Comitati etici e problemi etici della pubblicazione degli studi
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Comitati etici e problemi etici della pubblicazione degli studi
bollettino d’informazione sui farmaci 89 PUNTI DI VISTA Comitati etici e problemi etici della pubblicazione degli studi (Richard Smith*. Ethics committees and ethical issues in publishing research: a view from Britain and from the BMJ). decenni che seguirono la seconda guerra mondiale sperimentazioni che oggi verrebbero considerate non etiche erano una routine in medicina. Le opinioni su cosa si può ritenere accettabile sono cambiate, in particolare oggi si considera inaccettabile lasciare che sia il medico da solo a decidere cosa è etico. Sebbene la Gran Bretagna e gli Stati Uniti siano stati messi in guardia nello stesso momento sul problema della ricerca non etica, la Gran Bretagna ha impiegato venti anni di più rispetto agli Stati Uniti per istituire i comitati etici. Il Royal College of Physicians, nel 1967, ha raccomandato che le sperimentazioni dovessero essere approvate da un comitato di medici1. Il BMJ reagì dichiarando che “in fin dei conti, la decisione su un determinato progetto spetta soltanto al medico”4. Fu forse a causa di tale opposizione che il Royal College pubblicò linee guida sui comitati etici soltanto nel 1984. I comitati iniziarono allora ad apparire, ma erano molto differenti gli uni dagli altri per quanto riguarda qualità, composizione e modo di lavorare5. Alcuni lavoravano soltanto per corrispondenza. Nel 1991 il Department of Health (Dipartimento della Sanità) conferì alle unità sanitarie la responsabilità dei comitati etici a livello locale cosicché la loro composizione fu ampiamente standardizzata. I ricercatori che conducevano ricerca multicentrica dovevano presentare domanda di autorizzazione a oltre 150 comitati e questo portava enormi ritardi e un innalzamento dei costi. Ciò che è peggio, le molteplici richieste di autorizzazione davano luogo a decisioni molto diverse6. La maggior parte dei comitati aveva un’eccessiva mole di lavoro e insufficienti risorse. I membri ricevevano poca o nessuna formazione, e molti comitati erano mal attrezzati per occuparsi degli aspetti tecnici e legali delle sperimentazioni. Eppure la maggior parte delle persone concorderebbe che la ricerca che non è scientifica, poiché non permette di raggiungere conclusioni sicure, inevitabilmente non è etica poiché spreca risorse e potrebbe esporre i pazienti ad inutili rischi. I comitati etici multicentrici furono fondati nel 1997, tuttavia i comitati locali mantengono In Gran Bretagna, la creazione di comitati etici aventi il compito di approvare le sperimentazioni fu raccomandata, per la prima volta, nel 19671, tuttavia, la loro presenza si consolidò soltanto negli anni Ottanta. Nel 1991, ogni unità sanitaria doveva avere il proprio comitato, però divenne subito chiaro che la qualità del loro lavoro era molto variabile. Un particolare problema riguardava l’approvazione di sperimentazioni che venivano condotte in molti centri, pertanto vennero istituiti, alla fine degli anni Novanta, dei comitati etici multicentrici. Restano tuttavia ancora molti problemi da risolvere riguardanti i comitati etici e ulteriori sviluppi sono inevitabili. Il loro compito è così complesso che richiederebbe professionisti formati e remunerati piuttosto che volontari, come avviene adesso. Lo sviluppo dei comitati etici In Gran Bretagna, il più grande impulso alla creazione di comitati etici fu la pubblicazione, nel 1967, di un libro intitolato “Human Guinea Pigs” (Cavie umane)2. Era stato scritto da un medico, Maurice Pappworth, che descriveva sperimentazioni pericolose su pazienti che non avevano dato alcun consenso ai medici che le conducevano. I medici in questione erano ben noti e la sperimentazione fu pubblicata su riviste di peer review. All’incirca nello stesso periodo in cui veniva pubblicato in Gran Bretagna il libro di Pappworth, negli Stati Uniti apparve sul New England Journal of Medicine un articolo che descriveva una ricerca simile3. È evidente che, nonostante le dichiarazioni sulle sperimentazioni condotte su esseri umani che seguirono il processo di Norimberga ai criminali di guerra nazisti, nei *Direttore del British Medical Journal. Ministero della Salute 90 PUNTI DI VISTA ancora il controllo su “problemi pertinenti a livello locale”. L’incoerenza rimane. Un presidente di uno dei comitati etici multicentrici descrive l’incoerenza dei comitati locali: “uno si opporrà all’idea di informare i pazienti che la ricerca è stata approvata dal comitato etico (perché è “coercitivo”), un altro insisterà affinché questa informazione venga data; uno sarà contrario a qualunque forma di pagamento ai soggetti che partecipano alla ricerca, un altro sarà a favore; uno accetterà i familiari come traduttori per coloro che non parlano inglese, un altro insisterà che vengano usati soltanto degli interpreti professionisti7. Riassumendo le evidenze sui ritardi e le contraddizioni nelle decisioni dei comitati etici, il presidente del Royal College of Physicians, nel 2000, suggerì che “la cura [di creare comitati etici multicentrici] era peggiore della malattia”8-10. Sono state prodotte ulteriori regole sul lavoro dei comitati etici ed è stato istituito un ufficio centrale per i comitati etici. Eppure, coloro che sono “addentro” avvertono che il sistema attuale è inadeguato7-11. Sono necessari, e verranno richiesti, ulteriori cambiamenti, perché si sta introducendo un nuovo modo di gestire e regolamentare la ricerca e un progetto di direttiva europea afferma che ci deve essere soltanto un livello nel sistema e che le decisioni devono essere prese entro 60 giorni. hanno il tempo di formarsi anche quando la formazione viene loro offerta. Inoltre, la Gran Bretagna ha visto «montagne di nuovi documenti e pareri» rivolti ai comitati etici, eppure molti membri dei comitati non sono a conoscenza dei nuovi pareri emessi. 4. La crescente mole di lavoro conduce alla creazione di nuovi comitati, il che, nonostante l’invito alla standardizzazione, probabilmente porterà maggiore incoerenza. 5. Un numero crescente di esponenti dei comitati etici richiede di essere compensato. Gli statistici affermano che loro dovrebbero essere pagati e lo stesso hanno fatto i farmacisti. Quei membri dei comitati che invece sono dipendenti dei servizi sanitari dedicheranno del tempo del loro lavoro ai comitati etici così come è previsto dal loro contratto, tuttavia ciò li distingue dai membri esterni che non ricevono compenso. Saunders conclude che sono necessari dei comitati di professionisti e Julian Savalescu, un professore di etica medica ad Oxford e direttore del Journal of Medical Ethics, ha raggiunto la stessa conclusione11. Egli ha esaminato il decesso di due partecipanti a una ricerca negli Stati Uniti e ha concluso che l’insuccesso dei comitati etici ha contribuito alle loro morti. Di cosa c’è bisogno? Problemi attuali Secondo Savalescu ci dovrebbero essere meno comitati etici, e forse dovrebbero essere sovraistituzionali. I membri dovrebbero essere remunerati, provvisti di adeguate risorse, ben guidati e formati11. Tra i membri dei comitati dovrebbero esserci esperti di revisione sistematica, metodologia della ricerca e comunicazione. Saunders ritiene che i comitati etici debbano anche essere “professionalizzati”7. Crede che dovrebbero esserci meno comitati che si incontrano settimanalmente, non mensilmente. I membri dovrebbero essere pagati, formati, guidati e responsabilizzati dalla stipula di un contratto. La loro prestazione dovrebbe essere verificata e dovrebbero conoscere tutti gli sviluppi rilevanti. Si dovrebbero utilizzare appropriate procedure di arruolamento. Anche l’Institute of Medicine degli Stati Uniti ha concluso che il sistema attuale è inadeguato12. Sostiene che bisognerebbe sostituire i comitati etici con un “programma di partecipanti alla ricerca su esseri umani”. Le proposte di ricerca dovrebbero essere visionate non da un solo comitato John Saunders, il presidente di un comitato etico multicentrico, alla fine del 2002 identificava cinque ragioni per cui l’attuale sistema britannico è insostenibile7: 1. l’area di responsabilità dei comitati si sta espandendo. Ad essi si richiede, o si richiederà presto, di considerare la ricerca su personale sanitario, nei servizi sociali, nelle scuole e nel settore privato, nonché la ricerca in medicina complementare e persino la ricerca di mercato. Alcuni inoltre sostengono che i comitati dovrebbero aiutare i ricercatori con i protocolli, non semplicemente approvare o disapprovare la loro ricerca. 2. È sempre più difficile arruolare i membri dei comitati, in particolare medici. Ciò non sorprende quando il lavoro è pesante e complesso mentre la ricompensa è inadeguata. 3. Molti membri dei comitati ricevono poca formazione o non ne ricevono affatto. Molti non Ministero della Salute bollettino d’informazione sui farmaci 91 ANNO IX N. 6 COMITATI ETICI IN ITALIA posizioni, dei diversi CE, con chiari riferimenti alle rispettive legislazioni o norme (là dove esistenti), e al loro grado di normatività (in ambito sanitario, ma non solo); 2. un commento articolato ai rapporti tra la legislazione italiana esistente e la direttiva europea nel campo della sperimentazione; 3. un esame specifico (con esempi concreti) della tematica dei comitati per gli studi multicentrici (toccati genericamente anche nel testo qui proposto), che non pongono tanto problemi “etici”, quanto piuttosto rimandano ai problemi più di fondo della ricerca più o meno innovativa e più o meno indipendente; 4. le responsabilità di “controllo”, a livello locale e generale, con una valutazione (sempre a voci multiple e non pre-armonizzate) di che cosa significa oggi di fatto il vocabolario del “monitoraggio”, dell’accreditamento, ecc. nel campo della ricerca. Una piccola nota “storica”. Il libro di Pappworth fece storia anche in Italia, dove venne tradotto molto presto, grazie a Giulio A. Maccacaro, in una collana che confrontava esplicitamente la medicina con il potere, e ritrovava là le radici del dibattito etico. Siamo nel 2003, e il giornale-nume della cultura medica internazionale pubblica articoli sul “cuore etico” della sperimentazione clinica, il consenso informato, “scoprendo” che uno stesso testo scritto non ha molte probabilità di essere inteso da, e perciò di essere utile-valido per, persone di culture molto diverse (New England Journal of Medicine). L’editoriale (importante) di R. Smith soffre dell’assenza di attenzione a questa contraddizione: l’intreccio con il/i potere/i è molto più forte, pervasivo, inevitabile oggi che non nel 1967, ma il dibattito etico gode di pubblicazioni ad alto impact factor gingillandosi sugli aspetti di galateo del consenso informato. L’importanza di questo Editoriale, che riassume in modo efficace e mette in un primo piano le tesi più importanti che alimentano oggi il dibattito sui Comitati Etici (CE), senza pretenderne l’armonizzazione, può essere così riassunta: • è un campanello di allarme e di attenzione, per un’area che ha visto in Italia una grandissima attività istituzionale, non accompagnata forse da una altrettanto critica e coerente ricerca-discussione culturale; • sottolinea, a partire dall’iniziativa specifica del BMJ, che l’etica ha meno bisogno di principi di quanto non ne abbia di confronti-scontri su problemi concreti, e, quanto più possibile, resi pubblici, senza eccessivi timori di troppe riservatezze; • ha il limite di rimandare ad una definizione chiara ed univoca di etica, mentre tutta la letteratura recente sottolinea il problema di un rischio intrinseco e inevitabile di non-eticità per la impraticabilità di una ricerca autonoma; • non deve essere vista come l’ulteriore aggiunta alla lista di citazioni sagge che ognuno si porta appresso, per essere così dispensato dal guardare concretamente a quanto succede in casa propria. Il commento - meglio il seguito - di questa traduzione dell’indubbiamente autorevole e saggio editoriale di R. Smith potrebbe essere una sezione del BIF dedicata ad un dibattito molto concreto e a più voci al tema dei CE in Italia, alla vigilia dell’inizio dell’ “anno di prova” della entrata in vigore della legislazione europea sulla sperimentazione clinica (che, è chiaro, rappresenta solo una piccola parte del problema dei CE, così come in questo Editoriale, e spesso nella letteratura) sono citati. Senza pretendere di anticipare un ipotetico indice di argomenti sembra ragionevole pensare per lo meno a: 1. un esercizio di ricognizione sintetica delle definizioni, degli ambiti di competenza, delle com- Commento a cura di Gianni Tognoni, Consorzio Mario Negri Sud, Santa Maria Imbaro (CH) Ministero della Salute 92 PUNTI DI VISTA Comitato sull’etica della pubblicazione ma da tre: uno per la metodologia scientifica, uno per gli aspetti etici e uno per i conflitti d’interesse. Vi è un’impellente evidenza che gli attuali comitati non possono soddisfare in modo adeguato le richieste e le aspettative nei loro confronti. Se il pubblico vuole, e sembrerebbe che lo voglia, una valutazione etica e scientifica della ricerca, allora sarà necessario trovare nuovi metodi e assicurare le adeguate risorse, senza necessariamente costi superiori. Si può dire che i direttori delle riviste si siano “svegliati” per quanto riguarda l’etica degli studi che ricevono. Ciò è molto più evidente con gli studi che non pubblichiamo. Il BMJ, assieme ad altre prestigiose riviste mediche, rifiuta più del 90% degli studi che gli vengono inviati, e fino a poco tempo fa non ritenevamo di dovere nulla agli studi che rifiutavamo. Adesso sì. Se ci troviamo di fronte ad un comportamento che riteniamo essere una pratica riprovevole, prendiamo delle misure di solito mettendo in guardia i datori di lavoro degli autori. Contattiamo i datori di lavoro piuttosto che condurre indagini noi stessi poiché essi hanno la competenza legale (e la responsabilità) di fare accertamenti e i mezzi per assicurarsi che vadano a buon fine. Ho calcolato che ho dovuto contattare i datori di lavoro fino a venti volte l’anno. A volte ho dovuto persino contattare le autorità regolatorie, come il General Medical Council della Gran Bretagna, poiché non vi era un datore di lavoro o un superiore. Questa maggiore attenzione ai problemi etici ha avuto luogo in particolare a seguito della creazione, nel 1997, del comitato sull’etica della pubblicazione (COPE, dall’inglese Committee on Publication Ethics)14. È stato fondato come una sorta di gruppo informale per aiutare i direttori delle riviste, con cinque obiettivi. Primo, fornisce consulenza ai direttori delle riviste su quei casi in cui necessitano aiuto riguardo questioni etiche. Spetta ai direttori delle riviste decidere se richiedere questa consulenza. Secondo, il COPE raccoglie informazioni su tutti i casi che prende in esame, e pubblica un rapporto annuale. Ciò rappresenta un tentativo di fornire una tassonomia di casi e alcune informazioni sulla loro frequenza. Finora il COPE si è occupato di 150 casi e ha pubblicato quattro rapporti annuali. Tutti questi casi e i rapporti sono disponibili sul sito Internet del comitato (www.publicationethics.org.uk). Terzo, il COPE ha l’obiettivo di produrre e aggiornare un codice sulla buona pratica di pubblicazione. Anche il codice è reperibile sul sito Internet del comitato. Gli obiettivi finali del COPE sono quelli di offrire insegnamento e promuovere la ricerca. Un’analisi dei primi 103 casi ha scoperto 10 esempi in cui gli autori avrebbero dovuto avere l’approvazione dei comitati etici e non l’avevano. In 11 casi il COPE ha ritenuto la ricerca non etica in quanto non c’era alcun bisogno di essere Il punto di vista del BMJ Fino a poco tempo fa, le riviste facevano molto poco per assicurare che gli studi da loro pubblicati soddisfacessero i migliori standard etici13. Spesso non prendevano in considerazione gli aspetti etici degli studi che pubblicavano e non riuscivano ad assicurare che i ricercatori avessero l’approvazione dei comitati etici per la ricerca che avevano condotto. Il BMJ adesso utilizza una checklist per assicurare che i ricercatori abbiano l’approvazione dei comitati etici per la loro ricerca. Spesso non ce l’hanno. Questo può accadere perché essi non pensano che la loro ricerca abbia bisogno dell’approvazione di un comitato etico o perché non vi sono comitati etici. La Gran Bretagna, ad esempio, non dispone di un comitato etico per la ricerca nel settore privato, e in alcuni paesi i comitati etici non esistono. Il BMJ ha un suo comitato etico, non per la ricerca, ma come guida su problemi etici che si presentano al BMJ. Questo comitato ha sottolineato che ciò che conta non è tanto il fatto che i ricercatori abbiano adempiuto alla burocrazia inerente ai comitati etici, ma piuttosto che la ricerca in questione sia realmente etica. Pertanto, potremmo pubblicare una sperimentazione che non ha ricevuto l’approvazione di un comitato etico se fossimo convinti che tale sperimentazione è etica. Recentemente, ad esempio, abbiamo avuto un dibattito animato su come potevamo essere sicuri che una popolazione di pazienti per lo più analfabeti avesse dato un consenso adeguato per una sperimentazione clinica quando non vi erano documenti scritti. Non ricordo nessun caso in cui abbiamo acconsentito a pubblicare una ricerca che un comitato etico aveva giudicato non etica; al contrario in diversi casi ci siamo rifiutati di pubblicare una ricerca che un comitato etico aveva considerato accettabile. Ministero della Salute bollettino d’informazione sui farmaci 93 ANNO IX N. 6 COMITATI ETICI: UNA PROSPETTIVA INTERNAZIONALE della composizione dei CE sarebbe la negazione del fatto che oggi è impossibile dare una definizione “chiara e precisa” di etica soprattutto in presenza di una ricerca fortemente condizionata dal prevalere di interessi commerciali ed in assenza di una politica di sostegno alla ricerca indipendente. Insomma, se così si procedesse, più o meno d’ufficio, il rimedio sarebbe peggiore dei mali. Mi parrebbe più opportuno che - a partire dagli spunti contenuti nell’articolo di Smith che, lo ripeto, ha il merito di porre in una prospettiva internazionale difficoltà che, secondo alcuni, sarebbero solo tipiche di un “ritardo italiano” – si pensasse invece ad una agenda di attività di ricerca/monitoraggio/formazione da promuovere: • Rendere non opzionali ma parte integrante della loro attività il confronto tra Comitati soprattutto in quelle situazioni regionali dove il loro numero è molto elevato. • Organizzare momenti di formazione/confronto soprattutto centrati sulla definizione di criteri di valutazione multidisciplinare della eticità di un protocollo di ricerca (è una pericolosa illusione che si possa delegare agli esperti di statistica, epidemiologia o medicina legale la salvaguardia della eticità della ricerca!). • Dare maggiore accessibilità e trasparenza ai dati dell’Osservatorio Nazionale per la Sperimentazione Clinica. L’Osservatorio può infatti divenire lo strumento attraverso cui i CE verificano il proprio operato in relazione a quello degli altri Comitati e attraverso cui esercitano con maggiore efficacia la propria funzione di monitoraggio (oltre a quella di autorizzazione iniziale). • Realizzare valutazioni formali di confronto dei pareri formulati dai diversi CE su alcuni protocolli “indice” per meglio comprendere le ragioni della variabilità di giudizio ed individuare le aree critiche sulle quali è necessario indirizzare le attività di formazione e confronto. • Sperimentare la utilità della messa in rete dei CE per quanto riguarda l’accesso alle informazioni più aggiornate rispetto alle ricerche già fatte o in corso. Gli strumenti già esistono (Clinical Evidence, Cochrane Library, diversi registri internazionali delle sperimentazioni cliniche). Il merito maggiore del contributo di R. Smith è quello di dare una prospettiva internazionale al dibattito che, per quanto ancora largamente sottotraccia, si sta sviluppando anche in Italia su ruoli e finalità dei Comitati Etici (CE). I problemi che alcuni recenti convegni e discussioni hanno sottolineato sembrano essere comuni con l’Inghilterra e, per quanto se ne sa, con molti altri paesi europei. Nella sua rapida ricognizione sui problemi dei CE in Inghilterra, R. Smith indica alcune principali criticità: a) la frammentazione; b) l’inefficienza (tempi lunghi e complessità/ripetitività procedurali; c) la mancanza di una formazione e training omogenei; d) il mancato riconoscimento della necessità di una “professionalizzazione” (necessità di un formale “curriculum” per diventare membro di un CE, compenso per la attività svolte, ecc.). Sono queste carenze che riguardano anche i CE italiani? In linea generale sì, anche se bisogna stare attenti a pensare che – una volta individuata la questione – vi sia poi una quasi automatica soluzione “tecnica”. Una lettura superficiale del contributo di Smith potrebbe infatti portare a dire: riduciamo il numero dei Comitati, facciamo tanti corsi di formazione - magari affidati a gruppi di specialisti delle singole discipline (gli aspetti medico legali, la statistica, la farmacologia, ecc) - semplifichiamo e centralizziamo maggiormente le procedure. Sarebbe, credo, sbagliato assumere un percorso così “riduzionista” per almeno tre buone ragioni: • ciò che rende oggi così difficile e disomogeneo l’operato dei CE è la mancanza di una riflessione multidisciplinare seria e condivisa sul significato di rilevanza clinica e di non-ripetitività di molta ricerca clinica. Il problema non è la mancanza di rigore formale dei protocolli (oggi spesso così elevato da essere la vera causa della difficoltà di incomprensibilità) ma semmai il suo eccesso, teso non infrequentemente a nascondere l’irrilevanza (e, di conseguenza, la non eticità sostanziale) dei contenuti; • è tutto da dimostrare che i “tecnici” (biostatistici e epidemiologi, esperti di medicina legale, e spesso gli stessi clinici) possiedano quella capacità di valutazione “multidisciplinare” di cui oggi c’è veramente bisogno per poter valutare eticità e rilevanza di una sperimentazione. Non si tratta tanto di “scarsa preparazione e competenza nella attuale composizione di alcuni CE” quanto piuttosto di insufficiente integrazione tra metodologia e sostanza dei problemi; • una eccessiva formalizzazione (per figure professionali, competenze formali, ecc.) e irrigidimento Il BIF potrebbe in tutto questo svolgere un ruolo essenziale di documentazione sia delle attività intraprese sia del dibattito che da esso dovrebbe sperabilmente originare. Commento a cura di Alessandro Liberati, Centro Cochrane Italiano, CeVeas Modena Ministero della Salute 94 PUNTI DI VISTA condotta, i pazienti erano maltrattati, la ricerca era scientificamente insignificante ovvero era stato sperimentato un nuovo trattamento contro un placebo quando era già disponibile un trattamento basato sull’evidenza. In altri 11 casi non si era ottenuto il consenso informato. Il problema più comune era costituito da pubblicazione ridondante (29 casi), tuttavia vi erano anche casi di falsificazione*(15 casi), “fabrification”** (8 casi) e plagio (4 casi). IL COPE ha adesso formalizzato la propria posizione e sta iniziando a sviluppare meccanismi di risposta alla cattiva condotta editoriale. Sta anche sollecitando la creazione di un organismo nazionale che si occupi del problema della frode nella ricerca. I comitati etici, così come sono costituiti attualmente, hanno enormi difficoltà ad occuparsi della frode. Il COPE, che ha membri all’estero, ritiene che ogni nazione debba avere un organismo per sorvegliare il problema della frode nel campo della ricerca. blicazione che si interessa in particolare di condotta riprovevole nel campo della ricerca il che va ampiamente al di là dell’ambito di responsabilità dei comitati etici. Bibliografia 1. Rosenheim ML. Supervision of the ethics of clinical investigations in institutions. 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Appare chiaro, tuttavia, che i comitati non riescono a soddisfare le richieste e le aspettative loro poste, e da più parti si propone una “professionalizzazione dei comitati”. I direttori delle riviste hanno un ruolo complementare a quello dei comitati etici nell’assicurare che la ricerca venga condotta su uno standard etico elevato. I direttori delle riviste britanniche hanno formato un Comitato sull’etica della pub*Intesa come distorsione dei dati. **Intesa come invenzione di dati e di casi. a proposito di… Fitofarmaci Recentemente è stata condotta una revisione sistematica della letteratura scientifica disponibile in merito alla presunta cancerogenicità e mutageniticità dei lassativi a base di antrachinonici (Aloe, Cascara). Da tale revisione non è risultato un aumento del rischio di cancerogenesi nell’uomo correlato all’assunzione di dosi terapeutiche per brevi periodi di tempo. A tale proposito si ricorda che l’uso di questi prodotti dovrebbe essere riservato alla stipsi episodica o alla preparazione intestinale per esami endoscopici ed è controindicato nei casi di stipsi cronica. Ministero della Salute