza
delle diverse zone del territorio; un Consiglio di governo con funzioni esecutive
Ult. op. cit.
Cfr. E. Aja, El Estado Autonómico. Federalismo y hechos diferenciales, Madrid, 1999; R. Blanco Valdés,
“Nacionalidades históricas y regiones sin historia”, in Parlamento y Constitución, 1997, n. 1; E. Fossas – F. Requejo (coord.), Asimetría federal y Estado plurinacional, Madrid, 1999; J. López Aguilar, “¿Con-federalismo en
España?: el pálpito nacionalista en la España autonómica como problema político y problema constitucional”, in
Claves para una reforma constitucional (A. Porras – G. Ruiz-Rico, coord.), Sevilla, 2001; G. Ruiz-Rico Ruiz,
Los límites constitucionales del Estado Autonómico, Madrid, 2001; J.J. Solozábal Echavarría, Las bases constitucionales del Estado Autonómico, Madrid, 1998; G. Trujillo, “Homogeneidad y asimetría en el Estado autonómico: contribución a la determinación de los límites constitucionales de la forma territorial del Estado”, in Documentación Administrativa, 1993, nn. 232-233; Gerardo Ruiz-Rico Ruiz, “La potestà statutaria delle comunità
autonome in Spagna”, e R. Blanco Valdés, “Cinque tesi sul decentramento in Spagna”, ambedue in S. Gambino
(a cura di), Il ‘nuovo’ ordinamento regionale. Competenze e diritti. Confronti europei (Spagna, Germania e Regno Unito), Milano, 3003.
47
48
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
17
ed amministrative, e un Presidente, eletto dall’Assemblea tra i suoi membri e nominato dal Re, cui spetta la direzione del Consiglio di Governo, la suprema rappresentanza della Comunità e l’ordinaria rappresentanza dello Stato in essa. Il
Presidente e i membri del Consiglio di Governo sono politicamente responsabili
davanti all’Assemblea”. Tuttavia, anche la configurazione istituzionale delle Comunità “di via lenta” (di cui all’art. 143 CE), in virtù dei Patti Autonomici del
1981, è poi rimasta all’interno del modello parlamentare (sebbene razionalizzato),
prevedendosi per tutte le Comunità autonome un Parlamento con potestà legislativa, un esecutivo regionale responsabile di fronte ad esso e la figura del Presidente della Comunità (al vertice anche dell’esecutivo regionale).
Rimane, comunque, una peculiarità che va nella direzione di condizionare fortemente la libertà statutaria in materia di forma di governo autonomica delle
CCAA “di via rapida”. Il modello di governo presupposto dall’art. 152 CE si
muove intorno a dispositivi organizzativi tipici del sistema parlamentare delegittimando costituzionalmente ogni tentativo di ingegneria istituzionale volto a configurare nelle CCAA di via rapida modelli di governo semipresidenziali o presidenziali (in modo paradossale, le Comunità Autonome di via rapida hanno, teoricamente parlando, un margine di discrezionalità minore circa la propria forma di
governo rispetto alle Comunità di via lenta essendosi palesato un certo congelamento costituzionale della loro struttura politico–istituzionale di base; per le
CCAA di via lenta vi è, invece, una decostituzionalizzazione della forma di governo che astrattamente consentirebbe di optare per modelli alternativi a quello
parlamentare).
Dal punto di vista della natura degli Statuti delle Comunità autonome occorre
sottolineare come essi siano approvati con legge organica (che richiede la volontà
espressa della maggioranza assoluta) da parte delle Cortes generali, In tal guisa,
pur essendo definiti dalla Costituzione spagnola come la norma istituzionale basica della comunità autonoma, gli Statuti devono essere considerati come il risultato
della confluenza di due volontà istituzionali, quella statale e quella regionale. A
fronte, peraltro, del monopolio statale in ordine al procedimento di revisione costituzionale che non vede, quindi, giuridicamente coinvolta la volontà delle Comunità autonome (mancanza di un vero senato federale), sono le assemblee regionali autonomiche a disporre della capacità di avviare i procedimenti per la revisione degli Statuti. L’art. 147.3 CE, infatti, opera un mero rinvio a quanto stabilito negli Statuti di autonomia in ordine alla riforma degli stessi, salvo precisare
che, in ogni caso, è necessaria l’approvazione delle Cortes Generali con legge organica.
3.2. Livelli infra-regionali: distribuzione delle competenze ai diversi livelli istituzionali locali.
18
SILVIO GAMBINO
Se ora passiamo all’analisi dei livelli infraregionali49, si può osservare che
l’analisi delle competenze attribuite agli enti locali. nella loro diversa denominazione ed articolazione, degli Stati europei, è stata fin qui – con poche eccezioni –
oggetto di scarsa attenzione da parte della dottrina e da parte delle stesse istituzioni comunitarie. In tale direzione, si può ricordare una significativa eccezione
che, a metà degli anni ‘80, vede il Consiglio di Europa avviare un’indagine fra i
Paesi membri della C.E.E. finalizzata a cogliere, innanzitutto, se le amministrazioni locali fossero titolari di competenze proprie o condivise con altri livelli di
amministrazione e di governo locale e, in secondo luogo, se gli stessi le avessero
esercitate a titolo proprio o quali delegatari di altri livelli o autorità pubbliche. I
risultati di quella indagine costituiscono tuttora un dato obbligato di partenza nello studio della localizzazione delle competenze e dei connessi rapporti interamministrativi operanti a livello infranazionale.
Nello studio della localizzazione delle funzioni pubbliche ai livelli territoriali
ritenute di volta in volta, nelle diverse realtà statali, maggiormente adeguati ad esercitarle, una prima questione riguarda il tema della concreta articolazione degli
enti locali. Diversi fattori – da quello geografico a quello demografico e storico –
possono spiegare, per ogni realtà nazionale, le soluzioni concretamente accolte
negli ordinamenti territoriali e in concreto la scelta fra uno, due o tre livelli di articolazione istituzionale dell’amministrazione locale. Alcuni paesi, rispetto agli
altri, in tal senso, vedono accentuate le proprie specificità. Si possono ricordare,
sotto tale profilo, il caso portoghese e quello inglese. Nel primo caso si registra
l’esistenza di circa 4.000 parrocchie (fraguesias), collocate a livello infracomunale e titolari di importanti funzioni di servizio alla persona, esercitate anche in collaborazione con il livello comunale. Il caso inglese, con le sue 10.000 parrocchie
(e le 800 communities del Gales), si caratterizza, a sua volta, per un’integrazione
dei livelli di amministrazione locale infracomunale ed una complementarietà di
livelli amministrativi di base con i consigli di distretto che esercitano competenze
primarie in materia di servizi alla popolazione.
Quanto poi alla concreta distribuzione delle competenze ai diversi livelli istituzionali locali, si evidenzia come non possa che parlarsi comunque di situazioni
‘medie’, dovendosi necessariamente tenere in conto le informazioni sulla distribuzione delle competenze che sono state acquisite con il concorso degli enti territoriali medesimi e dunque dovendo necessariamente mettere in conto una rappre49
Per un approfondimento sul punto cfr. anche i nostri “Regionalismo e federalismo nell’evoluzione della
forma di Stato contemporanea. Riflessioni comparatistiche a partire dall’esperienza italia”, in T. Groppi ( a cura
di), Principio di autonomia e forma di Stato, Torino, 1998; “Etat et pouvoirs locaux. Quelques réflexions comparatives sur les tendances de la décentralisation politico-institutionnelle à partir du cas italien”, in AA.VV.
(Actes Colloque de Nancy, 6-8 novembre 1997), Les mutations de l’Etat-nation en Europe à l’aube du XXIe
siècle, Strasbourg, 1998; S. Gambino (a cura di), Stati nazionali e poteri locali. La distribuzione territoriale delle competenze. Esperienze straniere e tendenze attuali in Italia, Rimini, 1998.
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
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sentazione delle questioni così come suggerita dagli stessi attori nazionali. Né,
d’altra parte, sotto tale profilo, si registrano differenze di rilievo fra gli Stati a base federale e quelli unitari fondati sul decentramento. Tuttavia, dai dati disponibili
– soprattutto negli Stati unitari a base regionale (soprattutto Italia, Spagna e Belgio fino al 1993) – si può rilevare una certa incertezza nella definizione dei compiti (gestionali e non) fra livello regionale e locale, che comporta, come conseguenza, una significativa incisione sulle competenze proprie dei livelli infraregionali. Tale compressione nell’autonomia gestionale degli enti locali risulta anche
dal riconoscimento alle istanze regionali del potere di elaborare politiche in importanti settori, come quello della salute, dell’ambiente, dell’energia, della casa.
L’analisi dei casi nazionali in materia di riparto delle competenze evidenzia,
così, due significative tendenze, che saranno qui essenzialmente richiamate dopo
una breve premessa introduttiva al tema. Il quadro delle competenze risultante
dalla legislazione più recente – fino alle più recenti scelte ispirate al principio di
sussidiarietà – evidenzia, innanzitutto, il ricorso, più che ad astratte definizioni di
funzioni di ambito locale, a competenze enumerate e alla loro localizzazione ai
diversi livelli territoriali. Invero, le concrete esperienze storiche e la prassi seguita
nei diversi Paesi hanno fatto giustizia, in tale materia, di facili schematismi talora
utilizzati anche nella ricerca comparatistica. Non sembra più trovare grande attenzione, così, il tentativo di alcuni studiosi di inquadrare in modelli rigidi la complessità della realtà amministrativa dei diversi Paesi. D’altronde, a tale considerazione spinge anche l’evoluzione nel tempo del riparto delle competenze, ivi comprese quelle che hanno un proprio statuto di rango costituzionale (un esempio
chiaro è dato dall’insegnamento che è attribuito ai Laender dalla L.F.B. ma di fatto viene esercitato con la collaborazione della Federazione). Infine, l’approccio
nei termini delle political policies evidenzia nel modo più chiaro il contributo necessariamente trasversale, interamministrativo dell’attuazione delle politiche pubbliche. In breve, si può sottolineare come il contributo effettivo di ogni livello
amministrativo locale risulta essere, più che l’attuazione di mere scelte regolamentari e legislative, la concreta apprensione di modalità participative a scelte, a
politiche comuni, le quali sono condizionate in gran parte dai mezzi finanziari e
dalle risorse umane messe a disposizione o concretamente disponibili.
Le due maggioritarie tendenze osservabili nell’analisi empirica delle esperienze di localizzazione delle competenze negli Stati europei evidenziano, innanzitutto, una tendenzale omogenità delle funzioni svolte dagli enti locali, a prescindere
dal meccanismo di riparto concretamente seguito in ciascun Paese e, secondariamente, l’emersione di singole esperienze nazionali che evidenziano situazioni più
contrastate. All’interno di uno stesso Stato, cioè, è dato cogliere una mancata uniformità nella distribuzione delle competenze al livello di base (primo livello)
dell’amministrazione locale. Quanto, poi, all’estensione delle competenze assegnate ai livelli istituzionali infra-nazionali, tranne rare eccezioni osservabili in al-
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SILVIO GAMBINO
cuni Paesi, essa può dirsi ampia, spaziando dalle funzioni relative ai trasporti ed
alle infrastrutture civili ed economiche, fino alle grandi, classiche, funzioni localizzate ai livelli locali (economia, istruzione, cultura, funzione sociale, assistenza,
assetto territoriale e pianificazione urbanistica). Di norma, le esperienze nazionali
osservate evidenziano che gli enti locali esercitano tali funzioni a titolo proprio
nella gran parte dei Paesi; negli altri lo fanno come delegatari di enti sovra–
comunali, per lo più regionali. Per contro, fortemente diffuso è il caso di competenze condivise fra più livelli territoriali; ciò tanto nei Paesi a base federale quanto in quelli a base regionale. Quanto, infine, alla distribuzione delle competenze al
primo livello istituzionale locale, come si è già osservato, l’esercizio da parte di
tutti gli enti locali delle medesime funzioni – in ossequio ad un principio di uniformismo (che è la regola) – registra importanti eccezioni. Fra le esperienze da
richiamare in tal senso è il caso inglese, nel quale si registrano tre tipi di istituzioni di primo livello (i comuni di Londra, i distretti metropolitani e i distretti non
metropolitani) e la differenziazione nell’allocazione territoriale delle competenze.
Ad omologhi criteri si ispira l’esperienza dei comuni spagnoli, che costituiscono
il livello istituzionale di base ma non risultano titolari delle medesime funzioni,
avendo la legge – a metà degli anni ‘80 – differenziato l’assegnazione delle funzioni in ragione del criterio demografico e avendosi, così, diverse tipologie di
comuni (comuni di 5.000, comuni di 20.000 e comuni di 50.000 abitanti). Agli
stessi principi si ispirano, peraltro, il legislatore greco, quello turco e quello austriaco, che con disposizione costituzionale riconoscono ai comuni con più di
20.000 abitanti uno “statuto proprio di diritto comunale”.
In breve, può dirsi che le esperienze di governo e di amministrazione locale,
soprattutto (ma non esclusivamente) europee, evidenziano una netta tendenza a
differenziare nella taglia dei comuni e nelle funzioni dagli stessi concretamente
esercitate, espressione evidente – quest’ultima – di una funzionalizzazione della
ammistrazione locale ai bisogni della popolazione e del territorio. Tale tendenza
sottolinea come, se il principio della distribuzione uniforme delle competenze si
conforma alla eguaglianza teorica dei comuni, esso finisce pero con l’occultare le
differenze di situazione e le disparità più o meno rilevanti fra i diversi livelli amministrativi di primo grado. La questione diviene più complessa se si passa dalla
formale titolarità all’esercizio delle competenze, che dipende dalle concrete capacità finanziarie e di risorse umane e strumentali a disposizione dei comuni. Tale
questione è alla base degli stessi tentativi (spesso falliti) sperimentali negli anni
settanta e ottanta di ridurre il numero dei comuni e di introdurre in via consensuale moduli di cooperazione intercomunale, che costituiscono una sorta di surrogato
della mancata riforma territoriale. Nonostante qualche interessante contributo in
materia, il bilancio di tale ultima questione sembra ancora meritevole di indagine.
Da tali riflessioni di sintesi, può essere utile scendere più nel dettaglio allo
scopo di richiamare le funzioni svolte dal livello intermedio (secondo livello)
IL DECENTRAMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE
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dell’amministrazione locale. L’analisi delle esperienze infranazionali a livello europeo evidenzia, sotto tale profilo che, quando esiste nei diversi paesi un secondo
livello di amministrazione locale (Provincia, Dipartimento, Contea, Kreis, ecc.),
le funzioni svolte da tale livello istituzionale sono di norma meno numerose rispetto a quelle svolte dal comune del corrispondente Paese. Varie spiegazioni
vengono offerte rispetto a tale osservazione.
Le esperienze storiche evidenziano sia una volontà di specializzazione del secondo livello dell’amministrazione locale, sia un’incertezza sul ruolo intermediario di tale livello, infine, una funzione di organo di supporto, di assistenza nei
confronti dei minori enti locali. Un buon esempio del primo modello è data
dall’esperienza inglese. Con la soppressione, a metà degli anni ottanta, delle istituzioni di primo livello, si è pervenuti ad una evidente specializzazione delle funzioni assegnate al secondo livello, che si accompagna con la creazione di diverse
autorità locali operanti nelle reti territoriali in precedenza gestite dalle soppresse
istituzioni di primo livello. Omologhe tendenze, peraltro, sono osservabili nelle
esperienze delle amministrazioni locali della Danimarca, della Svezia e della
Norvegia. In altri casi, si registra una sorta di oscuramento di tale livello e dunque
di incertezza sulle funzioni da assegnare al secondo livello. L’esempio belga prima della riforma costituzionale del 1993 ne costituisce un buon esempio. Lo stesso caso spagnolo può costituire una testimonianza significativa di tale tendenza, a
fronte delle importanti funzioni assegnate alle Comunità autonome; infine, il caso
dei Kreise tedeschi, per i quali, tuttavia, deve ricordarsi la natura istituzionale
propria di “raggruppamento di comuni” e dunque di struttura di collaborazione
intercomunale a sostegno dei comuni che li compongono, il che giustifica, in gran
parte, il rilievo registrato da tale ente. Ne segue, in breve, che la concezione stessa
di tale ente intermedio è, in gran parte, funzione delle diverse situazioni storiche e
al loro interno delle funzioni (non necessariamente fisse e stabili) assegnabili a
tale livello.
Quanto, infine, al livello regionale, l’analisi comparatistica – come si è già detto – evidenzia, sia negli Stati a base regionale sia in quelli a base federale,
l’esistenza di un problema nei rapporti di collaborazione fra livelli centrali e locali
di governo e nella concreta localizzazione di funzioni in corrispondenza a criteri
di optimum dimensionale e funzionale (per popolazione e per territorio). Fra gli
Stati unitari caratterizzati da un decentramento politico e amministrativo (più o
meno forte) si sottolinea, in particolare, il caso spagnolo, nel quale il livello superiore (Comunità autonoma) interviene sia nella determinazione delle competenze
dei minori enti locali sia nella stessa regolazione dell’esercizio delle relative
competenze e nella stessa determinazione (e/o nel relativo controllo) delle politiche settoriali. Le Comunità autonome detengono, così ampi poteri nei confronti di
province e comuni. L’esperienza italiana precedente la revisione costituzionale
del 2000, a sua volta, come è noto, descrive un evidente condizionamento, fino
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SILVIO GAMBINO
alla compressione, dell’autonomia locale in ragione dei poteri di programmazione, di alta amministrazione esercitati dalle regioni ma soprattutto a causa del
mancato ricorso da parte di queste ultime – in ossequio a quanto disposto dall’art.
118, comma 3, Cost. – all’istituto della delega amministrativa, che hanno fatto
della Regione, nella concreta realtà, un ente di governo ma anche di amministrazione attiva. Da un punto di vista formale, in termini di rapporti istituzionali, non
può certo parlarsi, in tale esperienza, di una formale gerarchia fra livello regionale
e livello locale; tuttavia, nella prassi, non è dubbio che possa parlarsi anche nel
caso italiano di un evidente rapporto di gerarchizzazione fra i due livelli territoriali, al pari del caso spagnolo e degli altri che sono stati richiamati in precedenza.
Analogie possono cogliersi nelle due citate esperienze. Esse riguardano tanto
la comune determinazione delle politiche settoriali quanto il fatto che, nelle due
esperienze, il controllo dei minori enti locali viene svolto a livello regionale (in
Italia ciò è ampiamente vero almeno fino alle cd riforme Bassanini). Tale ultimo
elemento è osservabile anche nell’esperienza dei rapporti fra Stati membri e Federazione negli stati federali. Nel caso di questi ultimi sono particolarmente significative l’esperienza elvetica e quella tedesca. Nel caso elvetico, dopo aver osservato come sia ampio l’elenco delle competenze proprie del livello cantonale, non
può comunque non rilevarsi come i rapporti fra questi ultimi ed i comuni siano
diversi e vari. Il caso tedesco, a sua volta, evidenzia nel rapporto fra Laender e
comuni uno stesso tipo di “sottile equilibrio” non formalizzato e cionondimeno
stabile e forte. Pur richiamando come la L.F.B., nell’art. 28, comma 2, riconosca
ai comuni e ai Kreise una garanzia costituzionale, non sembra escludersi, all’osservazione della prassi di questo Paese, una relazione di tipo gerarchico non
formalizzata fra i due livelli di amministrazione locale. Tale principio costituzionale di garanzia non esclude cioè la possibilità di intervento delle autorità dei Laender al duplice livello. Tali autorità (Governo o Ministro), infatti, possono adottare ordinanze che hanno applicazione uniforme in tutto il Land per regolare
l’esercizio di competenze devolute agli enti locali. Le autorità dei Laender dispongono, inoltre, di un potere generale di controllo sugli atti e sugli organi dei
minori enti locali (comuni e Kreise). Nè, d’altronde, può dimenticarsi di osservare
come alle riforme territoriali e funzionali dell’amministrazione locale abbiano
provveduto appunto i Laender, fatto comunque salvo il ricorso al Tribunale costituzionale federale da parte dei comuni e dei Kreise. Nel contesto richiamato, in
breve, si osserva come lo schema federale implica possibilità di intervento ben
più ampie negli Stati federali di quanto non si possano ipotizzare o concretamente
osservare negli stati unitari fondati sul decentramento.
In breve, in una prima approssimazione di tipo conclusivo sul punto, sembra
potersi affermare che, mentre l’azione di Comunità autonome e regioni nei confronti dei minori enti locali sembra esercitarsi in modo prevalentemente indiretto
(soprattutto per il tramite di politiche settoriali), quella dei Lander – pur senza po-
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ter attentare all’autonomia costituzionale degli enti territoriali di base e in modo
apparentemente contraddittorio con l’enfasi assegnata alle formule federalistiche
– si effettua in modo più chiaro e diretto nella disciplina dell’esercizio delle competenze di comuni e Kreise, cioè nella determinazione delle relative competenze.
Ma, più che una differenza di natura, a ben vedere, si tratta di una differenza di
grado, che è certamente suscettibile di evoluzione nel tempo e nello spazio. In una
riflessione conclusiva si può, così, osservare che l’indagine comparatistica evidenzia alcune tendenze generali nell’analisi della distribuzione di poteri e della
localizzazione territoriale delle funzioni. Allorché, nelle esperienze dei Paesi unitari a base regionale esistono due soli livelli di amministrazione locale, il riparto e
la localizzazione dei relativi poteri porta spesso ad una specializzazione delle funzioni del secondo livello, che ha come diretta conseguenza il venir meno di reti
gerarchiche nella disciplina dei rapporti fra i due livelli. In tal caso, le relazioni
che necessariamente si registrano danno vita, di volta in volta, a forme di coordinamento istituzionale (Danimarca, Norvegia, Regno Unito), con la previsione
(spesso) di autorità chiamate a risolvere eventuali conflitti e a forme di cooperazione informali e necessarie fra i due livelli di amministrazione locale ogni qualvolta ciò sia necessario. Tale tendenza, tuttavia, non consente di operare forme di
previsione sulle possibili tendenze future. Per i Paesi a regionalismo maturo e per
i Paesi a base federale due problematiche sembrano profilarsi in modo più netto.
Innanzitutto si osserva come i rapporti fra i due livelli di amministrazione locale,
nonostante ogni diversa impressione, risultano ancora oggi poco noti agli studiosi
ed alle stesse istanze istituzionali comunitarie; ciononostante non vi sia gerarchia
fra comuni e Kreise e in Italia il secondo livello di amministrazione locale si trovi
spesso in tale situazione di incertezza a causa dello sviluppo qualitativo e quantitativo dell’intervento regionale. Inoltre, i rapporti fra Regioni, Comunità autonome, Laender e gli enti locali minori, benché non in modo formale, portano ad una
gerarchizzazione di fatto dei livelli di amministrazione e di governo. Tale tendenza, tuttavia, sembra operare a vantaggio del livello regionale (Regione, Comunità
autonoma o Land), a prescindere dalle garanzie giuridiche di autonomia accordate
di volta in volta ai minori enti locali.
Per rendere maggiormente chiaro il contenuto del processo di revisione costituzionale in materia di rapporti fra Stato e istituzioni territoriali, occorre ora procedere all’analisi dei nuovi assetti definiti dal legislatore di revisione (statuto costituzionale delle regioni e degli enti autonomi della Repubblica, fonti e forma di
governo, per come ridisegnati dagli artt. 114, 117 e 118 Cost.), non senza aver
prima richiamato l’ordinamento regionale–autonomistico per come disciplinato
dal testo costituzionale del 1948.