Testo - Ricerche di Pedagogia e Didattica
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Testo - Ricerche di Pedagogia e Didattica
Ricerche di Pedagogia e Didattica (2011), 6, 1 – Società e culture in educazione Omofobia ed eterosessismo nei contesti educativi Le forme, le specificità e le strategie di intervento Gabriele Prati Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Dipartimento di Scienze dell’Educazione [email protected] Luca Pietrantoni Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Dipartimento di Scienze dell’Educazione [email protected] Elisa Saccinto Universitat Ramon Llull, Barcellona [email protected] Abstract In adolescent environments there are frequent occurrences of aggressive verbal and physical behaviour regarding homosexuality. In these situations young boys are motivated by a series of complex contributory factors such as difficulty in finding significant adults who are prepared to discuss sexuality; the growth and role of gender; group dynamics – how the perception that power over others is something that guarantees success and immediate social integration; the cultural and social dimension such as the legitimisation of hostility in institutional discourse. Homophobia in educational contexts can create a series of negative consequences not only for the victims, but also for the perpetrators who represent a challenge for teachers and educators. Various forms and examples of homophobia found in social discourse and adolescent behaviour are illustrated here and possible strategies for intervention are outlined along with proposals aimed at promoting respect for human diversity and mitigating contempt and dehumanisation. Parole chiave: omofobia; scuola, bullismo; diversità umane _____________________________________________________________ 1 Introduzione L’omofobia rappresenta un insieme di credenze, emozioni e comportamenti negativi nei confronti dell’omosessualità, che riguarda il pregiudizio, la discriminazione o l’odio. Il significato originario di questo termine (paura esagerata per l’omosessualità) è stato criticato poiché le reazioni negative verso l’omosessualità hanno poco a che fare con la paura e l’ansia e sono più frequentemente relazionate con l’avversione e il disgusto; infatti, forme di “omo-disgusto” sono, ad esempio, rintracciabili in frasi come “gli omosessuali mi fanno schifo, ribrezzo”, suggerendo un processo psicologico dissimile dalla paura (Pietrantoni e Prati, 2011). L’omofobia si può esprimere in forme e modalità differenti, da un generico disagio fino ad arrivare ad atti di violenza sistematica. I contenuti omofobici, veicolati dal linguaggio, si possono manifestare attraverso frasi che rimandano a una aperta ostilità verso il gruppo o che esplicitano distanza ed evitamento (es., “io non ho nulla contro i froci, basta che mi stiano alla larga”). L’atteggiamento omofobico si può esprimere, inoltre, anche attraverso la scelta di non intervenire di fronte ad aggressioni dirette a persone omosessuali o percepite come tali (es., uno studente che non dice o non fa nulla mentre un suo compagno gay viene aggredito perché pensa che, tutto sommato, potrebbe anche meritarselo). Va, comunque, sottolineato che l’indifferenza potrebbe riflettere anche la paura di una ritorsione o l’idea che un intervento non cambierebbe la situazione. Come sottolineano Robinson e Ferfolja (2008), l’omofobia è in stretta relazione con l’eterosessismo, termine rappresentante l’insieme di credenze che riflettono l’idea per cui l’eterosessualità sia in sé una condizione di superiorità in comparazione con le identità non eterosessuali; esso si manifesta attraverso la marginalizzazione e l’esclusione dei soggetti non eterosessuali da politiche, programmi educativi, eventi e attività. L’eteronormatività è, invece, il risultato del processo che, attraverso le interazioni quotidiane, le pratiche e le politiche, costruisce la rappresentazione del soggetto eterosessuale come “normale” e “naturale”. Per mezzo di questo processo di eteronormatività, a volte subdolo, i soggetti non eterosessuali vengono presentati come devianti, anormali e innaturali. In generale è stato verificato che gli atteggiamenti più negativi vengono espressi verso gli omosessuali del proprio sesso, e tra i maschi più che tra le femmine. Se si pensa ai casi di aggressione verbale e fisica riportati dalla stampa, possiamo osservare che spesso questi atti di violenza sono attuati da uomini eterosessuali e diretti a omosessuali di sesso maschile. A che cosa possono essere dovute queste differenze? Sono state proposte motivazioni di ordine psicosociale legate al ruolo della mascolinità nel nostro contesto socio-culturale. In primo luogo la socializzazione di genere degli uomini prevede meno variabilità di quella delle donne (es., alle bambine è consentito sperimentare anche attività atipiche di genere), Un secondo fattore consiste nel fatto che l’adesione al ruolo di genere tradizionale garantisce agli uomini potere, prestigio e 2 popolarità ed è quindi vantaggiosa in termini di acquisizione di benefici social. Infine, negli uomini eterosessuali il rifiuto dell’omosessualità rappresenta un aspetto coerente con il ruolo di genere mentre questo si verifica meno nelle donne eterosessuali; in altre parole, è più facile sentire la frase “Non sono gay, sono un vero uomo” piuttosto che “non sono lesbica, sono una vera donna”. Antropologi e sociologi hanno analizzato la relazione tra omofobia e socializzazione maschile nelle società occidentali soffermandosi sul concetto di “mascolinità tradizionale”, che si articola “più con il prendere le distanze da qualcosa che con il desiderio di”: farsi uomo significa imparare a non essere femminile e a non essere omosessuale, vale a dire non essere docile, dipendente, sottomesso, effeminato nell’aspetto fisico o nei comportamenti e impotente nelle interazioni con i soggetti di sesso femminile. È altresì vero che questo concetto di mascolinità è in profondo cambiamento. Prepotenze omofobiche a scuola Il bullismo omofobico riguarda tutti gli atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’omofobia rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche rispetto al ruolo di genere. Questo fenomeno riguarda in misura maggiore i maschi per due ragioni. Prima di tutto, i maschi sono più omofobi, in quanto, come si è detto in precedenza, il ruolo di genere maschile è definito in modo più puntuale e le sue deviazioni sono maggiormente sanzionate nella nostra società. Essere gay è fatto corrispondere erroneamente a non essere uomini, per cui l’omosessualità va a costituire una minaccia all’identità sessuale maschile. In secondo luogo, il bullismo come fenomeno sociale è prevalente fra i maschi. Ne deriva che questi ultimi ricorrono maggiormente ad atti di bullismo omofobico rispetto alle femmine (Poteat & Espelage, 2005). I bersagli del bullismo di matrice anti-omosessuale possono essere molteplici: adolescenti che apertamente si definiscono gay o lesbiche o che hanno optato per uno svelamento selettivo la cui informazione è stata rivelata a terzi; adolescenti che “sembrano” omosessuali sulla base di una percezione stereotipica o altri che frequentano amici apertamente omosessuali. In generale le ricerche hanno mostrato che gli adolescenti omosessuali o bisessuali tendono a riportare di aver subito maggiori episodi di molestie e violenze rispetto ai pari eterosessuali (Prati et al., 2009; Prati et al., 2010). Per esempio, è emerso che tra gli studenti gay, lesbiche o bisessuali, l’81% aveva subito frequenti aggressioni verbali, il 38% minacce di violenza, il 16% molestie sessuali, il 15% aggressioni fisiche e il 6% aggressioni con un’arma (D’Augelli, 2002). Il bullismo di matrice omofobica, quindi, è difficilmente assimilabile al fenomeno del bullismo in generale poiché ha caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono. Se il bullismo è un comportamento che avviene all’interno di un gruppo, questo è ancora più vero per il bullismo omofobico. È raro, infatti, che il bullismo omofobico sia basato su attacchi mossi da una singola persona: spesso si assiste a 3 gruppi di ragazzi o ragazze che agiscono in gruppo nei confronti di un loro pari (Rivers, 2001). Tanto più il clima del gruppo dei pari è contraddistinto dall’aggressività e dall’omofobia tanto più gli appartenenti al gruppo metteranno in atto aggressioni omofobe. La socializzazione di gruppo è in grado di spiegare l’adesione a stereotipi e pregiudizi omofobici: gli studenti che frequentano gruppi connotati da alta omofobia tendono ad aderire a questo tipo di atteggiamento esattamente come gli studenti che frequentano gruppi connotati da bassa omofobia tendono a diminuire i loro livelli di ostilità o aggressione verso le persone omosessuali. Si tratta in sostanza di un tipico esempio in cui la cultura di gruppo dà forma al pensiero individuale, certo non in modo automatico né privo di sfumature. È, però, vero che il desiderio di accettazione all’interno del gruppo dei pari spinge i singoli a fare proprio l’approccio dell’insieme, sia esso di accettazione o rifiuto verso chi è o sembra essere omosessuale. Dinamiche di gruppo, sociali e culturali Possiamo pensare a un caso di bullismo omofobico in cui un gruppo di adolescenti aggredisce di fronte al gruppo classe una compagna di nome Mara perché è un “maschiaccio” e una “lesbicona”. Gli studenti che rivestono il ruolo di semplici spettatori possono non intervenire poiché pensano che lo faranno altri (“perché devo andare a cercarmi dei problemi? Ci sono altri che possono aiutarla meglio di me”), mentre i compagni del bullo possono unirsi agli insulti perché percepiscono che non pagheranno in prima persona per questa aggressione di gruppo (“siamo in tanti non è stata solo colpa mia”). Inoltre, saranno rinforzati a seguire il resto del gruppo nell’aggressione verbale a Mara in base a un mero fenomeno di contagio sociale (“se lo fanno tutti perché non io?”). Buccoliero e Maggi (2005) hanno applicato al fenomeno del bullismo lo schema proposto dallo studioso svedese Johan Galtung (2000), secondo il quale ogni forma manifesta di violenza ha alla base elementi strutturali e culturali. Il conflitto rappresenta invece un elemento imprescindibile dell’esperienza umana, che non è di per sé negativo ma che può essere affrontato secondo modalità differenti, quali ad esempio la fuga, l’adeguamento, l’imposizione, il compromesso e la collaborazione. In linea con questo pensiero, Cozzo (2004) sottolinea l'importanza di adottare un'ottica “sistemica” tanto per la comprensione come per l'intervento all'interno di situazioni conflittuali. Secondo questa prospettiva ciascun elemento non è concepibile isolatamente ma come facente parte di un sistema complesso; nel caso del bullismo omofobico, questa premessa teorica potrebbe tradursi nel coinvolgimento di più attori sociali direttamente toccati dal fenomeno nell’ottica di sviluppare degli interventi educativi concertati. Il bullismo non è, infatti, un corpo estraneo all’interno della scuola, un virus che intacca un organismo sano, bensì un prodotto sociale che ha forti connessioni con stessa ciò che avviene dentro e fuori l’istituzione scolastica. Nel caso del bullismo 4 omofobico, agli elementi di violenza strutturale validi per il bullismo in sé si aggiungono tutti quegli atteggiamenti e comportamenti di sottovalutazione e svalutazione delle persone e delle coppie omosessuali, che si manifestano in vari contesti della attuale società italiana attraverso forme di discriminazione a livello interpersonale, sociale e istituzionale. In questo senso è importante sottolineare come il bullismo omofobico poggi le sue basi sui pregiudizi di natura sessuale, diffusi e condivisi nella nostra società. Come sottolineano Chesir-Teran e Huges (2009), che adottano un paradigma ecologico, il clima generale di una scuola rappresenta il risultato della relazione tra politiche scolastiche, programmi e funzioni sociali dell'istituzione; essi influenzano l’esperienza degli studenti e, combinandosi reciprocamente, creano una sorta di “pressione ambientale”. Nel caso dell’eterosessismo a scuola, si crea una “pressione” basata sull’assunto per cui l’eterosessualità sia normativa e prototipica in contrapposizione a una svalutazione e patologizzazione degli stili di vita delle persone omosessuali. Questa stessa pressione si esercita tanto nella popolazione eterosessuale quanto in quella omosessuale e gli stessi adolescenti Lgbt1, che hanno interiorizzato alcuni messaggi negativi sul proprio orientamento sessuale, amplificano sentimenti di odio, vergogna, scarsa accettazione rispetto per questa parte della propria identità. A un altro livello, il clima culturale può portare gli stessi insegnanti o genitori a reagire alle richieste di aiuto del ragazzo/a con atteggiamenti di negazione e sottostimando l’evento (“stai esagerando, quello che è successo era solo uno scherzo”) o esprimendo preoccupazione per l’anormalità della condizione omosessuale. Una parte del mondo degli adulti (a partire da genitori e insegnanti) potrebbe essere favorevole all’introduzione di tematiche riguardanti l’orientamento sessuale e l’omofobia nei programmi scolastici ma allo stesso tempo temere possibili conflittualità con i propri valori familiari o avere poca fiducia nell’adeguata preparazione del corpo docente nell’affrontare temi tanto delicati (McCormak & Gleeson, 2010). Un’altra parte potrebbe invece non comprendere la portata dell’offesa a un pari poiché omosessuale, causando in chi le subisce, un forte senso di isolamento, impotenza e senso di colpa. Secondo Meyer (2008) l’intersezione tra processi di influenza interni (fattori personali ed esperienziali) ed esterni (fattori sociali ed istituzionali) potrebbe spiegare la grande varietà di percezioni e risposte degli insegnanti rispetto alle violenze di genere. Questi fattori possono agire come “barriere” o “motivatori” rispetto alla possibilità di intervento; inoltre le influenze possono variare in base all’identità degli insegnanti e alle loro esperienze. Nello studio condotto dall’autore e realizzato attraverso l’analisi di interviste con insegnanti di scuola secondaria, le barriere superano i fattori di motivazione ad intervenire, creando uno squilibrio e una lotta 1Lgbt è l’acronimo di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. 5 costante tra i docenti che stanno cercando di ridurre gli atti di bullismo nelle loro classi e scuole. L'importanza del supporto da parte degli adulti di riferimento è stata evidenziata da ricerche condotte su adolescenti: nonostante gli studenti Lgb riportassero livelli più elevati di disagio psicologico quelli che avevano ricevuto supporto e sostegno da genitori o da rappresentanti della scuola, presentavano meno sentimenti depressivi e pensieri di suicidio, e un consumo inferiore di alcool e marijuana rispetto agli altri coetanei omosessuali e bisessuali (Espelage et al. 2008). Colpevolizzazione e stigma Nel caso di bullismo omofobico si assiste con maggiore frequenza a un classico fenomeno denominato “victim blaming” ossia colpevolizzazione della vittima. Per esempio un ragazzo omosessuale che è stato insultato o aggredito può essere ritenuto responsabile degli atti di cui è stato vittima in quanto si dice che “ha provocato”, “ha oltraggiato il sentire comune”, “se lo doveva aspettare” comportandosi in modo “ostentato”. In modo più indiretto, la colpevolizzazione si articola attraverso una mancata empatia verso la vittima e una problematizzazione della sua presunta omosessualità. Se un ragazzo viene aggredito come “frocio” da un gruppo, la reazioni di alcuni potrebbe non essere di dispiacere o indignazione per l’accaduto ma di focalizzazione sulla presunta o meno identità omosessuale del soggetto: era o non era veramente omosessuale? Questo processo sposta l’attenzione su una possibile reinterpretazione del fatto e definisce implicitamente una logica dei “due pesi, due misure”: se la vittima è veramente gay, la violenza diventa più legittima. Colpevolizzare la vittima per l’aggressione subita equivale a una seconda vittimizzazione. Tutto ciò non fa altro che rendere ancora più difficile chiedere aiuto agli adulti e trovare in loro figure di sostegno. La ricerca di aiuto a qualcuno equivale, nel caso di bullismo omofobico, a centrare l’attenzione sulla propria omosessualità – vera o presunta - con i relativi vissuti di ansia, vergogna e disistima. La vergogna e l’umiliazione, infatti, sono molto più intensi in tutti questi casi. Indipendentemente dal fatto che lo/la studente sia omosessuale, molti si sentono a disagio quando si fa riferimento alla propria sessualità con gli adulti, siano essi educatori o genitori. Inoltre, se il numero dei pari che intervengono come difensori nei casi di bullismo è molto basso, tale numero si abbassa ulteriormente quando le prepotenze hanno una matrice omofobica. Se un ragazzo difende un frocio allora vi è il rischio che sia considerato frocio a sua volta (Lingiardi et al., 2005). Quando le prepotenze sono rivolte nei confronti di gay e lesbiche, la presenza dell’omofobia agevola il ruolo dell’aggressore e della vittima (Poteat, 2007). In quest’ottica l’aggressore si sente forte dell’appoggio di una parte della società, dei pari e, in casi estremi, anche di qualche insegnante e l’omofobia socio-istituzionale rinforza ancor più il suo comportamento riducendo le già basse probabilità di reazione della vittima. L’omofobia interiorizzata della vittima, invece, può facilitare la ricerca di giustificazioni per l’accaduto e, in casi estremi, l’approvazione (“hanno 6 fatto bene, me lo merito perché sono sbagliato”) sulla base di un processo di autostigmatizzazione. Se cresciuti nella nostra società, è di fatto improbabile che lesbiche, gay, bisessuali e transgender non abbiano interiorizzato alcuni messaggi negativi sul proprio orientamento sessuale che li possono condurre a sentire una sorta di “odio di sé” rispetto a questa parte della propria identità (Herek et al., 2009). Linguaggi de-umanizzanti Nella lingua italiana si registra una serie infinita e molto colorita di insulti nei confronti delle persone omosessuali o che mostrano un’atipicità di genere: “culattone”, “lesbicona”, “finocchio”, “arruso”, “dell’altra sponda”, “ricchione”, “checca”, e così via. Queste offese hanno una valenza estremamente negativa poiché mirano a elementi privati della vita di una persona come la propria sessualità per cui sono vissuti generalmente con un maggiore senso di umiliazione rispetto ad altri tipi di offese. Essi contengono, inoltre, un elemento di deumanizzazione, ossia una forma di discriminazione che consiste nella negazione totale o parziale dell’umanità di individui o interi gruppi sociali (Albarello e Rubini, 2008). Il repertorio di insulti verso gli omosessuali (così come verso altre categorie sociali come gli ebrei), infatti, si compone di parole che hanno a che fare con vegetali, animali o parti del corpo spogliando i soggetti del loro carattere di umanità. Questo meccanismo attribuisce alla persona gay uno status inferiore rispetto a quello umano e tale processo ha implicazioni non trascurabili. Infatti, se l'atto di violenza è compiuto verso “un altro” che ha perso la sua dignità di essere umano, allora l'atto e le sue conseguenze sul piano emotivo (in termini di dispiace e senso di colpa) e comportamentale (sanzione/punizione) saranno percepiti come meno gravi. I bambini iniziano a usare parole denigratorie rispetto all’omosessualità fin dall’età di 8-10 anni, molto prima della pubertà e della maturità sessuale (Plummer, 2001). All’inizio queste parole sono prive della connotazione sessuale che gli viene attribuita dagli adulti ma ciò comporta che un bambino ancora prima di capire che la parola “frocio” indica una persona che ama una persona del suo stesso sesso, saprà che descrive qualcosa di profondamente indesiderabile. Anche se non avrà mai conosciuto una persona omosessuale, sarà portato ad aspettarsi delle persone dalle condotte devianti e riprovevoli e cercherà di evitare con il proprio comportamento tutto quello che può richiamare questo tipo di etichetta. Una conseguenza di questi processi è il fatto che i ragazzi sviluppano un timore verso l’omosessualità prima ancora di essere consapevoli dello stigma ad essa associato. Infatti, il linguaggio rafforza e trasmette un’immagine negativizzata dell’omosessualità, tale per cui essere paragonati a una persona omosessuale è di per sé un’offesa. Un esempio ci è dato da una notizia apparsa il 9 marzo 2011 sui quotidiani di un fatto accaduto nella città di Bari. Secondo quanto riportato, un ragazzino di diciassette anni è stato picchiato da un gruppo di coetanei a causa di un commento, postato sul profilo Facebook di un'amica, in cui lo stesso alludeva alla presunta omo7 sessualità di un coetaneo (“Se quello non ci prova con te, vuol dire che è gay”). La frase ha fatto scattare la furia del diretto interessato, dando luogo a un’aggressione fisica nei confronti dello studente colpevole dell'aver offeso il coetaneo attraverso un’allusione alla sua presunta omosessualità. È interessante notare come l'esempio in questione presenti modalità diverse di manifestazione dell'atteggiamento omofobico tipiche della società attuale: nell’“aggressore” attraverso l'attuazione di una violenza fisica vera e propria tesa a dimostrare la propria “mascolinità”, e nell’“aggredito” per mezzo di una forma più sottile, in cui l'essere gay sembra essere associato a qualcosa di intrinsecamente negativo poiché si discosta dal concetto di “mascolinità tradizionale”. Lo “spettro” nel discorso quotidiano Tra gli adolescenti (e non solo) sono comuni frasi tipo “Non mi avrai preso mica per frocio!” o “Non sono una lesbica”, che sono volte a scoraggiare alcuni pattern di comportamenti o atteggiamenti introducendo meccanismi di rinforzo/punizione e di influenza sociale nel gruppo. Queste espressioni vengono in prevalenza utilizzate in certe situazioni, quali modalità atipiche di genere di presentarsi esteriormente (es., abbigliamento, ornamenti), approcci poco assertivi con l’altro sesso (es., un ragazzo che non ci prova, una donna reticente con un ragazzo), atteggiamenti percepiti come inadeguati (es., un ragazzo che fa apprezzamenti estetici su un attore uomo), comportamenti affettuosi (in particolare tra maschi) percepiti come troppo intimi (es., un contatto fisico). Si evince, quindi, che l'omofobia in adolescenza condiziona tutti gli adolescenti a un monitoraggio costante del proprio comportamento e a un evitamento di atteggiamenti che possono scatenare il disprezzo di matrice omofobica. Come abbiamo detto in precedenza, lo “spettro del finocchio” è un fenomeno più maschile. Le donne non sentono il bisogno di insultarsi come “lesbiche” per affermare la propria femminilità e raramente sono prese in giro o temono di essere etichettate come tali dagli altri. L'identità del “finocchio” non è statica ma rappresenta una caratteristica fluida, che può essere applicata a chiunque indipendentemente dal suo orientamento sessuale. Dirselo vicendevolmente e imitare lo stereotipo dell’omosessuale fa parte di una dinamica relazionale in cui ci si autodisciplina e si veicola l’umorismo di gruppo. Ogni ragazzo può diventare “finocchio” in modo transitorio in un dato contesto e ciò ha prevalentemente a che fare con il fallimento del ruolo mascolino in termini di competenza, intraprendenza, forza, e con l’emersione di caratteristiche percepite come femminili o deboli. Questo meccanismo sociale regola le interazioni in modo potente, costringe i ragazzi a monitorare i propri comportamenti per evitare di avere un’identità da “finocchio” permanente. In alcuni casi, l’uso dell’espressione omofobica è elicitata da un’idea di incompetenza e scarso coraggio e rappresenta un modo per insultare l’altro a seguito di un 8 dispetto o un rifiuto. Ad esempio un ragazzo attribuisce a un altro l’etichetta di frocio se non decide di unirsi al gruppo per intraprendere un’azione rischiosa o faticosa. In altri casi la terminologia denigratoria omofobica denota un'equivalenza implicita tra comportamenti percepiti come infantili e scarsa mascolinità. Ad esempio, un ragazzo viene etichettato come frocio se legge libri o ascolta musica non appropriata alla sua età. Ad attirare il sospetto omofobico può essere anche la passione rivolta ad artisti e scrittori apertamente omosessuali; in questo ultimo caso assistiamo al fenomeno della cosiddetta “stigmatizzazione per associazione”: “se ti piacciono gli omosessuali, vuol dire che sei omosessuale”. Leggere Rimbaud, Wilde o Saffo, o ascoltare certi gruppi musicali come i Tokyo Hotel viene associato con l'essere considerati omosessuali. Per quanto riguarda invece le donne, l’insulto peggiore (“puttana” e simili) si esprime veicolando un messaggio sessista ed è diretto a sanzionare comportamenti sessuali considerati inappropriati. Tali insulti sembrano essere tuttavia meno pervasivi rispetto a quelli omofobi poiché se da un lato l’attacco ai maschi riguarda un elemento identitario, dall'altro quello diretto alle ragazze concerne un comportamento: una ragazza può cambiare un comportamento sessuale, più difficilmente un ragazzo gay può smettere di esserlo. I termini più neutrali, come “gay” o “omosessuale”, vengono utilizzati più probabilmente per indicare identità marginalizzate ma legittime e intrinseche. Alcuni ragazzi possono concepire l’idea che ci siano uomini gay mascolini ma li intendono come rare eccezioni, in quanto i termini “checca” e “finocchio” denotano per definizione l’assenza di mascolinità. Il discorso omofobico è centrale nelle relazioni tra i ragazzi e prende la forma di battute, scherni, o a volte vere e proprie barzellette; tali forme linguistiche di riprovazione hanno in realtà all’interno del gruppo la funzione di rinsaldare le relazioni sociali, di ridurre l’ansia e il disagio emotivo. Imitazioni caricaturali e “patate bollenti” Analizziamo qui due modalità principali attraverso le quali si esplicita la rappresentazione omofobica nel discorso adolescenziale: nelle performance imitative e nel meccanismo del rimbalzo continuo. Nel primo caso, i ragazzi assumono “per gioco” atteggiamenti effeminati come reiterazione dell’esistenza dei finocchi e per ricordare a se stessi e agli altri che in qualche momento possono essere chiamati così se non sono sufficientemente mascolini. Paradossalmente, queste “performance imitative” dimostrano al gruppo che il ragazzo, che finge di essere finocchio, non è gay. Ad esempio, un ragazzo interpreta il finocchio trasformando la sua voce, le sue movenze fisiche e dichiarando di essere “attratto dai maschioni”: tutto ciò ha lo scopo di suscitare l’ilarità del gruppo e di esorcizzare la paura dell’attribuzione di un’identità omosessuale. Infatti, terminando la performance imitativa e riprendendo le vesti del ragazzo dai 9 tratti mascolini, la persona rassicura il gruppo facendo capire che non è gay e nello stesso tempo ricordando a sé e agli altri che tale identità merita una risata di scherno. Non è infrequente che alcuni ragazzi utilizzino l’imitazione transitoria facendo dichiarazioni di amore a un compagno di classe anche a caso, fingendo di dare dei baci, chiamandosi con nomignoli (“amore”, “tesoro”) o simulando atti sessuali. La seconda modalità è rappresentata dal “rimbalzo interpersonale”, detto in altri termini esso consiste nel tentativo costante, attuato da un soggetto, di infondere il sospetto che l’altro sia finocchio. Ad esempio, ciò si manifesta nelle parole di un ragazzo che, dopo essere stato deriso ed etichettato come finocchio, replica “Io non sono frocio! Il frocio qua sei tu!”. Il discorso omofobico è così frequente e familiare che bastano alcuni gesti per fare allusioni e scatenare reazioni di ilarità. Anche in questo caso nessuno ritiene veramente che i soggetti in questione siano omosessuali, ma è chiaro che è stato evocato qualcosa di indesiderabile, che tutti cercano di evitare e “scaricare” su altri. L’omosessualità è una “patata bollente” che nessuno vuole e a turno viene trasmessa. Queste battute sono così pervasive e l’identità acquisita così fluida, che è molto difficile per i ragazzi evitare di essere etichettati in quel modo anche solo transitoriamente. Ecco perché ad alcuni sembra che gli aggettivi “finocchio” o “frocio” siano in realtà utilizzati in qualsiasi momento, come insulto generico, per indicare qualsiasi persona o anche qualsiasi cosa. È anche per questo motivo che, quando un adulto interviene per sanzionare un comportamento denigratorio caratterizzato da insulti omofobici, viene spesso sostenuto che “quelle battute e quelle parole” vengono rivolte un po’ a tutti, ossia rappresentano un gioco, e non devono quindi essere sanzionate. In realtà vi sono alcuni atteggiamenti o azioni che aumentano le probabilità di essere target di battute omofobiche. Mascolinità atipiche e riprovazione sociale Anche se nella nostra cultura italiana gli uomini sono sempre più incoraggiati a prendersi cura di se stessi e della propria immagine, persiste nell’immaginario l’idea che farlo eccessivamente, usare prodotti cosmetici o indossare vestiti attillati sia un comportamento “da finocchi”. I gay curano l’apparenza e i “veri” uomini non pensano allo sporco, anche se paradossalmente non pensarci o prendere in giro quelli che lo fanno è proprio un modo che dimostra quanto l’immagine sia tenuta in grande considerazione. In questa prospettiva, la mascolinità è rappresentata da una minore considerazione al proprio aspetto. Il concetto di mascolinità varia nel tempo e nella storia, ciò che è considerato appropriato per un maschio del ventunesimo secolo in termini di abbigliamento e cura del corpo può essere diverso da ciò che lo era 40 anni fa. Esistono tuttavia dei confini, seppur permeabili, che determinano chi è percepito come “più maschio” e chi rischia di essere preso per “finocchio”. 10 Farsi un piercing all’ombelico, comprare un cellulare rosa, indossare una camicia con colori sgargianti sono comportamenti che possono attivare l’etichettamento omofobico. Il finocchio è uno spettro costantemente richiamato, a volte anticipato come ad esempio nella frase “non sono frocio, tranquillo!”, espressione funzionale a rassicurare l’altro e a sgomberare il campo da una possibile minaccia di corteggiamento in un’ipotetica interazione tra due maschi. Il solo sospetto di una presunta omosessualità deve essere allontanato. Processi psicosociali simili possono essere innescati quando si osserva un'assenza di manifestazione di interesse eterosessuale. Una situazione tipica è rappresentata dal comportamento di alcuni ragazzi che sentono il bisogno di ribadire che la loro mancata attrazione verso quella ragazza apprezzata dal gruppo è individuospecifica e non è indicatore di una possibile omosessualità, altri sentono invece il bisogno di affermare la loro eterosessualità attraverso formule discorsive iperboliche come ad esempio “amo talmente le donne che se fossi donna sarei lesbica”. Seppur in maniera meno frequente, in alcuni casi anche le ragazze utilizzano forme discorsive omofobiche per rivolgersi ai ragazzi, anche se tali espressioni non sono generalmente volte a sanzionare comportamenti effeminati nei coetanei, che anzi potrebbero procurare complicità e amicizia. Le ragazze socializzate a basare la propria autostima sull'attrattiva sessuale e sulla capacità di attirare l’interesse maschile potrebbero, invece, vivere negativamente l’idea di un ragazzo che non diriga loro l’attenzione erotica. Uno scenario che evoca un senso di minaccia nelle interazioni tra maschi concerne la sfera dell’ipotetico corteggiamento tra uomini. Per alcuni ragazzi eterosessuali, la vicinanza interpersonale con altri ragazzi, che possano essere apertamente gay, solleva il timore di essere oggetto di interesse sessuale. In alcuni casi tale scenario temuto è motivo che giustifica l'utilizzo di una tra le espressioni omofobiche più violente come “lo picchierei se ci provasse con me”. Ciò si verifica poiché nei contesti socializzativi, i giovani maschi da una parte apprendono a condannare qualsiasi apprezzamento fisico tra uomini, dall’altra a legittimare l’uso della violenza verso chi potrebbe violare queste regole e a reagire con ritorsione verso chi solleva un eventuale “sospetto” di omosessualità. La proposta di corteggiamento pone inoltre gli uomini eterosessuali in una posizione atipica rispetto al loro ruolo sociale (i maschi sono ancora soliti fare le proposte al posto che riceverle, nonostante le ragazze negli ultimi decenni abbiano guadagnato un'intraprendenza maggiore che in passato), a cui frequentemente rispondono con un rifiuto caratterizzato da componenti difensive e aggressive. È altrettanto interessante notare che il timore maschile diffuso verso l’ipotetica proposta di corteggiamento da parte di un ragazzo omosessuale nasconde una credenza stereotipica secondo cui gli uomini omosessuali sono motivati a ricercare partner in modo non selettivo e reciproco ma generalizzato e ipersessuato, veicolando la rappresentazione di una sessualità sia passiva che predatoria. 11 Quando l’etichetta diventa una persona In ogni istituto scolastico esiste spesso un ragazzo che tutti conoscono e descrivono come omosessuale per la sua atipicità di genere. In questo caso lo spettro dell'identità omosessuale non rappresenta più un qualcosa di fluido e dinamico ma diventa realtà statica e ancorata a una persona in carne e ossa, non più “un finocchio” ma “il finocchio”. Se negli altri l’epiteto denigratorio evoca la minaccia di una violenza (“tu non sei un vero maschio come me, quindi stai attento”), nel caso di ragazzi che si presentano esternamente con un'espressione di genere diversa, la violenza è una realtà più che una minaccia. Le vittime di bullismo omofobico nelle scuole italiane sembrano essere numerose. Un recente studio condotto su un campione di circa 900 studenti delle scuole secondarie di secondo grado di diverse parti d’Italia ha mostrato che circa uno studente su 20 (in maggioranza maschi) è stato vittima di bullismo omofobico nell’ultimo mese (Prati 2010). Questi ragazzi e ragazze sono vittime frequentemente di abusi verbali o fisici ed emarginazione, a volte autoescludendosi dagli eventi sociali in particolare da quelli “mascolini” o “intimi”, come quelli sportivi o le feste private. Imparano a non guardare gli altri maschi negli occhi per timore che possano interpretare il contatto oculare come un invito o una sfida o a evitare di stare in treno o sull’autobus con quei maschi che potrebbero insultarli. Esistono tuttavia anche esperienze di ragazzi e ragazze che scelgono di impegnarsi all’interno dei loro contesti scolastici per contrastare la violenza omofobica vissuta a livello personale o che assumono un ruolo di leader per quei coetanei che vivono ancora una situazione di marginalità, come viene riportato nel lavoro di stampo etnografico di Grace e Wells (2009) che ripercorrono le esperienze di tre studenti canadesi e del loro percorso di mobilitazione e trasformazione sociale all’interno del loro istituto scolastico. Da un’indagine condotta con oltre cento vittime di bullismo omofobico (Prati, 2010) sono state raccolte testimonianze di persone vittime non solo omosessuali o bisessuali ma anche eterosessuali. Gli attacchi di matrice omofobica, infatti, sono rivolti non solo a persone omosessuali, ma a tutti coloro che mettono in atto comportamenti poco accettabili o rifiutati. “Alle superiori sono stato apostrofato come "frocio" e "finocchio" da un compagno di classe di fronte ad altri miei compagni e a un professore per mettermi in una situazione di forte imbarazzo a causa della manifesta antipatia che questo alunno nutriva per me. Non avendo mai fatto dichiarazioni sulla mia intimità e non essendo effeminato, l'offesa è stata motivata dal fatto che sino ad allora non avevo ancora avuto ragazze e che 12 tra le attività di educazione fisica preferivo praticare gli sport "da femmine" (pallavolo invece che calcio) ed evitare gli sforzi fisici intensi, "proprio come i finocchi"”. “La prima derisione l’ho ricevuta all'età di 13 anni in seconda media poiché vesto e mi atteggio in maniera mascolina. Molti mi chiamavano "lesbica di merda". Da allora sono iniziate le prese in giro e adesso che sto alle superiori mi ritrovo a dover fronteggiare molte più persone che agiscono malamente nei miei confronti. Alcuni mi avrebbero voluto picchiare ma sono stata fortunata e non li ho (ancora) incontrati. Comunque sia la mia situazione mi porta a dover cambiare spesso scuola perché non essendo una persona molto forte non riesco a reggere molto la situazione ostile che mi si ripropone”. Ma qual è invece l'esperienza vissuta da insegnanti ed educatori omosessuali? Essere educatori in mondo eterosessista non è certo una scelta facile. Gay e lesbiche non vengono ben accettati dai genitori poiché si assume implicitamente ed erroneamente che influenzeranno l'orientamento sessuale dei propri figli. Inoltre, i gay devono confrontarsi con la credenza ampiamente diffusa che associa omosessualità e pedofilia. Ad esempio, un insegnante potrebbe monitorare in maniera ossessiva i propri comportamenti quando è con i bambini e sentirsi in ansia rispetto a come potrebbero essere interpretate le sue azioni verso gli alunni dagli altri insegnanti e dai genitori (King, 2004). Altri insegnanti potrebbero decidere di non rivelare la propria omosessualità all’interno del contesto lavorativo, malgrado l’abbiano già fatto nella sfera privata. Infatti, fare coming out comporta una serie di ipotetici rischi, quali possibili ripercussioni personali, atteggiamenti di ostilità e sfiducia, fino ad arrivare a vere e proprie violenze. Nei casi peggiori queste dinamiche possono creare, in chi le sperimenta, le condizioni per un progressivo isolamento personale e professionale e per lo sviluppo di disagio e vissuti ansiogeni. Diversamente, in alcune situazioni, soprattutto laddove esiste un clima e una cultura scolastica progressista e attenta alle diversità sessuali, la dichiarazione pubblica dell’omosessualità di un insegnante può innescare costruttivi percorsi di cambiamento e crescita, sia all’interno del gruppo classe sia per l’istituzione intera (Stuff & Graff, 2011). In quest’ottica si delinea la centralità rivestita dall’istituzione scolastica nel creare le condizioni per un clima di rispetto e apertura rispetto alle diversità sessuali; non si tratta di una scelta improvvisata, quanto risultato del risultato di un percorso che si concretizza in specifiche scelte e politiche. In merito a ciò, si vuole proporre a titolo di esempio il fatto che la discriminazione, basata sull’orientamento sessuale, non viene molte volte contemplata nel corpo delle norme anti-discriminatorie adottate dall’istituzione scolastica per tutelare studenti e 13 insegnanti. Non è difficile immaginare le conseguenze di tali scelte e come il vuoto legislativo crei le condizioni per il mantenimento del pregiudizio e della discriminazione. Verso un’educazione inclusiva Nelle scuole italiane gli interventi strutturati di prevenzione o riduzione del bullismo omofobico sono spesso inglobati all’interno di progetti più vasti che affrontano il bullismo in generale, l’educazione alle diversità, l’educazione sessuale o socio-affettiva. Prati e colleghi (2009) distinguono tre modelli di interventi educativi sulle tematiche dell’omosessualità/omofobia e del bullismo omofobico: 1) il modello del silenzio, in base al quale l’omosessualità rimane un argomento tabù, troppo delicato, inaffrontabile e si assume che tutti siano eterosessuali; 2) il modello dell’uguaglianza/diversità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con altri progetti sulle differenze e le diversità volti ad aumentare l’inclusione sociale e l’equità (a volte anche nei rari percorsi di educazione sessuale); 3) il paradigma della sicurezza/legalità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con quelli volti a contrastare la violenza e il bullismo e a tutelare la sicurezza personale e la legalità. Se il primo paradigma perpetua eterosessismo e omofobia, anche il secondo e il terzo possiedono punti di forza e punti di criticità. Gli interventi educativi ispirati al paradigma della diversità/uguaglianza potrebbero essere problematici perché con l’intento di “normalizzare” evitano di menzionare la variabilità di pratiche, stili di vita, forme socializzative delle persone Lgbt. L’organizzazione di dibattiti in cui si invitano persone apertamente gay potrebbe essere usata come strumento per procurare una bagarre mediatica più che un cambiamento di atteggiamenti negli studenti, o risultare inefficace perché il testimonial non ha adeguate competenze nella gestione del gruppo-classe o non è preparato a centrarsi sulle tematiche più pertinenti al contesto scolastico. Gli interventi educativi che si ispirano al paradigma della sicurezza/legalità potrebbero invece focalizzarsi sul ruolo di gay come vittime trascurando la resilienza e le strategie di fronteggiamento attive intraprese da chi vive una condizione di marginalità e ostilità sociale. Un approccio teorico che è nato proprio nell’ambito pedagogico è quello della “Queer Pedagogy” di Luhmann (1998). Essa affronta i temi cruciali del discorso omofobico a partire da una contestazione della dicotomia omosessualità vs. eterosessualità e dell’attribuzione di rigide e fisse categorie alla sessualità umana. La cosiddetta Queer Theory, infatti, considera la sessualità umana un concetto fluido, dinamico, costruito ed in evoluzione, problematizza tutte quelle pratiche sociali tese a voler normalizzare la sessualità e il genere all’interno di categorie eteronormative, critica la concezione per cui la sessualità e il genere sono fissati e iscritti nel proprio corpo biologico. Secondo l’approccio della pedagogia queer, tali contenuti dovrebbero essere introdotti all’interno dei piani di studio. 14 Gli studi che si sono occupati di valutare l’effetto delle attività volte a contrastare l’omofobia hanno riscontrato risultati non coerenti. In relazione a questo aspetto, alcuni ricercatori (Swank et al., 2011) hanno analizzato quali fattori potevano influire sulla risposta degli studenti a una discussione svolta in classe su tematiche concernenti l’omosessualità. I risultati dello studio, condotto su 748 studenti di 12 scuole superiori, rivelarono che la disposizione favorevole degli studenti verso gay e lesbiche era influenzata da quella della propria classe e da altri fattori, quali l’atteggiamento dei coetanei e dei propri familiari, come anche dalla propria percezione rispetto alle cause dell’omosessualità, dal seguire precetti religiosi conservatori, e dall’abbracciare tradizionali ruoli di genere. Questi risultati suggeriscono l’importanza di operare a più livelli affinché si realizzino interventi davvero efficaci, la sfida di un’educazione inclusiva e non discriminatoria è ampia e riguarda ad esempio anche i materiali e gli strumenti concepiti nella scuola. Temple (2005) ha analizzato 20 manuali didattici per le scuole secondarie del Quebec (Canada) e ha trovato che riflettono un’ideologia eterosessista in quanto normalizzano l’eterosessualità, problematizzano l’omosessualità, ed enfatizzano una rigida distinzione tra uomini e donne e tra eterosessuali e omosessuali. Identità e relazioni omosessuali sono invisibili: la coppia è sempre costituita da un uomo e una donna, i genitori da un padre e una madre, e in adolescenza i ragazzi cercano sempre relazioni eterosessuali. Quando si accenna alla sessualità tra persone dello stesso sesso lo si fa in modo vago e all’interno di discorsi negativi (es., problematiche sessuali). Secondo l’autrice, questi manuali educativi sono parte di un sistema ideologico eteronormativo, che pone l’eterosessualità come principio organizzatore sociale e politico e che predilige le dicotomie2. A seguito della crescente visibilità delle famiglie omogenitoriali, occorre anche considerare la qualità della vita scolastica di bambini e adolescenti che crescono con due genitori dello stesso sesso o che hanno un genitore omosessuale che si è poi separato, Spetta a educatori e insegnanti creare un ambiente inclusivo che tenga conto delle esperienze di questi bambini, non lasciando invece che siano loro stessi ad essere responsabili dell'educazione dei propri insegnanti e a propria pretendere rispetto e inclusione all’interno dell’ambito scolastico (Rimalower & Caty, 2009). Stufft e Graff (2011) sottolineano che dirigenti, amministratori e insegnanti hanno il dovere di creare ambienti scolastici sicuri per gli studenti Lgbt. Ciò può essere raggiunto attraverso una formazione e una preparazione orientata a riesaminare pregiudizi e visioni falsate sull’argomento. Riconoscendo i propri atteggiamenti, gli educatori possono acquisire consapevolezza sui meccanismi sottili e indiretti attra2 Butler (1990) a questo proposito argomentava che la costruzione sociale del sesso e della sessualità rafforza l’idea di una eterosessualità naturalizzata e obbligata regolata dal binarismo di genere. 15 verso cui contribuiscono a rendere il contesto scolastico poco accogliente delle diversità sessuali. Secondo gli autori gli insegnanti possono contribuire a rendere le scuole più inclusive in vari modi: insegnando il valore del rispetto e della non discriminazione, scoraggiando stereotipi e l’utilizzo di un linguaggio denigratorio, fornendo supporto emotivo agli studenti e ai colleghi Lgbt, adottando materiali e testi che siano più inclusivi, dedicando spazi alle tematiche e ad esempi di persone Lgbt nelle discussioni in aula. Goldstein e colleghi (2007) propongono ad esempio l’introduzione di tre diversi tipi di pratiche utili alla formazione degli insegnanti come l’analisi delle storie di coming out, l’analisi degli insulti omofobici e le Pride Weeks, che rappresentano strategie utili sia per formare sia per creare all’interno della classe dei momenti sicuri, positivi e “queer”. Russo (2006) ha elaborato una tassonomia delle politiche educative di contrasto all’omofobia ed ha rimarcato l’importanza di normative non discriminatorie e di azioni per garantire la sicurezza personale degli attori coinvolti nel contesto scolastico; ad esempio, sportelli o persone di contatto a cui si possono riferire atti di violenza o discriminazione osservati o subiti. In ambito anglosassone i progetti educativi sono molteplici e già da due - tre decenni sono sistematizzati negli iter e nei percorsi di formazioni. Si vedano ad esempio i programmi proposti dall’associazione “Gay, Lesbian, and Straight Education Network (www.glsen.org)” o l’esperienza delle cosiddette “Gay-Straight Alliance”, gruppi formatisi all’interno dell’istituto scolastico in cui ragazzi/e omosessuali ed etero organizzano dibattiti e iniziative contro l’omofobia, o alcune recenti campagne di sensibilizzazione come il “Giorno del silenzio” (Day of Silence, www.dayofsilence.org) e “Andrà meglio” (It gets better, www.itgetsbetter.org), quest’ultima rivolta alle vittime di bullismo omofobico a rischio suicidario promossa da Trevor Project e ripresa da celebrità e rappresentanti istituzionali. In Italia le prime iniziative per ridurre l’omofobia nei contesti educativi sono iniziate negli anni Novanta. Nel 1998, si è tenuto per la prima volta in Toscana un corso di formazione rivolto agli insegnanti all’interno del Piano Provinciale di Aggiornamento del Provveditorato agli Studi di Pisa sui temi dell’omofobia a scuola. Il corso dal titolo “Educare al rispetto” è stato riproposto in altre sedi nelle province di Firenze, Brescia, Reggio Emilia, Arezzo, Siena, Pordenone, Trieste e Macerata. Il corso è stato autorizzato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a livello nazionale ed è riconosciuto come buona prassi dalla Commissione Europea. La finalità generale del corso è stata quella di migliorare le competenze degli insegnanti nella prevenzione e nella gestione del bullismo omofobico. Il corso di formazione negli anni si è trasformato in un Sito Web 16 (www.educarealrispetto.org) che rappresenta una risorsa per educatori e insegnanti ricca di esercizi e spunti per l’attività in aula e con gli adolescenti3. Queste iniziative intendono aiutare tutte le persone ad affrontare con consapevolezza critica i pregiudizi e gli stereotipi con cui ciascuno di noi convive, per guardare con compartecipazione empatica alla storia e alla vita degli altri e poter così modificare le relazioni umane in un clima di rispetto e tutela della dignità e integrità della persona e delle diversità umane. Contrariamente al pensiero comune, tali questioni non riguardano solo una minoranza di studenti e di insegnanti non eterosessuali; la regolazione eteronormativa dei comportamenti e le gerarchie associate alle identità di genere e sessuali plasmano le esperienze scolastiche quotidiane di tutti, in quanto restringono le opzioni e la libertà con cui esprimere la propria soggettività (DePalma e Atkinson, 2010). 3 Tra le altre iniziative segnaliamo: il progetto europeo dal titolo Triangle (Transfer of Information to Combat Discrimination Against Gays and Lesbians in Europe) che ha prodotto un kit formativo in italiano per insegnanti, educatori e counselor ( www.diversity-in-europe.org); il progetto sul bullismo omofobico del Dottorato di Ricerca in Studi di Genere e del Dipartimento di Scienze Relazionali e del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (www.bullismoomofobico.it); il progetto AHEAD (Against Homophobia, European Local Administration Devices) in cui è coinvolto il Comune e l’Università di Torino (www.comune.torino.it/politichedigenere/lgbt/ahead); il progetto Citizens in diversity coordinato dall’Università degli Studi di Padova (www.citidive.eu). 17 Bibliografia Albarello, F. e Rubini, M. 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