L`uomo ingranaggio: L`oggettivazione al lavoro - In-Mind

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L`uomo ingranaggio: L`oggettivazione al lavoro - In-Mind
L’uomo ingranaggio: L’oggettivazione al lavoro
In-Mind Italia
IV, 3–7
http://it.in-mind.org
ISSN 2240-2454
Cristina Baldissarri1, Luca Andrighetto2, e Chiara Volpato1
Università di Milano-Bicocca e 2Università di Genova
1
Keywords
Oggettivazione, percezioni di umanità, lavoro, operaio
Chi di noi non ricorda le immagini di Charlie Chaplin in Modern Times (1936)? Un operaio lavora
a una catena di montaggio. Il suo unico compito è
quello di avvitare un bullone. Tutt’attorno altri operai che svolgono azioni ripetitive e standardizzate.
Non si può perdere il ritmo dettato dallo scorrere del
nastro trasportatore, che implacabile continua il suo
corso. L’operaio non può che adattarsi come tutti gli
altri. Il movimento diventa meccanico e automatico,
difficile distinguere l’uomo dalla macchina, tanto
che Chaplin, nell’immagine più famosa e metaforica del film, non riuscendo a stare al passo della
produzione serrata, verrà inglobato dagli ingranaggi
della macchina stessa. L’uomo diventa un oggetto,
uno strumento fra tanti al servizio della produzione.
Sono immagini che hanno segnato la storia e animano i nostri ricordi. Nonostante molti anni siano passati dal 1936, tutt’oggi esistono lavori che implicano movimenti ripetitivi e meccanici, dettati dai ritmi
serrati delle macchine (Hodson & Sullivan, 2011),
in cui possiamo riscontrare il fenomeno dell’oggettivazione: una forma di deumanizzazione sottile e
quotidiana che consiste nel vedere e nel trattare una
persona come un oggetto (Volpato, 2011).
La maggior parte delle ricerche psicosociali ha
studiato l’oggettivazione in ambito sessuale; solo in
tempi recenti alcuni studi si sono proposti di ampliare il campo di indagine di tale fenomeno, fornendo
le prime evidenze empiriche dell’oggettivazione in
ambito lavorativo.
Il lavoro oggettivante
Le analisi teoriche sull’oggettivazione causata dal
lavoro sono svariate e nascono con la stessa società
industriale.
Fig. 1. Modern Times (1936), Charlie Chaplin.
Karl Marx (1844/1980) sosteneva già che il lavoro
nella società capitalista non è un’attività libera in cui
l’uomo può manifestare la sua umanità, ma rappresenta piuttosto un’imposizione esterna che depriva il
lavoratore dalla sua autonomia e del prodotto stesso
del suo lavoro. L’umanità è negata perché il lavoratore è valutato in termini di ciò che produce e del
valore che i prodotti hanno per gli altri. Lo stesso
lavoratore giunge ad autovalutarsi in base alla produttività, più che in base alle qualità che definiscono
l’umanità di una persona. Nelle società preborghesi,
ogni bene prodotto serviva per soddisfare i bisogni
umani, aveva un valore di utilità per l’uomo e per la
sua sopravvivenza; nell’economia borghese, invece,
il prodotto diventa merce; ciò che viene prodotto non
Corrispondenza:
Cristina Baldissarri
Dipartimento di Psicologia
Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1
20126, Milano, Italia
E-mail: [email protected]
Baldassarri et al.
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è quindi più finalizzato al singolo, bensì al mercato
e alla produzione di ricchezza (Marx, 1867/1964). Il
prodotto non appartiene più all’operaio-uomo, ma è
un ente che esiste fuori di lui, estraneo e quasi nemico, dotato di una potenza avversa e di leggi proprie
(Andreoni, 2005). Secondo Marx, tanto più il prodotto si arricchisce, tanto più l’operaio si impoverisce, in un processo di trasformazione che lo rende
senza spirito, senza dignità, senza valore e “schiavo
della natura” (Marx, 1844/1980, p. 300).
Nonostante le critiche di Marx, la società industriale ha proseguito sulla via della meccanizzazione. I nuovi principi, ad esempio quello dell’operaio
bue (Taylor, 1911), di quella che verrà chiamata l’organizzazione scientifica del lavoro, vengono formulati per la prima volta da Taylor e trovano la loro
piena realizzazione nella catena di montaggio, introdotta nell’industria da Ford (1922/1980). Lo scopo della catena di montaggio è ridurre al minimo
i movimenti dell’operaio, costringendo tutti, i più
veloci e i più lenti, a lavorare al ritmo dettato dal
nastro trasportatore, riducendo ritardi o sovraccarichi e, quindi, i tempi di produzione. Questi principi vengono così, in seguito, criticati da Gramsci:
“Taylor […] esprime con cinismo brutale il fine della
società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali e automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro
professionale qualificato che domandava una certa
partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale.”
(Gramsci, 1934/1975, pp. 2165-2166). L’umanità che
si realizzava nella “creazione produttiva” tipica del
lavoro artigianale, in cui il lavoro era strettamente
legato all’arte e l’oggetto rifletteva la personalità del
lavoratore, viene annullata dalle iniziative degli industriali come Ford e Taylor.
Tra gli anni ‘50 e ’70 del Novecento, avviene la
piena transizione dalla società contadina a quella industriale e cominciano a manifestarsi i sintomi del
successivo passaggio alla società postindustriale,
caratterizzata dalla prevalenza del settore terziario
su quello secondario della produzione di beni manufatti. L’aumentata complessità e specializzazione del
sistema sociale e produttivo cambia profondamente
il senso del lavoro sia dei vecchi impiegati di concetto sia degli operai della fabbrica. Il lavoro dipendente si frammenta sempre più e si riduce a una serie
di operazioni ripetitive, che allontanano il lavoratore
dal controllo dell’intero processo e lo abbandonano
in una condizione di alienazione tale da fargli percepire l’attività lavorativa come qualcosa di estraneo
e ostile. Nel saggio L’uomo è pigro per natura?, il
filosofo Erich Fromm (1974/1996) così riassume la
sua percezione dell’operaio post-industriale: “Oggi
l’operaio è al servizio della macchina, e per questo
gli basta solo una minima dose di abilità. Neppure le
prestazioni di un operaio “qualificato” sono paragonabili alla perizia di un artigiano medievale. L’operaio è più uno strumento specializzato che un essere
umano dotato di un proprio talento. […] È risaputo
che l’operaio moderno soffre di una noia tremenda,
e odia il proprio lavoro. In quanto persona non viene arricchito ma storpiato dal processo lavorativo,
poiché nessuna delle sue facoltà ha la possibilità di
esser coltivata e di crescere” (pp. 128-129).
Martha Nussbaum (1995), nel suo famoso lavoro
Objectification, descrive esplicitamente come l’operaio che svolge un lavoro monotono, ripetitivo, parcellizzato e eterodiretto venga oggettivato. L’operaio
che lavora a una macchina è visto come strumento,
come un’estensione della macchina stessa. Egli non
può prendere decisioni, organizzarsi e prendere iniziative; tutti gli operai sono considerati uguali, i loro
sentimenti e le loro esperienze individuali, quindi
la loro soggettività, vengono annullati. I lavoratori,
inoltre, sono interscambiabili sia con altri lavoratori
con simili capacità fisiche, sia con macchine. La salute fisica e spirituale dei lavoratori viene erosa gradualmente dalle condizioni di lavoro. La strumentalità, il diniego dell’autonomia e della soggettività, la
fungibilità (interscambiabilità) e la violabilità sono
quindi le dimensioni individuate da Nussbaum su
cui l’operaio è oggettivato. Le altre due dimensioni
che secondo l’autrice possono caratterizzare l’oggettivazione, l’inerzia e la proprietà, non appartengono
invece al lavoro dell’operaio, che non è trattato come
inerte, perché il suo valore consiste precisamente
nella sua attività, e non è di proprietà di qualcuno,
essendo assunto attraverso un contratto. L’aspetto centrale del fenomeno è, secondo la filosofa, la
strumentalità, che diventa pericolosa quando l’altra
persona è trattata primariamente e solamente come
strumento, come avviene nella condizione dell’operaio.
Gli studi psicosociali
sull’oggettivazione
Gli studi psicosociali sull’oggettivazione si sono
fino ad ora concentrati su un particolare tipo di
oggettivazione che permea la società occidentale:
l’oggettivazione sessuale. Riprendendo il pensiero
femminista, secondo cui l’oggettivazione sessuale
per le donne è un’esperienza quotidiana e inevitabile (ad es., MacKinnon, 1989), gli studi psicosociali
hanno preso due differenti direzioni.
La maggior parte degli studi si è focalizzata sulla
teoria dell’oggettivazione di Fredrickson e Roberts
L’oggettivazione al lavoro
(1997) e sulle conseguenze dell’auto-oggettivazione.
Secondo questa teoria le donne, quando sono oggettivate sessualmente, sono trattate come corpi, o un
insieme di parti del corpo, che esistono per l’uso e
il piacere degli altri. Il mezzo principale dell’oggettivazione è lo sguardo oggettivante (si veda il glossario), che permea i contesti culturali, nelle quali le
donne vivono, e porta le donne a interiorizzare la
prospettiva dell’osservatore sul sé, fenomeno che
viene chiamato dalle autrici auto-oggettivazione. Le
donne imparano a vedere se stesse come un oggetto
da valutare in base all’aspetto fisico, e questo porta a una serie di esperienze soggettive conseguenti
(come ansia, vergogna e tensione) e ad alcuni disturbi psicologici: depressione, disfunzioni sessuali e disturbi alimentari. Fredrickson e Roberts hanno dato
così il via a molti studi sull’auto-oggettivazione e le
sue conseguenze (vedi, ad es., Pacilli, 2012 per una
rassegna).
Pochi e più recenti studi hanno seguito una seconda direzione, spostando lo studio dell’oggettivazione a livello interpersonale, ovvero su come la
persona oggettivata viene percepita dagli altri. Questi studi hanno documentato che, quando le donne
venivano raffigurate in maniera oggettivata, in pose
sessuali o mezze nude, i partecipanti (maschi e femmine), rispondendo al compito dello SC-IAT (si veda
il glossario), le associavano meno a parole legate al
concetto di umanità, rispetto a quando esse venivano presentate in maniera non oggettivata (Vaes,
Paladino, & Puvia, 2011). Inoltre, mostrare a partecipanti, maschi e femmine, immagini di una donna in
costume, fa sì che le vengano attribuite minori capacità mentali e morali e induce a una minore considerazione della sua sensibilità (Loughnan et al., 2010).
In linea con queste ricerche, Heflick e collaboratori hanno dimostrato come il focus sull’aspetto fisico di una persona promuova l’oggettivazione delle
donne e non degli uomini (Heflick & Goldenberg,
2009; Heflick, Goldenberg, Cooper, & Puvia, 2011).
Ad esempio, in uno di questi studi (Heflick et al.,
2011) ai partecipanti, maschi e femmine, veniva fatto vedere un filmato che riprendeva, a seconda della
condizione, un reporter donna o un reporter uomo
mentre svolgevano il loro lavoro. Inoltre, ai partecipanti veniva chiesto di concentrarsi sulla prestazione
o sull’aspetto fisico della persona ripresa. I risultati
hanno dimostrato che l’attenzione sull’aspetto fisico
della donna promuoveva l’oggettivazione: essa veniva infatti percepita come meno competente, meno
calorosa e meno morale rispetto a quando l’attenzione era rivolta alla prestazione. Questo non accadeva
per il reporter uomo.
Recentemente, alcuni studi hanno esplorato il
fenomeno dell’oggettivazione allargando il campo
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di indagine oltre a quello sessuale. In particolare,
Gruenfeld, Inesi, Magee e Galinsky (2008) hanno
dimostrato come posizioni di potere possano portare
alla percezione di individui subordinati come meri
strumenti. In questo caso, l’oggettivazione aumentava la tendenza ad approcciare i subordinati esclusivamente in base alla loro utilità in vista di un obbiettivo e indipendentemente dal loro genere e dalle loro
qualità umane. Il potere induce, dunque, a instaurare
relazioni strumentali indipendentemente dal genere
sessuale. L’oggettivazione è, quindi, un fenomeno
molto più ampio rispetto a quello che si è studiato
in letteratura, un fenomeno che si può estendere ben
oltre il campo sessuale.
L’oggettivazione dell’operaio
Nonostante l’oggettivazione dell’operaio sia stata
ampiamente analizzata da un punto di vista teorico,
gli studi empirici psicosociali sono ancora agli inizi. Il lavoro nobilita l’uomo o lo rende simile a un
oggetto? Come viene percepito l’operaio? È effettivamente visto come strumento e non come essere
umano?
In una prima ricerca sperimentale Andrighetto,
Volpato e Baldissarri (2012) hanno indagato questo
fenomeno, mettendo a confronto il lavoro di un operaio impiegato in un sistema industriale complesso
(caratterizzato da ripetitività dei gesti, tempi etero
diretti, segmentazione del lavoro) con quello di un
artigiano (attività in cui il prodotto viene ideato e
costruito dall’inizio alla fine dallo stesso lavoratore
attraverso diverse fasi). Per verificare che il lavoro
fosse effettivamente la causa dell’oggettivazione è
stato adattato il paradigma sperimentale dello studio
di Heflick e colleghi (2011). In particolare, nello studio di Andrighetto e colleghi (2012) ai partecipanti, a seconda della condizione sperimentale, veniva
presentato un breve video che riprendeva un operaio
che lavorava a una macchina saldatrice, il cui uni-
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Baldassarri et al.
ripetitività, alla monotonia e alla mancanza di senso
della sua opera. Il riconoscimento sociale derivante dal lavoro provoca effetti positivi sull’identità e
sulla realizzazione personale (Castel, 1998). La sua
assenza potrebbe invece causare un’auto-oggettivazione dell’operaio. Sarebbe interessante verificare
l’esistenza di questa possibile auto-oggettivazione e
la relazione fra oggettivazione, auto-oggettivazione,
esperienze psicologiche e prestazioni lavorative.
Infine, può essere importante ampliare il campo
di studi ad altre categorie lavorative. Molte occupazioni sono caratterizzate da alti ritmi, controllo della
performance, incertezza della continuità lavorativa e
conseguente perdita di senso (vedi, ad es., l’indagine
sui call center di Pierantoni et al., 2007). Il lavoro,
inoltre, negli ultimi anni sta cambiando: lo strumento principale delle esigenze produttive è diventato il
lavoro temporaneo e flessibile (Sarchielli & Fraccaroli, 2010). L’attuale tendenza porta a un’oggettivazione diffusa: il lavoratore temporaneo è una risorsa
utile per i bisogni momentanei dell’azienda, può essere sostituito, si adatta e non può agire di propria
iniziativa, deve essere pronto a mettere in atto quello
che gli viene detto, deve andarsene quando necessario secondo le esigenze del mercato (Andreoni,
2005). Non sono forse questi dei rapporti lavorativi
che implicano per definizione strumentalità, fungibilità, violabilità, diniego dell’autonomia e diniego
della soggettività?
Nuovi campi di indagine
Il campo di ricerca si estende quindi al lavoro in
Nonostante queste prime prove empiriche, l’ogget- generale. Il lavoro, momento principale della vita
tivazione in campo lavorativo è un dominio ancora adulta, fonte di soddisfazione e arricchimento pertutto da esplorare. Un passo prioritario da effettuare sonale, fondamentale per la definizione dell’identità
sarà l’analisi delle differenze fra il fenomeno in am- e per il riconoscimento sociale, rischia di diventare
sempre più, nella nostra società, un fattore di oggetbito sessuale e il fenomeno in ambito lavorativo.
Capire quali siano i fattori determinanti dell’og- tivazione.
gettivazione in questo campo e quali siano le caratteristiche del lavoro maggiormente oggettivanti potrà Glossario
portare a un miglioramento della condizione sociale Sguardo oggettivante. Con sguardo oggettivante ci si
del lavoratore. In che modo la ripetitività dell’atti- riferisce allo sguardo attraverso cui si vede l’altro come
vità, la segmentazione o il controllo esterno influi- simile a un oggetto. Lo sguardo oggettivante non riguarscono sull’oggettivazione dell’operaio? Quali sono i da solo gli incontri interpersonali e sociali di tutti i giorprincipali fattori oggettivanti? Un altro possibile svi- ni, ma anche particolari media come film, pubblicità,
luppo riguarderà le conseguenze dell’oggettivazio- programmi televisivi, video musicali e riviste femminili
in cui la donna è presentata e trattata come un oggetne: esistono delle conseguenze a livello comporta- to. Lo sguardo oggettivante non è sotto il controllo della
mentale dovute all’oggettivazione? L’oggettivazione donna, che quindi non può controllare, eliminare o evidell’operaio porta a comportamenti di avvicinamen- tare contesti potenzialmente oggettivanti.
to o di allontanamento, induce atteggiamenti solidali Stati mentali. Con stati mentali ci si riferisce a stati
interni attraverso cui si articolano pensieri e comporo di sfruttamento?
Sarà inoltre importante studiare le conseguenze tamenti e che riflettono le capacità mentali legate alla
psicologiche dell’oggettivazione sull’operaio. Il lavo- volontà, al pensiero, all’intenzione, alla percezione e alle
emozioni.
ro alienante può infatti avere un doppio effetto sul
Il Single Category Implicit Association Test
lavoratore: un effetto indiretto dovuto alla percezio- SC-IAT.
(Karpinski & Steinman, 2006) è una variante dell’ Impline oggettivante che gli altri hanno della persona e cit Association Test (Greenwald, McGhee & Schwartz,
un effetto diretto su chi svolge il lavoro, dovuto alla 1998), una misura implicita che permette di misurare
co compito era quello di inserire il pezzo da saldare
nella macchina, o un video che riprendeva un falegname che produceva una sedia attraverso diverse
attività. Ai partecipanti veniva chiesto, a seconda
della condizione sperimentale, di prestare attenzione
alla persona o al lavoro svolto nel video. Gli autori
hanno infatti ipotizzato che, se è effettivamente l’attività dell’operaio a causare oggettivazione, chiedere
di focalizzarsi sul lavoro dovrebbe portare a delle
percezioni differenti da quelle ottenute chiedendo di
concentrarsi sulla persona. Tali differenze dovrebbero però verificarsi solo nella condizione dell’operaio e non nella condizione di confronto dell’artigiano. Successivamente, ai partecipanti veniva chiesto
di valutare quanto il lavoratore ripreso nel video
fosse secondo loro simile a uno strumento e quanto fosse in grado di provare diversi stati mentali (si
veda il glossario), dai più semplici (ad es., sentire)
ai più complessi (ad es., desiderare). Confermando
le ipotesi, i risultati hanno mostrato che l’operaio –
ma non l’artigiano – veniva percepito come più simile a uno strumento e gli venivano attribuite minor
capacità mentali quando i partecipanti si focalizzavano sul suo lavoro piuttosto che sulla sua persona.
Questo primo studio sembra, dunque, suggerire che
il lavoro dell’operaio non nobilita l’uomo, ma anzi
sembra renderlo simile a un oggetto.
L’oggettivazione al lavoro
la forza dei legami associativi tra concetti rappresentati in memoria. I partecipanti svolgono un compito al pc
in cui devono categorizzare degli stimoli che appaiono
al centro dello schermo utilizzando due tasti differenti.
Se nella rappresentazione cognitiva di una persona esiste
una forte associazione tra due concetti, allora, quando i
partecipanti devono utilizzare lo stesso tasto per categorizzare i due concetti, la risposta sarà più facile rispetto
a quando devono usare tasti differenti. La facilità nella
risposta viene misurata attraverso i tempi di reazione, la
velocità e l’accuratezza, nello svolgere il compito di categorizzazione.
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Cristina Baldissarri è Dottoranda in Psicologia sociale, cognitiva e clinica presso la Scuola di dottorato in Psicologia
e Scienze Cognitive dell’Università degli
Studi di Milano-Bicocca. I suoi principali
interessi di ricerca riguardano i processi
di oggettivazione e di deumanizzazione.
Luca Andrighetto ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Psicologia Sociale
e della Personalità presso l’Università
di Padova. E’ stato assegnista di ricerca
presso l’Università di Milano-Bicocca.
Attualmente è ricercatore di Psicologia
Sociale presso l’Università di Genova,
dove insegna Psicologia sociale e Psicologia di Comunità. Si occupa prevalentemente di deumanizzazione,
processi di riconciliazione intergruppi e riduzione del
pregiudizio interetnico.
Chiara Volpato è Professore ordinario
di Psicologia Sociale presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli
Studi di Milano-Bicocca. I suoi principali
interessi di ricerca riguardano le relazioni intergruppi, i pregiudizi e gli stereotipi,
l’influenza sociale, i processi di deumanizzazione e di
oggettivazione.