Comitati etici e problemi etici della pubblicazione degli studi

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Comitati etici e problemi etici della pubblicazione degli studi
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PUNTI DI VISTA
Comitati etici e problemi etici
della pubblicazione degli studi
(Richard Smith*. Ethics committees and ethical
issues in publishing research: a view from Britain
and from the BMJ).
decenni che seguirono la seconda guerra mondiale
sperimentazioni che oggi verrebbero considerate
non etiche erano una routine in medicina. Le
opinioni su cosa si può ritenere accettabile sono
cambiate, in particolare oggi si considera inaccettabile lasciare che sia il medico da solo a decidere
cosa è etico.
Sebbene la Gran Bretagna e gli Stati Uniti siano
stati messi in guardia nello stesso momento sul
problema della ricerca non etica, la Gran Bretagna
ha impiegato venti anni di più rispetto agli Stati
Uniti per istituire i comitati etici. Il Royal College
of Physicians, nel 1967, ha raccomandato che le
sperimentazioni dovessero essere approvate da un
comitato di medici1. Il BMJ reagì dichiarando che
“in fin dei conti, la decisione su un determinato
progetto spetta soltanto al medico”4. Fu forse a
causa di tale opposizione che il Royal College
pubblicò linee guida sui comitati etici soltanto nel
1984. I comitati iniziarono allora ad apparire, ma
erano molto differenti gli uni dagli altri per quanto
riguarda qualità, composizione e modo di lavorare5.
Alcuni lavoravano soltanto per corrispondenza. Nel
1991 il Department of Health (Dipartimento della
Sanità) conferì alle unità sanitarie la responsabilità
dei comitati etici a livello locale cosicché la loro
composizione fu ampiamente standardizzata.
I ricercatori che conducevano ricerca multicentrica dovevano presentare domanda di autorizzazione a oltre 150 comitati e questo portava
enormi ritardi e un innalzamento dei costi. Ciò
che è peggio, le molteplici richieste di autorizzazione davano luogo a decisioni molto diverse6.
La maggior parte dei comitati aveva un’eccessiva
mole di lavoro e insufficienti risorse. I membri ricevevano poca o nessuna formazione, e molti comitati erano mal attrezzati per occuparsi degli
aspetti tecnici e legali delle sperimentazioni.
Eppure la maggior parte delle persone concorderebbe che la ricerca che non è scientifica, poiché
non permette di raggiungere conclusioni sicure,
inevitabilmente non è etica poiché spreca risorse
e potrebbe esporre i pazienti ad inutili rischi.
I comitati etici multicentrici furono fondati nel
1997, tuttavia i comitati locali mantengono
In Gran Bretagna, la creazione di comitati etici
aventi il compito di approvare le sperimentazioni
fu raccomandata, per la prima volta, nel 19671,
tuttavia, la loro presenza si consolidò soltanto
negli anni Ottanta. Nel 1991, ogni unità sanitaria
doveva avere il proprio comitato, però divenne
subito chiaro che la qualità del loro lavoro era
molto variabile. Un particolare problema riguardava l’approvazione di sperimentazioni che
venivano condotte in molti centri, pertanto
vennero istituiti, alla fine degli anni Novanta, dei
comitati etici multicentrici. Restano tuttavia
ancora molti problemi da risolvere riguardanti i
comitati etici e ulteriori sviluppi sono inevitabili.
Il loro compito è così complesso che richiederebbe professionisti formati e remunerati
piuttosto che volontari, come avviene adesso.
Lo sviluppo dei comitati etici
In Gran Bretagna, il più grande impulso alla
creazione di comitati etici fu la pubblicazione, nel
1967, di un libro intitolato “Human Guinea Pigs”
(Cavie umane)2. Era stato scritto da un medico,
Maurice Pappworth, che descriveva sperimentazioni pericolose su pazienti che non avevano
dato alcun consenso ai medici che le conducevano. I medici in questione erano ben noti e la
sperimentazione fu pubblicata su riviste di peer
review. All’incirca nello stesso periodo in cui
veniva pubblicato in Gran Bretagna il libro di
Pappworth, negli Stati Uniti apparve sul New
England Journal of Medicine un articolo che descriveva una ricerca simile3. È evidente che, nonostante le dichiarazioni sulle sperimentazioni
condotte su esseri umani che seguirono il processo
di Norimberga ai criminali di guerra nazisti, nei
*Direttore del British Medical Journal.
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PUNTI DI VISTA
ancora il controllo su “problemi pertinenti a
livello locale”. L’incoerenza rimane. Un presidente di uno dei comitati etici multicentrici descrive l’incoerenza dei comitati locali: “uno si
opporrà all’idea di informare i pazienti che la
ricerca è stata approvata dal comitato etico
(perché è “coercitivo”), un altro insisterà affinché
questa informazione venga data; uno sarà contrario a qualunque forma di pagamento ai soggetti
che partecipano alla ricerca, un altro sarà a favore;
uno accetterà i familiari come traduttori per
coloro che non parlano inglese, un altro insisterà
che vengano usati soltanto degli interpreti professionisti7. Riassumendo le evidenze sui ritardi e
le contraddizioni nelle decisioni dei comitati etici,
il presidente del Royal College of Physicians, nel
2000, suggerì che “la cura [di creare comitati etici
multicentrici] era peggiore della malattia”8-10.
Sono state prodotte ulteriori regole sul lavoro
dei comitati etici ed è stato istituito un ufficio
centrale per i comitati etici. Eppure, coloro che
sono “addentro” avvertono che il sistema attuale
è inadeguato7-11. Sono necessari, e verranno richiesti, ulteriori cambiamenti, perché si sta introducendo un nuovo modo di gestire e regolamentare la ricerca e un progetto di direttiva
europea afferma che ci deve essere soltanto un
livello nel sistema e che le decisioni devono essere
prese entro 60 giorni.
hanno il tempo di formarsi anche quando la
formazione viene loro offerta. Inoltre, la Gran
Bretagna ha visto «montagne di nuovi documenti e pareri» rivolti ai comitati etici,
eppure molti membri dei comitati non sono a
conoscenza dei nuovi pareri emessi.
4. La crescente mole di lavoro conduce alla
creazione di nuovi comitati, il che, nonostante
l’invito alla standardizzazione, probabilmente
porterà maggiore incoerenza.
5. Un numero crescente di esponenti dei comitati
etici richiede di essere compensato. Gli statistici
affermano che loro dovrebbero essere pagati e
lo stesso hanno fatto i farmacisti. Quei membri
dei comitati che invece sono dipendenti dei
servizi sanitari dedicheranno del tempo del
loro lavoro ai comitati etici così come è previsto
dal loro contratto, tuttavia ciò li distingue dai
membri esterni che non ricevono compenso.
Saunders conclude che sono necessari dei comitati di professionisti e Julian Savalescu, un professore di etica medica ad Oxford e direttore del
Journal of Medical Ethics, ha raggiunto la stessa
conclusione11. Egli ha esaminato il decesso di due
partecipanti a una ricerca negli Stati Uniti e ha
concluso che l’insuccesso dei comitati etici ha
contribuito alle loro morti.
Di cosa c’è bisogno?
Problemi attuali
Secondo Savalescu ci dovrebbero essere meno
comitati etici, e forse dovrebbero essere sovraistituzionali. I membri dovrebbero essere remunerati,
provvisti di adeguate risorse, ben guidati e
formati11. Tra i membri dei comitati dovrebbero
esserci esperti di revisione sistematica, metodologia della ricerca e comunicazione.
Saunders ritiene che i comitati etici debbano
anche essere “professionalizzati”7. Crede che dovrebbero esserci meno comitati che si incontrano
settimanalmente, non mensilmente. I membri dovrebbero essere pagati, formati, guidati e responsabilizzati dalla stipula di un contratto. La loro prestazione dovrebbe essere verificata e dovrebbero
conoscere tutti gli sviluppi rilevanti. Si dovrebbero
utilizzare appropriate procedure di arruolamento.
Anche l’Institute of Medicine degli Stati Uniti
ha concluso che il sistema attuale è inadeguato12.
Sostiene che bisognerebbe sostituire i comitati
etici con un “programma di partecipanti alla
ricerca su esseri umani”. Le proposte di ricerca dovrebbero essere visionate non da un solo comitato
John Saunders, il presidente di un comitato
etico multicentrico, alla fine del 2002 identificava
cinque ragioni per cui l’attuale sistema britannico
è insostenibile7:
1. l’area di responsabilità dei comitati si sta
espandendo. Ad essi si richiede, o si richiederà
presto, di considerare la ricerca su personale sanitario, nei servizi sociali, nelle scuole e nel
settore privato, nonché la ricerca in medicina
complementare e persino la ricerca di mercato.
Alcuni inoltre sostengono che i comitati dovrebbero aiutare i ricercatori con i protocolli,
non semplicemente approvare o disapprovare
la loro ricerca.
2. È sempre più difficile arruolare i membri dei comitati, in particolare medici. Ciò non sorprende quando il lavoro è pesante e complesso
mentre la ricompensa è inadeguata.
3. Molti membri dei comitati ricevono poca formazione o non ne ricevono affatto. Molti non
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ANNO IX N. 6
COMITATI ETICI IN ITALIA
posizioni, dei diversi CE, con chiari riferimenti
alle rispettive legislazioni o norme (là dove esistenti), e al loro grado di normatività (in ambito
sanitario, ma non solo);
2. un commento articolato ai rapporti tra la legislazione italiana esistente e la direttiva europea
nel campo della sperimentazione;
3. un esame specifico (con esempi concreti) della
tematica dei comitati per gli studi multicentrici
(toccati genericamente anche nel testo qui
proposto), che non pongono tanto problemi
“etici”, quanto piuttosto rimandano ai
problemi più di fondo della ricerca più o meno
innovativa e più o meno indipendente;
4. le responsabilità di “controllo”, a livello locale
e generale, con una valutazione (sempre a voci
multiple e non pre-armonizzate) di che cosa significa oggi di fatto il vocabolario del “monitoraggio”, dell’accreditamento, ecc. nel campo
della ricerca.
Una piccola nota “storica”. Il libro di Pappworth
fece storia anche in Italia, dove venne tradotto molto
presto, grazie a Giulio A. Maccacaro, in una collana
che confrontava esplicitamente la medicina con il
potere, e ritrovava là le radici del dibattito etico.
Siamo nel 2003, e il giornale-nume della cultura
medica internazionale pubblica articoli sul “cuore
etico” della sperimentazione clinica, il consenso
informato, “scoprendo” che uno stesso testo scritto
non ha molte probabilità di essere inteso da, e perciò
di essere utile-valido per, persone di culture molto
diverse (New England Journal of Medicine). L’editoriale
(importante) di R. Smith soffre dell’assenza di attenzione a questa contraddizione: l’intreccio con il/i
potere/i è molto più forte, pervasivo, inevitabile oggi
che non nel 1967, ma il dibattito etico gode di pubblicazioni ad alto impact factor gingillandosi sugli
aspetti di galateo del consenso informato.
L’importanza di questo Editoriale, che riassume in
modo efficace e mette in un primo piano le tesi più
importanti che alimentano oggi il dibattito sui Comitati Etici (CE), senza pretenderne l’armonizzazione,
può essere così riassunta:
• è un campanello di allarme e di attenzione, per
un’area che ha visto in Italia una grandissima attività istituzionale, non accompagnata forse da una
altrettanto critica e coerente ricerca-discussione culturale;
• sottolinea, a partire dall’iniziativa specifica del BMJ,
che l’etica ha meno bisogno di principi di quanto
non ne abbia di confronti-scontri su problemi
concreti, e, quanto più possibile, resi pubblici, senza
eccessivi timori di troppe riservatezze;
• ha il limite di rimandare ad una definizione chiara
ed univoca di etica, mentre tutta la letteratura
recente sottolinea il problema di un rischio intrinseco e inevitabile di non-eticità per la impraticabilità di una ricerca autonoma;
• non deve essere vista come l’ulteriore aggiunta alla
lista di citazioni sagge che ognuno si porta appresso,
per essere così dispensato dal guardare concretamente a quanto succede in casa propria.
Il commento - meglio il seguito - di questa traduzione dell’indubbiamente autorevole e saggio editoriale di R. Smith potrebbe essere una sezione del BIF
dedicata ad un dibattito molto concreto e a più voci
al tema dei CE in Italia, alla vigilia dell’inizio
dell’ “anno di prova” della entrata in vigore della legislazione europea sulla sperimentazione clinica (che,
è chiaro, rappresenta solo una piccola parte del
problema dei CE, così come in questo Editoriale, e
spesso nella letteratura) sono citati.
Senza pretendere di anticipare un ipotetico indice di
argomenti sembra ragionevole pensare per lo meno a:
1. un esercizio di ricognizione sintetica delle definizioni, degli ambiti di competenza, delle com-
Commento a cura di Gianni Tognoni, Consorzio Mario Negri Sud, Santa Maria Imbaro (CH)
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PUNTI DI VISTA
Comitato sull’etica della pubblicazione
ma da tre: uno per la metodologia scientifica, uno
per gli aspetti etici e uno per i conflitti d’interesse.
Vi è un’impellente evidenza che gli attuali comitati non possono soddisfare in modo adeguato
le richieste e le aspettative nei loro confronti. Se
il pubblico vuole, e sembrerebbe che lo voglia,
una valutazione etica e scientifica della ricerca,
allora sarà necessario trovare nuovi metodi e assicurare le adeguate risorse, senza necessariamente
costi superiori.
Si può dire che i direttori delle riviste si siano
“svegliati” per quanto riguarda l’etica degli studi
che ricevono. Ciò è molto più evidente con gli
studi che non pubblichiamo. Il BMJ, assieme ad
altre prestigiose riviste mediche, rifiuta più del
90% degli studi che gli vengono inviati, e fino a
poco tempo fa non ritenevamo di dovere nulla
agli studi che rifiutavamo. Adesso sì. Se ci
troviamo di fronte ad un comportamento che riteniamo essere una pratica riprovevole,
prendiamo delle misure di solito mettendo in
guardia i datori di lavoro degli autori. Contattiamo i datori di lavoro piuttosto che condurre
indagini noi stessi poiché essi hanno la competenza legale (e la responsabilità) di fare accertamenti e i mezzi per assicurarsi che vadano a
buon fine. Ho calcolato che ho dovuto contattare
i datori di lavoro fino a venti volte l’anno. A volte
ho dovuto persino contattare le autorità regolatorie, come il General Medical Council della
Gran Bretagna, poiché non vi era un datore di
lavoro o un superiore.
Questa maggiore attenzione ai problemi etici
ha avuto luogo in particolare a seguito della
creazione, nel 1997, del comitato sull’etica della
pubblicazione (COPE, dall’inglese Committee on
Publication Ethics)14. È stato fondato come una
sorta di gruppo informale per aiutare i direttori
delle riviste, con cinque obiettivi. Primo, fornisce
consulenza ai direttori delle riviste su quei casi in
cui necessitano aiuto riguardo questioni etiche.
Spetta ai direttori delle riviste decidere se richiedere questa consulenza. Secondo, il COPE raccoglie informazioni su tutti i casi che prende in
esame, e pubblica un rapporto annuale. Ciò rappresenta un tentativo di fornire una tassonomia di
casi e alcune informazioni sulla loro frequenza.
Finora il COPE si è occupato di 150 casi e ha pubblicato quattro rapporti annuali. Tutti questi casi
e i rapporti sono disponibili sul sito Internet del
comitato (www.publicationethics.org.uk). Terzo,
il COPE ha l’obiettivo di produrre e aggiornare un
codice sulla buona pratica di pubblicazione. Anche
il codice è reperibile sul sito Internet del comitato.
Gli obiettivi finali del COPE sono quelli di offrire
insegnamento e promuovere la ricerca.
Un’analisi dei primi 103 casi ha scoperto 10
esempi in cui gli autori avrebbero dovuto avere
l’approvazione dei comitati etici e non l’avevano.
In 11 casi il COPE ha ritenuto la ricerca non etica
in quanto non c’era alcun bisogno di essere
Il punto di vista del BMJ
Fino a poco tempo fa, le riviste facevano molto
poco per assicurare che gli studi da loro pubblicati
soddisfacessero i migliori standard etici13. Spesso
non prendevano in considerazione gli aspetti etici
degli studi che pubblicavano e non riuscivano ad
assicurare che i ricercatori avessero l’approvazione
dei comitati etici per la ricerca che avevano
condotto.
Il BMJ adesso utilizza una checklist per assicurare
che i ricercatori abbiano l’approvazione dei comitati
etici per la loro ricerca. Spesso non ce l’hanno.
Questo può accadere perché essi non pensano che
la loro ricerca abbia bisogno dell’approvazione di un
comitato etico o perché non vi sono comitati etici.
La Gran Bretagna, ad esempio, non dispone di un
comitato etico per la ricerca nel settore privato, e in
alcuni paesi i comitati etici non esistono.
Il BMJ ha un suo comitato etico, non per la
ricerca, ma come guida su problemi etici che si
presentano al BMJ. Questo comitato ha sottolineato che ciò che conta non è tanto il fatto che
i ricercatori abbiano adempiuto alla burocrazia
inerente ai comitati etici, ma piuttosto che la
ricerca in questione sia realmente etica. Pertanto,
potremmo pubblicare una sperimentazione che
non ha ricevuto l’approvazione di un comitato
etico se fossimo convinti che tale sperimentazione è etica. Recentemente, ad esempio,
abbiamo avuto un dibattito animato su come potevamo essere sicuri che una popolazione di pazienti per lo più analfabeti avesse dato un
consenso adeguato per una sperimentazione
clinica quando non vi erano documenti scritti.
Non ricordo nessun caso in cui abbiamo acconsentito a pubblicare una ricerca che un comitato etico aveva giudicato non etica; al contrario in diversi casi ci siamo rifiutati di pubblicare
una ricerca che un comitato etico aveva considerato accettabile.
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COMITATI ETICI: UNA PROSPETTIVA INTERNAZIONALE
della composizione dei CE sarebbe la negazione del
fatto che oggi è impossibile dare una definizione
“chiara e precisa” di etica soprattutto in presenza di
una ricerca fortemente condizionata dal prevalere di
interessi commerciali ed in assenza di una politica di
sostegno alla ricerca indipendente.
Insomma, se così si procedesse, più o meno d’ufficio,
il rimedio sarebbe peggiore dei mali. Mi parrebbe più opportuno che - a partire dagli spunti contenuti nell’articolo di Smith che, lo ripeto, ha il merito di porre in
una prospettiva internazionale difficoltà che, secondo
alcuni, sarebbero solo tipiche di un “ritardo italiano” –
si pensasse invece ad una agenda di attività di
ricerca/monitoraggio/formazione da promuovere:
• Rendere non opzionali ma parte integrante della loro
attività il confronto tra Comitati soprattutto in quelle
situazioni regionali dove il loro numero è molto elevato.
• Organizzare momenti di formazione/confronto soprattutto centrati sulla definizione di criteri di valutazione multidisciplinare della eticità di un protocollo di ricerca (è una pericolosa illusione che si
possa delegare agli esperti di statistica, epidemiologia o medicina legale la salvaguardia della
eticità della ricerca!).
• Dare maggiore accessibilità e trasparenza ai dati dell’Osservatorio Nazionale per la Sperimentazione
Clinica. L’Osservatorio può infatti divenire lo
strumento attraverso cui i CE verificano il proprio
operato in relazione a quello degli altri Comitati e
attraverso cui esercitano con maggiore efficacia la
propria funzione di monitoraggio (oltre a quella di
autorizzazione iniziale).
• Realizzare valutazioni formali di confronto dei
pareri formulati dai diversi CE su alcuni protocolli
“indice” per meglio comprendere le ragioni della variabilità di giudizio ed individuare le aree critiche
sulle quali è necessario indirizzare le attività di formazione e confronto.
• Sperimentare la utilità della messa in rete dei CE per
quanto riguarda l’accesso alle informazioni più aggiornate rispetto alle ricerche già fatte o in corso. Gli
strumenti già esistono (Clinical Evidence, Cochrane
Library, diversi registri internazionali delle sperimentazioni cliniche).
Il merito maggiore del contributo di R. Smith è
quello di dare una prospettiva internazionale al dibattito che, per quanto ancora largamente sottotraccia, si sta sviluppando anche in Italia su ruoli e finalità dei Comitati Etici (CE). I problemi che alcuni
recenti convegni e discussioni hanno sottolineato
sembrano essere comuni con l’Inghilterra e, per
quanto se ne sa, con molti altri paesi europei.
Nella sua rapida ricognizione sui problemi dei CE in
Inghilterra, R. Smith indica alcune principali criticità: a)
la frammentazione; b) l’inefficienza (tempi lunghi e
complessità/ripetitività procedurali; c) la mancanza di
una formazione e training omogenei; d) il mancato riconoscimento della necessità di una “professionalizzazione” (necessità di un formale “curriculum” per diventare membro di un CE, compenso per la attività
svolte, ecc.). Sono queste carenze che riguardano anche
i CE italiani? In linea generale sì, anche se bisogna stare
attenti a pensare che – una volta individuata la questione
– vi sia poi una quasi automatica soluzione “tecnica”.
Una lettura superficiale del contributo di Smith potrebbe infatti portare a dire: riduciamo il numero dei Comitati, facciamo tanti corsi di formazione - magari affidati
a gruppi di specialisti delle singole discipline (gli aspetti
medico legali, la statistica, la farmacologia, ecc) - semplifichiamo e centralizziamo maggiormente le procedure.
Sarebbe, credo, sbagliato assumere un percorso così
“riduzionista” per almeno tre buone ragioni:
• ciò che rende oggi così difficile e disomogeneo l’operato dei CE è la mancanza di una riflessione multidisciplinare seria e condivisa sul significato di rilevanza clinica e di non-ripetitività di molta ricerca
clinica. Il problema non è la mancanza di rigore
formale dei protocolli (oggi spesso così elevato da
essere la vera causa della difficoltà di incomprensibilità) ma semmai il suo eccesso, teso non infrequentemente a nascondere l’irrilevanza (e, di conseguenza, la non eticità sostanziale) dei contenuti;
• è tutto da dimostrare che i “tecnici” (biostatistici e epidemiologi, esperti di medicina legale, e spesso gli stessi
clinici) possiedano quella capacità di valutazione
“multidisciplinare” di cui oggi c’è veramente bisogno
per poter valutare eticità e rilevanza di una sperimentazione. Non si tratta tanto di “scarsa preparazione e
competenza nella attuale composizione di alcuni CE”
quanto piuttosto di insufficiente integrazione tra metodologia e sostanza dei problemi;
• una eccessiva formalizzazione (per figure professionali, competenze formali, ecc.) e irrigidimento
Il BIF potrebbe in tutto questo svolgere un
ruolo essenziale di documentazione sia delle attività intraprese sia del dibattito che da esso dovrebbe sperabilmente originare.
Commento a cura di Alessandro Liberati, Centro Cochrane Italiano, CeVeas Modena
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condotta, i pazienti erano maltrattati, la ricerca
era scientificamente insignificante ovvero era
stato sperimentato un nuovo trattamento contro
un placebo quando era già disponibile un trattamento basato sull’evidenza. In altri 11 casi non
si era ottenuto il consenso informato. Il problema
più comune era costituito da pubblicazione ridondante (29 casi), tuttavia vi erano anche casi di
falsificazione*(15 casi), “fabrification”** (8 casi) e
plagio (4 casi).
IL COPE ha adesso formalizzato la propria posizione e sta iniziando a sviluppare meccanismi di
risposta alla cattiva condotta editoriale. Sta anche
sollecitando la creazione di un organismo nazionale che si occupi del problema della frode
nella ricerca. I comitati etici, così come sono costituiti attualmente, hanno enormi difficoltà ad
occuparsi della frode. Il COPE, che ha membri all’estero, ritiene che ogni nazione debba avere un
organismo per sorvegliare il problema della frode
nel campo della ricerca.
blicazione che si interessa in particolare di
condotta riprovevole nel campo della ricerca il
che va ampiamente al di là dell’ambito di responsabilità dei comitati etici.
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1997; 315: 201-2.
Conclusioni
Dopo un inizio molto lento, la Gran Bretagna
possiede adesso una rete di comitati etici locali e
multicentrici. Appare chiaro, tuttavia, che i comitati non riescono a soddisfare le richieste e le
aspettative loro poste, e da più parti si propone
una “professionalizzazione dei comitati”. I direttori delle riviste hanno un ruolo complementare a quello dei comitati etici nell’assicurare
che la ricerca venga condotta su uno standard
etico elevato. I direttori delle riviste britanniche
hanno formato un Comitato sull’etica della pub*Intesa come distorsione dei dati.
**Intesa come invenzione di dati e di casi.
a proposito di…
Fitofarmaci
Recentemente è stata condotta una revisione sistematica della letteratura scientifica disponibile in merito alla presunta cancerogenicità e mutageniticità dei lassativi a base di antrachinonici (Aloe, Cascara). Da tale revisione non è risultato un aumento
del rischio di cancerogenesi nell’uomo correlato all’assunzione di dosi terapeutiche per brevi periodi di tempo.
A tale proposito si ricorda che l’uso di questi prodotti dovrebbe essere riservato alla stipsi episodica o alla preparazione intestinale per esami endoscopici ed è controindicato nei casi di stipsi cronica.
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