GUERRA TOTALE E TOTALITARISMI
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GUERRA TOTALE E TOTALITARISMI
GUERRA TOTALE E TOTALITARISMI di Paolo Pezzino (testo non rivisto dall'autore) Io cercherò di suggerirvi alcuni percorsi di ricerca e di didattica per le vostre classi, perchè il tema del rapporto tra guerre del XX secolo, totalitarismi e, all'interno del totalitarismo nazista, soluzione finale della questione ebraica, è uno dei temi più complessi e dibattuti; quindi non mi sogno affatto di affrontarlo in una dimensione organica. Seguirò alcuni percorsi, intellettuali soprattutto, che poi sono quelli che hanno caratterizzato il lavoro di ricerca, condotto insieme a Michele Battini, su un problema apparentemente diverso rispetto a quello fondamentale della soluzione finale, cioè il problema dei massacri di popolazione civile da parte dell'esercito tedesco in Italia nel corso della Seconda Guerra Mondiale, che sembrerebbe rientrare all'interno delle procedure di guerra di un esercito in armi, ma che viceversa porta agli stessi problemi teorici che pone il problema della soluzione finale. Quindi è questo collegamento che vorrei cercare di mostrarvi. E' ormai acquisito dalla storiografia dire che le guerre del XX secolo rappresentano un qualcosa di qualitativamente diverso, non soltanto di quantitativamente diverso, rispetto alle guerre precedenti. Il salto qualitativo è però anche un salto quantitativo, dipende cioè dal progresso tecnico applicato alla distruzione bellica il fatto che il numero di morti in guerra sia enormemente più alto rispetto alle guerre precedenti. I dati li conoscete tutti. Si parla di circa 10 milioni di morti nella Prima Guerra Mondiale; si parla di una cifra che varia, a seconda dei calcoli, da 3 a 5 volte in più nella Seconda Guerra Mondiale: cioè da 30 a 50 milioni di morti, e di questi moltissimi sono civili. Nella Seconda Guerra Mondiale il numero dei civili uccisi è elevatissimo, pensate che solo in Unione Sovietica 20 milioni circa sono i caduti in guerra, e di questi è probabile che almeno la metà sia rappresentata da persone che non vestivano una divisa. Il tema della guerra totale è indubbiamente un tema collegato anche ai grandi numeri. Perché questi sono numeri che in effetti non hanno precedenti come conseguenza di singoli episodi e guerre nella storia - per esempio nel XIX secolo - ma sono collegati anche al rapporto che si instaura in queste guerra tra gli eserciti e la popolazione civile; cioè tra quei cittadini in armi ai quali razionalmente veniva riservato l'uso della violenza nel corso dei conflitti bellici, ma sui quali anche tradizionalmente si tendeva a concentrare la violenza della parte avversa, e popolazioni civili che, nel diritto bellico tradizionale - più o meno rispettato in ogni guerra - venivano comunque considerate al di fuori del conflitto. In realtà, questo tipo di distinzione tra esercito e combattenti, nel corso dei due conflitti mondiali che possono anche essere considerati un unico ciclo di guerre che interessa soprattutto l'Europa (gli storici hanno elaborato una tesi storiografica che parla di “guerra dei 30 anni”, tanto per indicare il periodo che va dal 1914 al 1945 in Europa), si viene a sbriciolare. Perché? Qui il problema non è solo quello dei numeri, o di tecniche distruttive più avanzate, di più modernizzazione applicata alla capacità degli Stati di usare violenza. E' un problema più complesso che riguarda il carattere di queste guerre. Vorrei citare da questo punto di vista una lettera di Elie Halévy a Xavier Léon, due intellettuali francesi. Halévy, noto soprattutto per una serie di contributi sull'”era delle tirannie” dei quali parlerà forse Michele Battini, nel gennaio del 1915 scrive a Léon sulla durata della guerra: è un momento particolare e ormai è chiaro che la guerra non si risolverà, come pensavano molti dei contendenti, in breve tempo. Halévy scrive: «Non vedo come ci si possa fermare. E' una guerra di razze, molto sordida, priva di grandi idee, senza generali strategie». “Guerra di razze” definisce Halévy la Prima Guerra Mondiale. Perché guerra di razze? Perchè è una guerra che porta sul terreno della competizione armata il principio nazionale, non è più una guerra tra Stati, ma è una guerra tra Nazioni, in cui la Nazione sta dietro, compatta, allo Stato armato. Questo non solo a livello di propaganda, nel senso cioè che la Nazione rappresenta la volontà nazionale, ma anche a livello concreto di mobilitazione. La Prima Guerra Mondiale è la prima guerra in cui la mobilitazione di tutte le risorse nazionali viene realizzata ed è effettivamente fondamentale in tutti gli Stati. Tant'è che si parla di mobilitazione totale e compare per la prima volta questo termine “totale”, che poi in alcune teorizzazioni che cominciano subito dopo la guerra viene applicato alla struttura di alcuni Stati che diventano Stati e regimi totalitari. Perché è una mobilitazione totale? Su queste cose ha scritto delle pagine molto belle F. Furet in un libro che ha fatto molto discutere, Il passato di un'illusione, pubblicato da Mondadori in Italia: un libro sulla fine del comunismo, ma che parla anche degli sconvolgimenti europei nel corso della Prima Guerra Mondiale, e dimostra proprio come la Prima Guerra Mondiale rappresenti uno spartiacque, non tanto perché, come la Seconda, è una guerra con fortissime caratterizzazioni ideologiche (ad un certo punto la guerra diventa la guerra delle democrazie contro i regimi autocratici e autoritari degli imperi centrali, ma questa è in verità un'invenzione del Fronte degli Alleati che arriva solo successivamente), quanto perché è una guerra che traduce sul terreno democratico e di popolo la passione nazionale. Quindi è per la prima volta, dice Furet, una guerra democratica, la prima nella quale la Nazione, l'intera comunità nazionale, viene chiamata a partecipare totalmente; tant'è che tutti sappiamo l'importanza che ha il così detto “fronte interno”. Tra l'altro, una serie di attività che poi assumeranno una grossa importanza in contesti diversi, come la pubblicità, nascono proprio all'interno e durante la Prima Guerra Mondiale, per l'esigenza che tutti gli Stati hanno di una propaganda che raggiunga tutti gli strati della Nazione. Furet instaura anche un rapporto tra Prima Guerra Mondiale e rafforzamento dell'antisemitismo poiché la Nazione, che per sua tradizione universale si identifica con l'intero corpo dei cittadini, ha bisogno però, per affermarsi, di un nemico interno: e chi, meglio dell'ebreo, raffigura il nemico interno? L’ebreo oltre tutto può incarnare anche l'odio contro il borghese, che era qualcosa che, già dalla seconda metà dell'800, cominciava ad avere uno suo peso nel pensiero politico. Vorrei cercare di analizzare un'altra definizione di guerra democratica, quella di Hobsbawm nel suo volume sul XX secolo, Il Secolo Breve. Anche Hobsbawm parla di guerra di massa, con un'accezione più ampia rispetto a quella di Furet. A Furet interessa soprattutto la questione della guerra come prodotto del sentimento nazionale. Hobsbawm invece rileva che la guerra modifica il rapporto tra Stato e società civile. La Prima Guerra Mondiale, dice Hobsbawm, è la più grande impresa economica coscientemente organizzata e diretta che l'uomo avesse mai conosciuto. C'è una mobilitazione totale per l'organizzazione del lavoro e della produzione industriale; quindi si dilata enormemente l'intervento dello Stato nella società civile, anche in quegli Stati che in precedenza professavano ufficialmente il liberismo, per esempio in Gran Bretagna. Questo, secondo Hobsbawm, ha dirette conseguenze sulla crescita di quella che lui definisce la barbarie della guerra moderna, che deriva proprio dal fatto che una guerra totale come mobilitazione di tutte le risorse porta poi alla demonizzazione dell'avversario; cioè si fa appello ai sentimenti nazionali delle masse attribuendo agli avversari, che non sono più i regimi o le istituzioni degli Stati combattenti, ma i popoli stessi, aspetti di tipo demoniaco. Vengono demonizzati, vengono considerati qualcosa di altro, appartenenti ad un'altra etnia, e non è un caso che Halévy parli di guerra di razze. Potete considerare le reciproche distruzioni che attuano i francesi ed i tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale. Se pensiamo poi agli intellettuali, è abbastanza sorprendente vedere quanti e quali intellettuali si siano schierati nei due Paesi a favore della guerra, da Bergson a Freud, a Weber, ecc. Allora, dice Hobsbawm, la barbarie aumenta perché democratizzazione vuol dire demonizzazione degli avversari, e questo è il primo punto; per la conduzione impersonale della guerra, il sistema, dovendo mobilitare tutte le risorse, si affida ad una burocrazia di guerra, burocratizza anche la guerra, e proprio nel corso della Prima Guerra Mondiale noi abbiamo i primi esempi di genocidio: il massacro degli Armeni da parte dei Turchi, con l'assassinio di circa 1 milione di persone, e dopo la guerra i grandi processi di espulsione delle popolazioni a seguito di cambiamenti geo-politici. Pensate che dal '14 al '22 ci sono tra i 4 ed i 5 milioni di profughi in Europa; naturalmente nel secondo conflitto mondiale sono stati molti di più: circa 40 milioni di persone sradicate dalle proprie case e che si spostano in altri contesti, tra cui 13 milioni di tedeschi espulsi dalle regioni della Germania annesse alla Polonia dopo la conclusione della guerra. Anche questo va ricordato perchè il fatto che i tedeschi abbiano la principale responsabilità della guerra non toglie affatto che anche nei loro confronti questo carattere totale e globale della guerra sia stato applicato, una volta che la guerra, invece di vincerla come pensavano, l’hanno persa. Questi sono gli elementi fondamentali delle guerre moderne. Sempre Halévy, in una lettera del 3 luglio 1915 a Léon, ci dà un'altra indicazione essenziale relativa al rapporto tra guerra totale e Stati totalitari. Parlando dell’influenza della guerra all'interno del mondo socialista, scrive che questa influenza è sfavorevole al progresso delle forme liberali del socialismo, in quanto rafforza in modo considerevole il socialismo di Stato. Anche Hobsbawm coglie questo aspetto, ma ben prima di lui Halévy parla di rafforzamento delle strutture degli Stati. Senza voler fare la storia del concetto di totalitarismo, il concetto viene utilizzato per la prima volta dopo la fine della guerra, all'inizio del '23, dagli avversari del fascismo per definire le caratteristiche del regime fascista; il termine viene poi ripreso da Mussolini in senso positivo nel 1925 e da Gentile per indicare la nuova volontà dello Stato fascista di essere uno stato totale, che riassume al suo interno l'intera nazione. Ma viene utilizzato anche da Carl Schmitt in molti suoi scritti proprio in relazione alla guerra: nel paradigma amico-nemico indotto dalla guerra, egli vede il nuovo modello della lotta politica dopo la Prima Guerra Mondiale. Tra l'altro, un modello in cui si presuppone l'identità totale di Stato e società come alternativa alla pluralizzazione liberale. Mi fermo con queste brevi note sul totalitarismo e vorrei nel tempo residuo passare ad affrontare alcuni problemi che derivano da questa definizione delle guerre come guerre totali. Il primo problema fondamentale che ne deriva è il seguente. Se la guerra è la realtà che provoca, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, non soltanto una serie di regimi che noi oggi chiamiamo totalitari, sia pure con molte discussioni sull'ampiezza e l'utilizzazione di questo termine, ma anche un atteggiamento per cui l'intera popolazione dello Stato avversario diventa il nemico, noi ci dobbiamo chiedere se questa caratteristica della guerra moderna in qualche misura equipari regimi di tipo diverso in diversi contesti. Ad esempio, possiamo noi affermare che siano soltanto gli stati fascisti, la Germania nazista e l'Italia, ad applicare coerentemente questa equiparazione tra militari e civili? Possiamo cioè affermare che la condotta bellica di questi Stati - Stati Uniti, Gran Bretagna, ecc. - abbia una caratteristica differente in merito a garanzie e immunità per la popolazione civile non combattente, rispetto alla condotta bellica degli Stati avversari? Il tema è grosso. La Seconda Guerra Mondiale più ancora della Prima rappresenta un salto verso la guerra totale, perché a questo tema della guerra democratica, della guerra che applica il concetto di nazionalità sul piano della condotta bellica, unisce anche una particolare valenza di tipo ideologico contro il nazismo sul terreno Europeo, contro il Giappone sul fronte del Pacifico. Ricordiamoci che per gli Stati Uniti il principale avversario nell'immaginario collettivo nazionale era il Giappone, non la Germania nazista; era il Giappone che dal loro punto di vista identificava per antonomasia anche razzialmente il “diverso”. Uno studioso americano, Paul Fussel, nel libro Tempo di guerra ha analizzato la propaganda di guerra americana nei confronti del Giappone; l'immagine che ne viene fuori dei giapponesi è un'immagine deformata dal punto di vista razziale: una razza inferiore. Ci sono anche storie di comportamenti dei soldati americani che lo dimostrano. Questo carattere di guerra totale, in cui scompare la distinzione tra civili e combattenti, come coinvolge i vari contendenti? Per esempio, è il caso di cominciare a porre con forza il tema dei bombardamenti di popolazioni civili. Non conta tanto, da questo punto di vista, fare la storia di come si arriva a bombardare le città italiane, le città tedesche, o dire che i bombardamenti li hanno cominciati i tedeschi sull'Inghilterra, a Coventry, ma occorre riconoscere con onestà intellettuale che ad un certo punto la tematica del morale della popolazione civile come elemento fondamentale per la condotta bellica, la distruzione del morale della popolazione civile è stata assunta all'interno del campo alleato con un'efficacia ed un'efficienza che, per motivi tecnici e militari, l'esercito tedesco in quella fase non ha più potuto avere. I grandi bombardamenti sulle città tedesche, su quelle italiane, per arrivare poi alla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, fanno pienamente propria questa concezione della guerra totale. Se voi vedete le discussioni all'interno degli alti comandi della Raf e dell'aviazione americana, vedete che soprattutto gli inglesi su questo sono tranquillissimi; cioè è chiaro che le popolazioni civili sono obiettivi militari e quindi, per minare il consenso a Hitler, per cercare di costringere la Germania alla resa, si progettano bombardamenti che progressivamente perdono di vista gli obiettivi militari e si comincia a dire che le città sono gli obiettivi militari. In altri termini, appare effettivamente che la disumanizzazione dell' “altro” contribuisca a quel senso di distacco psicologico che rende possibili e facili le uccisioni e le strategie di atrocità nel corso della guerra. Da questo punto di vista io non noto alcuna differenza tra i massacri di popolazione civile per rappresaglia, fatti dai tedeschi, e i bombardamenti terroristici fatti dagli alleati, o altri tipi di comportamenti terroristici degli alleati, per esempio i mitragliamenti di colonne di profughi particolarmente in uso, sembra, nell'aviazione americana. Lo vediamo anche nei film: ci sono i profughi che sono chiaramente profughi, arriva un aeroplano e comincia a mitragliare tutti. Per chi ha vissuto quei momenti, questi sono tra i ricordi più intensi, che inducevano particolarmente all'odio nei confronti del nemico; mentre sul peso che hanno avuto in Italia i bombardamenti in rapporto all'atteggiamento della popolazione civile verso Mussolini gli storici ancora discutono. C'è l’idea classica tramandataci dall'antifascismo che i bombardamenti rafforzassero l'antifascismo degli italiani, perché consideravano che il colpevole fosse Mussolini; recenti indagini dimostrano invece il contrario. Alcune delle testimonianze raccolte da Pioltelli e pubblicate nel libro sulle Fosse Ardeatine dimostrano che anche nei quartieri antifascisti di San Lorenzo, quando vi furono centinaia di morti, la gente ce l'aveva con gli alleati che avevano bombardato le case. Detto questo, però, e detto che questo è un terreno di indagine ancora da esplorare, io credo che il problema del rapporto tra le condotte di guerra degli eserciti appartenenti al fronte liberaldemocratico e dell'esercito nazista e fascista, non sia ancora risolto. Nel caso delle stragi tedesche, infatti, troviamo non tanto un'elaborazione progressiva dell'importanza strategica dei bombardamenti terroristici, come nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ed un'accettazione di questa importanza, ma una teorizzazione, il prodotto di un'ideologia, quella nazista, che rappresentava un qualcosa di unico. La guerra scatenata dalla Germania non era soltanto una guerra totale e non aveva soltanto una giustificazione in termini nazionali, nel senso in cui Furet parlava della Prima Guerra Mondiale. Aveva una valenza specificamente razzista e di destrutturazione da un lato, ristrutturazione dall'altro, dello spazio europeo che andava dall'Atlantico fino ad ampi territori appartenenti all'Unione Sovietica, in base ad una caratterizzazione prevalentemente razziale, volta cioè a creare un'Europa razzialmente omogenea, in cui nella gerarchia delle razze naturalmente doveva dominare la razza ariana rappresentata dai tedeschi. Questo veniva esplicitamente teorizzato e fu applicato soprattutto con l'invasione dell'Unione Sovietica, che rappresenta da questo punto di vista un salto di qualità anche nei confronti dei progetti di ristrutturazione del così detto “spazio vitale” della Germania. Non è un caso che la soluzione finale - almeno questa è la tesi non degli intenzionalisti, cioè di chi vede la soluzione finale come già presente nella testa di Hitler fin da quando non è ancora dittatore della Germania, ma dei funzionalisti che la vedono come un prodotto proprio della radicalizzazione evolutiva del regime - si aggrava e viene messa in atto definitivamente dopo l'invasione dell'Unione Sovietica. Su questo gli storici sono abbastanza concordi. Quindi c'è una differenza tra questo tipo di conduzione della guerra, una guerra che è anche di distruzione e ristrutturazione dello spazio politico, sociale, vitale delle popolazioni contro le quali si combatte, in nome di un'ideologia esplicitamente razziale che viene teorizzata (ci sono studi su come utilizzare questo spazio conquistato dalle armate tedesche), e un comportamento come quello degli inglesi o degli americani che non teorizzano mai un'ideologia razziale (pur non essendo esenti da razzismo, come ho detto prima, per esempio nei confronti dei giapponesi) e non esprimono progetti politici di ristrutturazione dello spazio politico mondiale su queste basi. Un analogo atteggiamento hanno, per esempio, i generali tedeschi nei confronti delle popolazioni civili in Italia: un Paese che teoricamente non apparteneva all'elenco dei Paesi in cui esistevano razze inferiori da sradicare, eliminare o comunque ridurre a schiavitù, ma in cui teoricamente esisteva una razza appartenente anch'essa all'élite ariana che avrebbe dovuto governare l'Europa e il mondo. Se noi andiamo a vedere però, dopo l'8 settembre, l'occupazione tedesca in Italia, negli interrogatori dei generali tedeschi che con Michele Battini abbiamo ritrovato a Londra ed abbiamo pubblicato in un libro qualche tempo fa, voi troverete espliciti sentimenti di disprezzo razziale nei confronti degli italiani. Disprezzo razziale che si nutre di stereotipi del tipo: gli italiani traditori, gli italiani incapaci di essere organizzati, di essere coraggiosi, ecc. Proprio questo atteggiamento di disprezzo razziale favorisce l'esplosione di violenza nei confronti delle popolazioni civili, che è un'esplosione che si manifesta nei 10.000 civili italiani uccisi dall'esercito tedesco in azioni così dette “di rappresaglia”, o comunque in azioni anti-partigiane. Questo odio è alimentato dal complesso del tradimento, e si ritrova molto spesso in ufficiali che arrivano in Italia dai fronti orientali, che cioè hanno già sperimentato e assimilato localmente il nuovo tipo di guerra del fronte orientale, una guerra esplicitamente e tipicamente con finalità razziali. Questa è la fondamentale differenza tra le due parti in lotta. Entrambe accedono alla violenza che è propria della guerra: bombardamenti, distruzioni, ecc., ma dalla parte nazi-fascista c'è un innanzitutto un progetto politico portato avanti dalla struttura politica dell'esercito, dalla struttura politica dello Stato nazista, che è di un nuovo ordine internazionale lucidamente perseguito, basato sulla subordinazione delle altre nazioni agli interessi germanici, sulla teorizzazione di una razza superiore, sullo sterminio e la deportazione di intere popolazioni. Qualcosa di mai concepito prima nella storia europea e direi neanche nella storia mondiale. Quindi, la guerra ai civili condotta dall'esercito tedesco ha alle spalle questo tipo di ideologia. Ripeto, i rapporti che ci sono tra questo tipo di guerra e la soluzione finale sono abbastanza ovvi, sono abbastanza evidenti, anche se poi l'interpretazione del peso che ha avuto la guerra nella decisione della soluzione finale è ancora contrastante tra i diversi storici. Chiudo con un breve riferimento ad una tematica collegata a questo che vi ho detto, una tematica complessa, quella della punizione dei crimini di guerra. Innanzitutto sapete tutti che, dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, dal novembre '45 all'ottobre del '46 si celebra a Norimberga un grande processo contro i responsabili militari e politici del regime nazista con una serie di imputazioni: crimini di guerra, crimini contro la pace e crimini contro l'umanità. Quest'ultima è un’imputazione, nuova, che ha alle spalle l’elaborazione giuridica di un giurista americano che si chiama Raphael Lemkin, che nel 1944 elabora il concetto giuridico di “genocidio” e quindi, collegato a questo, il concetto di crimini contro l'umanità. Il problema di Norimberga è il problema per cui Norimberga finisce lì, mentre è un tribunale internazionale che poteva rappresentare in effetti l'avvio di un nuovo diritto internazionale applicato a questo tema. C’è stato poi un blocco e, come saprete, solo ora si ritorna a discutere di tribunali internazionali, ma molto faticosamente perché l'intesa raggiunta a Roma, mi pare nel '98, della costituzione di un tribunale internazionale per i crimini contro l'umanità è un'intesa ferma, molti parlamenti non l'hanno ancora ratificata e, tra gli altri, i parlamenti degli Stati che più contano: Stati Uniti, Cina, Russia, ecc. Il problema per cui Norimberga finisce lì è che, in realtà, per celebrare Norimberga bisogna istruire il processo; e poiché non esisteva un diritto precedente, non vi era una definizione di questi crimini, secondo alcuni giuristi il principio di nullum crimen sine lege - principio fondamentale della civiltà giuridica occidentale - è stato calpestato. Ma lasciamo perdere questo problema e concentriamoci sui problemi effettivi. Norimberga si basa su due mistificazioni. La prima mistificazione è quella relativa all’idea che quanto era avvenuto in Germania fosse responsabilità di un ristrettissimo numero di persone. Norimberga si può celebrare solo immaginando un complotto di un'associazione a delinquere composta di qualche centinaio di persone. Quindi Norimberga lascia fuori completamente tutto il problema delle responsabilità più ampie della società tedesca. Dopo Norimberga si succedono vari processi ad alcune categorie di medici, giudici e così via, ma comunque rimane in piedi la tesi del complotto di un gruppo di criminali. Questa è la prima mistificazione che permette di celebrare subito il processo. Altre Norimberghe non verranno celebrate. Con Battini abbiamo dimostrato che c'era il progetto di celebrare una Norimberga italiana, cioè un processo ai generali tedeschi operanti in Italia per crimini di guerra contro la popolazione civile, perché l'Italia, a parte i Paesi dell'Est Europeo, è stato il Paese dell'Europa centro-occidentale col maggior numero di caduti civili per stragi operate dai tedeschi. Questo progetto non va in porto perché una serie di motivazioni geo-politiche e i nuovi equilibri internazionali lo rendono inattuabile; cioè non conviene più insistere sulla colpevolezza dei tedeschi, quando la Germania occidentale è diventata un elemento fondamentale del blocco occidentale nella nuova guerra fredda che a questo punto ha ridiviso in due il mondo, e non conviene neanche perché le varie Norimberga avrebbero allargato notevolmente l'ambito delle responsabilità. La seconda mistificazione è che il bene fosse tutto da una parte e il male fosse tutto dall'altra. Quando a Norimberga si arriva a toccare il tema specifico della condotta della guerra, non delle SS che, in quanto tali, venivano considerate un'associazione criminale, ma dell'esercito, del quale gli storici hanno dimostrato abbondantemente il coinvolgimento, non solo nelle strategie di atrocità contro i civili, ma anche nella soluzione finale in Polonia ed in Russia, a quel punto molti dei comportamenti che avrebbero dovuto essere attribuiti alla Wehrmacht come crimini e come reati avrebbero potuto essere attribuiti anche ai combattenti delle potenze vincitrici. Quindi lì ci si ferma, perché certi comportamenti di guerra erano comuni ad entrambi i contendenti. Da questo punto di vista hanno ragione coloro che dicono che Norimberga è un processo politico, cioè un processo dei vincitori nei confronti dei vinti. Non poteva essere altro, però voglio che non ci siano equivoci: meno male che c'è stato quel processo politico. Il punto è che la tematica della guerra totale pone allora di diritto un'altra tematica, quella della difesa dei diritti dell'uomo, di quelli che poi sono stati definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo: a chi attribuire il potere di reprimere i comportamenti contro i diritti dell'uomo, che non può essere lasciato a raggruppamenti di Stati, ma alla creazione di istituzioni sovra-nazionali, dotate di una forza persuasiva tale da poter operare autonomamente rispetto ai singoli Stati nazionali. La conclusione di questo percorso, che in realtà non è concluso, è la constatazione che le guerre di oggi sono sempre più guerre totali, e lo sono state anche le guerre dopo la Seconda Guerra Mondiale (pensate che soltanto nel conflitto limitato tra Pakistan e India, per il distacco del Pakistan dall'India, ci sono stati due milioni di morti, per non parlare poi della Cambogia, del genocidio in Indonesia, ecc.). Quello che voglio dire è che da queste considerazioni emergono problemi che sono assolutamente non risolti per l'affermazione dei diritti dell'uomo come diritti universali.