17 scheda IDA - Il cineforum "Il posto delle fragole"

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17 scheda IDA - Il cineforum "Il posto delle fragole"
17° film“Cineforum il posto delle fragole”22
IDA Pawel Pawlikowski
Sceneggiatura:
Pawel
Pawlikowski,
Rebecca
Lenkiewicz. Fotografia: Lukasz
Zal,
Ryszard
Lenczewski.
Montaggio: Jaroslaw Kaminski.
Musica: Kristian Selin Eidnes
Andersen. Scenografia: Katarzyna
Sobanska-Strzalkowska, Marcel
Slawinski. Costumi: Ola Staszko,
Agata Winska. Interpreti: Agata
Trzebuchowska
(Anna/Ida
Lebenstein), Agata Kulesza (Wanda Gruz), Dawid Ogrodnik (Lis), Jerzy Trela (Szyman Skiba),
Adam Szyszkowski (Feliks Skiba), Halina Skaczynska (la Madre Superiora), Joanna Kulig (la
cantante) Artur Janusiak (il poliziotto), Jan Wociech Poradowski (padre Andrzej), Produzione: Eric
Abraham, per Opus Film/Phoenix Film Investments/Canal+ Polska. Distribuzione: ParthénosLucky Red. Durata: 79’. Origine: Polonia/Danimarca, 2012.
Novizia tra cane e lupo Paolo Vecchi dalla rivista Cineforum
Nato a Varsavia nel 1957, Pawel Pawlikowski ha lasciato la Polonia a quattordici anni, dapprima
per la Germania e l’Italia, approdando infine in Gran Bretagna. Qui ha studiato e si è affermato
come eccellente documentarista, realizzando in seguito quattro lungometraggi di finzione, The
Stringer (1998), che non conosciamo, girato in Russia, Last Resort – Amore senza scampo (Last
Resort, 2000), My Summer of Love (id., 2004) e The Woman in the Fifth (2011), ambientato a
Parigi. Ida rappresenta dunque per lui un ritorno alle origini, una ricerca di radici in qualche modo
parallela a quella della protagonista. Della Polonia anni Sessanta ritroviamo innanzitutto una
tradizione religiosa che gli imperativi della situazione politica non sono riusciti a scalfire, nella
duplice versione della rigorosa consapevolezza della Madre Superiora e del disarmato candore della
novizia. Sullo sfondo ma non tanto si avverte il Regime, la cui natura è rimasta sostanzialmente
autoritaria pur nelle sue diverse connotazioni, dalle durezze dello stalinismo al “comunismo dal
volto umano” di Gomulka. La figura di Wanda appare emblematica di questi passaggi: giudice
spietato ai tempi delle cosiddette purghe, oggi collocata ai margini dal nuovo corso politico, viene
comunque ricordata da morta con un’ipocrita cerimonia funebre che rispolvera tutti i luoghi comuni
d’obbligo per chi si è meritato l’appellativo di Eroe nella costruzione del Socialismo. C’è poi
l’antisemitismo, visto non solo come portato orrendo dell’occupazione nazista ma piuttosto come
atteggiamento radicato e diffuso: i genitori di Ida e il figlio di Wanda sono infatti stati uccisi in
maniera atroce da un contadino polacco, e sappiamo quale fu l’atteggiamento del Partito in materia
verso la fine degli anni Sessanta. C’è infine il grigiore malinconico di un paesaggio della memoria,
di interni borghesi e tristi periferie urbane, maestosi conventi e casupole di campagna col tetto di
paglia, bettole e cimiteri, Wartburg a due tempi e cavalli da tiro.
In questa ricostruzione d’epoca e atmosfere, Pawlikowski non poteva che avere come punto di
riferimento il cinema polacco coevo, a partire dalla scelta di girare il film nel formato 1,33:1 e nel
suggestivo bianco e nero di Ryszard Lenczewski, abituale collaboratore del regista, e del suo allievo
Lukasz Zal. Il 1962 in cui si svolge Ida è forse non a caso l’anno in cui esce Il coltello nell’acqua,
strepitoso esordio di Roman Polanski che avrebbe aperto la strada a una delle vagues più innovative
d’Europa, troppo presto condannata agli splendori e alle miserie dell’emigrazione. Il regista sembra
assumerlo come spartiacque guardando all’indietro, ai maestri della generazione precedente (1).
A una forma di rinnovata classicità, dunque, più che a stilemi cari a quella avanguardia. Pur
avendo dichiarato di considerare Cenere e diamanti uno dei film della vita, non sembra tuttavia
ispirarsi al tormentato rapporto con la storia patria e ai sontuosi barocchismi di Andrzej Wajda,
tantomeno all’altissima dimensione letteraria di Wojciech Jerzy Has. I suoi autori di riferimento ci
sembrano piuttosto Jerzy Kawalerowicz e Andrzej Munk. Del primo ripropone infatti l’antinomia
spiritualità/sensualità di Madre Giovanna degli Angeli, del quale arriva alla citazione pressoché
testuale nella sequenza delle novizie prone a braccia larghe sul pavimento della chiesa nel corso
della cerimonia di iniziazione. Dal capolavoro incompiuto del secondo, La passeggera, deriva
l’idea della Shoah come coacervo di memoria nel quale convivono indissolubilmente senso di colpa
e falsa coscienza.
Per caratterizzare ulteriormente il periodo
segnalando
le lusinghe
dell’Occidente,
Pawlikowski introduce nella colonna sonora
alcune canzoni italiane («I Found My Love in
Portofino» e «Guarda che Luna» di Fred
Buscaglione, «Ventiquattromila baci» di
Adriano Celentano) eseguite da un complessino
nel solito, squallido night d’albergo già visto
tante volte in altre cinematografie dell’Est del
periodo. Non a caso Pawlikowski cita tra i film
preferiti Gli amori di una bionda di Milos
Forman. Ma il sassofonista Lis è un ammiratore di John Coltrane, Naima (2), una delle pietre
miliari di questo gigante del jazz, costituisce l’altra faccia della medaglia, la musica afroamericana
in cui si è formata una generazione di intellettuali e una “scuola” della quale fu il capofila Krzysztof
Komeda, pianista di talento e autore di memorabili scores, per Polanski ma anche Skolimowski,
Wajda, Hoffman e Carlsen, scomparso a soli trentotto anni in seguito a un assurdo incidente.
«Il periodo che mostro in Ida corrisponde a un’Europa dell’Est molto viva, aperta, contraddittoria;
si diceva della Polonia che era “la baracca più divertente” nel lager comunista. Produceva arte,
teatro, musica, tra cui il jazz, con una certa rinomanza internazionale, mentre adesso assomiglia un
po’ a tutto il mondo. Avevo questa immagine uscita dall’infanzia forse idealizzata della Polonia, ma
anche dei ricordi concreti: le auto, certa musica pop, la malinconia e l’ironia della gente» (3). Ma
poiché, come abbiamo anticipato, il film mette in campo degli assoluti, nei momenti topici vengono
proposti il Mozart della Sinfonia n. 41 in do maggiore K.551 “Jupiter” per Wanda, un corale
bachiano nella trascrizione pianistica di Busoni per Ida, la prima diretta da Bruno Walter, il secondo
eseguito da Alfred Brendel, entrambi dunque filologicamente pertinenti anche dal punto di vista
cronologico.
L’essenzialità, l’ellissi, il non detto, segnano caparbiamente la cifra stilistica di Pawlikowski a
partire dalla durata stessa del film, che riesce a comprimere in poco meno di ottanta minuti un
materiale immaginario e una prospettiva storica evidentemente elaborati a lungo. Tanto che,
volendo, da essi si può perfino prescindere, arrivando ad apprezzare Ida per quello che è a un primo
livello di lettura: la storia di due donne diverse per età, cultura, scelte di vita, esperienze, coscienza
di sé, e tuttavia dalle personalità complementari piuttosto che contrapposte. Dopo la giovanissima
coppia omosessuale e “cannibale” Emily Blunt-Nathalie Press di My Summer of Love, l’esordiente,
limpida Agata Trzebuchowska e l’esperta, tormentata Agata Kulesza vanno a comporre un dittico
femminile non indegno di quello formato da Bibi Andersson e Liv Ullmann nel bergmaniano
Persona, confermando il regista come attrezzato e sensibile women’s director.
Prossimo film
giovedì 3 marzo
JANIS di Amy Berg