LA ZUPPA DEL TEMPO – Ebook

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LA ZUPPA DEL TEMPO – Ebook
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Titolo originale dell’opera:
LA ZUPPA DEL TEMPO
Undici cene raccontano un secolo d’Italia
MACCHINA DEI SOGNI
Associazione Culturale Cinema&Scrittura è un motore
alimentato dal propellente della creatività e messo in
moto dalla comunità solidale di tutti gli ingegni impazienti.
Genera conoscenza, connessioni, incontri, alimenta passioni, traduce sogni in scintille e non danneggia l’ozono.
www.macchinadeisogni.org
[email protected]
COLLANA
LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI
Volume 17
© 2015 by MACCHINA DEI SOGNI
Corso NARRATORI DI STORIE
Edizione 2014
Condotto da Chicca Profumo
EDIZIONI AUTOPRODOTTE
Traduzioni previste in tutte le lingue richieste
Progetto MACCHINA DEI SOGNI
Artwork copertina: Francesca Cortesi
Copywriter: Marco Contardi
Coordinamento del progetto: Chicca Profumo
Impaginazione ebook: Francesca Cortesi
Redazione: Marco Contardi e Dora di Blas
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1900-1910-1920-1930-19401950-1960-1970-1980-19902000-2010-1900-1910-1920
1930-1940-1950-1960-1970-1980-1990-2000-20101900-1910-1920-1930-19401950-1960-1970-1980-19902000-2010-1900-19101920-1930-1940-1950-1960
2000-2010
Anni Zero07
1990-2000 Lettera31
1980-1990 Diventare Jeeg
39
1970-1980 Temporaneamente
63
1960-1970 Forse è scoppiata
una caldaia
81
1950-1960 Che Dio mi perdoni!
97
1940-1950 Do in seno
107
1930-1940 Sentimental
117
1920-1930 Parole al vento
133
1910-1920
Infinita varietà
1900-1910 Celestino
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157
175
2000 - 2010
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#2006:
Nel cuore del nuovo millennio, gli anni Zero (detti
pure ‘decennio breve’ per la rapidità delle innovazioni che li segnano), nel Bel Paese una delle news
che più scuotono l’opinione pubblica è il tristemente
noto bunga-bunga. Personaggi fin troppo famosi –
improbabili ma più che probabili – partecipavano a
chiacchieratissime serate eleganti, eccone una vista a mo’ di Cena di Trimalcione del ‘futuro’.
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Anni Zero
Quella ‘pompetta’, in quella stanzetta...
Il maggiordomo di questa che una volta (forse) era una
residenza signorile raccoglie il macabro reperto – non prima
di calzare ad hoc guanti in latex antibatterico – e lo ripone in
una busta a parte rispetto quella in cui getta reggicalze spaiati,
fialette di popper e bustine vuote varie. Sa che non deve fare
domande, e non ne farà. Nessuna illusione, nessuna delusione. Una grottesca atarassia da Mondo Nuovo, nella prima
decade del nuovo millennio e nella ridente Monza-Brianza.
Se quel maggiordomo (potrebbe chiamarsi Alfred? O
Ambrogio?) si volesse un pizzico di bene in più o tenesse
maggiormente alla propria autostima, forse non si troverebbe lì dov’è, ma l’espressione spompata di quel maggiordomo
parla per lui; se è stato fortunato-bravo il suo padrone gli ha
lasciato le briciole, non è cosa ora.
Mica si può sempre ragionare solo con la testa.
Per cui noi quel maggiordomo, Alfred, o Ambrogio, molliamolo qui alla fine dell’intro, che molto probabilmente s’è già
divertito abbastanza. E comunque ha da fare, deve finire le
pulizie – stasera c’è un’altra delle loro cene eleganti – inoltre
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quella pompetta in quella stanzetta è un duro colpo pure per
lui, il film che s’era fatto e il resto.
Dopotutto uno alle proprie idee ci s’affeziona, è brutto
accorgersi sian finte, o ‘gonfiate’, per così dire.
– Chat:
Ohi Maddy, amica-chips!
va’ che ti devo briffare x stasera,
fatti beccare x shopping
bacio Amo...
Ovvio Amo, easy!
Ti chiamo dopo yoga,
mi faccio pure la total-ceretta!
XOXO
Maddy non paccare che t’aspettano,
ho già parlato di te al Boss dei Boss!
Tranquilla amica-chips,
son già gasata dura guarda!
Più tardi, eccole: le due ragazze s’incontrano in centro,
orario aperitivo. Non è che sono belle e appariscenti, è che
la percentuale di torcicolli e cervicali in zona subito impenna ai massimi storici. Sfoggiano leggings, camicie scollate,
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giacchette aperte e taccazzi brillantinati; l’ideale erotico della
Milano bene post-moderna. Loro due sono Madeleine (in arte,
Maria Maddalena in realtà, senza arte né parte), e la sua ‘amica-chips’, aspirante consigliera regionale molto aspirante; già
pericolosamente in tiro per la serata. Una di quelle che contano. Che posson far svoltare.
Tutti quelli che si girano a guardarle invece sono i passanti di una delle vie dello shopping (dov’è facilmente reperibile qualsiasi oggetto del desiderio), indaffaratissime formichine guidate dagli spot del supremo master of puppets. Sempre
a rota, sempre in giro.
Madeleine e la sua amica-chips non sono diverse, solo
più estroverse: in un certo senso passivo-aggressive, e molto
poco passive nell’altro.
Scherzano, berciano e ridono tra loro mentre entrano ed
escono, mai a mani vuote, dalle boutique delle maison più
chic (eccezion fatta per il sexy-shop in cui han passato un’oretta buona), poi si siedono a un tavolino per il Negroni di rito
e subito dopo, mentre Madeleine squadra schifata il malaugurato cameriere che chiede: – Sbagliati? – degnandolo solo
di quattro parole: – Classici, ovvio! Decidi tu? – la sua amica-chips dà inizio a una breve conversazione in cui nessuna
delle due staccherà lo sguardo dal proprio nuovo iPhone con
cover metal-glitter:
– Allora, ti dicevo per stase...
– Di’ amo, che sa di me?
– Il giusto... ci pensi tu poi, no?
– Ovvio, be’ com’è la movida là?
–Tranqui amica-chips! Te non far la timida, non pigliarti
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male e non confonderti nella massa.
– Timida?!... In che senso scusa?
– Eh, ne vedi di ogni; c’è gente per cui è l’occasione della
vita, dalla scappata di casa alle sud-americans, cioè desperation proprio!
– Come desperation amo?
– Massì Maddy, non preoccuparti, fidati di me, loro fanno
il loro, tu stai nel tuo, gli parli di te e bòn.
– Per cui è sicuro che c’è occasione?
– Massì Maddy, easy: la butti sulla cultura, a lui piaccion
’ste cose!
– Ok amo, vediamo. O la va o la spacca!
– Esatto amica-chips! Va’ che c’è la nostra carrozza.
Le ragazze salgono nella rombante auto blu deluxe coi
vetri oscurati e l’amica-chips di Madeleine parrebbe meno
stupita di lei a notare che dentro (nell’abitacolo-privé dietro al
driver) c’è già qualcuno. Un qualcuno ben noto, sapete, uno
che si vede tutti i giorni in tv.
In tanti non troverebbero dissonante l’epiteto ‘il ritratto
del servilismo’ per descriverlo, lui – così fedele, nomen omen
– non ha un lineamento autentico che sia uno; tutto rifatto,
tutto impomatato, cerone e censura. Vestito finto elegante,
blazer blu, camicia bianca aperta, chinos beige e scarpe da
uomo lucide (probabilmente di qualche brand made in Mafia).
Sembra un Visitor che ha indossato di fretta una faccia
umana dopo averla violentata per ore. Chissà...
Omaggia le ragazze con un inchino veritiero tanto quanto
il suo CV da reporter d’assalto, e mentre si presenta – solo a
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Madeleine – lei pensa «Viiiscido!» ma sorride e gli dice piacere, Madeleine, ridendo a una sua mezza battuta di cui neanche ascolta la fine, sveglia abbastanza per intuire che un tipo
così conviene averlo, al limite, più pro che contro.
In ogni caso ha già automaticamente deciso che lui non
le serve.
Lui vuol dire solo tv (però mica la possiede, è la televisione che possiede lui, e fosse solo quello), in più a lei ‘bucare
lo schermo’ non interessa. Non è così che vuole arrivare. Non
sta andando dove sta andando per la tv, quella tv poi, roba
vecchia ormai... Non è attratta come una falena-meteora dal
sottobosco di fiction, quiz o reality cheap, di cui non distingui
se poveri diavoli e white-trash sono gli attori o gli autori, o
entrambi. Non è minimamente il futuro che ha in mente. Non
è questione di essere à la page (è in crisi l'estetica da Tu Vuò
Fà L’American Psycho della decade precedente): è questione
di muovere le leve.
Comandare è meglio che fottere.
Ecco perché dopo aver elegantemente sviato le domande di circostanza sul proprio lavoro in galleria, Madeleine si
limita a dei super ipocriti sorrisi e cenni d’assenso al direttore
della telepropaganda – in pratica il 70/80% di ciò che fa da PR
con buyer e mecenate telemarket-friendly di turno – lasciando
l’amica-chips all’incontro ravvicinato del terzo tipo con l’uomo
dal tono amico e dal viso alieno (per cui, se le rapisce è un
caso di alien abduction).
Mentre il macchinone schizza via da Milano, la città è
tutta un luccichio di sogni infranti e gerarchie rampicanti, invidie, insidie, compromessi e spintarelle. Sguardo fisso fuori
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dal finestrino, un’assente Madeleine vaneggia sul fatto che se
una madunìna che brilla c’è, forse qualche motivo per farlo da
lontano ce l’ha, coerentemente col suo status.
Neanche tre quarti d’ora dalla partenza, l’auto blu vip si
ferma ai cancelli di una villona, sono neri con degli scudetti dorati; un paio di segnali identificativi e codici d’accesso,
dopodiché l’allegra comitiva è nel cortile di una residenza a
dir poco sfarzosa, sfavillante; quindi, nei pressi del porticato
d’ingresso, subito Madeleine viene rapita lontano, in un mondo antico, sfocato e rimosso; fino a ora almeno, che riaffiora
limpido.
È bambina, ascolta favole dalla voce del padre padrone.
«Quella mezza sega t'avrebbe mollata presto» ringhia piano
una voce familiare dentro di lei, giù in fondo. Dove si può sentire o meno: la seconda in questo caso.
Le favole parlano di castelli e principesse, lei è piccola e
crede a tutto, lo vive. Immagina stanzoni in festa, camere piene di vestiti, la servitù persino, coi grembiulini! È il suo paese
dei balocchi privato. Ed è lì... Occhi chiusi, ci si perde nuovamente per un momento.
Riflette. Scenari del genere li aveva visti in brevi flash
sbirciando certe tele (più per diplomazia che per curiosità professionale) di un amico hipster del tipo artistoide. Se azzeccava la giusta dose di allucinogeni e ci si metteva, per essere un
nerd pop-surrealista il tipo faceva roba davvero bizzarra.
Hanno qualcosa di strano pure le favole. Specialmente
quelle raccontate da un padre che prima detta legge e poi
t’abbandona.
Rabbrividisce Madeleine. Ma se ne rende conto solo
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dopo un po’.
Alla sgommata sotto le porte della tana del boss dei
boss, l’uomo con la faccia extraterrestre saluta per nome
l’autista dal device di comunicazione del privé, – Ci vediamo
dopo! – gli sibila ridacchiando, e aiuta le ragazze a scendere.
Galantuomo come richiede la sua etiquette da mondo dello
spettacolo; uno spettacolo immondo. Comunque, dicevamo,
l’uomo col viso da progenie UFO aiuta le ragazze a scendere
dal macchinone: quella più in confidenza ne approfitta e ringrazia, navigata e abituata, l’altra invece sillaba un bel – Faccio
da sola, grazie! – preceduto da uno schiaffo per aria, già molto eloquente di per sé a dir la verità.
Alfred, o Ambrogio, il maggiordomo che accoglie i nostri
eroi, maschera alla grande un’aria distrutta, ma si dimostra
professionalissimo accompagnando i tre all’interno dell’abitazione. Sono gli ultimi, li informa senza ammonizione, e il
padrone li sta attendendo con ansia (da prestazione?); soprattutto la new-entry in arrivo, visto che è l’unica ancora sconosciuta per lui.
Percorrendo l’atrio che dall’ingresso li porta verso la sala
del triclinio – quella equipaggiata per le cene eleganti – il maggiordomo fa da Cicerone dei poveri illustrando a Madeleine e
ai suoi accompagnatori le ricche opere d’arte di questa villa
che porta il nome di un santo (fuori luogo ma non meno di una
‘sexy-suora’ finta-tonta a un talent per cantantini usa e getta).
Negli occhi di Madeleine brillano i riflessi del lusso e
dell’oro tutt’intorno, non le par vero – è un kitsch maestoso,
un flirt di sacro e profano – quasi suona anacronistico un po: 13 :
sto del genere solo per un uomo. O per un uomo solo. Non
cambia granché.
Superato un dedalo di corridoi, saloni e scalinate barocche (altro che il forzato minimalismo less is more cui Madeleine è votata), un paio di piani sotto il maggiordomo riferisce
ai tre – ma come se lo dicesse solo alle ragazze – che sono
arrivati. Infine digita un codice sul tastierino vicino la maniglia per aprire una porta bianca, istoriata da fasulli bassorilievi greco-romani (raffinata al pari del resto della residenza), e
varca la soglia lasciando gli ospiti sull’uscio, a questo punto
ne annuncia l’arrivo al padrone di casa, in attesa di invitare
ufficialmente il trio a sedere tra i festosi commensali.
Al cenno di capo del sorridente boss dei boss il maggiordomo arretra, con un gesto della mano esorta Madeleine,
l’amica-chips e il loro cavaliere a entrare, gli augura una piacevole serata, quindi toglie il disturbo. L’uomo con la faccia
da ET abbraccia le ragazze da dietro e si lancia nella stanza, dritto verso il capotavola dove siede il proprietario di tutto
al fine di presentargliele (o meglio, quella assegnatagli delle
due, l’altra è ‘sua’) e prender finalmente posto al banchetto.
Sia il boss che la di lui cricca si stanno spaccando dalle
risate, tutti belli carichi in pre-serata alcolico; tra gli ospiti sembra sia in atto una gara a chi ghigna più forte e sguaiato. Alla
vista delle due lui si alza cerimonioso; a Madeleine cade l’occhio su quella camicia nera, stile Manero de’ noantri, vestita
senza cravatta con giovanile nonchalance sotto un completo
bianco come le sue scarpine Hogan (orripilante problem-solving footwear made in Italy che ha fatto successo grazie al
tacco nascosto nella suola: la vittoria vien dal basso), e a mo: 14 :
menti le scappa una risata da trattenere all’istante perché lui
le si fa incontro sfilando.
Dopo baciamano e convenevoli galanti – a Madeleine
molto più che all’amica-chips – il padrone di casa e paese fa
una domanda retorica alla tavolata, in modo da ‘poter’ raccontare di nuovo la barzelletta che ha avuto tanto successo. Uno
dei suoi cavalli di battaglia. Proprio questa:
“È una serata danzante. Un primo cavaliere si avvicina
alla dama scelta per ballare, funziona in questo modo: lei si
presenta con il nome di un fiore al femminile, lui risponde con
il nome del fiore al maschile e si balla. Un secondo uomo si
avvicina a un’altra ragazza: ‘Margherita’, e lui: ‘Margherito’ e
si balla, poi: ‘Rosa’, per cui: ‘Roso’ e via dicendo... Un ultimo
cavaliere va verso Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra, lei
dice: ‘Orchidea’ e gli si avvicina, lui la guarda e fa: ‘Orcodio!’”
Blasfemia a parte, a Madeleine non viene troppo da ridere, ma c’è un’intera gamma di emozioni che sa fingere alla
perfezione, per cui si mostra sinceramente divertita dall’impegnato calembour del paonazzo boss dei boss, in più lo fissa
dritto nelle pupille – accertandosi che lui l’abbia vista farlo – e,
sedutasi a fianco dell’amica-chips, le sferra un’invisibile gomitata complice sottobanco.
– È sempre così? – le chiede sottovoce, quell'altra le fa
così-così roteando il palmo della mano.
Le ragazze soffocano svelte il ghigno perché il padrone
di casa e nazione (in conflitto d’interessi fra Madeleine e l’amica-chips) è di nuovo in piedi, onnipresente pure fra gli ospiti, e
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già si materializza alle spalle delle due, accarezzandosele per
bene con la scusa ufficiale di presentare tutti a tutti.
C’è l’uomo con la faccia Alien di prima che allunga le
zampe su una coppia di sventurate ragazzine dell’Est.
C’è una femme fatale d’ebano che sembra proprio la nipotina di un politico indispensabile al welfare dello stato.
C’è un ometto di mezz’età in tenuta total-white e aura-aria
flaccida come un Blob pappone che non si capisce se ci è o ci fa.
C’è una coppia di gemelle terroncelle che pare non perder occasione d’incarnare i peggio stereotipi da malafemmena scostumata.
C’è un tipo vestito solo di nero e con gli occhiali da sole
che tace e ha l’attitudine truce di un killer di professione.
C’è un tris di strappone nostrane e altrettante ochette da
varie aree del Sud America che si rubano a vicenda la scena
già lì al pre-cena.
E c’è per ogni commensale almeno un iperattivo cameriere tuttofare che continua a versar vino e fare avanti-indietro
dalla cucina (dove il caro vecchio Alfred, o Ambrogio, dirige i
lavori più che diligente).
Proprio un maldestro membro della servitù, nell’impeto
del nobile compito, inciampa nel prezioso tappeto e si lascia
scivolare di mano un piatto d’affettato misto – pregiata porcellana dipinta da mani bambine, ma equosolidali – che va in
frantumi, Madeleine e l’amica-chips si ri-sgomitano divertite.
Il cameriere divampa, imbarazzatissimo (costava come
lui un mese, quel piatto), quasi neanche riesce a guardare il
boss dei boss e scusarsi e assicurare che non succederà più
e dire che era la foga eccetera, quand’ecco che il padrone di
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casa e casino, di nuovo in piedi e in posa eroica, lo rassicura
con fare paterno e coglie l’attimo perfetto per uno sfoggio d’erudizione.
Si schiarisce la voce, s’assicura d’avere l’attenzione generale – da degno arbiter elegantiae – e declama assorto i
seguenti versi:
“Ahimè, miseri noi, che cosa da nulla è un pover’uomo.
Noi tutti saremo così il giorno che l’Orco ci prende.
Ma allora viviamo, finché godere possiamo!”
A questo punto il boss dei boss raccoglie il meritato applauso, vero come i suoi capelli, si prodiga di persona perché
venga sistemato il danno, fa il giro della tavola – un’altra svelta palpata a Madeleine e all’amica-chips (non molto indispettite, in confronto alle occhiate invidiose delle altre) – si rimette
seduto sulla sua poltroncina con rialzo nascosto e schiocca le
dita per chiamare i primi.
Quando parte, la cena è tipo una sagra di paese in ghingheri (con scenette alla stregua di quella vecchia trasmissione, Drive In).
Sempre più agitati, i camerieri tuttofare con mosse solenni portano in tavola dei raffinatissimi piatti impreziositi da overdose di oro e brillanti, coperchio incluso, e si fermano dietro
a ogni commensale plaudente; si voltano verso il self-mademan padrone di casa, che vaneggia qualcosa sull’importanza
della cultura anche culinaria della nostra nazione, e al suo ok
finalmente svelano la prima portata.
Le ragazze immaginano chissà quale satura lanx gastro: 17 :
nomico, scintille negli occhi, acquolina in bocca e mani alle
posate.
Si palesa la leccornia.
Inconfondibili, immancabili.
Pennette tricolore.
Mezze penne, pomodoro a spicchi, cubetti di mozzarella
e qualche foglia di basilico qua e là.
Tutto lì. Un classico. Madeleine dà un pizzicotto alla coscia dell’amica-chips e le sussurra: – Ammazza che poraccio!
– ma visto che la regola generale sembra essere ‘tutto ciò che
è gratis è di conseguenza buono’, pure le ragazze s’adeguano e addentano qualche pennetta (il boss ancora blatera, ora
sul basilico coltivato da lui stesso perché trova tempo addirittura per quello), sacrificandosi giusto per un assaggio e nulla
più, certe che in ambienti del genere finire il piatto sia volgare.
Nessun altro sembra pensarla così.
Tintinnio di posate e bicchieri a parte, se uno ascoltasse
bene solo i rumori di questo banchetto privilegiato non potrebbe figurarsi molti scenari. Sssh, immaginate, sentite anche voi:
• Opzione 1 - Porcile: grugniti, eruttazioni, masticazioni, brusii...
• Opzione 2 - Insetti giganti: cigolii, pinzate, flati, turbinii, scatti...
• Opzione 3 - Zombie outbreak: strappi, gorgoglii, ringhi,
schianti...
Per quanto l’opzione 3 sia obiettivamente la più fantasiosa (e non eccessivamente fuori luogo magari), la 1 rende
abbastanza l’idea grufolante della cena, per ora solo in partenza. All’inizio poco ci manca che passi la fame a Madeleine,
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a sentire quei bei mugugni – anche il suo ex padre mangiava
così – più beve meno ci pensa, infine ingoia qualche pennetta
giusto per non avere solo vinaccio nello stomaco. È ancora
presto per adesso.
Nel frattempo, quel prezzemolino del boss dei boss, tra
perenni esibizioni e citazioni con strafalcione incorporato, richiama per la seconda volta l’attenzione dei camerieri, che
tornano svelti con altre portate coperchiate.
In trepidante attesa circa l’entità del nuovo piatto,
Madeleine e l’amica-chips devono sforzarsi davvero per non
piangere dal ridere ora che vedono in cosa consiste la nuova
ghiottoneria.
Risotto alla Milanese.
Un altro classicone, niente da dire, però...
Inevitabile, le due ricominciano a farsi battutine, ma il padrone di casa zittisce la folla e annuncia una sorpresa: un
caro amico (maestro neomelodico napoletano) appena arrivato in elicottero si esibirà qui in villa esclusivamente per la gioia
dei fortunelli presenti!
Ennesime gomitate di scherno-intesa tra le nostre ragazze, che poi si riempiono ancora il bicchiere di rosso fermo e
acidello.
Guardatele, Madeleine e l’amica-chips, vagamente razziste, mentre fanno il verso al poeta meridionale che miagola
la sua nenia mielosa (in estasi le gemelle terroncelle urlano,
cantano a memoria, per loro si tratta di un momento clou); si
sgola chiunque, è un volèmose bene globale, ragion per cui
anche le due si uniscono al coro gracchiando tra le risa monosillabi a caso.
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* NB: Qui il narratore potrebbe inserire le liriche del neomelodico per rimarcarne la cifra artistica, ma non gli va, sappiate solo che al 90% son tetre rime baciate cuore-amore, più
lamenti, singulti e goffe strimpellatine amatoriali.
Quando è in forma...
Visibilmente provato dall’interpretazione, il cantautore
s’inchina tra ovazioni e urrà, ringrazia ancora i commensali
e siede al capotavola opposto al padrone di baracca e burattini, fra due delle sudamericane che subito gli s’avvinghiano
addosso senza smettere di litigarselo a suon di occhiatacce e
freddure calienti neanche tanto sottovoce.
Ma, è proprio vero che quando ci si diverte il tempo vola,
e dopo un’infinita serie di prelibatezze più o meno rustiche (di
Alfred, o Ambrogio) barzellette più o meno oscene (del boss)
e spettacolini più o meno osé (delle ragazze, nessuna esclusa) è già l’ora del piatto forte: il dopocena.
Lo annuncia pomposo il padrone di casa facendosi portare da un cameriere la statuetta di legno di un’antica divinità
classica, riconoscibilissima per via dei mega attributi sessuali,
invitando gli ospiti della cenetta a farsela passare di mano in
mano per omaggiarla come vogliono.
Madeleine squadra con aria interrogativa l’amica-chips,
alla quale sente proferire soltanto – Ci siamo quasi.
Lei ancora si sta chiedendo cos’avrà voluto dire quando
il boss dei boss – visibilmente su di giri – si alza da tavola per
far strada ai visitatori verso quell’altra stanza al piano inferiore
in cui proseguirà la serata.
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In un attimo, è il delirio. Tutte lo vogliono: le gemelle terroncelle volano sopra al tipo col look da killer per le scale,
le sventurate dell’Est sono di nuovo avvinghiate dai tentacoli
dell’uomo con la faccia da X-Files, la femme fatale d’ebano
è a braccetto col pappone flaccido, il cantautore napoletano scherza col padrone di casa e le varie ochette rimaste si
sbracciano e sgambettano nel tentativo di infilarsi tra quei
due. Madeleine e l’amica-chips – che sembrano discutere per
un secondo (ma solo per un secondo) – chiudono la fila, rimanendo indietro rispetto agli altri sulla scalinata.
Il boss dei boss lo nota, niente gli sfugge, e col suo fare
da cavaliere senza macchia risale i gradini e le attende al varco. Loro pure se ne accorgono, quindi non possono far altro
che accelerare il passo e sorridere. – Prego, da questa parte
signorine, – dice, accompagnando la frase con un salamelecco esagerato, – Non vogliamo certo perderci il cuore della
festa, vero? – e sfoggia un sorrisone record. Le ragazze gli
danno la tara quanto basta e lo seguono di sotto nell’altra
stanzetta, che lui sta già descrivendo con parolone altisonanti
(ubriacando le due più con la retorica che col rosso da osteria
di Alfred, o Ambrogio).
La stanzetta – quella stanzetta – eccezion fatta per il solito lusso sregolato, potrebbe essere il privé di una qualsiasi
disco o night ‘di classe’; sette-otto poltroncine in pelle bianca
(dove siedono gli ospiti maschili del party), un palchetto dotato di palo da lap-dance, luci basse, mobilia rétro eccetera, e
non è neanche tanto spaziosa.
«Dove si metteranno tutti gli altri?» Madeleine sta per
chiedere qualcosa all’amica-chips, lei se ne accorge subito e,
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accompagnandola braccetto verso una porta, di nuovo parla
senza sentire la domanda, oltretutto rivolgendosi sia alla giovane sia al maturo padrone di casa: – Noi ora andiamo di là, vieni.
Mentre le ragazze si allontanano verso gli spogliatoi, il
boss non può non notare che una delle due pare forse stranita, e la cosa lo eccita ancora di più.
Si gira con una mossa da Fonzie verso gli amici stravaccati sui divanetti, versa da bere per sé e per loro (killer,
pappone, alieno, neomelodico. Non necessariamente in
quest’ordine), gli passa pure un vassoietto d’argento con un
sasso di coca grosso come la testa di un bimbo e finalmente
si accomoda. Proprio mentre sul palco col palo arriva una delle ochette nostrane.
Parte la musica. I cinque compagni di merende lì in poltrona non stanno nella pelle, per usare un eufemismo.
Inizia lo show. È più che provocante, ed è solo la prima
performance della prima ragazza, una di quelle ‘qualunque’
per giunta. La poverina (in costume da giudice, che si leva
praticamente subito) si dimena lanciando occhiate languide
appena appena triviali per una decina di minuti, dopo lo strip
passa in rassegna il quintetto, strusciandosi con ognuno un
tempo direttamente proporzionale alla sua fama-potenza, e
alla fine torna nello spogliatoio, lasciando il palco a un’altra
ragazza.
Da quelle dell’Est passando per le italiane fino al Sud
America c’è davvero l’imbarazzo della scelta, ognuna col suo
sexy-costumino a tema, in sequenza casuale: da suora, da
crocerossina, da segretaria, da poliziotta, e addirittura distopici rimandi a politici e religiosi (nazionali e internazionali).
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Ancora, e non a caso – l’attesa accresce il desiderio –
Madeleine e l’amica-chips sono rimaste per ultime.
I maschi alfa in poltrona attendono solo loro. Occhi fuori
dalle orbite, vene pulsanti e parlantina chimica.
L’amica-chips è la prima delle due a mostrarsi sul palco.
Ha una tuta in lattice e una frusta, molto dominatrice, però il
numero delude e annoia la sua audience; bel vestito, ma troppo santarellina. Quelle di prima hanno osato molto di più. Lei
invece s’è limitata a un balletto spinto ma niente di che, e poi
s’è fermata molto su uno dei cinque divanetti; s’è già capito
chi le interessa e s’è rotta la ‘magia’.
Quella che invece è un incanto è Madeleine. Mezza nuda
sul palco, seria, rapace, le fiamme negli occhi. Sembra una
madonna dark, disillusa, sicura di sé.
Comincia a ballare, ogni movimento è un sortilegio. Magnetica, ipnotica, impossibile distogliere lo sguardo.
Il padrone di casa è in visibilio. Completamente stregato.
Madeleine lo punta camminando lenta, il suo campo visivo è limitato a lui (gli altri ospiti non esistono per lei). Lo
raggiunge sulla sua poltroncina, si china su di lui, gli blocca le
braccia, sempre a rilento, e in un sussurro rovente gli intima:
– Dobbiamo parlare –. Il boss le dà una risposta laconica che
è tutta un programma: – Solo?
Il padrone di casa chiede ai quattro amici rosi dall’invidia di lasciare la stanzetta, poi chiama Alfred, o Ambrogio, gli
dà una busta (insieme a rapide disposizioni riguardo al come
usare il cash che contiene), e ne approfitta per domandargli
un’ultima cortesia: se ha mica trovato una cosa lì la matti: 23 :
na, una cosa molto importante per il bene dell’intera nazione.
Senza proferir parola, impassibile come suo solito, quello annuisce, consegna al padrone un pacchetto sigillato e si passa
pollice e indice sulla bocca, chiudendo una zip inesistente ma
perfettamente funzionante.
Al settimo cielo, il boss congeda il maggiordomo, si lancia in bagno e in un secondo è pronto (meraviglie della tecnologia), quindi torna affannato sul divanetto. Un ghigno inestinguibile sul suo volto.
Finalmente solo con Madeleine. L’ultima novità.
Senza tradire l’emozione, il boss si abbandona in poltrona
e le fa segno di sedersi sulle sue ginocchia – lei appena ‘si
accomoda’ scaccia col pensiero un altro remoto déjà vu del
padre – poi lui le sorride e bisbiglia:
– Dimmi, e sappi che la mia risposta è sì...
– Come sì?
– Sì, ho ciò che vuoi.
– Ma se non sa neanche...
– Dammi pure del tu, e non mi serve sapere cosa desideri; mi serve solo sapere quanto lo desideri.
– Be’, è tutto per me. Anzi, è proprio ‘il tutto’ il discorso: io
voglio tutto... Voglio essere te!
– Figliola, non immagini neanche cosa si prova...
– Infatti non voglio immaginarlo: voglio provarlo, e neanche per poco!
– Chiaro, ovvio... E cosa saresti disposta a fare per tutto?
– Be’ ammazzerei mio padre, se sapessi dov’è.
– Si può risolvere con più amore e meno odio. L’amore
vince su ogni cosa.
: 24 :
– Già... com’è saggio, scusa, come sei saggio.
– Me lo dicono in tanti... Quindi, tutto per tutto?
Da uno spioncino del piano superiore, l’infaticabile maggiordomo controlla che la situazione prenda la giusta piega
(come sa per esperienza gli conviene fare, prevenire è meglio
che curare).
Il nostro Alfred, o Ambrogio, osserva la conversazione
tra il boss e Madeleine continuare ancora qualche minuto, nel
mentre la ragazza alterna frasi e gesti tra il serio e il faceto –
borderline, come combattuta – invece il padrone di casa non
smette di sorridere, compiacente e compiaciuto.
Varie le mosse d’intesa tra i due, date un’occhiata anche voi attraverso la visuale di Alfred o Ambrogio; se lei gli
sventola contro un indice finto minaccioso lui alza le mani in
segno d’affettata resa, o se lei dubbiosa addita uno a uno
degli astratti nemici lillipuziani lui li spazza via tutti lentamente
col dorso della mano, oppure se lei finge imbarazzo nascondendosi il viso lui le scatta delle foto con una macchinetta
immaginaria... e se lei lo abbraccia sinceramente grata lui la
stringe a sé con fare fin troppo rassicurante.
Comunque, dopo gli ultimi bicchieri e qualche riga di
polverina magica rimasta sul vassoio d’argento, Madeleine si assenta. Il maggiordomo suppone per avvisare l’amica-chips di non attenderla per il taxi del ritorno, e non sbaglia: ciò che la ragazza ha in mano adesso è un biglietto di
sola andata. Alfred, o Ambrogio, non lo sa, ma per lei tornare
(ovunque sia, qualunque cosa significhi) è in fondo alla lista
delle cose da fare.
: 25 :
Quando Madeleine riappare innanzi al boss, lo fa con un
sorriso preimpostato e uno sguardo distante; «Ecco la svolta,
ci sei» pensa.
Alfred, o Ambrogio, a questo punto conosce il copione,
china la testa, chiude piano la feritoia da cui ‘vigila sulla scena’ e si ritira.
Nel frattempo Madeleine si siede sopra al boss – cavalcioni stavolta – quindi lui impercettibilmente inizia ad attivare
il reperto salvavita ottenuto prima dal maggiordomo, e quel
piccolo ingranaggio (prodigio della scienza medica), oltre al
proprio target primario mette in moto un collaudato meccanismo sotterraneo, che da piccole pedine apparentemente insignificanti ne influenza mille altre, dando il via a un gioco di
gran lunga più grosso e complesso.
Un gioco dalla pigra dinamica impossibile, ma possibile
– negli anni Zero – pure grazie a progressi come quella pompetta in quella stanzetta.
__
@Marco Contardi:
Copywriter e curatore artistico indipendente col gusto per l’orrido; assetato
di black humor e satira, new weird e freak post-moderni vari.
: 26 :
1990 - 2000
: 29 :
#1990:
L’1 gennaio 1990, a sedici anni di distanza da uno
dei più gravi attentati degli anni di piombo in una
delle maggiori piazze italiane, una ragazza ne paga
ancora e comunque le conseguenze, e si sfoga in
una lettera ‘al tritolo’ che probabilmente non verrà
mai letta dal suo destinatario.
: 30 :
Lettera
Milano, 1 gennaio 1990
Caro Papà,
oggi, come al solito non c’eri. In compenso c’erano i palloncini colorati e i coriandoli. Come se di anni ne compissi
ancora cinque e non diciassette. Mamma ha preparato la torta
al cioccolato e ha invitato un po’ di amici a cena. Mi ha fatto un
bellissimo regalo, una bicicletta da corsa, più grande perfino
di quella di mio cugino. Ma non era quello il regalo che volevo.
Ma tu questo lo sai molto bene.
Ho rimandato a lungo questa lettera, perché non è vero
quello che mi diceva la maestra a scuola, che il tempo risana
tutte le ferite. È una bugia, lo dicono per tenere buoni i bambini. La ferita sanguina oggi come sanguinava allora, anzi, con
il passare del tempo il ricordo diventa sempre più pungente.
Non c’è giorno in cui io non pensi a quello che avremmo potuto fare insieme. Mamma di te non vuole più parlare. Sei diventato un argomento tabù. Anche la nonna quando ti nomino
si ritrae, ha sempre qualcosa di più urgente da fare; pulire la
cucina, spolverare un armadio. L’altro giorno, alla mia ennesima richiesta, ha tirato fuori l’argenteria. Proprio lei che non
invita mai nessuno e fa una vita da reclusa. Mi fa male sai, da
: 31 :
qualche tempo non riesco nemmeno a ricordare il tuo viso,
mamma ha tolto tutte le tue fotografie, lo so che se le vede
poi si mette a piangere e non smette più. Le ha raccolte in un
album. Io le vado a sfogliare, quando lei non c’è. Non le farebbe piacere vedermi con quei ricordi in mano. Di te ricordo
il profumo, quando mi mettevi a letto e mi grattavi la schiena,
ma è più una sensazione che altro...
Te ne sei andato in un giorno di pioggia e da quel giorno
è cambiato tutto. Mamma ha ricominciato a lavorare. Nei miei
ricordi delle elementari c’è lei che corre tutto il giorno, con il
suo lavoro da cameriera al bar Sallustio. I soldi non bastavano mai. Andavo a scuola con i cappotti di mia cugina, che
mia nonna rivoltava. Mi prendevano tutti in giro. Sono cresciuta vedendo la mamma affannarsi, senza mai un sorriso, una
carezza. Non era vita, quella. Per fortuna c’era la nonna. Mi
veniva a prendere a scuola e poi mi portava a casa sua, dove
cucinava per me i miei piatti preferiti: le cotolette alla milanese, la torta al cioccolato. Piatti semplici, che la mamma non
aveva mai il tempo di farmi. Si limitava a far bollire l’acqua e
buttarci dentro un po’ di pasta. Le sere in cui era troppo stanca mettevamo due ciotole sulla tavola e mangiavamo i cereali
con il latte. Se non fosse stato per la nonna la mia dieta sarebbe stata ricca solo di carboidrati.
D’estate andavamo a trovare lo zio Giovanni, che abita
nelle Marche, in una grande cascina con polli e galline. Lì potevo finalmente sfogarmi, non dovevo stare buona perché la
mamma era stanca e non la si poteva disturbare. Con i cugini
tornavo a essere una bambina: facevamo il bagno nello stagno sotto casa, correvamo tutto il tempo. Alla fine dell’estate
ero così abbronzata che potevo raccontare ai miei compagni
: 32 :
di classe che avevo passato tre mesi al mare. Era una bugia,
la mamma ci soffriva un po’ quando la raccontavo, ma ero
stufa di sentirmi diversa da loro.
Di politica non mi sono mai interessata.
Mi è venuta una sorta di rigetto.
Vedo passare i cortei sotto la mia classe, tutte quelle bandiere, quegli slogan. Non li capisco. I miei compagni credono
di fare la rivoluzione e non sanno nulla di politica. Si mettono
l’eskimo per scimmiottare i fratelli più grandi, parlano solo di
Che Guevara, ma se gli chiedi di indicarti Cuba su una cartina
geografica muta non sanno nemmeno da che parte guardare. Le insegnanti mi odiano. Perché mi arrabbio ogni volta
che c’è qualche sciopero e non vengono a scuola. Quella di
matematica vorrebbe cacciarmi dalla sua classe. So che ha
chiesto al preside di cambiarmi di sezione, ma lui si è rifiutato
di spostarmi. Peccato, almeno avrei avuto un po’ di pace. Lei
è di Autonomia Operaia e dice che sono un’ingrata, perché
non voglio appoggiare la rivoluzione, che lei sta combattendo
per me. Io capisco solo che mamma lavora per farmi studiare
e io non posso perdere tempo perché le insegnanti non hanno
voglia di fare lezione.
Da due anni mamma ha una sorta di fidanzato. Lui si
chiama Gianni e da qualche mese è venuto a vivere con noi.
Anche lui ha una figlia, Anna, ma non la vedo mai. Dopo il divorzio l’ex moglie è tornata in Germania con la bambina. Meglio. Una seccatura in meno. Ci mancava solo dover sopportare una mocciosa che fa ancora le elementari. La baby-sitter
la faccio, ma non gratis. Devo ammettere che da quando c’è
lui la situazione è migliorata. Mamma lavora meno e mi ha
permesso di iscrivermi al liceo. Mi sarebbe dispiaciuto smet: 33 :
tere di studiare. Ho sempre avuto degli ottimi voti. Solo che io
volevo un padre, non un patrigno che parla solo di Anna.
Lo so, suono astiosa, la mamma me lo rimprovera sempre, ma ne ho tutte le ragioni.
Non è colpa tua, non è mia, non è colpa di nessuno, ma
io voglio un capro espiatorio, qualcuno con una faccia a cui
poter sputare in faccia.
Sono passati sedici anni da quando è esplosa quella
maledetta bomba in piazza della Loggia e non c’è ancora un
colpevole. Ieri sono ripassata sul luogo della strage. Hanno
incastonato nel marciapiede i nomi delle vittime. C’era anche
il tuo e io non riesco a darmi pace. Penso che se quella mattina ci fosse stato il sole tu non ti saresti riparato sotto il portico
e saresti rimasto in mezzo alla piazza. E la bomba, nascosta
nel cestino della carta straccia, non ti avrebbe ucciso. Così mi
arrabbio con tutti: con Dio, che ti ha portato via per sempre,
con mamma, con Gianni.
Non è giusto? Non me ne importa niente!
__
@Sabi Maffei:
Milanese adottiva, ama viaggi, arte, cinema e punto croce, scrive per hobby e lavoro. Punti deboli? La cucina: mai a MasterChef! Ergo, nella storia
la cena è relegata a contorno.
: 34 :
1980 - 1990
: 37 :
#1986:
Il 26 aprile 1986 il reattore #4 della centrale nucleare V. I. Lenin esplode e la nube radioattiva giunge
fino in Europa; nello stesso anno i Pet Shop Boys
pubblicano l’album Disco, mentre Paolo Bonolis (al
tempo sposato con D. Zoeller) conduce la trasmissione Bim Bum Bam. Tre fatti apparentemente slegati tra loro rappresentano invece un tris vincente di
incontri-scontri per una bizzarra famiglia.
: 38 :
Diventare Jeeg
Ore 19,31
Matteo
Io odio quando la televisione diventa grigia, quel grigio
scuro nero, come il pelo di un ratto gigante. Mi alzo dal divano
e mi avvicino allo schermo, ci passo sopra la mano per sentire
le bollicine elettriche che scoppiettano. Mi fanno il solletico.
– Teo, lavati le mani!
Questa è mia madre. Non le rispondo. Attraverso il corridoio camminando come Chobin. Salto e rimbalzo, salto e
rimbalzo, passo di fronte alla camera di Eva, mia sorella. La
porta è chiusa, si sente la musica che ascolta lei: Petzo Boys,
per l’esattezza. Arrivo in bagno, apro il rubinetto. In cucina
squilla di nuovo il telefono. È la terza volta che suona e, quando papà risponde, riattaccano. Mamma dice che sono i ladri,
controllano se c’è qualcuno in casa. Sento la voce di mio padre: – Teresa, accendi la tv. Vedi se ci sono aggiornamenti.
La saponetta mi scivola immediatamente nel lavandino,
chiudo l’acqua, non asciugo le mani e mi precipito in soggiorno.
Al TG1 parla un giornalista serio, abito grigio e cravatta a stri: 39 :
sce (Pierluigi Camilli, leggo sullo schermo). Mi concentro per
capire cosa sta raccontando e nella mente restano queste parole: “Unione Sovietica, l’incidente ha fatto solo due morti, centonovantasette persone ricoverate in ospedale, satelliti spia,
sgomberare l’intera popolazione di Kiev, milioni di persone”.
Mi siedo sul divano e ascolto.
Il giornalista continua, parla dei movimenti di una gigantesca e invisibile nube radioattiva. Dice che la situazione è
fuori controllo.
Ci siamo, succede qui, non riesco a crederci. Mi sale
dentro una gran voglia di urlare “Arriva! Sta arrivando! Scommetto che è già in volo!”
Non grido ma mi alzo in piedi e mi metto a saltare forte,
getto in aria un cuscino e comincio a cantare: – Corri ragazzo
laggiù, tà-tà-tà, vola tra lampi di blu, tà-tà-tà, corri in aiuto di
tutta la gente, dell’umanitààà. Corri e va’, per la terra, vola e
va’, tra le stelle, tuuu che puoi diventare Jeeeg...
La sberla arriva secca e senza parole. Mi brucia il sedere
e con una mano me lo consolo.
– Sta’ zitto, Teo, – mi rincuora la mamma.
Mi accorgo che sono tutti incollati alla tv: mio padre è
immobile, dall’espressione di mia madre siamo spacciati, zia
Leda prega sottovoce e il nonno sembra sul punto di piangere.
Ore 19,42
Zia Leda
Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te. E con noi.
In questa follia del mondo. A questa nube. A questi morti. Ci
: 40 :
sarà una risposta. There will be an answer. Ci sarà una risposta. There will be an answer, let it be. Let it be, let it be, let it
be, let it be. There will be an answer, let it be. And when the night is cloudy there is still a light that shines on me. Shines until
tomorrow, let it be. I wake up to the sound of music. Mother
Mary comes to me. Speaking words of wisdom, let it be. Let it
be, let it be, let it be, let it be.
Amen.
Ore 19,43
Matteo
Zia Leda prega perché è una suora, ma non è come le
altre. Non si veste da suora. Non è tanto simpatica. Ed è bella,
tanto bella, anche se sembra Lady Oscar perché è difficile capire cosa pensa. La mamma dice che sua sorella è matta – un
giorno glielo chiedo come si fa a parlare con Dio.
Finalmente squilla di nuovo il telefono. È una buona scusa
per uscire dal soggiorno e allontanarmi da questi quattro alieni
seduti davanti alla tv. Glielo vorrei dire che tanto non succederà niente. Nemmeno questa volta. Se arriva, arriva a Kiev.
Eva si precipita fuori dalla camera e afferra la cornetta
prima di me (non che io abbia corso, per la precisione).
Mi faccio da parte e mi appoggio dietro la porta, per non
farmi vedere. È da un po’ che sto cercando di capire come fa:
quando parla con il fidanzato, se dice “ci vediamo domani”, a
me sembra che dica “ti-giuro-amore-che-domani-sarà-un’esperienza-che-non-scorderai-mai-più-per-tutta-la-vita”. È una
cosa che fa con la voce. Le femmine la usano così, anche nei
film. E, siccome non la capisco, mi viene da fulminare Eva con
: 41 :
un raggio protonico.
Eccola, ora parla col fidanzato.
– … Prima non potevo rispondere. Piantala di mettere
giù, mia madre ha il panico dei ladri. E anche se risponde mio
padre? Cosa vuoi che ti faccia?… Sì! L’ho registrata al volo.
A parte mio fratello che salta in corridoio, si sente abbastanza
bene. Se te la passo mi fai una copia? Ho finito le cassette…
No, non mi va di cancellarne, ci tengo a tutte… No, non mi
sentono, sono tutti davanti alla tv… Non lo so. Forse domani
mio padre ha bisogno della macchina… Gli ho chiesto le chiavi, ma non mi ha risposto. Quando fa così è inutile… Sicuro
sicuro che la tua non è pronta?… Ok. (A bassissima voce)
non vedo l’ora di vederti… Sì, certo, anche di quello. Ti bacio.
«Di quello, cosa?» ci siamo, di nuovo la sua voce da strega.
Poi mia sorella appoggia la cornetta e fissa il muro bianco della cucina.
Di colpo non sorride più.
E fa una cosa che non le ho mai visto fare: lentamente abbassa la testa, trattiene il respiro e si passa piano una
mano… si passa piano una mano… su un… su un… seno.
Chiude gli occhi, ma lo vedo che le viene da piangere.
«Ha paura?»
Sì, mi sembra spaventata.
«Cosa le succede, ora? Si è incantata di nuovo a guardare il muro...»
Ecco che comincio…
Lo sapevo…
Mi manca l’aria…
: 42 :
Ore 19,57
Nonno Giovanni
Ho bisogno di un bicchiere d’acqua, porco d’un diavolo.
Crepare di tumore per colpa dei russi. Per la miseria. All’inferno loro e la loro nube dell’ostrega.
Non posso entrare in cucina: Matteo si è nascosto dietro
alla porta e spia sua sorella. Gli do un colpetto sulla spalla. Si
gira di scatto e mi guarda, spaventato.
Non ho intenzione di sgridarlo, miseria.
– È pronto in tavola, – gli dico.
Scappa via, corre in bagno e chiude a chiave la porta,
mentre Eva esce dalla cucina e mi lascia passare. Santa
Madonna. Com’è bella, Eva. La mia bambina. La mia Eva…
Crepare di tumore per colpa dei russi… all’inferno loro e
la loro nube!
Ore 20,01
Matteo
Sto seduto sul water, chiuso. Respiro. Respiro forte.
I grandi incollati alla tv, terrorizzati come bambini.
Respiro ancora più forte.
Eva che fa quella cosa…
Respiro così forte che mi gira la testa.
Se riesco a incrociarlo di nuovo, glielo chiedo subito
dov’è Kiev e anche perché mia sorella ha paura.
Le piastrelle marroni smettono di girare.
Respiro normale.
Quando penso a lui mi calmo sempre. Funziona.
: 43 :
Quando l’ho chiesto alla mamma lei non lo sapeva il suo
nome, ma io l’ho letto nelle scritte: Paolo.
Paolo Bonolis.
È un ragazzo grande e sembra che mi veda davvero,
anche da dentro lo schermo. E ci spiega le cose. E mi fa ridere. Un giorno, tornando da scuola, l’ho visto. Nella realtà. Lo
giuro. Era vicino al laghetto.
Lì tante volte ci sono le telecamere per fare le réclame
davanti ai cigni.
Io l’ho riconosciuto subito e mi sono spaventato, sono
corso dentro al portone e solo in ascensore ho ricominciato
a respirare. Entrando in casa però sono andato alla finestra.
L’ho guardato da lì e ci sono rimasto male. Perché non gli
ho parlato. Perché non mi ha visto, nemmeno lui. Allora mi
sono promesso di riuscire a parlargli. E un giorno lo faccio. E
gli chiedo dov’è Kiev. Sono sicuro che lui me lo spiega. E gli
chiedo anche perché mia sorella fa quella cosa. Sono sicuro
che lui ce l’ha il coraggio di dirmelo.
Sì, sono sicuro.
Mentre esco dal bagno, tranquillo, mia madre mi passa vicino per andare in cucina a prendere il primo. In sala si
stanno sedendo tutti a tavola. Eva è già di là e si sistema il
tovagliolo sulle gambe, come se niente fosse. La tv in soggiorno resta accesa, si sentono i flauti dell’Almanacco Del Giorno
Dopo, niente aggiornamenti, per ora. È la cena di compleanno
di mia sorella. Mi viene voglia di ricordarlo agli altri, ma decido
di starmene zitto, come mi ha suggerito prima la mamma, e mi
siedo di fronte al nonno.
Mio nonno sembra uno di quegli attori vestiti eleganti che
ti fanno ridere davvero, ma che dopo, non si sa perché, ti vie: 44 :
ne da pensare a quello che hanno detto e magari non fa tanto
ridere. Loro ti fanno ridere anche della guerra, come fa mio
nonno, che c’è stato.
La guerra ti insegna a ridere. Se torni.
Invece stasera, qui, non ride nessuno. Nemmeno lui.
Un po’ per la nube tossica, lo so, ma un po’ perché dispiace che mia sorella compia diciotto anni, proprio stasera.
Ore 20,13
Zia Leda
Teresa non sente la voce di sua figlia: si muove tra la
cucina e la sala da pranzo ma è concentrata sulla tv più che
sulla cena. Ignora Eva che le chiede l’acqua. Gliela passo io.
Mai farsi condizionare dalle circostanze, mai, nemmeno
ora. Chiudo gli occhi, respiro e mi concentro su un’immagine.
Appare il viso di mio cognato (che sta seduto di fronte a me).
Vedo le piccole rughe che gli si formano sulle guance quand’è
teso, preoccupato e silenzioso. Mi permetto quasi di sfiorarle,
piano.
Sono ruvide oggi, per la barba rasata da un po’.
Tracce di vent’anni. Successo. Fatica. Responsabilità.
E rimpianti – stasera soprattutto.
Poi riapro gli occhi e lo guardo: indovinato!
Torno a mangiare, cercando di gustare la cucina saporita
di mia sorella. E senza farmi notare mi concentro su mio padre, seduto qui a fianco.
In questo momento alza piano lo sguardo dagli spaghetti
al ragù e guarda Matteo.
: 45 :
Un brivido mi sale lungo la spina dorsale.
Generazione per generazione, si ripete: ogni nonno un
giorno contempla il nipote maschio e lo immagina adulto, vuole conoscere sua moglie e vedere la faccia dei suoi bambini.
Stasera tocca a nonno Giovanni. So che non prega, ma che
vorrebbe farlo, per chiedere che nessuno tocchi suo nipote e
che nessuno glielo rubi, il suo futuro. Nessuna dannata nube
tossica dell’Unione Sovietica.
Allora Matteo alza lo sguardo e incrocia il suo, glielo dice
chiaro negli occhi quello che ogni bambino, in ogni tempo,
risponde al nonno: che c’è sempre qualcuno che viene a salvarci, che anche questa volta arriverà in tempo. Che puoi stare tranquillo, nonno, nessuno ci farà del male.
Ore 20,15
Matteo
Quando il nonno mi guarda così mi dispiace che abita
in un’altra città. Io e lui ci capiamo. Forse potrei anche raccontargli il mio segreto, se ci riesco. E fargli conoscere Paolo
Bonolis. Almeno alla tv. Chissà cosa mi direbbe, lui.
Mentre serve l’arrosto con patate, mio padre rompe il silenzio:
– Eva, non voglio che tu vada, domani.
– Serve a te, la macchina? – gli dice Eva, come se non
capisse.
– No. Non è per la macchina. Non voglio che tu vada.
Ora il silenzio in tavola è davvero forte (a parte la voce
perfetta che arriva dalla tv). La mamma si alza e va a prendere
il secondo. Eva la raggiunge, guarda papà per un attimo, con
: 46 :
l’odio che le brilla nelle pupille, e sparisce dentro la cucina.
Io me la immagino cadere a terra con gli occhi a X, tra poco,
se anche la mamma non le dà una mano! Sì, come Pollon!
Ma perché mio padre non vuole che Eva vada in montagna
domani? Non è nemmeno la prima volta che il suo fidanzato
guida la macchina di papà. Ieri gliel’ho chiesto e lei mi ha risposto che non può andare perché adesso è maggiorenne. E
io non ho capito.
– Tuo padre vorrebbe fermare il tempo, – mi dice la zia.
Questa cosa del fermare il tempo mi piace. Ce lo vedo
papà.
Ma improvvisamente sento il terrore salirmi nella schiena,
gelido, come un pezzo di ghiaccio nella maglietta: se lui ferma
il tempo, anche la Terra si ferma, a quel punto i raggi del sole
continuerebbero a scaldare solo una parte della superficie del
pianeta, che si surriscalderebbe, forse si incendierebbe e le
fiamme potrebbero bruciare proprio qui, dentro casa nostra!
Mi accorgo in un attimo che non posso stare ad aspettare.
Che questa volta tocca a me.
Mi alzo in piedi e lascio cadere la sedia dietro di me.
Guardo mio padre dritto negli occhi, ho i doppi magli perforanti
pronti da sparare.
– Dagli le chiavi!
L’ho detto con una voce bassa, da uomo (secondo me).
– Matteo, – ci prova mio padre, – Siediti e non fare l’eroe,
– e ci riesce.
Io non sono un eroe. Però disobbedisco e vado in camera,
abbandono l’arrosto ma non lascio la Terra al suo crudele destino: devo escogitare qualcosa, mi hanno fatto arrabbiare, ora.
: 47 :
Ore 20,24
Zia Leda
Mi pulisco con il tovagliolo bianco e lo fermo sulle labbra, tenendo la bocca nascosta. Lo so, non posso, ma ne ho
voglia, tanta. A tavola siamo rimasti io, mio padre e il marito
di mia sorella. Mastichiamo e beviamo Bonarda, per mandar
giù l’arrosto. Non posso, ma mi viene… mi viene… da ridere,
tanto!
Mio cognato è al terzo bicchiere. In pochi minuti è riuscito
a far scappare prima Eva e ora Matteo. Persino le sue rughe
sono scomparse: ha indossato la maschera dell’Uomo Potente. Nascondo le labbra, cerco di controllarmi, ma qualche
sussulto mi scappa. Mi sento le lacrime salire negli occhi, mi
stringo il fazzoletto sulla bocca. È irresistibile, stasera, questo
quarantenne. I capelli brizzolati lo rendono giovane per finta,
invece che saggio davvero. E vuol fare il capofamiglia. Il successo gli allarga le spalle ma è rigido, dentro, come un albero nella stagione secca. Soffoco la risata nel tovagliolo, non
resisto più. Da ragazzo sì che era una quercia: alta, robusta,
potente. Il giorno che gli ho detto che ormai ero suora mi ha
risposto: – Ti rendi conto di quel che ti perdi, Leda?
E ha messo il braccio intorno alla vita di mia sorella, l’ha
stretta forte, guardandola negli occhi. Lei gli ha risposto con
una risatina leggera, lasciando ricadere la testa all’indietro.
Pantaloni a zampa e capelli lunghi, entrambi. L’ha fatto per
provocarmi, lo so bene. Per punirmi, anche.
Lui aveva ventitré anni, mia sorella diciotto.
Undici mesi dopo è nata Eva.
Un dono della Rivoluzione. Insieme all’illusione di posse: 48 :
dere il mondo come possedeva il corpo di mia sorella.
A tree stands strong not by its fruits or branches, but by the
depth of its roots.
Per loro la Rivoluzione è stata un giaciglio di foglie per
fare all’amore. A me la Rivoluzione è cresciuta dentro, nell’anima, nelle ossa e nelle unghie delle mani – a volte me le
annuso per sentire se sanno ancora di terra.
A quel tempo, lui, non aveva rughe da nascondere. E
detestava rimpianti e rimorsi. Oggi, vedo quello che è rimasto
di quella quercia: il corpo della bambina è suo, è opera sua, di
sua proprietà. Non cede il suo potere, nemmeno sapendo che
domani potremmo essere tutti morti.
– Cosa devo fare, Leda?
Mi sta dicendo queste parole senza staccare gli occhi dal
bicchiere di vino rosso che tiene sospeso in mano. Non oso
immaginare quanto gli stia costando parlarmi così.
– Lo chiedi a me? – da dietro il tovagliolo, sorrido.
– Sì.
Appoggio le mani sul tavolo, respiro e prendo del tempo
per riflettere. Me lo godo per bene questo momento. Lo attendo da anni.
Infine rispondo in piena consapevolezza e lucidità, offrendo, nonostante tutto, una possibilità alla vita: – Devi dare
a Eva tre cose. La prima è comunque inutile: la possibilità di
scegliere. Credo che, nel bene o nel male, se la stia prendendo da sola, ormai da un po’. Ma, forse, ora ha bisogno d’aiuto.
La seconda è una bella dose di fiducia. Se la vuole. Quindi,
dalle le chiavi della macchina. La terza, nel caso, è una scatola di preservativi, il perché lo sai meglio di me.
– Leda, – interviene, nervoso, mio padre, – Non esage: 49 :
rare, ora.
– Hai ragione, papà. Quelli è meglio se glieli dà mia sorella.
Concludo, lasciando a mio cognato la scelta, se mettermi
nella categoria dei pazzi, dei saggi o dei parenti che a volte
vale la pena ascoltare.
Ore 20,46
Matteo
Li lascio di là. Io non li voglio vedere i grandi. Non li voglio
e basta. Voglio urlare invece, urlare così forte da far venire la
polizia per mettermi in prigione.
Arriverebbe finalmente qualcuno anche qui.
«Basta. Basta. Basta.
Tutto per delle sceme di chiavi».
Nessuno mi guarda, peggio per loro. Eccole. Sono qui,
dentro al cassetto. Le lettere strane sul portachiavi d’argento
sono veramente brutte. Infatti piacciono a papà.
Il corridoio è vuoto.
Apro lentamente la porta della camera di Eva. Zona vietatissima, divieto d’accesso, morte immediata.
Apro il cassetto della scrivania per metterle il mio regalo lì.
E si apre un mondo. Rosa, soprattutto.
Testi di canzoni copiati dalla radio, lettere, ci sono anche
i diari.
Io non leggo bene in corsivo ma mi viene voglia di provarci.
La mia mano mi rimette in tasca le chiavi della macchina
: 50 :
di papà, mentre resto affascinato dalle prime scoperte su mia
sorella. Oggi è decisamente il suo giorno.
Auguri Eva.
Ore 21,00
Nonno Giovanni
Eva, la mia bambina, sta appoggiata allo stipite della porta della sala da pranzo, non sa se rientrare. Sta pensando
cosa dire a suo padre. Per la Madonna, chissà cosa le avrà
raccontato mia figlia di là in cucina. Quella sa sempre dire la
cosa sbagliata. Stasera poi, dannazione. Sono specializzate,
le mie figlie: mai lasciar fare agli uomini. Metterci il becco,
sempre.
Da come guarda suo padre, la bambina è stata ben istruita.
Diosanto, lo riconosco quello sguardo, impacciato e ostinato, nello stesso tempo. Tutta sua madre. Per la Madonna,
anche l’età è la stessa. No. Alla bambina, no, non voglio che
succeda. Dannazione e porco d’un diavolo. Per la miseria!
– Papà, – dice la bambina a bassa voce, – Sarò prudente, lo giuro.
– Eva. Ti prego. Non davanti a tutti, – risponde lui.
«Miseriaccia ladra, chiudila in camera! Come sarebbe
non davanti a tutti? Tornassi indietro, chiuderei la porta e getterei la chiave! Ma razza di un cretino. Mi ha bloccato la digestione, con la sua buona educazione. Mi si è fermato il boccone nello stomaco. Porco d’un diavolo schifoso. Dannazione,
non respiro…»
– Aiuto… – riesco a sussurrare, – Porco boia…
«No. Morire per un boccone di gorgonzola, dannazione, no».
: 51 :
– Papà, che ti prende? Papà, respira, sta’ calmo… – Leda
mi passa una mano sulla guancia.
– Dove le fa male? – parla il cretino. – Il petto, qui. E la
spalla…
«Porca miseria, è un infarto. Non mi è venuto con mia
figlia, me lo becco per la nipote».
– Chiamate un’ambulanza! – ordina Teresa correndo a
spegnere la televisione.
– Lo porto io, facciamo prima.
Il cretino si alza e va a prendere la giacca, apre il cassetto all’ingresso, cerca alla rinfusa. Non trova le chiavi, dannazione. E corre a cercarle in camera sua.
Ore 21,12
Matteo
Sono i passi di mio padre, li riconosco. Sentilo com’è infuriato. Corre, in corridoio, addirittura. Dev’essere successo
qualcosa con Eva, di là. Sta andando a chiudersi in studio.
Come fa quando litiga con la mamma. Situazione pesante.
Concludo velocemente la mia missione-spia.
Fase due: la fuga!
Esco lentamente dalla camera di Eva, con la mia nuova collezione di segreti: i suoi. Il primo è che mia sorella è
Creamy. Ha una seconda vita e io l’ho scoperta tutta. Non ci
posso credere! E davvero non riesco a credere che proprio
lei… con lui… Non ho mai amato tanto mia sorella!
Sono nel corridoio e non resisto alla solita tentazione, mi
metto a saltare di nuovo come Chobin ma cercando di non
: 52 :
fare rumore, questa volta. Il risultato è che cammino come la
Pantera Rosa, obesa, certamente ubriaca. Quasi mi faccio
beccare, scoppiando a ridere da solo. Ma sono felice!
Sto per entrare in sala da pranzo ma c’è un’aria che non
mi piace. Parlano sottovoce con il nonno.
Giro di scatto la testa verso destra e colgo al volo cosa
devo fare: la porta d’ingresso ha le chiavi infilate nella serratura. In pochi secondi mi ritrovo a correre giù per le scale,
veloce come il vento: oggi ho imparato a volareee!
Ore 21,23
Zia Leda
– Dannazione, sto bene. Va’ a dire a quell’imbecille che
può tornare a mangiare.
Mio padre è una roccia. Lo abbraccio piano e lui mi allontana con la mano, girando altrove lo sguardo. Stasera non mi
può vedere.
Mio cognato arriva furente, si avvicina a Eva e si sforza
di contenere la voce: – Eva, per favore, riportami immediatamente le chiavi della macchina e non provarci mai più, intesi?
La ragazzina non capisce. Mi guarda in cerca di aiuto.
Poi si accorge che il nonno la sta osservando, senza nessuna
dolcezza. Si rivolge verso sua madre, che riesce solo a ricambiare il suo stesso sguardo smarrito.
– Papà, non le ho prese io, – sussurra spaventata.
Intervengo in soccorso della piccola.
– Non ce n’è più bisogno. Il nonno si era solo strozzato.
Sta bene, ora.
: 53 :
– Diosanto, Leda! Sarei potuto crepare e… né un’ambulanza né una macchina, ma andate tutti al diavolo!
Nonno Giovanni ha ragione. Sarà per questo che ci stringiamo tutti attorno a lui, ancora seduto a tavola. Eva gli versa
dell’acqua, Teresa gli tiene la mano sulla nuca, mio cognato
mi guarda serio, cercando conferma di quel che ho detto. Io
alzo leggermente le spalle e sorrido. È mio padre. È una roccia.
A un tratto la presenza di spirito di mia sorella mi sconvolge: mentre una nube radioattiva si avvicina all’Italia provocandoci un’angoscia sottile e onnipresente, mentre suo marito mina in poche battute la fiducia di entrambi i suoi figli e
suo padre evita per un fiato un collasso cardiaco, lei dichiara,
innocente: – Chiamate Matteo, è il momento della torta!
Ore 21,43
Matteo
Corro, corro, corro.
Respiro a pieni polmoni un’aria buona. Sa di vento, come
in montagna!
Corro fino alle panchine del laghetto. Sono tutte vuote
tranne una: quattro persone la nascondono. Sono tre donne e
un uomo. Coprono qualcuno seduto.
Gli parlano, tutti insieme. Si scambiano tra loro dei fogli
pieni di scritte. Stanno decidendo qualcosa e tocca all’uomo
seduto la decisione finale.
– Rossa e grande, per i bambini ci vuole così.
Solo una persona al mondo sa con esattezza cosa ci
vuole per noi.
: 54 :
Solo una persona ci capisce, sempre.
Solo lui ha le risposte che ci servono.
Quindi è lui, lì, seduto sulla panchina.
Jeans e giubbotto di pelle.
È Paolo.
Paolo Bonolis.
Questa volta gli parlo, lo giuro.
E respiro.
Lentamente. Lentamente. Lentamente.
Ce l’ho io qualcosa da dirgli, stasera!
Ore 22,00
Zia Leda
Eva e suo padre sono andati verso il parco giochi. Sono
convinti che Matteo sia lì. Lo cerco camminando veloce in
questo quartiere che detesto. Milano Due: una città in seconda versione, perché la prima sarebbe venuta male, secondo
loro! Quindi, ecco le strade senza polvere, senza immondizia.
Piazzette senza piccioni. Movimenti senza rumore. Vita agevolata con divieto di morire – nel caso, tornate da dove siete
venuti, grazie.
«Matteo!»
Aumento il passo, senza correre, per non dare nell’occhio. Sta parlando con un ragazzo. C’è dell’altra gente con
loro. Dai modi direi che è gente che lavora qui negli studi della
televisione.
Sembra che sia un amico di Matteo, quel ragazzo: lo
guarda con dolcezza, lo ascolta, sembra onesto.
: 55 :
Ore 22,12
Matteo
Gli ho detto come mi chiamo. E dove abito.
Ma dov’è Kiev, non glielo chiedo, non mi importa più.
Mi ascolta. Mi ha chiesto cosa ci faccio in giro a quest’ora.
E allora posso finalmente dirglielo: – Sono venuto a cercarti. Sono il fratello di Eva.
Mi guarda stupito.
Mi trema la mano, ma riesco a prenderle dalla tasca.
Lentamente tiro fuori le chiavi della macchina di papà.
Lui le guarda con un sorriso – è bellissimo.
Gliele offro.
Le ha prese! Davvero non riesco a crederci. Paolo Bonolis tiene in mano le chiavi della macchina. E mi ringrazia!
Stasera ho battuto mio padre, stasera ho vinto io!
All’improvviso sento la voce sollevata di Eva, mentre arriva di corsa: – Matteo!
Ma appena si avvicina, si ferma di botto e spalanca gli
occhi per guardare me e il suo fidanzato, come due amici sulla panchina.
– Eva, – le dico seriamente, – Domani puoi andare in
montagna, – e aggiungo, sorridendo: – Non avere paura…
Lo dicevo io che Jeeg arriva sempre.
E oggi, per Eva, Jeeg sono io.
Ore 22,21
Zia Leda
Eva e il fidanzato scoppiano a ridere e lo abbracciano.
: 56 :
Impossibile non volergli bene, in questo momento. E non
commuoversi. Semplicemente meraviglioso, quel bambino.
Meglio se mi avvicino, prima che arrivi suo padre a rovinare
tutto.
All’improvviso sento una mano sulla spalla, mi ferma
qualcuno. Mi giro e lo vedo: mio cognato, che mi fissa negli
occhi.
Riconosco quello sguardo. Quello vero, questa volta. E
vuole qualcosa da me.
Non mi fa paura, come crede lui. No, non mi terrà ferma.
Non gli permetterò di umiliare Matteo né di distruggere questo
momento per Eva. Lui non mi lascia.
– Lascia perdere i ragazzi, Leda. So cosa devo fare, ora.
E, passandomi un braccio intorno alla vita, avvicina il suo
viso al mio. Sento il suo respiro sulla bocca. Gli metto una
mano sul petto e lo allontano un poco, appena in tempo.
Non voglio dargli potere su di me. Lo rifiuto stanotte,
come vent’anni fa. E per lo stesso motivo.
Sento il suo cuore che batte nel palmo della mia mano,
sotto la camicia liscia e morbida.
Ha corso, per raggiungermi.
Per un attimo penso alla nube. La nube che si forma sulla città, la nube che offusca i colori abbaglianti di questi anni
Ottanta, e la regalo tutta alle ingenue ansie di mia sorella.
Penso ai ragazzi. Hanno il futuro. Hanno i soldi. Gli abbiamo aperto noi la strada ed è giusto che lì si mettano in
viaggio, subito, senza aspettare.
Matteo sta correndo a casa, raggiante di felicità.
Ancora una volta, stanotte, scelgo la vita. La mia.
L’uomo che ho di fronte è sempre stato mio. Io sono
: 57 :
sempre stata sua.
Tolgo la mia mano dal suo petto, l’appoggio sulla guancia ruvida. Delicatamente accompagno il suo viso verso il mio
e gli sussurro decisa sulle labbra: – Sì, lo voglio.
E ringrazio sempre Dio. E la Rivoluzione. Amen.
__
@Anna Traini:
Insegnante di recitazione, regista teatrale, consulente per aziende coraggiose e mamma. Crede nel potere delle storie, con ostinata gentilezza.
: 58 :
1970 - 1980
: 61 :
#1975:
Sullo sfondo della prima manifestazione nazionale
femminista a Roma, il 6 dicembre 1975, e l’arrivo
sul grande schermo di The Rocky Horror Picture
Show (dal musical di R. O’Brien - negli ‘80 hit fissa
al cinema Mexico a Milano), una ragazzina inizia a
testare sulla propria pelle ‘l’insostenibile leggerezza’ di diventare donna, divisa fra il come dovrebbe
e il come potrebbe essere... quello sta a lei.
: 62 :
Temporaneamente
Molti anni dopo Lete avrebbe ricordato i suoi sedici anni
e, forse, li avrebbe rimpianti. Avrebbe rievocato le aspettative
di allora e fatto un bilancio del tempo che era trascorso.
Ma quella mattina, uscendo di casa per recarsi a scuola,
aveva desiderato la realizzazione di un evento straordinario,
capace di sconvolgere il flusso della sua vita, e interrotto la
smania di voler andare e l’obbligo di dover restare.
Nella piazza del quartiere – incastonata in un muro di
vecchi mattoni – osservava la lapide di quattro giovani trucidati dai fascisti nel 1944, proprio in quel luogo, e ne constatava la scarsa somiglianza con il suo volto: giovani già vecchi,
con sembianze d’altri tempi e sguardi privi di timore.
Neppure questo ex borgo contadino somiglia alla città.
Qui vivono in molti, sentendo di non somigliare a nessuno.
Gente proveniente da altre regioni, spinta ad abbandonare la
terra d’origine dal bisogno di migliorare la propria condizione.
E così, quella mattina, la ragazzina spera che succeda
qualcosa, chiudendosi la porta di casa alle spalle. Stringe la
sacca etnica, che sempre l’accompagna, nella quale ha infilato: lo spazzolino, la sciarpa fatta a mano da sua madre,
un accendino, l’Intrepido, il borsellino e la fotografia formato
tessera di Nina (per ogni evenienza).
: 63 :
«Avrò sedici anni domani. Sono felice, ho il mondo da
scoprire, e arrabbiata, perché sono imprigionata con voce ancora troppo rauca per contestare il tono rozzo con il quale mio
padre e i miei fratelli si rivolgono a me.
Da quando siamo rimasti soli, tutto è peggiorato.
O forse sono cambiata io.
L’anno prossimo non potrò più andare a scuola, così
hanno deciso.
Alla famiglia devo dedicare il mio tempo, come era solita
fare mia madre.»
È ciò che pensa, camminando a testa bassa.
– Ué, Lete, che faccia imbronciata. Sorridi, ho un regalo
per te. Avrei voluto dartelo domani, ma… tanti auguri –. Allunga all’amica una busta, con l’intestazione del loro istituto
scolastico.
– Già, domani è il mio compleanno.
Sono alla fermata dell’autobus, quello che le porterà dal
quartiere della periferia di Milano (dove abitano), all’istituto,
dove imparano come si diventa segretarie d’azienda.
Ogni giorno lo stesso percorso, tranne quando fanno
sega a scuola, per partecipare ai collettivi, nel centro della città.
Fa molto freddo. Lete, con un’espressione indefinibile,
toglie la mano intirizzita dalla tasca, e con l’altra sorregge i
libri legati con un elastico, sfiorando lo sguardo di Nina che è
palesemente fiero.
– Ah, mi porti buone notizie? Oppure è uno scherzo?
– Sicuramente non è una comunicazione giudiziaria e
neppure una mancia. Forza, aprila.
Lete si inacidisce ma lacera la carta che, come una bocca spalancata e sdentata, fa apparire una lingua: un foglio
rettangolare, stampato. Estrae e legge, concentrata.
: 64 :
– Ma è il biglietto per uno spettacolo dal vivo, – urla, –
Per venerdì sera. Cioè domani! Figo, cioè, The Rocky Horror
Picture Show, cos’è? Bello scherzo, temevo una comunicazione della scuola. Mi hai colpita e affondata.
Abbassa gli occhi.
– Ti ringrazio, ma come ci andrò? Sai bene che non posso muovermi da sola, di sera in città.
– È questo il bello, ci andremo insieme. Allestiremo la nostra serata. Ho acquistato un biglietto anche per me. Comunque è un musical che ha ottenuto molto successo a Londra.
Tutto sesso e rock’n’roll.
– Sesso? A volte mi fai paura!
L’autobus sopraggiunge. Il tempo di salire e cercare un
buco in fondo alla vettura, dove gli studenti sono soliti sistemarsi, fornisce una pausa. Poco dopo, sono entrambe accaldate e sorridenti.
Con gli sguardi oltre il vetro del finestrino appannato; nello spazio ripulito, tra simboli e geroglifici tracciati con le dita,
immaginano.
Le loro gambe in equilibrio instabile, sollecitate dall’andatura irregolare del veicolo, danno ai loro corpi un moto ondulatorio.
Lete abbraccia l’amica, che è costretta precipitosamente
a cercare un appiglio per evitare di cadere.
– Grazie, mi porterai alla perdizione, ma come faremo?
Mio padre ti odierà.
Nina si spiega: – Lasceremo un biglietto nella casella della posta, domani sera, prima di partire. Non lo vedranno che la
mattina dopo. In ogni caso per mezzanotte saremo di ritorno.
Ai nostri diremo che ceniamo ognuna a casa dell’altra. Se non
: 65 :
andrà come previsto ci prenderemo le nostre mazzate, ma è
il tuo compleanno e forse chiuderanno un occhio. Tuo padre
sarà sicuramente furibondo, ma forse, per l’occasione, comprenderà. Sedici anni arrivano una volta sola.
Lete è pensierosa, con uno sguardo interrogativo, accarezza l’amica, che le domanda: – Be’, che ne dici?
La ragazzina scuote la testa e con il pollice mima un ipotetico taglio alla gola: – Mi vuoi morta. Me ne diranno di tutti i
colori. Voleranno ceffoni. Non potrò più uscire per lungo tempo senza essere accompagnata. Non potrò più frequentarti.
Mi spediranno al paese. Non potrò più tornare. Cristo. Vorrei avere trentasei anni, non sedici. Non ricordo un periodo
peggiore di questo. Mio padre è una pressa, ringhia come un
cane arrabbiato. “Non occupate il telefono” urla dal divano. Il
resto del tempo, in famiglia, è impegnato a controllare i miei
spostamenti, a fare domande, a verificare se assolvo puntualmente i compiti che mi ha assegnato. Ha turni estenuanti di
lavoro. Forse non è proprio un bel momento per creare problemi. La sua attenzione è concentrata sui notiziari televisivi. Valanghe di notizie, che lo spaventano ma che si ostina
ad ascoltare: il Vietnam con la sconfitta americana. Il colpo
di stato in Cile, sul quale ha sempre parole d’apprezzamento. Condivide il pugno di ferro con cui i generali gestiscono
il conflitto con i giovani comunisti ribelli. Cioè, la libertà che
invocano – sostiene – non è altro che desiderio di anarchia,
disordine e caos. Così si esprime, avendo in comune coi miei
fratelli l’opinione secondo cui la gioventù che si lagna è viziata. Quel Calabresi ammazzato l’ha spaventato a morte, l’ha
presa come una minaccia personale, rendendolo ancor più
inquieto. Lui è il difensore dello stato, perdio. Io, da quando
mi sono permessa di pensare, sono un pericolo e in pericolo.
: 66 :
Neppure in bagno, posso stare in pace. Mi minaccia e si infuria, se mi sente canticchiare Dio è Morto. È un anno troppo
complicato, ci mancava anche la vittoria del referendum sul
divorzio. Ricordi Franca Viola? Il suo coraggio nel rifiutare il
matrimonio riparatore? Per lui è stato un affronto al codice
d’onore degli uomini. Se non dovessi andare a scuola, sprangherebbe la porta di casa.
Nina si passa le dita tra i capelli.
– Caspita, hai riflettuto parecchio, ultimamente. Pensi di
non potercela fare? Posso rivendere il tuo biglietto, se ti crea
problemi…
– Stai scherzando? Stavo pensando ad alta voce. Il mondo non ti sembra un gran casino? Ti senti mai un guerriero?
– Una guerriera, prego. Sempre. Con le armi un po’
spuntate. Sì, è un gran casino.
– Io mi sento un’orfana e non mi piace affatto. A che ora
ci troviamo?
– Alle sei da me.
– Non vedo l’ora che arrivi domani... Grazie, è un bellissimo regalo. Ma tu, come te la caverai?
– Non ti preoccupare per me. Nessuno si accorgerà della mia assenza. Mio padre partirà con il camion, non sarà di
ritorno fino all’alba di sabato. Mia madre fa il turno di notte
questa settimana. Nessun problema...
Il tempo è una massa palpabile e organica – solo se ci fai
caso – che si dilata e si restringe. Molto più tardi, sarà la tua
storia e quella del tuo tempo.
Quella mattina, per Lete, le ore di lezione sono pausa
in sua assenza. Solo gli sguardi di Nina, dall’altro capo della
classe, danno un senso alla realtà.
: 67 :
Si distrae nell’osservare il suo profilo: minuto e pallido. La
posa del corpo reclinato e proteso verso il vetro della finestra. Lo confronta con il suo, che percepisce come pieno e
marcato, indolenzito perché chino sugli scarabocchi del foglio
protocollo.
Sembrano provenire da due tribù diverse.
– A domattina. E grazie ancora.
Oggi è piacevole rincasare. Prima che la ciurma faccia
ritorno, ha parecchio da sbrigare.
A casa, nessuno aspetta Nina.
Da tempo ha imparato a gestire i suoi pasti. La accoglie
un insolito messaggio di benvenuto, scritto dalla madre e depositato sulla credenza.
Il gatto Zufolo – chiamato così per via dello strano sibilo
che emette dalla bocca, ormai sdentata, quando dorme (dopo
una caduta rocambolesca) – che reclama attenzione.
Un primo da riscaldare. Il pane fresco, lasciato sulla porta dalla vicina. La radio sintonizzata su Alto Gradimento.
È una piccola donna, non si sente mai sola. Ha la musica
e tanti sogni. Nel cortile della casa popolare nella quale abita,
le voci, i suoni non mancano mai. Non si può fare un passo
senza dover salutare o rispondere a qualche domanda di rito.
Si respira come in un polmone collettivo, con un sottofondo
musicale al quale ci si affeziona.
Nessuno sa, nemmeno Lete, quante sere (prima di addormentarsi) teme di non potercela fare ad avere un destino
diverso da quello che le è stato assegnato.
Alfredo, suo padre, non fa che ricordarglielo: – C’è chi
nasce con la camicia e chi va a prenderlo in quel posto. E
allora, bisogna affinare l’ingegno.
: 68 :
«Forse è meglio così» riflette lei, lisciandosi la zazzera
bionda.
È la mattina del venerdì, della prima settimana di dicembre. La nebbia è implacabile, ovatta l’orizzonte in quel di Quinto Romano.
Alla fermata dell’autobus, le sembianze sono opache. La
foschia nasconde le sonnolenze, mantiene sommessi i rigurgiti notturni. Circoscrive i soggetti nel loro habitat sopito, fino
a che l’urgenza della parola, un saluto forse, non soppianterà
definitivamente l’intimità dalla quale non ci si è ancora separati, neppure con l’aiuto di un caffè o un cappuccino.
Lete ha fatto sogni agitati. Ha rimandato la cura dei capelli a dopo la scuola, quando annuncerà al padre la cena a
casa di Nina.
– Sarà solo uno spuntino veloce. Lascerò la cena pronta per voi, – gli urlerà dalla cucina, per non incontrare il suo
sguardo.
In casa Esposito è di rito non dare troppa importanza alle
ricorrenze. Solo il Santo Natale e Pasqua vengono santificati
con sobri regali e un minimo di formalità.
– Ti voglio a casa per cena, – le risponderà, ne è certa,
– Prima di cominciare il turno con tuo fratello. A quell’ora, a
casa devi stare.
– Ma è il mio compleanno, vado solo da Nina.
– Gli auguri la tua amica te li farà domattina. Non mi seccare con altre richieste.
A Lete non serve il permesso. Per cena sarà lontana.
Temporaneamente, si addormenta. Domani sarà un giorno perfetto.
Quel mattino, Nina arriva alla fermata trafelata. La zazze: 69 :
ra spettinata, il poncho, i jeans e gli zoccoli e quello sguardo
verde, che indossa come un accessorio, spesso appannato
da un sonno insufficiente.
Si baciano. La festeggiata, al contrario, è già molto sveglia e agitata.
Si precipita sull’autobus, con insolita destrezza, aggiudicandosi un cantuccio. Non c’è posto a sedere. Corpi appesi,
sguardi assenti, fiati pesanti, ma che importa.
Nina la raggiunge e si aggrappa al suo corpo, Lete la
accoglie, si fa sottile e ne approfitta per abbracciarla.
– Sei di ottimo umore, – sussurra Nina.
– Già, chissà perché? Non ho riposato.
Nina si stropiccia gli occhi.
– Questa notte ho ascoltato una canzone strepitosa, The
Perfect Day, avrei voluto dedicartela.
– Ti invidio. Sei libera di accendere la radio quando vuoi,
ascoltare la musica a me proibita. Io ho il permesso di andare
a dormire. Vorrei fossero già le diciotto...
Lete si è alzata presto. Ha preparato parte della cena, il
biglietto di commiato con un post scriptum: “Non ti arrabbiare
troppo”, la borsa con tutti i suoi risparmi, quel che ha racimolato nell’ultimo anno.
Non è granché, e non si spiega neppure perché senta il
bisogno di farlo.
Nasconde il tutto e, prima di uscire, dà uno sguardo ai
suoi sedici anni, alla sua timorosa smania.
«In bocca al lupo, ragazzina.
Mi fido di Nina, è la mia migliore amica. Non sono sola, è
questo che conta.»
Si rassicura.
: 70 :
A scuola non è potuta sfuggire a una interrogazione non
prevista, che l’ha trovata insufficiente e distratta, ma le ore
sono trascorse.
Come supponeva, appena rincasata, riceve dal padre le
risposte che aveva immaginato, e attende che esca. Trattiene
l’esasperazione che prova per un ritmo che, oggi, rileva come
particolarmente lento e sospettoso.
Finalmente rimane sola, raccatta il suo bagaglio, imbuca
il biglietto e raggiunge l’amica.
Nina è sempre la stessa. La accoglie sulla soglia di casa,
con la sua inguaribile aria svagata. Ha trascorso il pomeriggio
ad ascoltare musica.
– Di nuovo tanti auguri, Lete, – cingendole le spalle, – Ci
divertiremo, vedrai. Abbiamo tempo per prepararci.
– Nina. Vorrei andarmene ora. Mi sentirò più tranquilla,
lontano da qui. Non riesco a stare ferma. Dai, raccontami.
Come sarà? Chi ci sarà? Ho una morsa allo stomaco. Non ho
fame né sete.
– Tranquilla, andrà tutto bene.
Una folla variopinta e chiassosa staziona nei pressi del
cinema Mexico.
Si tengono per mano. Lete viene letteralmente trascinata
verso l’ingresso, si sente a disagio, non sa esattamente cosa
sta per succederle, è intimidita e alquanto nervosa.
All’interno, la platea è gremita. Nella confusione, prendono posto vicino a due ragazze festanti che le accolgono
sorridendo. Le sedie scricchiolano e sono un po’ scomode. Le
luci si spengono e si accendono a intermittenza, annunciando
l’inizio della rappresentazione. Lo sciame vociante non cessa, anzi si innalza di tono, diventando un grido finché appa: 71 :
re il primo fotogramma: una gigantesca bocca sensuale, che
scandisce un preambolo incomprensibile.
Un incipit da lasciare senza fiato, come introduzione
all’incubo erotico, peccaminoso e disinibito della trama. Un
omaggio alla musica rock e ai generi horror e fantascienza.
Ma è con la conturbante apparizione del dottor Frank-NFurter, dolce transessuale in reggicalze, baby-doll, tacco a
spillo e guanti di pizzo (che lavora alla creazione della perfetta
creatura da amare), e nel ritornello del Time Warp che si scatena il furore collettivo: gli attori scendono dal palco, coinvolgono e provocano la platea in performance live, protagonisti
i fianchi e le pelvi che si muovono impunemente e sorprendentemente. Nello scandire delle note di Don’t Dream It, Be
It – un inno alla liberazione sessuale e d’espressione – c’è un
invito esplicito a non sognare il piacere, ma a viverlo. Le risate
sottolineano i dialoghi grotteschi e scaricano le tensioni.
Nel cuore di Lete, i sussulti accompagnano la paura, l’inibizione e successivamente l’eccitazione di Janet, protagonista femminile alla scoperta del sesso e di un’altra se stessa.
Quando il sipario si chiude sulla scritta “The End”, i corpi in
platea si muovono ancora. Molti non hanno mai smesso di
cantare il ritornello. Un trenino si forma. Dal palco tra gli applausi e le grida gli attori sfilano, ringraziano e concludono con
un bis. È festa grande.
Lete e Nina sono euforiche.
In quel serpente sonoro e mobile, che prende vita nuovamente in platea, le due ragazze sedute accanto offrono loro
cappellini, parrucche, occhiali e le trascinano nel movimento.
Il teatro è un ventre caldo. Non importa come tornerai
alla realtà, se sarai appagato oppure no. Per un tempo, sei
stato altrove. Leggero.
: 72 :
Ora è giunto il momento di andare. La fiumana vociante si
dirige verso l’uscita. Si prosegue lentamente, nessuno vuole
abbandonare quell’atmosfera
scandalosamente euforica...
– Nina, Nina! – urla Lete che, saltellando per l’allegria,
emerge dalla moltitudine delle teste.
– Nina, c’è la polizia nell’atrio. Sta sorvegliando l’uscita.
Ho intravisto mio padre e mio fratello!
Le ragazze si defilano e arretrano.
– Nina, se mi trova sono morta.
– Ma che sfiga. Che ci fa qui? Immagino per ordine pubblico. Non cerca te. Quando sei rincasata stava uscendo per
cominciare il turno, vero? E tu, hai aspettato che se ne andasse per mettere il biglietto nella casella della posta, vero?
– Sì.
– Allora è tutto a posto.
– Già, tutto a posto. Un appuntato di polizia e company
sta nell’atrio di un cinema. Con la pistola nella fondina. Controlla la gente che passa. E si dà il caso che l’appuntato in
questione sia mio padre. Ma va tutto bene.
– Tranquilla, Lete.
Tonta e Perla, da poco conosciute, hanno capito al volo
e le seguono nella toilette.
– Datemi una mano a camuffare questa ragazza, ne va
della sua vita!
Nina si rivolge a loro: – Dobbiamo sbrigarci.
Con un gesto di Perla si sparpagliano sul ripiano del lavello ombretti, matite e rossetti, mascherine, occhiali colorati.
– Lete, togliti il cappotto, mettiti il mio poncho e gli occhiali rossi. Ora andiamo. Hey, Tonta, nelle vicinanze dei poliziotti
esci dal gruppo e vai verso suo padre, te lo indicheremo. Atti: 73 :
ra la sua attenzione. Chiedi, fai domande sciocche, di’ che hai
perso gli amici; se ti sembrano sospettosi, di’ che sei sempre
distratta ed è per questo che ti hanno soprannominato Tonta:
perché sei bella e stupida.
Nina si posiziona un cappello di carta a sghimbescio sulla zazzera e solleva il bavero
– Ci vediamo fuori, all’incrocio. In bocca al lupo.
– Cammina Lete, – sibilando, – Dai, che ce la facciamo.
Qualcuno nell’atrio si è sentito male, per fortuna l’attenzione è concentrata sull’indisposto. Un appuntato a loro sconosciuto fa defluire velocemente la folla.
Trafelate e raggianti si ritrovano all’angolo della via.
Il loro battito cardiaco si ristabilizza dopo una sonora risata e, riprendendo fiato, Lete propone: – Siamo temporaneamente salve. Mi è venuta sete e fame. Ragazze, andiamo a
mangiare qualcosa? Che ne pensi Nina? Ti prego, ti prego,
non voglio tornare a casa, è il mio compleanno. Metto a disposizione tutti i soldi che ho. Perla, Tonta, ci state? Desidero
solo una cena, per concludere questa serata. Vorrei stare ancora con voi.
In un baracchino, davanti a un panino con würstel, crauti
e senape e una birretta, si consuma il battesimo alcolico della
festeggiata. Un brindisi ai sedici anni di Lete, alle nuove amicizie e a un futuro viaggio insieme. Alla notte, che non deve
finire mai. Alla complicità sessuale. Alla libertà sguaiata di trasgredire, al piacere di essere femmine.
– Non sarò più la stessa dopo questa avventura con voi
e non potrò più tornare indietro, alla piccola Lete di un tempo.
Amen.
– Perché ti chiamano Tonta? – Nina si stacca dall’abbraccio di Lete, tentando di stemperare la commozione.
: 74 :
– Te lo racconterò, – risponde, – Per ora, preferisco comunicarvi che oggi, a scuola, annunciavano la manifestazione femminista del 6 dicembre, a Roma. È domani. Potremmo
partire domattina. Passare il resto della notte a casa mia. Con
questo freddo la stazione è inospitale. I miei sono a Courmayeur.
Qualcuno dovrebbe immortalare le loro espressioni in
un’istantanea da conservare a futura memoria.
– Andiamo Nina, tanto mi ammazzeranno comunque.
«Che ne sarà di me?» pensa, mentre un’altra birretta e la
voce di Tonta le riscaldano il cuore.
– Domattina prima di partire telefonerò alla signora Elisa,
la portinaia sarà il messaggero che riferirà a mio padre.
La mattina del 6 dicembre alle nove il vagone del rapido
per Roma giace sul binario della stazione Centrale. Il mondo
femminile si è scatenato.
Una ressa variopinta e strafottente giunge dagli ingressi
e si mobilita sulla pensilina, in attesa di salire sui vagoni ancora serrati. Qualcuno scandisce: – A-pri-te. A-pri-te.
Altre voci si aggiungono, mentre una voce femminile annuncia allo speaker il numero e la pensilina del loro convoglio, unite in un grido collettivo.
Una fanciulla sventola la bandiera del Movimento di Liberazione della Donna.
Con uno sfiato animale, le porte si aprono e le donne si
riversano nelle carrozze. Allegre e agguerrite, prendono posto
confusamente. Da lì a poco, il treno si sposta lentamente.Cala
il frastuono. Lete stringe la mano di Nina.
Entrambe si smarriscono, mentre il treno pigramente sta
per uscire dalla stazione. Ma ancora un sussulto lo arresta.
Lete trattiene il respiro.
: 75 :
– Tranquilla, ora riparte.
Trascorrono pochi minuti. In apnea. Uno strattone segnala la rimessa in moto della locomotiva. Un grido di gioia
polifonico, al quale si aggregano, rompe il silenzio.
Dal finestrino sfila una visione parziale della città, ancora
addormentata e avvolta da un tiepido sole. Finalmente ci si
allontana. Si allenta la tensione e il torpore si impadronisce di
loro, nell’attesa di un giorno tutto da scrivere.
Più tardi si urlerà.
__
@Cinzia Portaluppi:
Donna, nata e cresciuta in terra longobarda.
S’i’ fosse foco ardere’l mondo, ma sono Cinzia com’i’ sono e fui,
Vorrei gli uomini giovani e leggiadri,
I laidi e i vecchi lasserei altrui.
: 76 :
1960 - 1970
: 79 :
#1969:
Nel dicembre del 1969 (in un giorno molto triste per
troppi motivi), la storia di un uomo e dei fantasmi
del suo passato s’intreccia a quella – ancora in fieri
– di un’Italia in piena ‘strategia della tensione’. Intorno alla Statale di Milano, che tossisce per le Molotov, l’uomo vive un doppio flashback, nudo e crudo
come i tempi in cui si trascina.
: 80 :
Forse è scoppiata una caldaia
Vi è mai capitato di passare a Milano a dicembre? Di solito
è un mese grigio e umido. Come se tutte le piogge dei giorni precedenti avessero deciso di restituirsi sotto forma di quel diafano
batuffolo bianco che caratterizza nella fine dell’autunno le città
operose del Nord Italia.
Paolo è appena rientrato.
Alto, spalle larghe, capelli castano scuro, ha il fisico asciutto
di quelli che non vogliono invecchiare. Quando apre la porta di
ingresso, dal silenzio della casa e dal buio del corridoio riceve
sempre un pugno nello stomaco e lo investe il tipico odore delle
case abitate solo da uomini. Getta uno sguardo al sudato salotto
buono di De Padova, dove troneggia in un angolo nascosto ma
ben visibile la lampada di Artemide faticosamente conquistata.
La giornata in facoltà lo ha logorato. La sua opera di mediatore
fra gli studenti e i colleghi professori è sempre più sottile e lo
scontro, anche fisico, è ormai imminente. La porta della camera
di Luca, suo figlio, è chiusa. Paolo cerca di trovare uno spiraglio
: 81 :
di luce che filtri dal basso a denunciarne la presenza. Sua
moglie Claudia non c’è più. Lo ha lasciato un giorno senza
un biglietto, senza una parola di spiegazione. O forse in quel
senza erano scritte molte cose.
Si erano conosciuti a scuola, quando le classi erano ancora divise in maschili e femminili e per corteggiare una donna occorreva creare l’occasione, per poi scoprire che lei era
già lì ad aspettarlo e che il presunto cacciatore era in realtà
la preda. Avevano avuto Luca, contrastando i pareri illuminati
dei rispettivi genitori e lottando a muso duro per terminare
l’università, cosa che era riuscita a Paolo e non a Claudia.
Poi Claudia era rimasta ancora incinta ma le loro condizioni economiche non permettevano un secondo figlio. I giorni
di tensione che ne erano seguiti avevano avuto un esito quasi
scontato. Claudia aveva preferito abortire, per non gravare
Paolo di un ulteriore peso, per non pregiudicare la sua carriera, che già si preannunciava brillante. Ma qualcosa tra di loro
si era rotto e alle parole quotidiane si erano sostituiti lunghi
silenzi. Lei aveva deciso di andarsene, e così una mattina
a Paolo d’improvviso si era riaperta quella ferita originaria,
quando era stata sua madre a lasciarli – lui ancora bambino e
suo padre – per un altro uomo.
Paolo non aveva più cercato Claudia, nemmeno per
chiederle della sua nuova vita, illudendosi che un giorno, riaprendo quella porta, la avrebbe ritrovata lì, ad aspettarlo. Gli
era rimasto Luca. I due all’inizio andavano d’amore e d’accordo come vecchi amici. Poi qualcosa in Luca era cambiato. Il
passaggio alle scuole superiori, le nuove amicizie e il vento
caldo della contestazione erano giunti impetuosi dividendo le
masse in conservatori e progressisti, guelfi e ghibellini, rossi
: 82 :
e neri, democratici e neofascisti. Spesso padre e figlio si trovavano divisi da ideologie non ancora del tutto definite, come
accadeva per gli studenti che frequentavano la stessa classe,
gli amici che erano cresciuti nello stesso quartiere o due fratelli all’interno della stessa famiglia. L’Italia era tornata indietro
di trenta anni, divisa in due fazioni: i fascisti da una parte e i
partigiani dall’altra, per combattere una nuova e fratricida resistenza. O meglio, non si era tornati politicamente indietro; non
si era mai andati avanti, in una democrazia minata dal qualunquismo. E lui e Luca, dopo lunghe e sempre più violente
discussioni, erano diventati due estranei, senza più parlarsi,
coinquilini dello stesso appartamento (privi anche della potenziale mediazione di Claudia), costruendo tra di loro un muro
trasparente, miope e sottile.
Paolo cerca di mangiare qualcosa riflettendo su ciò che
alcuni studenti gli hanno raccontato quel pomeriggio, a proposito di un brutto pestaggio di un militante di sinistra in via
Rezia da parte di un gruppo di neofascisti. Ne era seguita
un’inchiesta del comitato di base degli studenti democratici e
la decisione di una immediata ritorsione.
Mentre è immerso tra le sue mille congetture, un suono
inizia a rimbombare nell’ingresso: è lo squillo del telefono di
casa. Paolo si alza per rispondere.
– Pronto.
– Paolo? Sono Giulio. È successa una cosa terribile.
Dobbiamo andare subito in facoltà. Qui succede un casino.
– Un casino? Perché?
– Una bomba! In piazza Fontana è scoppiata una bomba. Ci sono dei morti.
– Vengo subito. Dove ci troviamo? Da Ciardi? – Tra
: 83 :
mezz’ora, ti aspetto.
Paolo è rimasto senza fiato. Si è rivestito in fretta. Tra
i suo pensieri gli ritorna in mente il figlio Luca, che avrebbe
voluto una volta ritornato trattenere a casa, immaginando che
potesse infilarsi in qualche guaio quella sera. «Dov’era Luca?
Possibile che non avesse trovato un telefono pubblico dal
quale chiamarlo? Ma lo avrebbe mai chiamato?» forse no,
considerando la fatica che facevano a darsi il buongiorno la
mattina.
Paolo non aveva un’auto o la patente per guidarla. La
città stava diventando caotica per i suoi nervi e lui non era
certo attratto da quei bolidi rumorosi metallizzati, simboli del
consumismo. Il suo vecchio ed economico Ciao Piaggio era
sufficiente ai suoi spostamenti. Mentre armeggia con la catena antifurto nota sulla sua destra (nei pressi del piccolo parco
adiacente al portone di casa) appena visibili tra la nebbia, due
ragazzi che sembrano fingere di parlare fra di loro e che spesso rivolgevano – a turno – lo sguardo verso di lui. Istintivamente si volta a sinistra, dove scorse altri due ragazzi nell’esatto atteggiamento di quelli a destra. Paolo aveva imparato
da ragazzo, durante la guerra, a riconoscere i preparativi di un
agguato. La conferma gli arriva voltandosi quando vede due
ragazzi che, correndo verso di lui, cercano di sorprenderlo
alle spalle. Questa volta ha la fortuna di riconoscere nel gruppo in azione uno dei suoi studenti.
– Popi, cosa fai davanti a casa mia? Stai forse aspettando qualcuno?
– Professore, si faccia da parte, stiamo aspettando un
fascista. Gli chiederemo qualcosa sul pestaggio dei nostri
compagni di via Rezia.
: 84 :
– Un fascista? Che abita in questa casa? Chi lo ha schedato? Per il pestaggio di via Rezia? Ragazzi, non scherziamo. Se qui abitasse un fascista lo conoscerei senz’altro. Non
sapete cosa è successo in piazza Fontana? Non è meglio
andare tutti al presidio in facoltà?
– Cos’è successo professore?
– È scoppiata una bomba!
Popi lo guarda incredulo e stupito, ma capisce dal tono
e dall’autorità che quello che gli dice Paolo è pura verità. Si
rivolge subito verso gli altri. Il timbro della sua voce è quello
deciso di chi ha l’abitudine al comando, ma stentato e solenne
come chi ha capito che da lì a poco sarebbe iniziata una guerra, nella consapevolezza che da quel momento le loro azioni
sarebbero appartenute alla storia.
– Compagni, andiamo subito tutti in facoltà! Organizziamo il servizio d’ordine!
Dieci, cento, mille bombe esplodono in quei momenti nella testa di Paolo. I Katanga cercavano un fascista che abita
nel suo palazzo. «Un attivista nero schedato?» una morsa
allo stomaco improvvisa, un dubbio, subito cacciato indietro.
«Di sicuro avevano sbagliato numero civico. E si trattava forse dell’inizio di quella ritorsione per i fatti di via Rezia?» un
altro pensiero travolse la sua mente: «Luca? Ma andiamo!
Gira con qualche libro di Nietzsche sottobraccio, consumandolo con il sudore della mano più che dalla lettura, e poi è per
darsi un tono, per rimorchiare qualche ragazza, nulla di più.
Sarebbe stato Luca capace di farsi trascinare nella lotta armata? Magari solo per sfogare l’odio, sì l’odio, verso suo padre,
l’uomo che non era nemmeno riuscito a dargli una madre?»
Ben attento a non finire con le gomme nelle umide rotaie
: 85 :
del tram Paolo si dirige con un largo giro verso il Duomo. Le
luminarie di Natale gli scorrono ai lati simili alle scie luminose
di stelle filanti. Alcune strade sono bloccate dai vigili urbani,
altre dai carabinieri, mentre risuona lugubre arrivando da più
parti l’ululato delle sirene. Dopo aver legato con una catena a
un palo il motorino in piazza Meda, segue per il Duomo a piedi, passando da via Hoepli. Nelle strade adiacenti rimbombano le grida della folla amplificate come se provenissero da un
girone dantesco. Alcuni stringono nelle mani la copia dell’edizione serale straordinaria dei quotidiani del pomeriggio, che
avevano i titoli di prima pagina listati a lutto. Inizia a piovere e
mille ombrelli neri vengono aperti nella piazza, ricoprendola di
un cupo tappeto nero.
Giulio è davanti Ciardi che lo aspetta. Il ristorante era
chiuso come in un giorno di riposo. L’oscurità della notte, a
tratti il silenzio irreale e l’umidità rendono la scena ancora più
triste e l’atmosfera pesante.
– Una bomba, Paolo. Ci sono dei morti.
– Dove? Per strada?
– In una banca del centro.
– Non sono chiuse le banche?
– La Nazionale Agricoltura il pomeriggio tardi resta aperta per le contrattazioni degli agricoltori e degli allevatori: è lì
che è scoppiata, nel salone delle contrattazioni. Un botto, del
fumo, le urla della gente e il suono delle sirene che si rincorrevano fino al Policlinico. Una mattanza. Gratuita. Ma vedrai.
L’indagine sarà veloce e presto i colpevoli saranno assicurati
alla giustizia.
– Insabbieranno tutto. Questa è una strage di potere.
– Paolo, sei sempre il solito: quando non sai di chi è una
: 86 :
colpa, la dai sempre al potere. I fatti ti smentiranno.
– Occorre convocare l’assemblea e proporre la mozione
d’ordine con un solo titolo: occupazione!
– Giriamo al largo dalla piazza. La folla ci impedirebbe di
attraversarla. Passiamo dall’ingresso dei magazzini: eviteremo la polizia e il picchetto degli studenti e da lì raggiungeremo
facilmente l’aula magna.
Gli studenti accorrono in poche ore da tutte le facoltà,
anche da quelle scientifiche, e tutti si muovono come in un ordinario giorno di lezione nell’ora della ricreazione. Nella confusione i Katanga organizzano il servizio d’ordine preparando
con cura i caschi, le chiavi fisse Hazet 36, di solito utilizzate
dagli idraulici, o i cacciavite ATM, che sono sbarre di ferro
di norma usate dai tranvieri per gestire gli scambi manualmente quando l’automatismo elettromagnetico non funziona.
Le ragazze del collettivo distribuiscono dei limoni. I Katanga
vogliono impedire che i fascisti, tenuti al di fuori della facoltà
dalla polizia, possano sfondare e occuparla a loro volta.
Da alcune finestre del pianterreno vengono passate le
vivande, le coperte e i sacchi a pelo. Tutto è preparato per
resistere come a un assedio medievale. Uno striscione con la
scritta “Facoltà Occupata” viene issato all’ingresso. Qualcuno corre. Come Elisabetta, che casualità vuole si scontra con
Paolo. Lei è una biondina con gli occhi azzurri, in jeans attillati
e scarpe alte scamosciate di colore chiaro. Le sue forme si
possono solo immaginare, infagottata com’è in un maglione
con il collo dolcevita e un eskimo color verde scuro.
– Professore, mi scusi.
– Mi scusi lei, Elisabetta.
– Si ricorda il mio nome?
: 87 :
– Ventisei, se non sbaglio. E lei lo voleva anche rifiutare.
– Rifiutare? Assolutamente. Avrei sperato solo qualcosa
in più, anche se non era certo il voto che mi interessava.
– E cosa le interessava? – lei lo guardò fisso dall’azzurro
dei suoi occhi.
– La sua considerazione, professore. Ho seguito le sue
lezioni tutto l’anno per questo. Spero che lei se ne sia accorto.
– E io ho valutato la sua conoscenza della materia, non
la considerazione che ho per lei. Venga, togliamoci da questa
confusione. Nel mio studio al piano superiore parleremo con
più tranquillità.
Dopo alcuni minuti si ritrovano nell’ufficio di Paolo, che
è piccolo ma accogliente. Nel frigorifero non manca nulla. Il
che dimostra quanto tempo ormai passi in facoltà. Un buon
Lambrusco, del salame di Varzi e in un armadio del pane forse raffermo e del caffè per una moka. Tutto quello che serve
per una frugale ma sostanziosa cena. Paolo mette da parte
le scartoffie, pone le vivande e due bicchieri sul tavolo dello
studio e inizia a discutere di politica, del Sessantotto, delle
lotte solidali degli operai con gli studenti.
Elisabetta lo ascolta rapita, come se non avesse mai partecipato a una lezione di Paolo. Solo che ora lo ha tutto per
lei, in una stanza, nel suo ufficio, separati da un tavolo che
non è quello di un esame universitario, ma imbandito per una
cena a due, dove possono parlare liberamente di quello che
passa loro per la testa, addentando un panino al salame e bevendo un bicchiere di Lambrusco. Paolo sostiene che occorra
assecondare la lotta armata, che viviamo una seconda resistenza e che contro il fascismo dobbiamo tutti fare qualcosa,
lui per primo. Elisabetta ripensa alle lunghe attese davanti a
: 88 :
quell’aula ancora chiusa, dove lui avrebbe fatto lezione, per
potersi accaparrare i primi posti, e in un attimo quei bivacchi
le sembrano meno duri.
Sono attirati dalla voce gracchiante di un microfono: “E
per questi gravissimi motivi che hanno alla base l’attacco alla
democrazia che gli studenti decidono di occupare l’università e
di interrompere ogni attività didattica in attesa di conoscere...”
Scendono insieme verso l’aula magna: lui senza rendersene conto la tiene per mano. Si trovarono ben presto in strada, in mezzo alla mischia.
– Paolo, lei ci dovrà rendere conto.
– Domani, magnifico rettore, domani.
– Lei si è schierato apertamente con gli studenti.
– Lo avrebbe fatto anche lei se avesse temuto per l’incolumità di tutti.
– Lei invece ha preferito consegnare la nostra facoltà agli
studenti. Paolo, ha preso una posizione sbagliata: auguri.
– Anche a lei, rettore.
Elisabetta lo tira da parte, lo guarda con i suoi occhi azzurri e dice a Paolo con decisione: – Mi aiuteresti a confezionare delle bottiglie Molotov?
– Io? – Paolo la guarda tra lo stupito e il divertito. Replica:
– Ma non è illegale? E poi per tirarle contro chi? Metterci gli
uni contro gli altri. Forse lo scopo di chi ha messo le bombe.
Elisabetta non lo ascolta. E gli risponde: – Né io né i miei
compagni staremo qui per farci aprire il cranio dai fascisti o
dal poliziotto di turno. Se non vuoi, libero di farlo, ma le nostre strade si dividono. Scordiamoci tutto quello che ci siamo
detti ma ricordati: siamo in guerra. Da un momento all’altro i
: 89 :
fascisti potrebbero attaccarci e dovremo difenderci creando
dei diversivi. E poi non sei tu che hai detto che occorre fare
qualcosa?
Ancora un pugno nello stomaco. Un abbandono. Ancora
una volta. Una fanciulla, Elisabetta, che gli aveva dato un po’
di calore e adesso sarebbe fuggita se lui non avesse oltrepassato la soglia della legalità. Si smarrisce, ma solo per un attimo, e poi non si perde d’animo e aiuta Elisabetta, che in una
vecchia auto aveva nascosto tutto quello che occorre. Non è
proprio convinto di quello che sta facendo, ma preferisce non
deluderla. Si sentono delle grida provenire dal chiostro dell’edificio. Paolo, con il tascapane pieno di bottiglie a tracolla,
trascina per un braccio Elisabetta. I fascisti stanno cercando
di sfondare il picchetto e alcuni di loro corrono per i corridoi. I
poliziotti in un angolo, in tenuta antisommossa e nella formazione simile a quella della testuggine romana, aspettano di
manganellare chi avesse avuto la meglio tra fascisti e studenti
democratici. A un certo punto Paolo si accorge di essere circondato e che qualcuno sta cercando di minacciare Elisabetta
con una catena. Si sente perso. Ma tra il gruppo che lo accerchia, con il volto mascherato come un bandito, da un passamontagna nero che lascia intravedere solo gli occhi, una voce
dice: – Non quello, no, lasciatelo stare, lo conosco io.
Lo spingono, lo gettano a terra e gli danno lo stesso dei
calci, alcuni nel costato, dolorosissimi. «Chi lo aveva riconosciuto e lo aveva risparmiato? E dove era finita Elisabetta?» si
volta ai due lati ma non la trova accanto a lui come ha sperato. Appena riavutosi, mentre le urla dei feriti vengono coperte
dalle sirene, si mette con affanno a cercarla. È distesa ai margini dell’ingresso di un portone, tremante e con il viso coperto
: 90 :
di sangue. Lui la prende per mano per aiutarla a rialzarsi e lei
lo afferra come un naufrago che trova una scialuppa in mezzo
al mare. Lui la sostiene e la conduce di nuovo all’interno della
facoltà, al piano superiore, nel suo studio, che ora diventa il
loro rifugio. Con gesti amorevoli le pulisce le ferite e cerca
di rincuorarla. Il pericolo appena scampato e la tensione di
quanto era successo ha eccitato i sensi e il loro desiderio di
abbracciarsi, cosa che fanno stringendosi l’un l’altro, trattenendo il fiato e lasciandosi andare in un lungo bacio. Ora, pelle contro pelle, percepisce il suo profumo e distingue il battito
accelerato del suo cuore.
Da quanto Paolo non faceva l’amore?
Il tempo passato lo si legge nei suoi movimenti impacciati.
Lei lo intuisce. Lo prende per mano e lo spinge verso la
sedia della sua scrivania. Poi si toglie le scarpe scamosciate,
i jeans e i collant che le si sfilano. Poi slaccia i pantaloni di
Paolo, gli abbassa lentamente gli slip e riempie la sua bocca
con il suo sesso. Poi sposta di lato i suoi, di slip, nella parte inferiore, di modo che il suo sesso sia libero di accogliere
quello di Paolo. I suoi movimenti su di lui sono lenti, ritmati,
poi sempre più veloci, come il loro ansimare. Nessuna parola.
Solo il grido soffocato del piacere. Si rivestono dopo un lungo
abbraccio e dei teneri baci soffocati dai rimorsi.
Escono dallo studio e se ne vanno voltandosi le spalle,
così, senza nemmeno salutarsi.
Alcuni anni della nostra storia sono trascorsi.
Un uomo cammina con l’incedere lento di chi non é più
giovane. Non fa caso a quelle strade che per lui sono state
amiche per tanti anni e poi d’improvviso non è riuscito più a
: 91 :
tollerare. Il dolore più difficile da superare per un uomo è uno
solo: non la morte dei genitori, perché è la natura che decide
quando portarteli via. Non la morte della persona amata, perché
spesso, anche se viva, non c’è più da tempo. Ma la morte di tuo
figlio no: tutto ti appare innaturale, controverso, nemico, inaccettabile, come se qualcuno avesse voluto fartela pagare.
Così era stato per Luca. Era morto dopo una lunga e dolorosa malattia dall’altra parte dell’oceano. Chissà perché era
finito nell’America del Sud, chissà perché. Come un automa,
passato il Duomo e lungo il marciapiede che costeggia l’arcivescovado, l’uomo è giunto in quella piazza. Anche quel giorno fa molto freddo, ma la nebbia a Milano ormai è sempre più
rara. L’uomo si volta alla sua destra. Le insegne sono diverse
ma lei è ancora lì, ad aspettarlo. Attende qualche minuto e poi
entra in quella banca. E nell’atrio li vede subito.
Dodici sedili bianchi disposti circolarmente a simboleggiare le ore, e al centro una stele a immolare il momento temporale di quello scempio. Gli sembra di udire i gemiti dei feriti,
di intravedere le sagome dei corpi martoriati nella polvere, di
percepire l’odore dolciastro del sangue fresco o di intuire quali
fossero i resti delle povere membra, disseminate come sul
palco di un film dell’orrore. No, non era stato un film, era tutto
vero. Purtroppo.
Esce barcollando mentre qualcuno lo scansa come si fa
con un ubriaco.
«Un po’ d’aria, ci voleva un po’ d’aria».
Si fruga nella tasche. Cosa ha ora fra le mani Paolo?
Una carta. Una lettera? Un biglietto? Scritto da chi? Come lo
aveva avuto?
Qualcuno un giorno gli aveva mandato una scatola da
: 92 :
scarpe da lontano, quando aveva saputo della morte di suo
figlio. Gli aveva pietosamente spedito le sue ultime cose. In
quello scritto Paolo aveva capito. Aveva capito di quali colpe
si fosse macchiato il figlio. E si era portato dentro per tutta la
vita il rimorso di non averci mai parlato con quel figlio, lui che
per lavoro parlava alle folle tutto il giorno.
Diciassette morti, sparando a caso, senza movente. Perché la ‘follia creativa’ del terrorismo non ha mai un movente. Diciassette famiglie che non capiranno mai il perché di
tanta gratuita violenza.
Paolo guarda la fontana in mezzo alla piazza e gli zampilli che lentamente la riempiono. Vi butta il biglietto vedendo
l’acqua che scolorisce l’inchiostro dei ricordi: alza i suoi occhi
al cielo e aspetta di morire.
__
@Francesco Alessandro:
Bancario cinquantottenne, esperto di finanza creativa, ha il vizio di scrivere da quando ha capito che le sue parole finivano al vento come le vele
della sua barca. Si dedica al ballo almeno una volta alla settimana.
: 93 :
1950 - 1960
: 95 :
#1958:
Se, da una parte, il 1 febbraio 1958 Modugno vince
l’ottavo Festival di Sanremo con Nel Blu Dipinto Di
Blu, dall’altra, mentre tutto il mondo canta Volare,
il 20 febbraio passa la legge Merlin, che dichiara
illegittimi i bordelli. Quattro mesi dopo il ritorno in
scena della DC, quelle case chiudono e le marchette si fanno per strada; quattro prostitute, un
bel po’ diverse tra loro, affrontano sviluppi altrettanto diversi, e imprevisti.
: 96 :
Che Dio mi perdoni!
Fame
Il fumo delle sigarette e il vapore dei tortellini in brodo
si mescolano in una nebbia spessa che lascia intravedere a
malapena la porta sul retro.
Fa freddo, soccia se fa freddo, e questo è un buon modo
per scaldare l’anima. La radio canta quella canzone che ha
vinto il festival di Sanremo: “Volare, oh-oh, cantare, oh-oh-ohoh… Nel blu, dipinto di blu, felice, di stare lassù”…
Ho poco tempo prima che arrivi un nuovo cliente.
Mi ha preso la tarantola, come quando venni a Bologna e
bussai alla porta della casa di via delle Oche. I pensieri fanno
a cazzotti nella testa, a mo’ delle voci di tutti i pervertiti che mi
tocca ascoltare in una giornata. Però un fremito mi piglia, è
potente, devo dire la mia. Nessuno mi ha mai obbligata a fare
quello che faccio, ma non ho scelta.
Quando si è disgraziate non si ha nessuna scelta.
E allora capita che ti trovi a vivere in un postribolo e fare
la puttana.
Non sono molto brava con le parole, ma m’importa poco.
Voglio scrivere a quella socialista, la Merlin, noi che non sia: 97 :
mo più giovani, ci rovinerà tutte. Sarà contenta lei, ma io no.
Ancora una volta dovrò ricominciare daccapo, a trentacinque
anni, malata, «Dove posso andare? Chi mi piglia?» e poi devo
mantenere mio figlio che ho messo in collegio, che costa molti
soldi. Per guadagnarli devo andare con trenta-quaranta uomini al giorno, «Pensa che mi piace?» mi fanno venire la nausea
e a fine giornata vorrei solo sputare in faccia a chi ancora mi
cerca.
Per questo sono entrata nelle case, che qui almeno il
mangiare è assicurato, anche se ogni giorno vedo ruberie e
tante ingiustizie.
Spengo la paglia nel posacenere, prendo un foglio di
carta e incomincio a scrivere: “Egregia Onorevole Senatrice
Merlin”...
– Wanda, che fai?
– Scrivo alla senatrice, è tanto che lo dico!
– Perdi tempo, lo sai? Non si fa che parlare d’altro di là.
– Che blateri?
– È passata la legge Merlin, entro sei mesi tutte le case
saranno chiuse. L’hanno appena detto alla radio.
Le mie orecchie non ci possono credere, a quello che mi
ha detto la Secca un attimo fa. Se ne sta lì, in piedi, appoggiata alla credenza, avvolta dai vapori, con la sua sigaretta e la
collana tra le dita.
– Sarai contenta, Bocca Secca? E adesso come te la
caverai in mezzo alla strada con quel nomignolo che ti ritrovi?
– lei mi guarda, fa una smorfia, si gira e beve del vino. È giovane e bella, una di quelle che vogliono la libertà a tutti i costi.
– Senti chi parla. Wanda sei un babbiona! Non ti vorrà
: 98 :
più nessuno là fuori, – dice Amalia entrando in cucina.
La mente torna affollata, i pensieri si accavallano, l’ansia
mi fa sudare. Dalla porta del salone si sente un gran fracasso,
c’è chi piange e chi urla di felicità. La marchesa cerca di riportare ordine; mentre i clienti arrivano senza sosta.
Anche monsignore e il commissario si sono fatti vivi per
l’occasione.
I tortellini si sono freddati: come me. Li consumo in fretta
e spero che mi venga presto qualche idea.
– Wanda, te lo dicevo che prima o poi quella ci riusciva.
Dopo tanti anni, finalmente saremo indipendenti, libere di lavorare dove vogliamo, con chi vogliamo. Con tutti i clienti che
abbiamo… Credi veramente che non verranno a cercarci?
Faranno la fila per stare con noi, te lo dico io, vero Secca?
Amalia mi dà contro mentre finisco di mangiare, faccio
finta di non sentirla e con la coda dell’occhio vedo la piccola
Viola piangere nascosta dietro la porta a vetri della cucina. È
così giovane, è arrivata da una settimana e non ha nessuno.
La madre è morta quando l’ha messa al mondo e il padre, che
andava per mare, un giorno non è più tornato. Niente fratelli,
né sorelle. La Marchesa l’ha trovata alla stazione tutta sola,
era tanto carina che l’ha presa con sé. Mi fa pena perché è
così sensibile.
Viola si sente osservata; si ricompone ed entra in cucina,
si siede al tavolo e incomincia a mangiare. I nostri sguardi
s’incrociano come quelli di Amalia e della Secca. Ognuna di
noi, ora, vede il destino dell’altra, ma non sa che quella notte
lo avrebbe cambiato per sempre.
: 99 :
Gola
– È da mezz'ora che aspettiamo in piedi il nostro turno,
porca vacca! Perché non ci hanno ancora chiamato?
Pollo alle verdure, leggo sulla lavagna appesa fuori dalla porta.
Un vapore di varia umanità avvolge la grande sala da
pranzo e mi disgusta, fa caldo da svenire per essere settembre. Da che viviamo per strada è la prima volta in sei mesi
che, io e la Secca, veniamo alla mensa dei poveri.
Gira di qua e gira di là, ogni tanto ci capita di incontrare
una di noi, ma siamo quasi tutte sparite, ognuna nel suo destino; come Viola, che ci guarda tutte da laggiù – da quell’inferno
in cui si è fatta inghiottire. Giovane e sprovveduta non poteva
che finire così.
Impiccata e ammazzata.
L’hanno trovata nel bagno, appesa, mezza nuda.
Un biglietto infilato nelle calze diceva “Dio mi perdoni”.
Non si è mai capito se si è trattato di suicidio o di omicidio.
Quel giorno ci fu un gran trambusto al bordello, uomini che andavano e venivano per paura di non trovare più un
posto dove fare i loro porci comodi. A monsignore, quel pervertito di via Saragozza, piacevano giovanissime; anche se la
Marchesa era molto discreta e lo faceva passare dalla porta
sul retro, noi sapevamo che si trattava di lui.
L’amante segreto della Marchesa, il commissario di polizia, fece sparire tutte le prove; il corpo, il biglietto, ogni traccia
di quella disgraziata: tutto. Nessuno aveva visto e sentito nulla.
– Amalia guarda, ma quella laggiù non è la Wanda?
: 100 :
– La Wanda? No, non può essere!
– Eppure sembra proprio lei, dai avviciniamoci.
La tonaca nera lunga fino ai piedi le incornicia il viso in
una smorfia beffarda, non ha più quell’aria scorata e rabbiosa
di una volta e un senso di pace le si stende addosso. Sono
passati solo sei mesi da quella notte eppure pare trascorso
molto più tempo.
– Wanda, ma sei tu?
– Ma guarda chi si vede, siete qui per un pasto sicuro?
Primo, secondo o frutta?
– Wanda, ma com’è che ti sei convertita?
– E chi si è convertita? Do una mano dove c’è bisogno,
così sono utile agli altri e a mio figlio.
– Dicci un po’, come hai fatto a convincere monsignore a
prenderti in canonica, con quale marchetta?
Quella notte io c’ero, ho seguito Viola su fino al primo
piano, ma sono arrivata troppo tardi. Non è un caso se sono
finita qui. Mi hanno preso per tenere la bocca chiusa, cucita.
Mi sono garantita un posto in paradiso senza mai averci creduto.
Io e la Secca al di là della tavola piena di cibi scotti e rinsecchiti la guardiamo con occhi sgranati, una volta eravamo
noi le penne più richieste, le più spavalde; così sicure di come
sarebbe girata la ruota della fortuna. Ma lei, la Wanda, è stata
più furba, più astuta di noi!
– Wanda, dammi del pollo.
– Allora, com’è la vita là fuori, avete ancora la fila?
Un bruciore allo stomaco colpisce la Secca.
– Ptuh! – sputa nel piatto e lo restituisce alla Wanda: –
C'è una mosca dentro, – io abbasso lo sguardo e sussurro: –
: 101 :
Vienici a trovare in via Indipendenza, lo vedrai con i tuoi occhi!
Wanda con indifferenza prende il piatto e lo ripone nel
bidone dei pezzi sporchi, alza lo sguardo e chiede: – Chi è il
prossimo?
Digiuno
Quella notte di febbraio ero disperata, non facevo altro
che piangere, ero scappata dalla cucina per nascondermi nel
bagno al primo piano mentre le altre finivano di cenare e a un
tratto mi trovai accovacciata per terra, sentii dei passi lenti e
scorsi un’ombra nera muoversi dietro la porta a vetri.
Monsignore mi guardava dall’alto, con un dito sulle labbra in segno di silenzio.
Le lacrime mi scesero lungo le guance, ma non un suono
uscì dalla mia bocca.
Si sedette sul bordo della vasca e mi fece segno di alzarmi; mi tolse i pochi stracci che indossavo lasciandomi le calze
e la collana di perle al collo. Mi adagiò sulle sue gambe e poi
incominciò ad accarezzarmi e, mentre le sue mani mi toccavano sempre più ansiose e furiose, strinse le perle contro la
mia gola, togliendomi il respiro.
Volevo reagire, ma il mio corpo era immobile mentre
quello di monsignore si contraeva, scalpitava e mi penetrava.
L’aria si accorciò, le sue mani stirnsero la collana come
le redini di un cavallo impazzito.
Una luce accecante m’invase e un sibilo freddo mi attraversò.
Non sentii più niente, il fiato tutto intorno bruciava, il mio
: 102 :
sguardo rimase immobile e la mia anima ascoltò un ultimo
pensiero – che Dio mi perdoni.
__
@Francesca Cortesi:
Sprint & Spritz, creativa, designer e videomaker, descrive le sue visioni
anche attraverso le parole… c’è sempre una prima volta.
: 103 :
1940 - 1950
: 105 :
#1946:
È l’11 maggio 1946 e il maestro Toscanini dirige il
Concerto della Ricostruzione al teatro alla Scala di
Milano, quel giorno, davanti alle oltre tremila persone presenti, sta per debuttare una ancora sconosciuta Renata Tebaldi – questo racconto gioca
in bilico sulla storia della cultura italiana e le origini
di ‘Miss Sold Out’ (che vanta addirittura una stella
sull’Hollywood Walk of Fame).
: 106 :
Do in seno
Se è vero che i miei lettori appartengono alla categoria
di colti e raffinati fruitori dell’arte, in tutte le sue declinazioni,
credo di far cosa gradita raccontandovi un faceto episodio legato al teatro alla Scala di Milano e al celebre soprano italiano
Renata Tebaldi. Sono infatti venuto di recente a conoscenza
di una storiella che una delle passate sere, al termine di un’amabilissima cena a casa della contessa Mengaroni, mi è stata
raccontata da una persona a lei molto vicina.
Se aveste di fronte agli occhi una fotografia della notissima cantante d’opera, capace di conquistarsi il soprannome
di ‘Miss Sold Out’ per aver fatto innamorare schiere di fan
oltreoceano, non vi sfuggirebbe di notare la fisicità imponente
dell’artista. Proprio lei, donnona di origini emiliane, alta come
all’epoca erano soprattutto gli uomini di una certa bella presenza, nota per il portamento regale e il piglio deciso. Ebbene, vi racconterò un simpatico aneddoto sull’inizio della sua
carriera. Ma andiamo con ordine, e procediamo nella ricostru: 107 :
zione
della vicenda fin da principio.
Ci troviamo a Milano, è il 10 maggio del 1946, e nell’aria
aleggia il tepore di primavera e la tensione frizzante dell’attesa: domani si terrà il concerto di inaugurazione del teatro
alla Scala, reduce da molti lavori di ricostruzione, necessari
per risanarlo dopo i danneggiamenti della guerra: circa tremila persone saranno riuscite ad acquistare uno degli ambiti
biglietti d’ingresso e saranno presenti in sala ad assistere al
ritorno allo splendore del Tempio dell’Opera. Centinaia di appassionati milanesi invaderanno le strade e si assieperanno
sui marciapiedi per ascoltare, dagli altoparlanti Radiomarelli
messi a disposizione della cittadinanza, le arie che riecheggeranno in sala. Altre migliaia di emozionati e lontani melomani
avranno la possibilità di sentirsi altrettanto protagonisti della
serata memorabile che si appresta grazie alla trasmissione
radio che manderà in onda l’intera rappresentazione. Milano
sarà in festa, sarà una piazza di paese nel giorno della celebrazione del santo patrono, e uomini donne e bambini, dopo
mesi di sofferenze e privazioni, ritroveranno un po’ della spensieratezza che la guerra ha tristemente portato via dai loro occhi. La ferita cagionata dall’assistere allo scempio provocato
dalle bombe sul teatro alla Scala, simbolo dell’Italia stessa,
comincerà a rimarginarsi.
Ma immaginiamo la nostra beniamina: eccola, la intravediamo da una finestra aperta al primo piano, in via Broggi 13,
nei locali di una pensioncina che indubbiamente non potremmo definire lussuosa, ma piuttosto curata, arredata in modo
basico e familiare, dotata di piccoli agi, come un’ampia vasca
: 108 :
da bagno nella toilette e una piccola cucina al piano. Sono le
ore diciotto e trenta circa, e la giovane Renata sta chiacchierando con sua madre Giuseppina: ella è indaffarata nel preparare una semplice cena, a base di prosciutto di Langhirano,
prelibatezza tipica delle zone da cui madre e figlia provengono, e qualche verdura di stagione. Renata sgranocchia un
sedano, per tenersi occupata mentre la tensione le rimescola
lo stomaco.
– Lo avresti mai detto mamma? – la bocca sbarazzina si
schiude in un sorriso sornione: le compaiono ai lati due piccole linee profonde, due fossette adorabili che accentuano i
tratti infantili del viso, creando un malizioso contrasto con il
suo corpo, dalle fattezze di donna adulta.
– Renata, sono così orgogliosa di te. E pensare che ti
avevo immaginata dattilografa nell’ufficio del signor Vitale, a
Langhirano!… Eccoti qui ora, il tuo nome nel programma della
Scala accanto a quello di Arturo Toscanini!
L’espressione della donna si fa più seria, quando prende
la mano della giovane e se la porta sul cuore: – Senti quanto
batte questo mio cuore! Sei tutta la mia vita, figlia mia.
– Chissà se papà accenderà la radio per seguire lo spettacolo... – in un corpo rimescolato i pensieri celati prendono
voce più volentieri. Il coltello rimane incastrato nella carota. La
mano che lo teneva fermo lo stringe con fermezza, – Renata,
che ci importa ora?
All’improvviso suona l’interfono. – Sì, chi è?… Grazie signora, sì, la faccia salire. Renata, è la signorina Ratti della
sartoria della Scala, sta salendo.
Dopo qualche istante si presenta alla porta una donna
minuta, dalla pelle candida e dai capelli sottili raccolti in uno
: 109 :
chignon.
– Signore, buonasera. Perdonatemi se vi disturbo a
quest’ora, ma avrei una cortesia da chiedervi.
Renata inarca lievemente le sopracciglia nere: – Certamente signorina Carla, che succede?
– La signora Ortolani ha richiesto una prova d’abito generale straordinaria. È una serata così importante domani, ed
è molto in ansia. Dopotutto... I robb besogna faj intanta che
ghe temp, ed è lei la responsabile della sartoria scaligera. Non
voglio neanche pensare se qualcosa dovesse andare storto,
ussignùr… non se lo perdonerebbe mai... e la sua carriera
sarebbe certamente compromessa. Potete capire?
La ragazza, che già stava assaporando i silenzi di una
cena casalinga, si voltò verso sua madre. Lasciarla da sola
non le piaceva. Un sottile timore le restava appiccicato addosso, come la carta delle caramelle Rossana – le sue preferite
– sulle dita.
– Sarà questione di poco, – incalza la donna, – Il tempo
di riprovare il vostro abito, controllare che cada perfettamente,
e sarete di ritorno per cenare con vostra madre.
– C’è l’automobile di servizio ad attenderci qui sotto, –
continua, – Faremo in un lampo!
Presa con sé la piccola borsa nera, Renata è già per le
scale. Scendendo, osserva i piccoli piedi della sartina poco
più avanti di lei e se li figurò come topolini svelti, in fuga da
un imminente pericolo per mettersi al sicuro. A guardar attentamente, anche il viso della signorina Ratti assomiglia a un
topo, con quei dentini sporgenti e gli occhi piccoli e ravvicinati:
Renata pensa al suo cognome e le scaturì una risatina dal
petto, che prorompe incontrollabile nella tromba delle scale.
: 110 :
Siamo all’interno del camerino del teatro, la prova degli
abiti è in corso. Dodici mani esperte si affaccendano, facendo
svolazzare tessuti sottili come carta da lettere, srotolando rocchetti di filo come moderne Parche, in una baldoria di scampoli di ogni sorta.
Un metro dondola dal petto generoso e cadente della signora Ortolani – che da giovane doveva aver fatto impazzire
molti uomini con quelle forme – intenta a controllare ogni orlo,
ogni cerniera, ogni cucitura. Serrati tra le labbra tiene quattro
spilli: probabilmente ignora quanto ciò possa essere pericoloso… avrete sentito anche voi di quella monachella che, così
facendo, li ingoiò e rimase soffocata, poveretta.
Ora, tocca a Renata, che come un’allieva diligente si è
già svestita per provare il suo abito di scena. Eccolo lì, percepisce il fruscio del taffetà di seta: rassomiglia al ronzio dei
pensieri che le affollano la mente. Pensa a quando lo avrà indosso domani. Pensa al mormorio del pubblico che gremirà la
sala. Pensa al ticchettio degli orologi, a quando scoccheranno
le ore ventuno e avrà inizio la serata, forse, più importante
della sua carriera.
– Ussignùr, non si chiude! – strattona con decisione la
cerniera, – Signorina, provate così, trattenete per un attimo il
respiro!
Le dodici mani si avvicinano tutte al corpo di Renata, per
verificare la gravità dell’imprevisto e avere l’occasione di dire
la propria.
– Ma come è possibile! Ieri mi era anche un po’ largo.
L’ho provato con... come si chiama... la ragazza, quella giovane, Michela ecco. Me lo ha sistemato proprio lei ieri, ha preso
: 111 :
tutte le misure! Mandatela a chiamare!
– Calme tuse, non c’è da perdersi d’animo. Il taffetà è
così, ha una struttura serrata, quasi rigida quando è fresca
di confezione, ma col calore del corpo si ammorbidisce e si
arrende alle forme. Lo saprò io che sono trent’anni che faccio
questo mestiere. Non vi preoccupate signorina Renata, cede!
Venite qui, fatevi vedere… siete un incanto –. Renata intanto,
come una bambola da carillon, si lasciava far roteare su sé
stessa.
– Che vitino, che decolleté! Avete un personale in-cante-vo-le, mica soltanto la voce! Sarà un piacere anche vedervi
domani, oltre che ascoltarvi!
– Signora Ortolani, ma siete proprio sicura? Lo sento
troppo stretto… e il mio diaframma impone libertà di movimento, per liberare il canto. E dentro il mio canto, c’è tutta la
mia vita!
Lo sguardo della donna, colpita nell’onore, si fa solenne:
– Signorina Renata, fidatevi di me. Con questo abito, domani, conquisterete la gloria.
11 maggio 1946
La notte è passata insonne. L’incubo di essere priva di
fiato, per seguire il maestoso attacco della bacchetta, l’ha tenuta sveglia. I suoi polmoni sarebbero stati costretti a indugiare timidi all’interno del torace, o sarebbero riusciti a librarsi,
affrancati dalla costrizione di quel pregevole tessuto? Lo scoprirà presto Renata, se l’abito che ha indosso da un’ora e che
non da alcun accenno di cedimento, quella sera, sarà alleato
o nemico.
: 112 :
Prova a inarcare la schiena prima di entrare, lasciando
che il torace prenda tutto lo spazio necessario. «Ecco, ora
meglio, santo cielo aiutami, dove sono gli spettatori, i palchi
sembrano vuoti, queste luci mi abbagliano, il ronzio è impercettibile ora, il momento è arrivato, Te Deum».
Ora, tutti voi conoscete bene il lieto fine di questa vicenda. Quella sera la Voce d’Angelo verrà accolta da applausi
torrenziali, accedendo, di lì a poco, all’Olimpo dei miti del Novecento e delle personalità più amate del nostro Bel Paese.
Ciò che non tutti sanno è che, da quel giorno, Renata
Tebaldi chiederà che i suoi abiti di scena siano sempre sottoposti a una rifinitura sartoriale: ristretti all’altezza del busto,
rinforzati sotto il generoso seno – conseguenza di ottimi geni
emiliani e di appetito robusto – per avere una posizione innaturale quel tanto da lasciare al fiato una strada dritta e spianata verso l’alto.
Dal suo petto trionfante scaturiranno le arie più leggendarie della lirica e la sua postura regale diventerà l’emblema
della rinascita italiana, dell’orgoglio di un talento naturale ma
coltivato da dura disciplina, accompagnato dall’umiltà propria
di una ragazza che, affidandosi all’esperienza d’altri, non seppe dire di no.
__
@Antonella Del Torto:
The world fascinates her. Eroina in pieno viaggio, adora cacciarsi in situazioni scomode. Provare a scrivere è stata una di queste.
: 113 :
1930 - 1940
: 115 :
#1937:
Il racconto si svolge all’alba del sedicesimo anno
dell’era fascista, nel 1937, Erminio Macario e Vanda
Osiri stanno per debuttare con la loro commedia musicale Piroscafo Giallo (che avrà un ottimo successo
di pubblico); sulle locandine il nome della diva è quello italianizzato – imposto dal fascio – ma sulla bocca
di tutti i suoi ammiratori solo e sempre Wanda Osiris.
: 116 :
Sentimental
Un enorme cesto di rose rosse appare dal nulla. Risate,
battute, commenti e brindisi si interrompono, rimpiazzati da
un sommesso brusio di stupore. Anche stasera, la compagnia
di artisti che da qualche settimana si esibisce al teatro Quattro Fontane si è ritrovata al vicino ristorante per festeggiare il
successo della nuova rivista. La sala è ampia e rettangolare,
con un pavimento a scacchiera, alle pareti una modesta boiseire in legno scuro e alle finestre delle tende bianche con
drappeggi rosa antico. In un angolo una radio trasmette una
canzone del Trio Lescano. Una coppia di lampadari liberty,
perfettamente allineati, diffonde una luce calda che illumina la
lunga tavolata apparecchiata con i colori preferiti della vedette: tovaglie ocra, piatti, bicchieri e posate dai profili dorati.
Il cesto si muove attraverso la sala come dotato di vita
propria. Unico dettaglio umano, un paio di secche gambette
maschili coperte da un pantalone di lana grigio e due scarpe
: 117 :
nere lucide che spuntano dalla base di vimini bianca. L’attenzione di tutti gli astanti è catturata da questa scena inusuale
e da quell’andatura ciondolante che regala ai fiori un movimento naturale, simile a quello dato da una lieve brezza. Un
profumo, intenso ma insolito per delle rose, si diffonde tutt’intorno. Il cesto punta dritto alla soubrette che sfodera un ampio
sorriso che è un misto di curiosità e lusinga. Si ferma proprio
davanti a lei e da dietro i fiori, quasi spinta fuori da una molla,
appare una testolina con due occhi arrotondati e un inequivocabile ciuffetto curvo, impomatato sulla fronte.
– Buonasera signorina, sono venuto a piedi da Tonrino a
Ronma portando questo cesto in omaggio alla vostra bellezza
e al vostro successo.
Una risata collettiva accompagna quella più composta
della prima donna dello spettacolo: – Arpage, – dice lei annusando una rosa presa dall’enorme mazzo, – È la prima volta
che mi capita di ricevere dei fiori intrisi del mio profumo preferito. È un gesto di grande galanteria che solo un mattacchione
fantasioso come voi, Macario, avrebbe potuto fare. Ne sono
profondamente lusingata.
– È davvero il minimo, per rendere omaggio a una divina
del vostro calibro. Ho fatto tanta strada per essere al vostro
cospetto e complimentarmi con voi e con il grande Michele
Galdieri, autore di tanti successi. A proposito, – dice Macario
mentre allunga il braccio per stringere la mano al regista, – Ho
visto dalla locandina davanti al teatro che il titolo della rivista
è E Se Ti Dice Va! Tranquillo Vai. Ma non doveva essere
: 118 :
Ma Quando Parla Lui?
– È così, caro Erminio. Ma sapete com’è in questo periodo, la satira non è ben tollerata e la censura si fa sempre più
forte. Ma noi resistiamo e il pubblico ci è riconoscente. Anche
stasera abbiamo fatto il tutto esaurito!
– Ma lo so ben, lo so ben, lo so ben! Si parla del vostro
successo anche nella mia bella Tonrino e perfino nella grande
Minlano. Certo che, senza nulla togliere alla vostra maestria,
con una stella come Wanda, il successo è assicurato.
– Voi mi confondete con tutti questi complimenti. Ma vi
prego, non restate lì in piedi. Unitevi a noi, sedetevi qui accanto a me.
– Opperbacco. Non so se posso osare tanto, – dice strabuzzando i suoi occhietti tondi, stampati su quella faccia clownesca. – Dite davvero?
– Suvvia, non fate lo sciocco. Accomodatevi!
La voce impostata dell’annunciatore radiofonico interrompe il pezzo dell’Orchestra Barzizza, comunicando che da
lì a poco ci sarebbe stato un messaggio ufficiale del Duce. Il
silenzio provocato dall’annuncio viene delicatamente interrotto da Macario che, ormai seduto a fianco della grande Wanda
Osiris, le si avvicina all’orecchio e le sussurra: – Tramite un
amico di Tonrino che traffica con il porto di Gennova, mi sono
procurato un disco che viene dall’America e mi sarei permesso di portarlo qui per farvelo ascoltare.
– Un disco? Che viene dall’America? – esclama stupita
con un accenno di eccitazione nel tono della voce, – Mi pia: 119 :
cerebbe, ma in questa sala non c’è un grammofono, e poi
sapete quanto può essere rischioso, in questo periodo di repressione.
– Lo so, lo so! Ma io amo il rischio, soprattutto quando
devo correrlo per una bella donna come voi! – Macario batte
le mani e un giovane cameriere, a cui strizza l’occhio, entra in
sala portando un grammofono; lo appoggia su di un tavolino
di servizio, attacca la presa di corrente, posa la puntina sul
vinile e, proprio mentre le prime note stanno per partire, esce
dalla sala chiudendosi le porte alle spalle.
Tutti rimangono rapiti da questo ulteriore gesto inaspettato. La musica, che comincia a riempire la sala, arriva quasi
come una piccola orgogliosa irriverenza alle sempre crescenti
restrizioni introdotte dal fascismo.
– È Don’t Change A Hair For Me, – fa lui, sempre sussurrando all’orecchio di Wanda, – La canzone del nuovo musical
intitolato Babes In Arms, che sta spopolando a Broadway in
questo momento.
Lei, senza rispondere volge lo sguardo verso l’alto e aggiustandosi una ciocca di quei capelli biondo platino, messo
ancor più in risalto dalle unghie perfettamente laccate di rosso, inizia a seguire la musica con i movimenti della testa.
Macario improvvisa un balletto. È goffo ma agevolato da
una naturale scioltezza dei movimenti, che lo rende simile a
un mimo francese.
– Musica deliziosa, coinvolgente e irresistibile. E voi siete
un imprudente ma lusinghiero burlone, – esordisce la diva.
: 120 :
– Vedete, – riprende l’attore, dopo essere tornato a sedere, sorseggiando un calice di vino, – Io sogno costantemente.
Amo lo spettacolo e sono attratto da tutto ciò che è nuovo,
divertente e di facile comprensione. Sono di origini modeste e
voglio regalare emozioni che arrivino a tutti, comprese le persone semplici. Il musical è tutto questo, una fusione di canto e
prosa, e io lo trovo magnifico. So che posso sembrare sconsiderato, ma nella vita dobbiamo avere tutti il diritto di cantare,
ballare e divertirci. Sempre!
– Ordunque, fatemi capire dove volete arrivare. Voi siete
un affabulatore ma io non sono una sprovveduta. Perché mi
state raccontando tutto questo?
Galdieri, seduto alla sinistra di Wanda, inizia a tamburellare nervosamente le dita di entrambe le mani sul tavolo.
– Vedete, è da tempo che ho un progetto che mi frulla
in testa: una commedia musicale ispirata al musical americano! Una cosa che nessuno ha mai osato nel nostro paese,
che fonda operetta e comicità con un pizzico di rivista e caffè-concerto. Uno spettacolo dai temi leggeri e trame brillanti,
accompagnati da melodie semplici e orecchiabili, vicine al gusto popolare.
– E quindi?
– Ma ve lo immaginate! Una soubrette, un’artista completa e poliedrica come voi, che ha lo sfarzo e l’eleganza innate,
insieme – modestamente parlando – a un comico come me.
Sarebbe un’accoppiata vincente: vedo già i nostri due nomi
sulle locandine del teatro!
: 121 :
– Ma basta! – interrompe urlando e riportando il silenzio
in sala Galdieri –. Pensate forse che non vi senta? Che sfacciataggine, ma come vi permettete? Arrivate nel bel mezzo
della cena con lusinghe e complimenti per poi mettere in atto
un bieco giuoco di raggiro nei confronti della povera Wanda.
– Ma come ti permetti tu, Michele! Io so badare a me
stessa e non mi sento certo raggirata. Lusingata, forse un po’
confusa, ma non raggirata!
– Wanda, perdonami, ma era un invito a non dar retta
a questo scellerato. Insieme abbiamo fatto grandi cose noi
due. Io ho pensato al tuo nome d’arte, che per essere di buon
auspicio contenesse la radice dei nomi degli dei egizi Iside e
Osiride. E se oggi sei la grande Wanda Osiris, lo devi principalmente a me. Hai raggiunto un successo che non può essere messo in pericolo dai sogni strampalati di questo mezzobusto.
– Scellerato, strampalato, mezzobusto a me? Ma lo vedi
come sei, lo vedi come sei, lo vedi come sei? Sei proprio un
balengo!
Prima ancora di aver completato la frase, Macario si trova la faccia annaffiata da un calice di vino bianco gettato con
rabbia da Galdieri.
– Ma smettetela di fare i ragazzini. Tu, Michele, cerca di
calmarti e voi, Macario, asciugatevi e venite con me, – dice
Wanda porgendo un tovagliolo e prendendo sottobraccio il
comico. Sullo sfondo una canzone di Rabagliati, mentre i due
si dirigono verso il terrazzo su cui si affaccia la sala, al primo
: 122 :
piano di quel ristorante nel cuore di Roma.
È una tipica serata primaverile, rinfrescata dal ponentino
e illuminata da una stellata che pare lo sfondo di una meravigliosa sceneggiatura teatrale. In lontananza, degli stornelli
romaneschi rendono l’atmosfera leggera e allegra.
– Certo che avete una bella faccia tosta, – riprende lei
con un sorriso compiaciuto e uno sguardo rapito da cotanta
determinazione e coraggio.
– Caspiterina, e voi avete una faccia incantevole che da
sola potrebbe illuminare il palco del teatro Valle. È lì che debutteremo con la nostra commedia musicale.
Ho pensato di rimanere a Ronma per non farvi scomodare e per permettervi di abituarvi all’idea.
– Siete un adulatore imperterrito che riesce sempre a regalare un sorriso, anche quando giocate a storpiare i nomi
delle città. Avete una comicità candida e semplice che arriva
al cuore. Qualità piuttosto rara!
Il comico abbassa lo sguardo, quasi a mostrare imbarazzo, per poi rialzarlo con un nuovo guizzo di luce e, prendendole la mano, dice: – È proprio questo a cui mi riferivo. Al
successo che può nascere dal contrasto della mia semplicità
con il vostro innato splendore. La mia maschera comica e le
vostre piume e paillettes. I miei dialoghi buffi e le vostre canzoni. Un connubio perfetto, non trovate?
Nel buio all’improvviso un suono, un verso d’uccello,
sembra il grugare della tortora. Gli occhi della soubrette sgranati, quasi a cercar di individuare un nemico ancor più perico: 123 :
loso in quanto non visibile. Nel mondo dello spettacolo girano
tante voci e quella della sua fobia per i volatili è giunta anche
all’orecchio del comico piemontese. Macario capisce che nessuno dei suoi stratagemmi linguistici può sortire effetto. Smette di parlare e tiene lo sguardo fisso su di lei.
Sente di dover essere pronto a intervenire. Non sa come
e verso chi, ma è all’erta.
Un battito d’ali. Un lieve, quasi impercettibile spostamento d’aria vicino alle loro teste e il panico si materializza
in lei. Si irrigidisce, si aggrappa con tutte le forze alle braccia
dell’uomo. Comincia a girare la testa da destra a sinistra e da
sinistra a destra, senza vedere nulla. La fronte perlata di sudore, la bocca semispalancata come a emettere un urlo silenzioso. Una piuma dall’alto cade in mezzo a loro e in un battito
di ciglia, senza rendersene nemmeno conto, Wanda sviene
tra le braccia di Macario.
– Aiuto, serve aiuto: qui fuori! – inizia a gridare lui. E poi,
come folgorato da un lampo di genio: – Vi prego, portatemi il
cesto di rose. Le rose rosse. Presto!
In sala il vociare è piuttosto sostenuto. Complici il vino e il
buon cibo, sono tutti un po’ intontiti e assorti nelle chiacchiere
che lo scontro tra i due uomini ha provocato. Solo il cameriere,
quello del grammofono, sente le urla e con lo zelo di un vero
professionista abituato a soddisfare il cliente, senza farsi troppe domande, prende il cesto e correndo lo porta in terrazza.
– Presto, – ripete il comico, – Dammi un paio di rose!
Rapidamente, le prende dalle mani tremanti del ragazzo
: 124 :
e le passa delicatamente sotto le narici di Wanda. Lo fa più
e più volte, finché le ciglia accennano a schiudersi e il volto
dell’attrice a riprender colore.
– Lo sapevo, – dice tra sé e sé.
«Tipico di una diva del suo calibro. In caso di mancamento, niente di meglio del suo profumo preferito per farla
rinvenire...»
– Bentornata tra noi divina: come state?
– Frastornata, debole e anche imbarazzata. Dovete scusarmi. È una paura che non riesco a controllare. Deve avere
radici antiche e ogni volta mi causa situazioni sgradevoli.
– Non fatevi problemi con me. Ne ho viste di cotte e di
crude e vi garantisco che son ben altre le situazioni sgradevoli, credetemi! Se vi appoggiate a me, proviamo a rientrare.
Lentamente, sorretta da quell’omino buffo e così fragile a
vedersi, la Osiris rientra in sala. Come a teatro, anche questa
sua entrée attira l’attenzione dei presenti, e in particolar modo
di Galtieri, che corre verso di lei gridando: – Cosa ti ha fatto
quel mascalzone?
– Questo galantuomo mi ha salvato mentre tu e gli altri colleghi stavate cianciando, inebriati dal vino e dal nuovo
argomento della serata. Credo che questo sia sufficiente a
rispondere alla tua domanda!
Imbarazzato, Galtieri torna a sedere proprio mentre la
musica, che fino a quel momento aveva accompagnato la serata, si interrompe e una voce perentoria, inequivocabile, inizia a uscire dalla radio: “Italiane, italiani, sono fiero di annun: 125 :
ciare che il prossimo 25 settembre 1937 sono stato invitato da
Hitler in visita ufficiale in Germania, dove di fronte al grande
popolo tedesco andremo a riconfermare l’intesa e l’alleanza
nata il 25 ottobre dello scorso anno: l’Asse Roma-Berlino.
Sarà la celebrazione delle nostre due grandi nazioni, unite da
un obiettivo di grandezza e potenza comune. L’affermazione
del popolo italiano nel mondo”.
Gli sguardi degli astanti, come in trance, sono rivolti alla
radio, quasi a veder materializzata l’immagine dell’annuncio
del Duce che ha riportato tutti alla dura realtà. Anche la Osiris
e Macario restano impietriti per qualche secondo.
Wanda sente che l’aquila nera del fascismo è il vero
grande pennuto di cui aver paura e, come spinta da un piccolo e inaspettato moto interno di ribellione, si rivolge al comico: – Ho sentito dire che la musica porta pace, amore e
gioia. Il musical potrebbe essere la nostra piccola missione
per quest’ Italia martoriata da venti di guerra. Quando iniziano le prove?
Macario, con un sorriso che va da orecchio a orecchio,
fa un saltello su se stesso, strabuzza gli occhi e dice: – Anche domani se volete.
Nello stesso istante, quasi richiamato dal messaggio radiofonico appena trasmesso, entra in sala un funzionario fascista con una busta in mano: – Chi di voi è Wanda Osiris?
– Sono io, – risponde la soubrette con quell’inequivocabile timbro di voce un po’ ostentato e voluttuoso, tipico di colei
che non esce mai dal ruolo della magnifica.
: 126 :
– Questa è per voi, da parte del segretario del Partito
Nazionale Fascista Achille Starace.
La diva, senza proferir parola, prende la busta tra le mani
e con un cenno del capo ringrazia. Il camerata batte i tacchi,
si gira di centottanta gradi e, come un automa, con lo sguardo
fisso, esce da quella stanza ormai cupa e spenta.
Le lunghe unghie cercano un pertugio nella chiusura della busta e quando lo trovano, come un taglierino, con un paio
di mosse secche e decise la aprono.
Tutti gli occhi sono su di lei, ma è un’attenzione a cui non
è abituata. È diversa da quella che riceve quando in passerella raccoglie applausi e apprezzamenti.
È densa, tesa e curiosa di sapere.
I suoi occhi chiari iniziano a scorrere le prime parole del
foglio e lentamente, con un filo di voce, come chi sente di dover condividere un momento intimo, inizia a leggere: – Sulla
base delle ultime disposizioni emesse, in nome e per conto
del nostro Duce Benito Mussolini, al fine di tenere alto l’onore
della nostra grande Italia, a far data da oggi, la Signoria Vostra è gentilmente invitata a cambiare il proprio nome d’arte
da Wanda Osiris a Vanda Osiri. Certi dell’orgoglio che questa
scelta Nazionalista farà scaturire in Voi, Vi auguriamo grandi
successi e con l’occasione porgiamo i nostri più distinti saluti.
Una sensazione di smarrimento, paura e impotenza l’assale: – Che ne sarà della mia carriera? – sussurra con un filo
di voce.
Ancora una volta, i colori di quel volto sempre perfetta: 127 :
mente truccato sembrano dissolversi e con essi anche tutti
quelli della sala e dei suoi ospiti. Un velo grigio e silenzioso
cala, come il sipario alla fine di una rappresentazione teatrale,
ma senza l’eco del benché minimo applauso.
Lo spettacolo è finito: tutti a casa!
__
@Mauro Tortelli:
Nasce l’anno in cui M. L. King pronuncia la frase “I have a dream”: leitmotif
della sua vita. Milanese di nascita ma urbinate nel cuore, vede nelle parole
un mezzo di libertà.
: 128 :
1920 - 1930
: 131 :
#1924:
Le ore sono le ventuno del 6 ottobre 1924, il posto è
palazzo Corradi a Roma. I protagonisti di questa ironica rivisitazione di un momento storico sono Ugo
Donarelli, la moglie Ines, Enrico Marchesi, il generale Ciano, Maria Luisa Boncompagni (e dei reattivi
violinisti). La missione è che deve andare in onda
– a tutti i costi – la prima trasmissione radio d’Italia,
ma niente è così semplice come sembra...
: 132 :
Parole al vento
Dicono che le parole sono leggere e volano via, ma alcune pesano così tanto che riescono a cambiare il corso della
storia.
“URI Unione Radiofonica Italiana. 1-RO: stazione di
Roma. Lunghezza d’onda 425 m. A tutti coloro che sono in
ascolto il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore ventuno del 6 ottobre 1924...”
Stessa data, stessa ora, novant’anni più tardi, quell’annuncio risuona nell’atrio di un palazzo popolare della periferia
di Roma, fuori la notte è già scesa. Il suono di quelle parole
scivola per le scale di marmo lucido e chiaro, proviene dal
piccolo appartamento del terzo piano. Nella stanza il volume
troppo alto della radio distorce le parole e riempie tutto l’ambiente, il vecchio Gigi è seduto sulla sua poltrona, la testa
: 133 :
appoggiata allo schienale un po’ reclinato, gli avambracci entrambi posati sui braccioli e le mani strette sulla tela lisa del
copripoltrona. Luigi ha gli occhi chiusi, a cento anni compiuti
per seguire le trasmissioni deve rimanere perfettamente concentrato e sfruttare il poco udito rimasto, ma in quella sera
di inizio ottobre, quando si festeggiano i novanta anni dalla
prima trasmissione radiofonica, Gigi apre i cassetti più segreti
della memoria, e torna velocemente a quel momento.
Lui c’era.
– La qualità della trasmissione di ieri era perfetta, ho sentito più di una persona affermare che sembrava di avere il
nostro benemerito Duce proprio all’interno di casa, – Enrico
Marchesi, mezzo gradino dietro il ministro Ciano, sfodera il
suo tono più rassicurante per tranquillizzare il generale sul
buon esito di quella serata. I due uomini entrano nella luminosa sala da pranzo di palazzo Corradi mentre il presidente
della neonata URI continua la sua opera di convincimento: –
E poi non ci dimentichiamo che ieri trasmettevamo da teatro,
questa sera il Duce parlerà dalla nostra sala di registrazione,
che grazie alla vostra compiacenza è quanto di meglio oggi la
tecnologia possa offrire.
Nella sala affollata le voci delle due personalità attirano
l’attenzione di un uomo, che si volta di tre quarti verso di loro,
una mano nel taschino del gilet e l’altra impegnata dal sigaro:
inspira profondamente alzando vagamente il mento, per far
scendere meglio il fumo, e mentre espira la sua bocca abboz: 134 :
za un sorriso sornione.
Quell’uomo è Ugo Donarelli, direttore artistico della neonata URI e affermato baritono.
– Davvero strabiliante che tutta questa tecnologia possa
essere al servizio del Regime, – con questa frase vagamente
ironica Ugo si rivolge a ministro e presidente.
Palazzo Corradi, nel mezzo della campagna romana che
sarebbe poi diventata il quartiere Parioli, è animato da una
grande agitazione: tutte le maestranze al servizio della prima
stazione radio pubblica d’Italia si stanno prodigando negli ultimi preparativi, mentre i burattinai di quel grande spettacolo si
stanno per concedere una cena ristorativa prima del via ufficiale alle trasmissioni. L’ora X era stata fissata per le ventuno.
Preceduta dal suo profumo francese estremamente costoso, Ines Viviani Donarelli entra nella sala e subito si avvinghia maliziosa a suo marito Ugo, strizzando l’occhiolino al
ministro Ciano: – Quanto sono emozionata per te, è una sera
importantissima per la tua carriera, che ripaga tutti gli sforzi
degli anni del conservatorio e le notti passate a studiare. A
volte rimanevo lì a sentirti cantare, rapita dalla tua bravura, e
nel mio cuore sapevo che avresti avuto un futuro luminoso.
– L’emozione è mia, che posso ammirarti così bella ed
elegantemente vestita… grazie alla generosità del nostro Duce
nei confronti dei miei servigi, – replica beffardo Ugo, mentre
sfiora la guancia della moglie con il dorso della mano.
Ines, dopo averlo guardato severamente, emette una
risatina sonora, che ad ascoltarla bene lascia trasparire un
: 135 :
certo nervosismo, e subito si divincola dal marito per andare
a conversare con il ministro.
Ines e Ugo si erano conosciuti al conservatorio, la comune passione per la musica aveva fatto credere a entrambi che
potesse bastare per essere felici insieme, ma con il passare
degli anni le differenti aspirazioni avevano ‘caricato’ in modo
opposto i loro corpi, così che ora ogni contatto tra i due rischiava di far scattare una scintilla.
Mentre le cameriere stanno finendo di preparare la tavola
e tutti i commensali sono ancora in piedi, Maria Luisa Boncompagni entra frettolosa nella sala e si dirige dritta verso Enrico:
– Presidente, buonasera, ho finito di rileggere e studiare i testi per questa sera. Vuole che li rivediamo insieme? Altrimenti
andrei a stendermi un attimo di sopra, nel camerino, credo di
aver bisogno di un po’ di riposo prima di andare in onda.
Maria Luisa sarebbe stata la prima speaker della storia
della radiofonia italiana e la sua inquietudine è più che comprensibile.
– Ma è sicura che non vuole mangiare un boccone con
noi? Io non ho bisogno di rivedere i testi e ovviamente può
andare, ma non vorrei avesse poi un mancamento.
– Sono lusingata del suo interessamento, ma credo che
l’agitazione mi abbia fatto passare l’appetito, – dice timidamente l’annunciatrice.
– Non si preoccupi, vada pure a riposarsi, la farò venire a
chiamare quando sarà tutto pronto.
La ragazza fa un inchino e si congeda dal presidente
: 136 :
Marchesi.
Poco lontano la signora Donarelli e il ministro Ciano avevano seguito il breve scambio, che aveva dato l’occasione a
Ines di esprimere al generale tutta la sua genuina invidia per
quella ragazza che avrebbe avuto il privilegio di pronunciare
parole così cariche di significato.
– Certo è una bella responsabilità la sua, e francamente
quella ragazza non mi sembra all’altezza, – tuona Ciano quasi
parlando a se stesso, mentre Ines segue quel fluire di pensieri
con un’espressione comprensiva e di approvazione.
– Camerata Marchesi!
Il presidente, riconoscendo all’istante il tono e la voce,
non lascia passare tre secondi che già è di fronte al ministro.
– Enrico, come mai abbiamo dato l’incarico di presentatrice a questa ragazza? Almeno è iscritta al partito?
– Generale, è stata selezionata proprio tra le liste del partito dal nostro direttore artistico, è una brava ragazza e fino a
oggi ha lavorato sodo, in nome dell’Italia e del Duce.
– Certo, certo, ma non basta, ci vuole carattere, passione. Sono certo che Ugo non avrà nulla a che ridire se almeno
il primo annuncio verrà letto da una camerata esemplare e
piena di spirito… sua moglie. Vada, vada con Ines e la prepari
che il tempo stringe.
Le pupille del presidente Marchesi cercano quelle di
Ugo, quasi a chiedere il suo permesso o perlomeno la sua
benedizione, ma non riesce a catturare il suo sguardo, e per
non creare tensioni pericolose si avvia con la donna verso le
: 137 :
sale di registrazione.
Ugo, che ha seguito tutta la scena, senza mostrare eccessivo turbamento scivola lentamente verso la porta di ingresso, tirando fuori un sigaro dalla sua custodia d’argento
con incise le iniziali I e U: l’unico segnale della sua agitazione
interiore è dato dal modo secco con cui chiude la porta. Il rimbombo arriva fino all’ultima sala del palazzo.
In piedi sul primo gradino, una mano nel taschino del gilet, inspira il fumo profondamente e lo espira con forza, come
in un moderno esercizio di concentrazione.
– Terra di arte e sapienza un corno… che scherzo mi
hanno fatto i miei genitori, che idee balzane hanno lasciato
crescere nella mia mente e nel mio cuore. Terra di ignoranti
e leccaculo, ecco cos’è l’Italia di oggi: dove il colore di una
camicia determina le tue capacità, dove la compiacenza è più
importante della propria integrità morale. Ogni giorno la situazione è sempre più paradossale e io sono pure costretto a seguire questo declino da un punto di osservazione privilegiato:
stando vicino ai ‘potenti’ vedo tutto… proprio tutto. Io non so
quanto a lungo potrò sopportare e ancora meno so come farai
tu a crescere in questo paese…
Terminato lo sfogo, Ugo si riporta il sigaro alla bocca e
osserva interrogativo il ragazzino che, in piedi davanti a lui,
solo qualche gradino più in basso, lo sta ascoltando.
Lancia in aria una nuvola di fumo, espirando, e improvvisamente chiede: – E tu chi sei?
– Balilla Luigi Marino, signore! Caposquadra XXVIII Le: 138 :
gione del Centurione Volpi, croce al merito, – scandisce il ragazzino sull’attenti.
– Comodo ragazzo, queste sono informazioni che proprio non mi interessano. Con chi sei qui? Per un Balilla come
te non sta bene andare in giro da solo a quest’ora, – precisa
pungente Ugo.
– Sìssignore, lei c’ha ragione. Ma c’ho ’na cosa importante da dire, importantissima. Al Duce lo farà contento.
– Tu sei già preoccupato di cosa piace o non piace al
Duce? – sbuffa, – Vabbè, ora entriamo che inizia a fare freddo, ci spiegherai la questione davanti a un piatto caldo.
Effettivamente il piccolo Luigi, o Gigi, come già lo chiamavano tutti, è abbastanza affamato dato che era arrivato lì
attraversando tutta la città da solo, a piedi, per non mancare
l’ora esatta.
Appena entrati nella sala da pranzo, Ugo e il ragazzino –
una piccola presenza inusuale per il contesto – si aggiudicano
l’interesse generale, tanto che il Balilla si sente in dovere di
ripresentarsi: – Balilla Luigi Marino, Caposquadra XXVIII Legione del Centurione Volpi, croce al merito, – la voce sicura
era stata leggermente incrinata dall’emozione, avendo notato
che in sala è presente anche il generale Ciano.
Vedendo che tutti sono già intorno a lui, prosegue: – Scusate se v’interrompo, so che questa sera verrà fatta la prima
trasmissione alla radio. All’ultima riunione delle Legioni c’hanno detto che è ’n mezzo eccezionale pe’ parlà co’ aggente, e
io c’ho ’na cosa che voglio fà sapé a tutti.
: 139 :
Il generale, soddisfatto di come le informazioni passassero tra i gruppi giovanili del regime, lo incoraggia a raccontare questa cosa così importante.
– Be’, volevo dire che papà ora cellà ’na camicia nera… e
sò stato proprio io a regalajela, – tutti fanno una sonora risata
per l’ingenuità di quell’annuncio, tutti tranne Ugo – Sì pecché
papà non c’ha più er lavoro, ma lui non è che non la voleva
la camicia, credetemi, solo non c’aveva li sordi pe’ compralla.
Ma ora cell’ha e tutti lo devono sapé, così torna a lavorà.
Mentre tutti si guardano commossi da quel pensiero innocente, Ugo avverte una chiara sensazione di disagio, e più i
presenti si scambiano parole di approvazione per un discorso
così sincero, più lui si sente montare dentro una rabbia irrefrenabile.
Il primo a rompere quel brusio è proprio Ciano: – Ragazzo mio, il tuo gesto è stato nobile e mi ha profondamente
commosso. La radio è fatta per altro, ma mi impegno personalmente a occuparmi della situazione di tuo papà, – si ferma
solo un istante per rivolgersi al suo sottoufficiale: – Camerata,
prenda le generalità del padre di questo ragazzo, si informi
della situazione e domani mattina la aspetto in ufficio per una
relazione completa.
Il sottoufficiale fa battere i tacchi mentre alza il braccio
destro e il ministro riprende: – Ora va’ ragazzo, ma prima passa in cucina che c’è un piatto di minestra calda che ti aspetta.
Luigi esce dalla stanza accompagnato dal camerata,
proprio mentre rientrano Marchesi e Ines: Ugo è ancora in
: 140 :
disparte e la vista di sua moglie, sorridente ed eccitata da quel
nuovo capriccio, lo rende ancora più nervoso.
È il momento di sedersi a tavola, e tutti prendono posto,
Ugo, a fianco di sua moglie, è inquieto: di solito sarcasmo e
distacco gli hanno sempre permesso di gestire la sua profonda critica a quel tipo di mondo, ma quella sera è diverso.
«La Boncompagni messa da parte perché i ‘grandi’ del
partito, sì, i grandi ottusi, si lasciano deviare dalle moine di
una donna qualunque. Un bambino i cui pensieri dimostrano
la vittoria di una società che punta a plasmare le menti: per
ora ho solo evitato di partecipare attivamente… ma non basta
più, se di questo mondo faccio parte, ne sono anche responsabile.»
La cena è appena cominciata e il presidente Marchesi
per rompere il ghiaccio inizia a ipotizzare quale potrebbe essere il contenuto del messaggio che il Duce pronuncerà durante la prima trasmissione, il ministro Ciano si sente subito in
dovere di prendere la parola: – Sicuramente non mancherà di
sottolineare l’importanza di questo nuovo mezzo per informare e istruire le masse. Per i primi tempi ovviamente la diffusione della radio sarà in parte limitata dal costo degli apparecchi,
ma sono previsti degli investimenti in futuro.
– È davvero lodevole l’interesse che il regime dimostra
nei confronti dell’alfabetizzazione della popolazione, – squittisce Ines.
– Bisogna vedere se questa preoccupazione è sincera o
finalizzata al raggiungimento di un qualche scopo.
: 141 :
Ugo era famoso per le battute taglienti, che più di una
volta avevano lasciato perplessi i suoi interlocutori, ma stavolta di dubbi ce ne sono pochi e i commensali si irrigidiscono di
colpo.
Marchesi riprende la parola cercando di fare finta di nulla: – In ogni caso è sempre un piacere sentir parlare il Duce.
– Perché invece non trasmettere un bel concerto... musica classica... educazione all’arte, alla musica, al bello.
La sfrontatezza di Ugo crea dapprima un silenzio che
zittisce anche il tintinnio delle posate d’argento, e poi fa alzare un mormorio generale: ma il direttore artistico sembra non
preoccuparsene, ha il suo solito atteggiamento finto tranquillo
e un mezzo sorriso stampato sulle labbra, che gli dà un’aria
distaccata e sicura di sé. È il sorriso della ribellione quello di
Ugo, quel nodo che sentiva da anni nel petto è come se si
fosse sciolto, e lui avverte un’audacia mai provata, che quasi
lo inebria.
Marchesi continua a mangiare in silenzio, non sa più
cosa rispondere, è il ministro Ciano che chiude la discussione: – Nobili contenuti di certo, ma il popolo oggi ha bisogno
di altro, bisogna soddisfare i suoi bisogni primari. In futuro,
con lo sviluppo di questo mezzo, ci sarà spazio anche per le
canzonette.
Finita la zuppa, le cameriere sparecchiano e i commensali si prendono un breve momento di libertà: c’è chi si alza
per andare a controllare le ultime cose, c’è chi si concede
una sigaretta, Ines ha preso in disparte Ugo. Le espressioni
: 142 :
del viso e il movimento delle mani lasciano intuire che lo sta
rimproverando per le uscite di poco prima. Ugo rimane impassibile.
Ci sono altre due persone che stanno parlando in disparte, con la mente persa oltre le grandi finestre della sala, nel
buio della campagna romana: sono il ministro Ciano e il presidente Marchesi. Ciano è totalmente contrariato dal comportamento del direttore artistico: – Dovrebbe facilitarci il lavoro,
dovrebbe remare dalla nostra parte e invece mi sembra in
piena opposizione. Dobbiamo stare attenti e, soprattutto, alla
prima occasione cerchiamo di sostituirlo. Abbiamo già troppe
cose a cui pensare, ci mancano solo le minacce interne.
Ettore, un capo tecnico delle trasmissioni, non ha potuto
evitare di ascoltare: si è avvicinato piano per chiamare Marchesi, ma il presidente non ha mai perso di vista la finestra,
ignorando completamente la presenza del tecnico, e lui non
ha potuto far altro che avvicinarsi e toccare la spalla del superiore per farsi notare.
– Cosa c’è Ettore? – risponde Marchesi con un tono avvilito e preoccupato.
– Il Duce sarebbe già dovuto essere qui per effettuare le
prove, ma sono quasi le venti e ancora non si vede nessuno.
Il ministro Ciano si tira sull’attenti e interviene: – Ci penso
io, manderò qualche camerata a controllare.
Con il suo solito passo deciso si avvia verso la porta,
lasciando Ettore e Marchesi a guardarsi preoccupati.
– Ettore, avvisi il signor Donarelli… dobbiamo essere
: 143 :
pronti a tutte le evenienze –. Il tecnico si dirige immediatamente da Ugo, che nel frattempo è rimasto solo.
– Direttore, non so cosa lei abbia fatto a tavola, ma il ministro è totalmente contrariato, minaccia di farla fuori dall’URI,
il passo successivo è l’espulsione dal partito, sarà un uomo
finito e anche sua moglie la lascerà, stia attento.
– Non ti preoccupare amico mio, – risponde noncurante,
anche se in realtà quella notizia aveva creato un po’ di turbamento in lui. Non ha minimamente pensato alle conseguenze
della sua sfrontatezza, ma oramai è tardi.
– Piuttosto, dov’è corso il ministro? – prosegue il direttore
artistico per darsi un tono.
– Ah giusto, il Duce non è ancora arrivato e il generale
sta andando a mobilitare qualcuno dei suoi. Mi hanno chiesto
di avvisarla… per essere pronti nel caso il Duce non arrivi.
Ugo rimane per un momento silenzioso e corrucciato,
d’improvviso prima spalanca la bocca e poi la scioglie in un
enorme sorriso: non crede alle sue orecchie, quella è un’occasione da non farsi sfuggire.
– Sai, Ettore, ho accettato questo incarico perché sognavo di contribuire a far conoscere al popolo la grande musica,
a cui oggi non ha accesso, ma presto mi sono reso conto che
non avrei avuto alcun margine di manovra. Questa è la mia
occasione, forse l’unica che avrò: devo approfittarne.
Ettore lo guarda interrogativo, ma non riesce a chiedere
nulla perché il direttore artistico prosegue quasi immediatamente: – Ettore, non vorrei coinvolgerti, ma qui sei l’unico di
: 144 :
cui mi posso fidare!
– Sì ma...
– Non temere, ho solo bisogno che corri a chiamare
Alberto, Amedeo e Alessandro... sai i musicisti che mi accompagnano da sempre?
– Ma... perché…
– Starai via al massimo mezz’ora, Amedeo abita a poca
distanza da qui, mentre Alberto e Alessandro oggi dovrebbero
lavorare al ristorante di Giulio. Ora corri, non abbiamo molto
tempo, io devo trovare il quarto violino.
Il tecnico non prova nemmeno a replicare e tantomeno
a indagare cosa Ugo ha in mente: sarebbe inutile anche perché si è già materializzato alla parte opposta della sala, fuori
dalla sua portata vocale. Rimasto solo si guarda in giro, e
rassegnato si avvia verso l’uscita per esaudire la preghiera
del Donarelli.
– Ettore!
Il tecnico si sente chiamare dalla voce di Ugo e per una
frazione di secondo spera che il suo ‘amico’ lo liberi dall’incarico, si volta e trova il viso eccitato di Ugo che gli dice: –
Ovviamente di’ a tutti di portare il loro strumento.
Mentre i camerata inviati da Ciano si avviano a controllare cosa provoca quel ritardo del Duce, ed Ettore sgattaiola
fuori da palazzo Corradi attento a non farsi vedere da nessuno, nella grande sala da pranzo tutti i commensali sono tornati
a posto per gustare l’anatra arrosto. Ugo sembra più tranquillo e, vedendo sua moglie in difficoltà con l’anatra, si allunga
: 145 :
dolcemente verso di lei e, prendendo coltello e forchetta dalle
sue mani, inizia a pulirla.
– Ines, scusami per prima, non so cosa mi sia preso. Forse è la tensione per questa sera, tra l’altro mi hanno appena
comunicato che il Duce rischia di non arrivare in tempo e io ho
il dovere di garantire ugualmente le trasmissioni: ho bisogno
del tuo aiuto.
Seppur con poco sentimento, gli anni di convivenza avevano insegnato a Ugo Donarelli come prendere la moglie e
anche questa volta erano bastate poche parole per far scattare in Ines il suo istinto di protagonismo.
– Ma certo caro, anzi, scusami tu se ho dubitato. Cosa
posso fare?
– Sai il concerto di Haydn che stai studiando con il tuo
maestro? Se riuscissi a trovare altri tre musicisti potremmo
eseguirlo.
– Ma sarebbe meraviglioso…
– Vero? Ho pensato che sarebbe di cattivo gusto proporre un programma politico senza il Duce, e la musica è sicuramente il campo dove mi muovo meglio.
– Ma caro, hai perfettamente ragione e poi sarebbe un
onore poterlo eseguire in questa occasione, passerei, ehm,
passerebbe alla storia. Ma chi potrebbe suonare quel pezzo?
– Posso fidarmi solo dei miei amici Alberto, Amedeo e
Alessandro, tra l’altro avete già suonato insieme. Li ho fatti
mandare a chiamare, spero arrivino.
– Vedrai che andrà bene, ce la metteremo tutta.
: 146 :
– Grazie Ines, nonostante alcune incomprensioni sai
sempre starmi vicino e non sai quanto lo apprezzo.
– Ugo, però non ho con me il mio strumento e gli spartiti...
– Dannazione! – Ugo si pente subito di quell’espressione così forte, – Scusami cara, non volevo essere brusco, ma
solitamente non ti separi mai dal tuo strumento. Non ti preoccupare, andrò io a prenderlo.
Ugo si alza e scusandosi si avvia verso l’uscita mentre i
commensali stanno ancora gustando il profumato volatile.
Sono quasi le venti e quindici minuti quando Ugo si getta
per le strade di Roma, sa che potrebbe essere un tentativo
vano, ma deve provarci.
«Basta che il Duce ritardi ancora un poco, se riesco a
portare tutti in sala di registrazione anche solo un secondo prima del suo arrivo il gioco è fatto!» questo pensa Ugo mentre
nella notte romana sfida il fascio a chi fa prima.
Venti e trenta.
Marchesi e Ciano girano per palazzo Corradi in preda
all’agitazione, è tardi, il Duce non si vede e Ines dice che suo
marito è al lavoro per trovare un’alternativa al discorso, ma
anche lui non è presente.
Ines cautamente non ha approfondito la natura del piano
di riserva, più che altro per paura che potessero opporsi alla
messa in onda della sua esibizione.
Venti e trentacinque.
La porta che dà sulle cucine si apre ed entrano Ettore e i
tre musicisti.
: 147 :
– Lasciate qui le giacche e andiamo a cercare Ugo.
Appena imboccato il corridoio Ettore vede il ministro e il
presidente, nonostante la lontananza e la penombra non fatica a intuire il loro stato di agitazione.
– Mentre io vado a cercare Ugo voi salite al primo piano,
troverete le sale di registrazione. Aspettatemi lì.
Ettore prosegue la sua ricerca e ovviamente poco dopo
viene fermato dalle due personalità, da cui apprende che Ugo
è uscito.
La prima reazione del tecnico è di panico, poi si ferma
a pensare: «niente Ugo, niente problemi e soprattutto rischi
per me, tanto più che non ho dato nessuna spiegazione ai tre
musicisti.»
Si avvia così deciso a raggiungerli.
Venti e quarantacinque.
Ugo entra nel salone, dove solo poche persone si sono
fermate a tavola per concludere conversazioni di chissà quale
importanza, e individua subito la sua ‘dolce metà’, che sta
chiacchierando con alcune mogli di esponenti del partito.
Irrompe brusco tra le donne, la prende per un braccio e
prodigandosi in scuse di facciata la trascina fuori dalla sala.
– Meno male che sei arrivato, Marchesi e il ministro ti
stavano cercando.
– Non è di loro che mi preoccupo. Il Duce è arrivato? Ed
Ettore?
– Caro calmati, no, del Duce ancora nessuna notizia, ma
pare che abbia avuto un piccolo guasto alla macchina e che
: 148 :
stia per arrivare. Ettore non l’ho visto.
– Bene, dobbiamo fare presto. Andiamo su, così tu inizi a
prepararti e io mi organizzo con i tecnici.
Mentre a Ugo e Ines mancano un paio di gradini a raggiungere il piano delle sale di registrazione, sentono sotto di
loro una gran confusione: il Duce sta arrivando.
Ines rimane ferma con la testa allungata oltre la balaustra per capire cosa sta succedendo, ma Ugo con un tono
deciso dice: – Svelta che dobbiamo cominciare!
Ines, sarcastica e insolente come spesso riusciva a essere, replica: – Ma non si trattava di un piano alternativo?
Dallo sguardo (duro e fermo) con cui Ugo la incenerisce,
capisce subito di essere stata fuori luogo: il momento è delicato e lei si trova di fronte a una scelta importante.
– Ines, se vai veloce e ti infili in quella sala prima che
qualcuno se ne accorga, giuro che non avrai problemi... e se
ci va bene riuscirai a fare anche il tuo concerto. Mi prenderò
io tutte le responsabilità, ma ora fai presto.
Ines rimane impressionata dalla determinazione del marito, che spesso aveva sperimentato durante le ore di esercitazione al conservatorio, ma che ora assume una connotazione estremamente forte, che la colpisce profondamente.
Decide di seguirlo, docilmente, e non appena entrati nello studio trovano Ettore e i tre musicisti.
Venti e cinquanta.
– Ciao amici, grazie per aver accettato il mio invito. Dopo
ci sarà tempo per spiegarvi la situazione e per ringraziarvi
: 149 :
come meritate, ora dovete prepararvi: tra dieci minuti dobbiamo andare in onda. Era in programma un discorso del Duce
ma purtroppo ha avuto dei problemi e non riuscirà ad arrivare. Lo sostituirete voi, eseguendo un’opera di Haydn. La
conoscete sicuramente ma non so se l’avete mai suonata:
quello che so è che siete dei maestri e la vostra bravura sarà
sufficiente. Ines comunque la sta studiando quindi potrà darvi
qualche suggerimento. Il Duce vi ringrazierà per questo servizio.
Nemmeno a loro aveva detto la verità, contando anche
sull’isolamento acustico delle sale, che teneva lontana la frenesia generata dall’arrivo del Duce.
Venti e cinquantacinque.
Mentre i musicisti si stanno preparando, Ugo, rimasto
solo con Ettore, dà le ultime istruzioni: – Ettore, il Duce è arrivato ma ti chiedo di iniziare ugualmente la trasmissione del
concerto: oramai i musicisti sono pronti, ci penserò io a tenere
a bada gli altri, – detto questo, esce svelto dallo studio chiudendosi la porta alle spalle.
Venti e cinquantotto.
I camerata a scorta del Duce arrivano di corsa per avvisare che non ci sono più ostacoli a proseguire con il programma iniziale.
Quando trovano Ugo di fronte alla sala che annuncia rassegnato che oramai è troppo tardi, i camerata alzano i toni.
Marchesi e Ciano sono subito dietro, il ministro interviene: – Camerata calmi, Donarelli cos’è questa storia?
– Vede ministro, come lei saprà perfettamente le trasmis: 150 :
sioni radio si possono realizzare solo grazie a delle onde sonore, che non sono troppo diverse da quelle del mare.
Marchesi cerca di intromettersi e allunga una mano verso
la porta, per fare un disperato tentativo di entrare nello studio,
ma Ugo prosegue senza lasciarsi distrarre: – Anzitutto hanno
un loro tempo di trasmissione, come quando si è fermi sulla
spiaggia e si riesce a calcolare il momento in cui l’onda che si
vede formarsi in lontananza arriverà a riva, così se vogliamo
che delle onde sonore arrivino per le ventuno dobbiamo lanciarle qualche tempo prima. È questo che cercavo di spiegare
ai suoi sottoposti, è tardi, la trasmissione è già partita, anche
se non è ancora arrivata alle nostre orecchie.
– Ugo, fermi immediatamente tutto! – sbotta il ministro in
preda a una rabbia furiosa, – Lei non si rende conto, e poi chi
le ha autorizzato il programma alternativo? Fermi tuuuttooo!
“Sono le ore ventuno del 6 ottobre 1924. Trasmettiamo
il concerto di inaugurazione della prima stazione radiofonica
italiana per il servizio delle radioaudizioni circolari. Il quartetto
composto da Ines Viviani Donarelli, che vi sta parlando, Alberto Magalotti, Amedeo Fortunati e Alessandro Cicognani,
eseguirà Haydn dal quartetto Opera 7, I e II tempo...”
Luigi Marino, o Gigi, come lo avevano sempre chiamato
tutti, si è addormentato sulla sua poltrona, in quell’appartamento al terzo piano di un palazzo popolare di Roma – dove
quelle parole, cariche di storia e di passione, si diffondono
: 151 :
lungo le scale e per l’atrio della portineria, distorte dal volume
troppo alto.
Il direttore artistico scosta la giacca ed estrae con un gesto lento dal taschino un sigaro e un fiammifero, appoggia il
primo tra le labbra, china leggermente il capo verso le mani, e
con un gesto rapido accende il secondo.
Dopo aver aspirato profondamente, Ugo alza lentissimamente il capo, mentre soffia fuori una nuvola di fumo che lo
avvolge, i suoi occhi sono fissi su Ciano: – Perché, ministro,
lei è mai riuscito a fermare un’onda del mare?
__
@Elisa Traunero:
Sostenitrice dell’approccio easy, è convinta che tutto quello che le passa
per la testa possa realizzarsi, pure i sogni!
: 152 :
1910 - 1920
: 155 :
#1913:
In un’esagerata festa alla maison veneziana di Luisa
Casati Stampa di Soncino, nel 1913, si muovono,
tra scenari surreali, personaggi d’élite del tempo.
Tutto è in linea con la fama della ‘Divina Marchesa’:
opera d’arte vivente coerente con se stessa ‘Dalla
Belle Èpoque agli Anni folli’ (come il titolo di una
mostra dedicata all’esteta). Ci dipingono il suo ritratto
qualcuno a lei molto caro e qualcun altro no.
: 156 :
Infinita varietà
1 giugno 1957
“L’età non può appassirla
né l’abitudine rendere insipida
la sua infinita varietà.”
Slanciati e ingioiellati levrieri le adornano i piedi fondendosi in una macchia nera da cui proviene un unico pallore:
quello del viso. Un biancore simile è paragonabile solo a quello di una rosa, se non fosse che tanto più candido è il suo
incarnato, tanto più è vivace l’ombroso sguardo dai grandi occhi verdi. Occhi che, maliziosamente, spiano il mondo da un
enorme cappello nero piumato, rifugio furtivo della rossa capigliatura. La pesante cornice barocca, dagli opulenti e ingombranti ricami, stride con l’esile e ossuta figura che campeggia
: 157 :
al suo interno.
Salgo tre gradini, mi posiziono dietro al pulpito di legno
scuro e alle mie spalle campeggia il dipinto.
È arrivato il momento. Mi volto. Il brusio che aveva imperato nella stanza si affievolisce, centinaia di occhi mi scrutano,
le mani iniziano a tremare tanto da costringermi a posare il
bicchiere, sento le guance che infiammano piano e la camicetta (che fino a pochi minuti prima credevo fosse confortevole) inizia a stringersi intorno al mio collo.
– Grazie signori per essere accorsi numerosi in questa
occasione in cui si celebra la vita di una persona così speciale
e fuori dal comune. Vorrei raccontarvi una storia, una storia di
quelle in cui la verità non può entrarci; una storia di quelle che
avrete letto sul giornale del mattino o udito alla radio. Alcuni di
voi avranno avuto l’impressione che fosse una favola, ad altri
avrà fatto sorridere, creato sconcerto o imbarazzo…
Seduto nel vagone osservo il paesaggio; se guardo con
attenzione riconosco gli alberi, le case, posso distinguere nettamente ogni contorno, ma se rivolgo lo sguardo altrove con
la coda dell’occhio tutto diventa indistinto, una ratatouille di
colori. I tetti sono i pezzetti di peperone rosso, le nuvole la
cipolla fatta appassire con l’olio caldo e il peperone verde?
Be’, la réponse est facile. Il miscuglio di ingredienti sfreccia al
lato del treno e, rincorrendomi, mi ricorda quella statua di cui
qualche giorno prima avevo letto sul giornale francese: Forme
Uniche Della Continuità Nello Spazio.
: 158 :
Infine giungo a Venezia, è la prima volta che visito l’Italie.
Un uomo enorme mi attende in stazione; sembra una
scultura di Andrea Brustolon di chocolat fin. La perfezione del
suo corpo cozza con il nome che invece mi pare così petit et
aimable: Garbi.
Arriviamo a ca’ dei Leoni; dall’esterno non mi dava l’impressione di essere una opulenta dimora, visto che le pareti
erano perlopiù sbreccate; era una di quelle costruzioni solenni
che inorgogliscono l’aristocrazia di un tempo ormai superata.
Tutto appariva così strano e incredibile, ma il meglio non
era ancora venuto; una volta entrato rimango sorpreso nel vedere quanto sia curata e rifinita la villa. Un susseguirsi di colori: l’oro, il blu e il rosa del Tiepolo; un pasticcio di maccarrons
che si amalgamano perfettamente ai raffinatissimi e pregiati
arredi.
Il bianco marmo del pavimento permette di specchiarsi
come nel liscio sucre caramélisé. Mai così tanto lusso mi è
parso fulgido.
– Finalmente la conosco!
Una voce alle mie spalle mi fa trasalire; mi sento come
un giovanotto sorpreso con le tasche piene di cookies. Mi
volto adagio cambiando espressione del visage, come quelle
maschere veneziane di cui tanto avevo sentito parlare.
Chiudo la bocca dello stupore e apro quella del sorriso.
«Tentativo molto buffo!»
Il suo corpo è slanciato e spigoloso ma allo stesso tempo
sinuoso nello scendere quegli ultimi cinque gradini, e le mie
: 159 :
labbra si spalancano di botto in una grande “oooh”. È una
lunga chiazza noire ma gli occhi sono così grandi e così verdi
che mi sembra di vedere un serpente mentre incede verso la
sua preda ipnotizzandola. Non avevo mai visto una femme
così in France. Ridacchia della mia espressione.
– È dunque lei che ha detto: “Noi vogliamo una cucina
adeguata alla comodità della vita moderna e alle ultime concezioni della scienza. Noi proietteremo i raggi del nostro sole
nell’antro delle vostre cucine, e le tenebre saranno dissipate.
Noi metteremo sottosopra i vostri buffet, noi rovesceremo i
vostri fornelli” – sembra stia recitando in un teatro, mette tanta
passione nel tono della voce che stento a riconoscere le mie
stesse parole; pubblicate tempo addietro su un giornale francese.
– Oui, Madame!
– Maincave, le affido le mie cucine! Voglio che lei rovesci
i miei fornelli e metta sottosopra il mio buffet!
– Oui, Madame! Sarò lieto di sovvertire l’order dell’ordinaire!
Nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirle no.
– Garbi, conduci il cuisinier in cucina ma non prima di
avergli fatto vedere il giardino; è lì che stanno preparando i
tavoli.
Dalla porta il giardino sembra infinito, l’aria fresca e pungente del mattino profuma di molte varietà di fiori e alberi ma
ha un retrogusto di sel marin appena percettibile. Man mano
: 160 :
che mi avvicino al luogo dove si terrà la cena l’odore dei fiori
si impasta a qualche altro parfum indistinto, ma non molto piacevole a dirla tutta. Sento rumori strani in lontananza: un urlo
inumano mi colpisce e di riflesso mi accovaccio sul selciato
coprendomi la testa con le mani. Rimango in quella posizione
qualche secondo. Apro gli occhi lentamente, osservo i sassolini, poi i piedi di Garbi, non si è appollaiato, alzo lo sguardo
e come se il tutto fosse normal, con un gesto del braccio, mi
chiede di procedere.
Mi sollevo da terra cercando di darmi un tono.
Più mi avvicino e più capisco che sto ascoltando versi
di animali. «Ma quali?» il tanfo diventa sempre più intenso,
«Pelo bagnato, fieno, escrementi, ferro? Cos’è?»
– Sangue!
Sono contrito e nauseato.
Davanti a me una gabbia in marmo con sbarre in ottone,
all’interno un’indistinta e corpulenta ombre noire: un gorilla!
– Il est impossible!
Ovunque si posi il mio sguardo ci sono animali esotici
che sbranano il loro pasto: ghepardi, tigri, merli albini dipinti
di blu, pavoni bianchi, un pitone di circa otto metri e tanti altri
animali da fare invidia a uno zoo.
«È qui che ci sarà il party?»
– Oh, mon Dieu!
La luna alta in cielo ha la stessa forma di un fromage
blanc et parfait. Gli ospiti si accalcano sul buffet; divertiti immergono le dita nelle diverse ciotole e pochi sembrano sbalor: 161 :
diti per la strana ubicazione della festa.
– Maionese d’ananas ricoperta da pigmenti rossi! Giorgio, intrufolati e vieni ad assaggiare!
– Che diavoleria è questa?
– Lava le mani prima, lì c’è l’inserviente con le salviette!
– E perché mai?
– Ma caro, non ci sono posate! – una risata piena e festosa si mischia alle altre che risuonano in tutto il giardino.
– Ha un gusto eccezionale! Devo chiedere al cuoco di
rifarla!
– Giorgio, hai tutti i baffi sporchi di maionese! Quando
torniamo a casa ricordami di insegnarti un po’ di creanza!
Oooh! Sbrigati a finire, corriamo a quel tavolo; c’è già la ressa!
– Cara, ho il sospetto che tu voglia dirigerti lì più per i
mori mezzi nudi con i ventagli che per il cibo!
Non riesce a finire di pronunciare la frase che perde di
vista la moglie e ne segue i movimenti grazie agli spostamenti
dell’alto pennacchio viola che si erge sulle teste degli altri invitati.
– Scusate! Scusate! Fate posto per favore! Giorgio,
stammi dietro! Ma cos’è quest’odore? Inspira profondamente
caro, non ti ricorda la nostra vacanza nelle Indie?
– Hai ragione! È strabiliante! Ma non c’è nessuna vivanda!
La fragranza viene diffusa nell’aria grazie ai mori che con
i ventagli ne disperdono il profumo.
– Eccola, guarda, arriva!
: 162 :
– Maria, afferrane due, rimaniamo senza se la gente continua a spingere così! Non respiro! E poi dicono che questa
è l’alta borghesia, nemmeno un mendicante che non mangia
da giorni si avventa in questo modo sul cibo! Permesso! Non
schiacciatemi! Sono basso, ma sono qui!
– Oh, per la miseria! Chiudi gli occhi, Giorgio, e mastica!
Siamo davvero in India! L’aroma e il sapore combaciano perfettamente!
– E quest’altro piatto cos’è?
– Leggo: polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita,
ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro, disposto verticalmente nel centro del piatto, è incoronato
da uno spessore di miele, e sostenuto alla base da un anello
di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo.
– Ma, vitello, con pollo e salsiccia; anche il miele? Non
sono sicuro di volerlo assaggiare!
– È paradisiaco, mangialo! Tutte queste consistenze diverse!
– Lo inserisco nella lista delle cose da far preparare al
cuoco! Non avrei mai detto che fosse così buono! Devo ammettere che questo Maincave sa proprio il fatto suo! Mi paiono
cibi che vengono dal futuro!
– È tutto così colorato, consistenze strane, è uno spasso!
Ma lo spasso più grande è vedere gli abiti di Rosaria e Ginestra macchiati! – una risata sottile e malefica viene oscurata
dalla mano posizionata vicino alle labbra.
– Cara non ridere, anche i nostri sono gocciolati! – gli
: 163 :
occhi di Giorgio esplodono di un’allegria piena e sincera.
– Pazienza, è carnevale! Così è più stravagante! – Maria
impettita gira le spalle al marito e in modo vezzoso prosegue
oltre.
Una voce in lontananza urla: – Alle gondole!
– Giorgio, afferra quelle due piramidi e mettile in tasca
prima che ci travolgano, le mangiamo più tardi!
Una fiumana di maschere dalle più orribili alle più originali si dirige verso il canale.
Navigare su una gondola è come scivolare sul lait fresco
mentre dalla bottiglia si tuffa nella tazza. È uno scorrere lento,
pieno e delicato.
Non so dove stiamo andando.
Arriviamo in piazza San Marco. Grossi uomini mori dipinti
d’oro e vestiti solo con un panno rosso formano una tresse
douce incatenando vicendevolmente le braccia. Circondano
l’intero perimetro. Una folla di curiosi cerca di oltrepassare le
guardie. Fotografi, turisti, abitanti del posto spiano l’enorme
sala da ballo ormai occupata dalle maschere di ca’ dei Leoni.
La piazza è blindata come un chou à la crème.
L’intera folla guarda verso l’alto; nemmeno stesse alzando il naso verso il cielo per respirare a polmoni pieni la nuvola
di fumo profumata che si eleva dal cuore bollente della baguette fragrante appena spezzata con le mani. Qualcuno
sospeso a un filo si lancia dalla basilica di San Marco.
– Oooh!
– È una stella!
: 164 :
– È Lei!
– Sta volando!
I commenti si susseguono a raffica ma tutti, per quei pochi secondi, hanno il naso rivolto verso il ciel.
Sembra un cigno che apre le ali e plana sullo specchio
del lago stirando le zampe e il collo in posizione di superiorità
regale. La tuta retata a mezze maniche sfavilla di lumière. La
profonda scollatura, che morbida sul ventre è bloccata da una
larga cinta posta alla vita, si gonfia con l’air de la nuit come le
ali di tessuto che dall’orlo dei pantaloni sono collegate ai polsi. Dall’enorme cappello ogivale scendono catenelle di pietre
luccicanti che le adornano il viso e incorniciano i grandi occhi
pesantemente truccati di noir. Le piume a mo’ di pavone sono
tempestate da una miriade di stelle mobili.
È una stella cadente.
Appena il primo piede tocca terra, la folla impietrita si
scioglie, come crème glacée al sole, in un applauso che rimbomba tra le pareti risuonando in tutta Venezia.
Si esibisce in un profondo inchino; non una parola, non
un sorriso.
Le opere d’arte non si esprimono attraverso i suoni ma è
la loro presenza a infondere un sentimento di magia, sogno
e inattesa apparizione; la stessa cosa accade quando con un
cucchiaino si squarcia lo scrigno del souffle che nasconde al
suo interno chocolat fondu che lento si fa strada sul piattino.
La mano accarezzata da un bacio e sulle note del tango si
aprono le danze.
: 165 :
Piazza San Marco è la sala da ballo privata di una dea.
Una dea che sperpera, gioca, ammalia e conquista; che
è al di fuori della politica, della società e della realtà. Solo in
un sogno una donna da serpente può trasformarsi in stella e
volare nel cielo di Venezia.
Forse il mio è stato solo un sogno e domani scoprirò,
svegliandomi, che la femme che ho conosciuto non esiste.
… Questa è la favola che i genitori raccontano ai propri
bambini; questo è quello che ricorda il mondo grazie ai gazzettieri che l’hanno raccontata.
Vi piacerebbe sapere la verità? La verità pura e semplice?
Non basta abbandonare il nome di Ginetta come se fosse un personaggio di poca importanza per trasformarsi in una
protagonista principale. Prima o poi viene a bussare alla tua
porta, ti spia dall’occhiello e ti chiama a gran voce. A ogni
ascesa corrisponde una discesa che è più un capitombolo
che una passeggiata.
All’inizio della favola due sorelle vivevano in un incantevole castello regale in cui la vita trascorreva lenta. Erano
adornate dai ricami più splendidi, nutrite da una cultura che
era prigione, non evasione; rinchiuse in una gabbia dorata
con sbarre di costumanza e buone maniere. Ma quando la
voliera viene aperta, la realtà prima filtra attraverso quella
piccola fessura lentamente, poi pian piano diventa voragine
e infine buco nero che, infrangendo le barriere, le catapulta
in un mondo nuovo in cui a unirle sono lo stesso dolore, lo
: 166 :
stesso lutto, la stessa eredità smisurata, lo stesso appellativo:
orfane.
Quando si liberano degli animali cresciuti in cattività, questi
perdono ogni riferimento e si smarriscono nel mondo mano nella
mano; ma il mondo nel quale credono di vivere è sicuro che sia
lo stesso in cui procede a passi svelti il resto di noi?
Riconoscono come unico vessillo l’arte e questa enorme e ingombrante bandiera sventola se sono quattro mani
a reggerla e agitarla; non c’è posto per altri sostegni, nemmeno quello di una figlia che, ormai distante, sconosciuta
e risentita, imbocca una via opposta a quella della madre.
Quando sono solo dieci le dita a impugnare il vessillo non
vi è più arte ma stramberia, non più ispirazione ma imbarazzo, non più lusso ma decadenza, non più compagnia ma
solitudine: l’ennesimo lutto.
Cosa c’è restato del fantastico passato? Il vuoto assoluto
di una donna che, perdute le antiche cianfrusaglie, vive isolata tra i fantasmi che le ricordano un fasto ormai trascorso: una
sarabanda di pazzesche allucinazioni!
Cos’è restato de ‘la Venere del Père Lachaise’? De ‘la Signora milanese del Risorgimento’? De ‘la Venere anatomica’?
Di ‘Korè’ ?
Non passeggia più con un ghepardo al guinzaglio ricoperto di diamanti; come lui è imbalsamata nel ricordo e costretta a ringhiare per spaventare chi tenta di dimenticarla.
«No, non più ghepardi al guinzaglio, ma comuni barboncini!»
: 167 :
Era attesa tutti i giorni da un codazzo di curiosi che l’accompagnavano durante le sue epifanie londinesi; un completo nero di velluto, un alto cilindro spelacchiato, le rughe che le
segnano il viso e i guanti di leopardo profilati in cima con gli
artigli della belva. Questo le restava dell’esotico amico. Incedeva proponendo fedele l’immagine che aveva di se stessa,
ben poco importava se fosse il lucido da scarpe ad annerirle
gli occhi e non più i costosi cosmetici. Non si diventa grandi:
si è grandi!
La dama che volle essere un uccello notturno in stile art
nouveau non è un orribile figurante in serie, ma un personaggio unico dalle idee precise: – Voglio essere un’opera d’arte!
Le ho perdonato tutte le sue manchevolezze, anche il
non essere venuta al funerale di mamma: ogni cosa! Come si
può urlare a un sordo? Non ti può sentire! O a un sonnambulo
che incede sul parapetto della sua esistenza? Può schiantarsi
sul selciato della realtà.
“Essere diversi significa essere soli. Non amo ciò che è
comune!”
Questo diceva mia nonna quando negli ultimi anni della
sua vita andavo a trovarla nella piccola stanza che le avevo
affittato.
Era quasi sempre a letto, truccata da vamp, scaldata da
una coperta di piume di struzzo nere, e faceva colazione a
base di pesce fritto e Pernod liscio.
Questa è l’immagine che voglio portare con me: una
: 168 :
bambina indifesa che gioca a travestirsi.
Tutto è stato straordinario nella sua vita: l’ascesa e la
discesa.
Quando da bambina andavo ancora a scuola, una volta
chiesi alla mia insegnante di storia perché dovessimo conoscere degli avvenimenti così tragici.
Lei mi rispose che è dagli errori che si impara; solo conoscendoli a fondo si possono evitare e per quanto possano sembrare insormontabili e irreparabili ci sarà sempre un’occasione
che permetta la redenzione. Non si può dimenticare il dolore,
quello è come una ferita che prima è visibile e aperta, dopo
diventa una cicatrice sbiadita.
È il fantasma del tuo dolore.
Non ho mai dimenticato quelle parole e negli anni in cui
ho frequentato mia nonna ho applicato lo stesso principio.
Non rinuncio agli affetti e non perdo mai di vista la realtà,
perché vorrebbe dire perdere in umanità. Un’opera d’arte? È
un vaso cinese sul mobile dell’ingresso, un quadro appeso a
un muro, persino una ferro da stiro chiodato lo è, ma non una
persona. Non voglio diventare un soprammobile in movimento per scappare dal dolore, tanto è impossibile da seminare;
anche assumendo belladonna ti verrà a cercare, ti troverà indifesa e tornerà la lucidità.
Ciò che più ammiro della sua pazzia è l’essere rimasta
fedele al suo ideale fino all’ultimo giorno; forse non è ammirevole continuare a sbagliare con ostinata tenacia e qualcuno
potrà sindacare che solo le persone stolte lo fanno, ma io cre: 169 :
do invece che, in questo caso, sia coraggio. È così che ho imparato ad amare non la magnifica marchesa Luisa Casati, ma
Ginetta: la bambina timida che copriva gli enormi occhi con
lunghi capelli che ormai corti e rossi riposano serenamente in
una bara dorata.
Mi allontano dal pulpito, non faccio in tempo a scendere
i tre gradini che il mio sguardo vede la folla agitarsi, mi fermo
e sento mr. Parker dire:
– L’età non può appassirla né l’abitudine rendere insipida
la sua infinita varietà.
– Questo è il modo originale in cui la signora Casati ha
voluto farsi ricordare; ora tocca a voi, Signori, dare un giusto
prezzo a questo ritratto di grande valore. Si parte da una base
d’asta di cinquecentomila sterline, chi offre di più?
...
– Stooop ragazzi! Stooop! Continuiamo domani! Più sicuri e più incisivi! – Qual è la scena da ripetere?
– Scena numero cinque: la Casati con un leopardo al
guinzaglio, ricoperto di diamanti, con solo una pelliccia addosso naviga sul canale di Venezia durante la notte in compagnia
di Garbi!
– Perfetto, allora a domani!
– Studiate ragazzi, mi raccomando, tra una settimana ci
sarà la mostra a Venezia in suo onore e il teatro sarà full. Non
sono ammesse figuracce!
: 170 :
__
@Natascia De Padova:
Millefoglie alla crema chantilly con lamponi accompagnata da champagne
invecchiato ventisei anni #assumere con moderazione#
: 171 :
1900 - 1910
: 173 :
#1905:
A cavallo tra 1900 e 1910, Guglielmo Marconi effettua con successo il primo esperimento di trasmissione senza fili di onde radio attraverso l’Atlantico,
un servizio che consentirà alle navi transoceaniche
di lanciare l’SOS – diminuendo notevolmente la percentuale di mortalità nei naufragi. È un’invenzione
legata al sogno di Celestino, protagonista di questa
storia di (a)mare che, nonostante abbia visto cattive
acque, non ne vuol sapere di gettare l’ancora.
: 174 :
Celestino
La mamma gli aveva messo in mano il cestino della cena
e si era raccomandata: – Non vi muovete per nessun motivo
dal molo della villa Carolina finché non viene a prendervi la
Maria.
Celestino, stabilendo ranghi e gerarchie l’aveva subito
passato, superiore, a Nicolò, stringendo invece nella destra
quello con l’armamentario necessario alla pesca miracolosa
che aveva progettato per quella sera speciale: due togne, ami
e piombini di ricambio, la retina di spago e il vasetto con l’esca
migliore, un viscido e puzzolente ‘vermo de Rimini’ a pezzi e
con zampe, regalo di Barba Ive pescatore.
– Stai attento a tuo fratello. Hai undici anni, lui solo otto.
Che non caschi in mare.
A villa Thautcher tutto era pronto per la grande festa di
fine estate. La baronessa, burroso esemplare di nobildonna
: 175 :
della corte asburgica d’inizio Novecento in abito di pizzo bianco e acconciatura a piccole piume da operetta, disponendo
con garbo le composizioni di salvia aspra e mirto fiorito nei
vasi di coccio a incorniciare l’ingresso della sala (aperta dalla
vetrata sul terrazzo che solo una scalinata e il giardino separavano dal mare), controllava con la coda dell’occhio che ogni
dettaglio fosse definitivamente al suo posto. Aveva istituito
quell’appuntamento annuale da quando l’arciduca Stefano,
cugino dell’imperatore Francesco Giuseppe, tredici anni prima, 1888, aveva scelto l’isola come residenza estiva, trascinando al suo seguito uno sciame di servitori, medici, piccola-media-grande nobiltà, ambasciatori e militari, il cui tedesco
o francese era spesso storpiato dall’accento delle incomprensibili lingue di ogni angolo dell’impero. Il barone suo marito, il
‘suo Wolfy’, era stato il primo in verità a scoprire quei luoghi,
stanco della vita viennese, alla ricerca di un contesto più autentico e naturale, e vi aveva fatto edificare la bella casa a
grandi finestre e decorazioni floreali per passarvi buona parte
dell’anno con la scusa dell’aria salubre. Lei sarebbe morta di
noia se non avesse promosso con altre gran dame, da maggio a ottobre, quella vita mondana in cui aveva coinvolto l’asciutta borghesia locale. Mogli e figlie di armatori, costruttori
navali, farmacisti, comandanti in prima e seconda, marittimi
e commercianti avevano così gradualmente subìto una sorta
di modificazione genetica: abbandonata la reticenza iniziale
per la real casa nemica-amica – e per le spese superflue –
avevano iniziato anche loro a girare con certi cappellini e abiti
: 176 :
alla moda, e ad arredare le proprie case severe con mobili
biedermeier, quadri, porcellane di Meissen acquistati nelle incursioni periodiche a Graz e poi imbarcati sul piroscafo che
ogni settimana da Trieste faceva sosta lì per proseguire la
rotta verso il porto franco di Zara e poi Ragusa. Una comunità
selvatica e spartana un poco addolcita dai krapfen nell’aspetto e nelle maniere.
A momenti sarebbero arrivati tutti.
Nerina era prima cameriera in servizio stagionale alla villa. Solare e ruvida quanto basta, la massa di ricci rossi leggeri
ordinati dalla crestina della divisa perfettamente inamidata,
aveva ventinove anni, occhi malinconici e una brusca energia
vitale. Vedova da cinque, non sembrava intenzionata a farsi
riportare all’altare pur di non rimanere sola. Proprio sola non
era. Ogni notte si coricava con la sensazione che nel letto
accanto a lei ci fosse ancora il corpo vivo, caldo e avvolgente
di Domenico, inghiottito dall’Atlantico al largo delle Antille, con
tutto l’equipaggio e il carico di fave e lupini dell’Adonita. Ora,
in piedi davanti al cancello, le spalle al giardino dove erano
stati disposti per la cena i tavolini ricoperti di candide tovaglie,
argenti e cristalli (tutto intorno alla pista da ballo davanti la
scalinata dove iniziava a posizionarsi l’orchestrina fatta venire
appositamente da Vienna), indugiava ancora qualche istante
per accompagnare con lo sguardo i figli. Fissi gli occhi al sole
presto al tramonto, a passo svelto e determinato il primo, inciampando a rincorrere gabbiani e ramarri e accucciandosi
: 177 :
qua e là a sbudellare processionarie pelose con rametti sezionatori il secondo, li osservava incamminarsi sulla passeggiata lungomare in direzione dell’imboccatura della baia e poi,
con un po’ d’inquietudine, sparire dopo un ultimo cenno della mano dietro alla curva della prima insenatura. Meglio non
averli intorno a far danni in una serata agitata come quella. Li
avrebbe mandati a prendere prima che facesse buio. Ed era
tornata al milione di faccende che l’attendeva.
Il pontile in mezzo alla piccola baia era ancora illuminato
dal sole. Con uno scatto Nicolò aveva superato di corsa il
fratello ed era arrivato in cima al molo urlando “Primo!”. Poi,
inginocchiatosi con qualche cautela per non rovesciare nulla,
si era sistemato (gambette ciondoloni e piedi nudi che sfioravano il pelo dell’acqua) a rovistare nel cesto, tirando fuori
un tovagliolo bianco con pane e pecorino, due arance che la
mamma aveva staccato dall’albero di casa, le caramelle avvolte nella carta oleata che anche lui orgoglioso aveva contribuito a confezionare il giorno prima con la nonna: stendendo
lo zucchero caramellato sul tavolo di marmo e poi, con un
coltello a più riprese bagnato nella ciotola dell’acqua perché
non attaccasse, tirando linee perpendicolari a formare tanti
quadratini, quelli non propriamente regolari da lui impressi
con qualche esitazione. Ora finalmente ne poteva mettere in
bocca uno, succhiarlo deliziato, iniziando beatamente anarchico quella cena in libertà dalla fine.
– Vuoi?
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Si era voltato per condividere con il fratello il piacere dolce della sua piccola deviazione dall’ordine stabilito, ma Celestino, invece di seguirlo sul molo, pareva voler continuare a
camminare, silenzioso e indifferente, lungo il perimetro dell’insenatura. Gli aveva allora balbettato allarmato: – La mamma
ha detto di non muoversi da qui, – e avuto in risposta: – Se
vuoi pescare spari e guati pieni di spine fai pure. Io vado alla
Madonna a prender le orate.
Nicolò era rimasto interdetto, impreparato a seguirlo in
quella trasgressione che andava oltre le sue capacità di fantasia e desiderio. Offeso, aveva raccolto con rabbia il cibo, fatto
rotolare maldestro le arance in mare e gli si era avventato
contro colpendolo col cesto, furioso. Erano caduti azzuffandosi; pugni, calci, graffi e insulti... pane, formaggio e caramelle,
tutto avvolto in una nuvola di terra rossa sabbiosa.
– Colpa tua: adesso cosa mangiamo?
Celestino, dopo aver sibilato feroce la parola peggiore
che conosceva, aveva dato un ultimo spintone al fratello, lasciandolo a terra ansimante e ignorando i suoi singhiozzi silenziosi. Aveva fame. La loro cena era sparsa dappertutto, e
il suo umore incupito all’idea della sabbia che avrebbe sentito
sotto i denti a ogni morso. Pensava alle pietanze squisite che
la nonna, a servizio come cuoca quella sera dalla baronessa, aveva cucinato per gli invitati e che, se fossero rimasti
alla villa, avrebbero potuto mangiare anche loro. Sul punto
di tornare indietro, si era accorto però delle arance che ora
galleggiavano vicino alla riva. In un secondo era saltato in
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acqua a ripescarle, il buonumore era tornato e con quello la
motivazione all’impresa di quella sera.
– Prova a prendermi! – aveva urlato a Nicolò, passandogli al volo un’arancia gocciolante e, raccattato il cestino da
pesca lui, quello del cibo rimasto l’altro, avevano ricominciato
a correre e a ridere come pazzi cancellando per sempre ogni
traccia dell’incidente.
La chiesetta della Madonna era aperta e Celestino aveva
voluto entrare. Nella piccola stanza bianca l’altare era pieno
di fiori – zinie, gladioli, bocche di leone, garofani e gelsomini
– che le donne ogni giorno portavano in offerta dai loro orti.
Le pareti, coperte da ex voto, mostravano decine e decine di
navi sconquassate dai mari in tempesta, con frasi in ringraziamento a Maria da armatori e sopravvissuti, per averli protetti
in terribili circostanze.
– Quella è L’Adonita.
La nave da carico su cui si era imbarcato il padre prima
del naufragio definitivo era già stata sorpresa da spaventose burrasche sulla rotta atlantica. Era partito il 20 settembre
1896. Quell’estate a Ferragosto tutti e quattro avevano partecipato, come ogni famiglia di naviganti faceva ogni anno,
alla processione di barche che (disposte a raggiera là sotto) ascoltava la messa per la festa della Madonna dal mare,
finché don Mario aveva concluso con la benedizione a chi
partiva e a chi restava, ché tutti ne avevano un gran bisogno.
Non si sarebbe saputo nulla per tantissimo tempo, le lettere
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potevano impiegare mesi ad arrivare, sia che portassero notizie dei vivi che dei morti. Quella volta però la benedizione non
aveva funzionato.
I due fratelli erano usciti turbati dai ricordi, tenendosi per
mano nella luce del tramonto e si erano appoggiati alla balaustra a picco sulla scogliera come su quella della tolda di una
nave. Con l’aria tersa, si vedevano le isole di Sansego e delle
Canidole riposare nell’acqua senza vento come scheletri di
pachidermi. Il faro di Morter cominciava il suo lavoro intermittente insieme a quello dello scoglio di Zabodarski; segnalare
le loro posizioni alle imbarcazioni.
Celestino aveva un sogno: diventare comandante. E
sposare Caterina, la seconda figlia del capocantiere del primo
squero, rossa come sua madre ma con gli occhi chiari, il sorriso contagioso e un profumo delicato di lavanda. Quel giorno
aveva sentito dire in cantiere dal signor Giuseppe l’armatore
che un italiano stava facendo esperimenti straordinari per comunicare senza fili da una parte all’altra dell’Atlantico. Non
capiva come potesse essere possibile, ma il signor Giuseppe
diceva che se avesse funzionato forse fra non molto una nave
in pericolo avrebbe potuto chiamare soccorsi e ottenerli. Aveva anche sentito dire che in Inghilterra stavano costruendo
la più grande nave passeggeri mai vista. Celestino si vedeva
già con l’equipaggio in coperta. Aveva chiesto allora al sior
Giuseppe di convincere sua madre, che non ne voleva nem: 181 :
meno sentir parlare, a mandarlo almeno alla scuola nautica.
Per questo piacere aveva promesso di pescargli un’orata.
– L’ora perfetta.
I ragazzi attraverso un breve sentiero erano arrivati sugli
scogli.
Da lì, in quel momento, si potevano ancora distinguere
quasi tutte le imbarcazioni uscite a calare le reti o a pescare a
fondo riboni e calamari. Avevano addentato una fetta di pane
sabbioso a testa, lo stomaco che faceva male dalla fame e,
preparate le togne con le esche, al terzo tentativo di lancio
Nicolò si era preso con l’amo i pantaloni mentre il fratello era
riuscito a posizionare il sughero in modo da accorgersi nel
caso qualche pesce grosso avesse abboccato.
L’oscurità cominciava a prevalere, i lampioni in fondo alla
baia di Cigale dove si stava svolgendo la festa erano stati accesi, illuminando ancora un viavai di carrozze. In lontananza
si sentivano le note scintillanti dell’orchestrina viennese.
Un salto. Il sughero messo in sicurezza era partito in acqua come lanciato da una catapulta.
– Non buttarti!
Pluff.
Celestino nuotava elettrizzato avvicinandosi alla preda. Il
sole, tramontato, trascinava ancora riflessi sull’acqua che non
permettevano di distinguere forme reali con facilità. Avanti,
indietro, avanti, indietro. Niente. Alla fine si era arreso: immaginava l’orata gigantesca che velocissima filava via con l’esca
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e l’amo infilzato nel labbro, togna e sughero al seguito.
– Pescheremo con la tua, – aveva gridato ostinato tornando a riva. Al buio, si era aggrappato a una roccia scura
come tutte le altre, ma un dolore lancinante alle piante dei
piedi l’aveva fatto ricadere indietro allontanandosi dagli scogli, in quel punto taglienti come lame. Aveva cercato un’altra
via, ed era atterrato su un tappeto di ricci. Mettere i piedi sulla
roccia ormai gli faceva vedere le stelle. Sul punto di piangere,
Nicolò, chinato sull’acqua nell’oscurità quasi totale, si sbracciava per aiutarlo a salire. Il tonfo era seguito un minuto dopo.
Celestino spalmava con le mani l’acqua intorno a sé alla
ricerca del fratello. L’aveva tirato su per i capelli, annaspante.
– Attàccati! – ma quella posizione non permetteva più a
nessuno dei due di risalire a terra.
– Aiuto! Hilfe! Aiuto! Hilfe! – Nicolò era sicuro che qualche barca ancora in giro con la lampara li avrebbe sentiti. Celestino cominciava ad aver paura. Era colpa sua, non
avrebbe dovuto. Non sapeva che fare.
Una barca filava silenziosa nella loro direzione con la
lampara a prua e le fiocine appoggiate agli scalmi parallele
allo scafo. Celestino era stremato dal peso del fratello e cercava uno scoglio che non lo ferisse. Non riusciva a riconoscere l’imbarcazione di chi stava venendo loro in soccorso, pur
ripassando a mente una per una quelle degli abitanti dell’isola. Solo al momento di accostarsi aveva notato il profilo tipicamente dalmata, con la prua e la poppa sporgenti allo stesso
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modo: una barca di spongari.
Zingari del mare, pescatori di spugne, ladri. Alcuni dicevano assassini, predoni, rapitori di bambini e molestatori di
ragazze. La fama di quegli uomini scuri che arrivavano da
un’isola del sud in cerca di spugne e coralli li precedeva provocando grande agitazione nelle baie d’approdo, dove ogni
cosa veniva riposta e messa sottochiave perché non fosse
rubata.
Al momento però non sembravano esserci alternative a
parte affogare o rimanere appesi agli scogli per tutta la notte.
E quando si era sentito sollevare dall’acqua insieme al fratello, scaricato senza tanti complimenti in barca, aveva comunque provato gratitudine.
Maria era tornata in cucina gridando: – I fioi! Sparidi!
Sventolava il tovagliolo caduto dal cestino della cena, le
caramelle coperte di terra rossa in mano, prova evidente di un
incidente grave. Nerina, che sorreggeva un pesante vassoio
d’argento con bicchieri di cristallo colmi di champagne, non
aveva potuto reagire come avrebbe sentito d’impulso e correre via a cercarli. Aveva dovuto tenere i nervi saldi e chiedere
all’amica di farsi accompagnare nella ricerca da Barba Ive. Li
avrebbe raggiunti non appena possibile.
Sotto gli scogli della Madonna, illuminandoli con la lampara, i due ricercatori avevano trovato i cestini, un’arancia e
la togna di Nicolò, e quella scoperta non aveva dato loro una
sensazione positiva.
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Lo spongaro aveva spalle e mani enormi e li guardava
con disprezzo. Nicola dopo un primo momento di terrore era
stato distratto dalla nassa degli astici, «probabilmente rubata»
aveva pensato Celestino, dove circolavano grandi crostacei
bluastri dalle chele enormi che lui si divertiva a stuzzicare con
le dita oltre la rete, urlando tutte le volte che rischiava di venire
pizzicato.
Alto e possente, l’Uomo remava in silenzio facendo andare la barca veloce come i ragazzi non avevano mai visto
senza le vele. Appena si era alzato un poco di vento di maestrale aveva tirato su anche quelle, e i gesti che di solito
richiedevano almeno due persone a lui, da solo, sembravano
non costare nessuna fatica, come se la barca e il suo corpo fossero una cosa sola. Guardava con disprezzo anche il
piede sanguinante di Celestino, i loro vestiti bagnati. Il fatto
stesso che fossero stati trovati in acqua aveva l’aria di essere
un motivo di vergogna.
Celestino sapeva che probabilmente non parlava l’italiano. In porto li aveva sentiti discutere fra loro, gli spongari, in un
dialetto slavo che non capiva, diverso da quello che si parlava
sull’isola, perlopiù veneto con qualche parola imbastardita di
croato. Ora che erano in salvo dall’acqua bisognava chiedere
di portarli a casa.
Nicola, lasciati perdere gli astici, aveva cominciato a parlargli a gesti: “fame, sonno, casa, là, Cigale”, senza ottene: 185 :
re alcuna reazione rinfrancante. Invece di dirigersi all’interno
della baia da dove erano venuti e dove infine avrebbero potuto ritrovare la mamma, la nonna, Maria che sicuramente era
venuta a cercarli, la barca si dirigeva a sud, senza la minima
esitazione. Val d’Oro, val d’Argento, Balvanida. Dietro la grotta dei Colombi le vele erano state ammainate e la barca si era
arenata poco dopo nella sabbia bianca. Sulla spiaggia ardeva
un enorme fuoco che un gruppo di individui sconosciuti alimentava. L’Uomo aveva sollevato di nuovo i ragazzi, li aveva
scaricati in malomodo vicino alle braci, aveva poi guardato la
ferita sotto al piede di Celestino. Gli aveva sputato sul calcagno e, sfoderato un coltello, ne aveva immerso la lunga lama
scintillante nelle ceneri ardenti per arroventarla.
Alla villa, Nerina, con un certo fiuto, non aveva chiesto
alla baronessa il permesso di allontanarsi, ma al barone.
– Non zi trovano più i bambini? Andiamo zubito a cercarli! – e ancora in dinner-jacket bianca si era allontanato dai
festeggiamenti in direzione della sua barca, senza salutare
nessuno, la mano sinistra impegnata ad arrotolarsi il baffo imperiale come era solito fare sovrappensiero. Costruita con le
proprie mani al cantiere con la supervisione del suo nuovo
amico signor Giuseppe, il barone Wolfy aveva proprio quell’estate montato un motore di fattura inglese che gli era costato
un occhio della testa, ma che lo rendeva un uomo felice: poteva andare a pesca, visitare i nuovi conoscenti che si era fatto
sull’isola, soprattutto quelli non austriaci, nelle loro casette di
pesca lontano dal paese e (particolare non trascurabile) pote: 186 :
va invitare a queste piccole gite delle amabili signorine. Anche
Nerina gli piaceva moltissimo, come del resto i suoi figli e sua
madre, che considerava la più brava cuoca che avesse mai
avuto a servizio.
Alla spiaggia il coltello non era piaciuto a Nicola, che si
era buttato addosso al gigante, battendogli i pugni sulla schiena senza ottenere di spostargli neanche un pelo e piuttosto
scatenando un’ilarità sgangherata nei compagni di viaggio del
loro salvatore. A un cenno dell’Uomo che era evidentemente
il capo, uno dei tre aveva preso la nassa e buttato sul fuoco
cinque o sei astici vivi, che si erano messi a sfrigolare per un
attimo come in un grido di dolore. Nicola, ammutolito, aveva
smesso di protestare.
La barca di Barba Ive e quella del barone si erano rag-
giunte e procedevano appaiate. Maria non aveva detto nulla
dei cesti abbandonati sugli scogli a Nerina, non poteva pensare di essere lei a darle un dolore. Avevano scandagliato la
baia da cima a fondo e deciso alla fine di fare il giro dell’isola.
Nessuno voleva nemmeno immaginare che fossero annegati.
Val di Sole, val d’Argento, Balvanida. Il barone, spento
il motore, si era servito dell’abbrivio per infilare la prua nella
grotta dei Colombi, di giorno una delle mete preferite delle
gite dei bambini, e quell’intrusione silenziosa aveva sollevato
in volo un gruppo di minuscoli pipistrelli avvinghiati alle rocce.
Ma non si era poi subito ristabilito di nuovo il silenzio. Mu: 187 :
sica. Da qualche parte arrivava della musica. Non il valzer:
qualcosa di più selvaggio, malinconico e indiavolato. Wolfy si
era di colpo tolto la giacca e le scarpe di vernice. Ancorate le
barche, erano scesi legando le cime sulle rocce puntute del
piccolo promontorio che nascondeva la spiaggia da cui forse
arrivava quel suono. La si poteva raggiungere con un sentiero
protetto da due alti muretti a secco. Al buio, incespicando di
tanto in tanto, avevano camminato senza dire una parola, respirando l’aria tiepida profumata di elicriso.
Alla loro destra il muretto in trasparenza lasciava intravedere la sua trama sullo sfondo di misteriosi bagliori. Avevano
accelerato il passo al ritmo della musica che aumentava via
via di volume, ogni tanto doppiata da grida selvagge e, giunti
alle spalle della spiaggia, avevano visto. Intorno all’enorme
falò che mandava scintille fino al cielo e al suono della fisarmonica di un enorme spongaro scuro, armati di chele di astice
appena svuotate, i due ragazzi ballavano felici e forsennati.
Nicola gli era corso incontro e dal suo racconto eccitato e confuso saltavano fuori le parole “salvati, ricci, coltello,
cose squisite”. Celestino aveva mostrato le ferite e Nerina li
aveva abbracciati felice. Wolfy intanto, prese al volo le chele,
aveva iniziato una propria personalissima danza del fuoco.
Lo spongaro capo si era allora alzato in piedi per accogliere
i nuovi arrivati. Li aveva salutati come un principe orientale.
Aveva invitato alla sua tavola-spiaggia gli ospiti offrendo loro
vino e tenera polpa di granchio. Nerina era stata fatta sedere
sulla sua coperta di lana grezza di pecora, mentre l’Uomo la
fissava con i suoi occhi neri profondi.
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Celestino, nervoso, aveva sorpreso in quelli di lei qualcosa di nuovo e di fresco. E si era chiesto in quel momento
se avesse dovuto forse proteggerla e uccidere il suo salvatore. Ma, sentendo improvvisamente la madre ridere leggera, a
malincuore aveva desistito.
Al momento di ripartire, l’Uomo aveva aiutato Nerina a
salire sulla barca del barone (entusiasta della serata), bisbigliandole nell’orecchio qualcosa a suo modo gentile, e aveva
consegnato al ragazzo un dentice, un dono: – Non pescar più
solo, col buio, – gli era sembrato di capire, la prossima volta
avrebbe potuto andarci con lui. Si erano poi allontanati nella
notte illuminati dalla luna: Nerina guardando a lungo indietro
alla spiaggia, finché non era scomparsa dietro alla sporgenza della grotta, Nicola presto addormentato, il barone sazio
di una vera avventura. Celestino con un dubbio nuovo: forse
fare lo spongaro avrebbe potuto essere un lavoro interessante.
Il giorno dopo ne avrebbe parlato con Caterina.
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@Dora Di Blas:
Edicolante goriziana settantenne, molto amata nel quartiere data la sua
mania di comporre haiku per i suoi clienti su post-it rosa.
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