II. I materiali ceramici, p. 81

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Aurora Cagnana
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II. I MATERIALI CERAMICI
1. L’argilla: l’unica roccia plastica
Le argille sono rocce sedimentarie clastiche, incoerenti (cfr. I.1.),
presenti in natura in grandi estensioni. La proprietà fondamentale,
che costituisce una caratteristica esclusiva delle argille è la plasticità
dopo un’opportuna bagnatura con acqua. Essa consiste nella capacità
di assumere una determinata forma, in seguito a una pressione, e di
mantenere tale forma anche quando la pressione viene a cessare. La
plasticità dell’argilla, che consente di foggiare vasi e vari materiali da
costruzione (mattoni, mattonelle, tegole, coppi ecc.) con misure e
forme prestabilite, è dovuta appunto alla struttura lamellare dei
minerali argillosi e ai legami di superficie che si vengono a costituire
fra loro.
I minerali argillosi appartengono al gruppo dei silicati e si formano in seguito a un processo, definito caolinizzazione, di alterazione chimica di altri silicati, detti feldspati. Il termine deriva dalla
caolinite, uno dei più importanti minerali argillosi. I feldspati fanno
parte dei tectosilicati: nel loro reticolo cristallino ogni tetraedro è
collegato ad altri quattro attraverso i quattro vertici, e ciò da luogo
a una impalcatura tridimensionale. L’acqua piovana asporta dalla
struttura dei feldspati gli atomi di sodio (Na), potassio (K), calcio
(Ca) per sostituirli con ossidrili (OH). Ciò determina la formazione
di nuovi minerali definiti “silicati idrati di alluminio”, diversi dai
minerali di partenza. Essi presentano infatti una forma tabulare,
che permette di classificarli tra i fillosilicati (da fyllos = foglia). Tale
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
30- Struttura molecolare e abito cristallino di due diversi tipi di silicati:
un feldspato (a sinistra) e un minerale argilloso (a destra)
forma è dovuta al reticolo cristallino, caratterizzato dalla sovrapposizione di strati di tetraedri di silice (SiO 2), strati di ottaedri di alluminio (Al 2O3) e strati di ossidrili (OH). L’alternanza di strati e interstrati si ripete periodicamente e caratterizza il reticolo cristallino
dei vari minerali argillosi, che si distinguono per lo spessore di strati e interstrati e per piccole differenze degli elementi che li costituiscono. I minerali argillosi presentano inoltre dimensioni piccolissime, inferiori ai due micron, a causa del fatto che il processo di caolinizzazione avviene contemporaneamente e in maniera diffusa su
ampie superfici; la ricristallizzazione in seguito all’azione dell’acqua
agisce perciò su piccole porzioni di materia, creando piccoli individui
cristallini.
I più frequenti minerali argillosi sono la caolinite, la montmorillo nite, l’illite.
Le argille diventano plastiche al contatto con limitate quantità
d’acqua, la quale penetra nei ‘pacchetti’ di cristalli piani e sostituisce
i suoi legami polari a quelli intercristallini dei minerali. Di conse-
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guenza fa gonfiare i pacchetti e distacca i cristalli che rimangono
separati da cuscini d’acqua, i quali permettono loro di slittare gli uni
sugli altri. Se l’acqua è presente in quantità non troppo basse né
eccessive, le molecole mantengono la posizione che assumono, vale a
dire che il composto è plastico. Se invece l’acqua è eccessiva, la posizione assunta non si mantiene, in quanto i cristalli si disperdono in
essa; se è insufficiente, gli slittamenti sono parziali.
Quando l’argilla secca, per evaporazione dell’acqua intercristallina, i minerali argillosi, se hanno ancora legami liberi, si legano fra
loro e formano pacchetti ormai privi di plasticità, ma rigidi, e dotati di una certa resistenza alla compressione. Per tornare plastici
devono essere messi nuovamente a contatto con opportune quantità
d’acqua.
Esiste un sistema empirico di valutazione della giusta plasticità
dell’argilla, che consiste nel plasmare un salsicciotto e piegarlo poi di
180°; se si strappa l’argilla non è sufficientemente plastica, se invece,
dopo essere stato piegato, non mantiene la stessa posizione, significa
che l’argilla è eccessiavamente plastica, cioè troppo ricca di acqua
intercristallina.
Un’altra importante caratteristica è l’impermeabilità. Essa è dovuta al fatto che lo strato superficiale dei minerali argillosi, dopo essersi saturato di acqua per imbibizione, non ne riceve più e protegge quelli sottostanti. È facile notare, dopo le piogge, la presenza, nei terreni
molto argillosi, di uno strato superficiale scivolosissimo, sotto il quale,
però, dopo alcuni centimetri, il terreno è asciutto. È questa caratteristica di impermeabilità che ha sempre fatto dell’argilla cruda un buon
materiale da costruzione.
Altre caratteristiche importanti sono quelle termiche: la refratta rietà, vale a dire la possibilità di resistere a temperature elevate
(950°-1100°) senza deformarsi; la bassa conducibilità, ovvero i tempi
di accumulo e di restituzione del calore. Il grado di refrattarietà può
essere ulteriormente alzato con aggiunta di altri componenti ricchi di
silice, come ad esempio il quarzo, composto che ha un alto punto di
fusione (1710°); la conducibilità può invece essere abbassata con
aggiunta di calcite e plagioclasi.
L’argilla, essiccata, presenta anche una buona resistenza mecca nica, dovuta al fatto che i minerali, come si è visto, sono di dimensioni ridottissime e i legami intercristallini sono molti, dato il forte
sviluppo delle superfici dei cristalli stessi, in rapporto al volume di
argilla.
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2. Terre alluvionali e caolini
Occorre ricordare che tutti i minerali argillosi sono bianchi, ma i
sedimenti di argille si trovano, in natura, generalmente colorati (giallo, grigio, rosa, rosso) e molto raramente bianchi. Ciò è dovuto alle
diverse modalità di formazione dei sedimenti; solo le argille dette pri marie o residuali, sono caratterizzate dal colore bianco. Si tratta,
infatti, di depositi (dovuti alla caolinizzazione di rocce contenenti feldspati e prive di ferro) che non hanno subito un trasporto, ma che sono
rimasti, nel luogo stesso di formazione, sulla roccia madre. Fanno
parte di queste i caolini, che sono piuttosto rari in natura. La maggior
parte dei depositi argillosi è invece costituita da sedimenti alluvionali, o lacustri o marini, formati cioè in seguito al trasporto dei minerali argillosi dalla roccia madre in nuovi bacini di sedimentazione.
I cristalli che formano i minerali argillosi sono polari, cioè hanno
cariche residue periferiche, pertanto se durante il trasporto essi vengono portati in sospensione nell’acqua, (cosa resa possibile dalle ridotte dimensioni) si combinano facilmente con ioni di ferro o manganese
31- La sedimentazione alla foce di un fiume: successione di livelli sabbiosi (1) livelli sabbiosi più fini (2) deposizioni limose (3) e argillose (4) (da
CUOMO DI CAPRIO 1988)
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e, una volta ridepositati, danno luogo a giacimenti argillosi colorati:
giallo, arancio, rosso o violaceo, a seconda del metallo presente. In
natura le argille alluvionali, colorate, sono molto più frequenti di quelle prive di ferro, cioè dei caolini. Quando sono ricche di certi metalli,
le argille prendono il nome di “terre” e possono essere usate come coloranti (cfr. IV.1.). Per contro solo quelle prive di metalli coloranti hanno
la proprietà di “cuocere in bianco”, poiché i minerali argillosi, che di
per sé sono bianchi, lo restano anche cuocendo. Se invece nelle argille
si trovano anche ossidi metallici, (di ferro o di manganese) in cottura
assumono, in modo particolare, una colorazione viva.
Le argille, sia primarie che alluvionali, hanno anche uno scheletro,
costituito da feldspati non alterati e da minerali non soggetti all’alterazione, quali quarzo, miche, e, in certi casi, anche carbonato di calcio.
I sedimenti argillosi utilizzabili per foggiare manufatti ceramici
devono contenere almeno il 40% di minerali argillosi. Insieme ad essi
e allo scheletro si trovano anche sostanze organiche (resti vegetali,
humus); le terre agricole, molto organiche e con pochissimi minerali
argillosi, sono inadatte alla realizzazione di manufatti.
3. L’estrazione, la preparazione, la foggiatura
Le argille sono rocce incoerenti, la cui estrazione non è particolarmente complessa, anche perché la pezzatura della materia prima non
riveste alcuna importanza per le lavorazioni successive. Un sistema
usato nelle regioni fredde è quello dell’ibernazione, che consiste nello
sfruttamento delle crepature che si formano a causa del fenomeno di
gelo-disgelo.
Affinché un’argilla sia lavorabile è necessario che ci sia un giusto
rapporto tra scheletro e minerali argillosi, dato che questi ultimi, da
soli, non si possono foggiare, in quanto sono troppo plastici e il prodotto che ne deriverebbe avrebbe un ritiro eccessivo in seguito all’essiccamento e alla cottura. La granulometria del dimagrante, inoltre,
va messa in rapporto con il prodotto che si vuole ottenere: per i laterizi o le tubature, ad esempio, la presenza di uno scheletro troppo grossolano non va eliminata; se invece si vogliono ottenere prodotti più fini
(mattonelle, laggioni, ceramiche da mensa), è necessario operare una
“decantazione” in apposite vasche.
Per poter foggiare l’argilla è comunque indispensabile conferirle la
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giusta plasticità; ciò si può ottenere attraverso due sistemi: uno è
quello della macerazione, che consiste nel tenerla a lungo in mucchi,
continuando ad aggiungere piccole quantità di acqua. Questa tecnica
era molto usata in Cina per produrre la porcellana; il caolino veniva
fatto macerare anche per due anni, in ambienti umidi, in modo da far
penetrare lentamente l’acqua necessaria, in tutti i pori. Un altro
sistema consiste nella manipolazione, con graduale aggiunta di acqua,
in modo da accelerarne la penetrazione.
Il grado di plasticità dell’argilla dipende anche dalla quantità di
minerali argillosi presenti in un sedimento: qualora essa sia eccessiva, l’impasto dovrà essere dimagrito con l’aggiunta di altro scheletro,
costituito generalmente da sabbia.
Infine le argille vanno depurate della eventuale presenza di
sostanze organiche, che altrimenti, bruciando in cottura, lascerebbero
dei vuoti e aumenterebbero la porosità dei prodotti; nei mattoni ciò
ridurrebbe anche la resistenza alla compressione.
La modellazione dell’argilla, a differenza della lavorazione della
pietra, è una tecnica ‘a mettere’, cioè basata sulla possibile aggiunta
di materiale e sulla progressiva modificazione della forma. Pertanto la
modellazione avveniva soprattutto con le mani, aiutate da spatole di
varie dimensioni. Nel più complesso lavoro di foggiatura dei conteni-
32- Depurazione di un’argilla tramite decantazione in acqua corrente (da
CUOMO DI CAPRIO 1988)
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tori ceramici era invece utilizzato il tornio, lento oppure veloce, cioè
azionato da un pedale.
I mattoni, le mattonelle, le tegole e i coprigiunti (o ‘coppi’) e i mattoni sagomati venivano invece foggiati a stampo, utilizzando appositi
telai di legno, privi del fondo, in modo da agevolare l’estrazione dell’oggetto modellato. L’impasto di argilla veniva premuto a mano entro
lo stampo e la superficie superiore veniva poi spianata. Per la produzione di tegole occorreva applicare due fasce di argilla lungo i lati lunghi, premendole e modellandole poi a mano in modo da ottenere le
‘alette’ laterali rialzate. I ‘coppi’ erano invece ottenuti appoggiando le
lastre rettangolari di argilla su un pezzo di legno semicilindrico, dal
quale prendevano la forma.
I laterizi decorati erano ottenuti attraverso stampi o matrici in
ceramica, che recavano il disegno in negativo.
Una volta foggiato, il prodotto doveva essere fatto essiccare in
ambienti asciutti, ma necessariamente all’ombra: mai al sole (contrariamente a quanto spesso si legge), perché ciò avrebbe provocato un
33- Il banco per la formatura a mano dei mattoni, effettuata utilizzando
un ‘mucchio’ di argilla precedentemente preparata (da MENICALI 1992)
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34- Vari tipi di cassette lignee, prive del fondo, usate per la foggiatura di
mattoni di diverse forme (da MENICALI 1992)
ritiro differenziato tra le parti esterne e quelle interne, e avrebbe causato crepature nel prodotto.
Con l’essiccazione l’argilla perde l’acqua posta fra le microlamelle,
detta di imbibizione, che evapora, e subisce pertanto un ritiro di volume. Tale acqua, necessaria -come si è scritto- per conferire la plasticità dell’argilla, ne causa infatti un aumento di volume fino al 30%;
aumento che può però essere limitato (entro il 15%) dalla presenza
dello scheletro. In seguito all’essiccazione i pacchetti di minerali argillosi, compattati fra loro, consentono al materiale di raggiungere una
discreta resistenza alla compressione, non diversa da quella di certe
malte.
La perdita dell’acqua di imbibizione è un processo reversibile, in
quanto essa può essere nuovamente addizionata all’argilla.
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4. L’utilizzo dell’argilla cruda nelle costruzioni: il pisé e l’adobe
Le buone caratteristiche di impermeabilità e di resistenza alla
compressione dell’argilla essiccata, ne spiegano l’abbondante uso
come materiale da
costruzione. Le tecniche di impiego sono
due: l’adobe (dall’arabo ‘at tub’=zolla),
ovvero la produzione
di mattoni crudi,
essiccati per alcune
settimane
prima
35- Formatura a mano di coppi
e tegole (da MENICALI 1992)
36- Operazioni di formatura a mano di
elementi per la decorazione architettonica templare: foggiatura del prototipo; creazione della matrice con i
motivi decorativi in negativo; formatura a stampo della copia e sua colorazione (disegno di Zanella 1999)
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della posa in opera, e il
pisé. Quest’ultimo sistema
(dal francese = schiacciato)
consiste nel costruire cassoni lignei entro i quali
viene compressa dell’argilla umida, non troppo fine,
ma piuttosto ghiaiosa; una
volta tolte le casseforme,
resta un grande blocco, che
seccando indurisce; la
costruzione della muratura
procede pertanto a blocchi
sovrapposti. Benché opere
di questo tipo fossero in
grado di resistere anche
senza intonaco, generalmente si preferiva proteggere la superficie dei muri
con un rivestimento di
argilla cruda, mista a
37- Realizzazione di un muro in pisé
paglia tritata. Questo tipo
(da ADAM 1989)
di intonaco, usato ancor
oggi in Marocco, è menzionato già da Vitruvio (De
Arch. II,3), che lo definisce torchis, (da torquere= spezzettare).
L’uso dell’argilla per pareti ad armatura vegetale è attestato fin
dalla Preistoria, ma è a partire dal terzo millennio a.C. che, in
Medioriente e in Egitto, questo materiale viene impiegato per realizzare la struttura portante dei muri. Dalla fine dell’età del Bronzo
opere realizzate interamente in terra cruda sono attestate anche nel
Mediterraneo occidentale (Marocco, Andalusia, Aragona, Catalogna,
Francia meridionale, Italia del centro-sud). Pressoché sconosciute
nell’Europa temperata, almeno fino all’età romana, la tecnica del pisé
e quella dei mattoni crudi risultano impiegate, sulle coste del
Mediterraneo, anche per tutta l’Età del Ferro. In Grecia la costruzione di murature in argilla è documentata con continuità fino all’epoca
bizantina. L’importanza rivestita dalla produzione dei mattoni crudi
emerge, oltre che dalle prove archeologiche, anche da numerose fonti
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38- Resti di muratura in adobe, dagli scavi della città romana di Lepida
Celsa, presso Saragozza
letterarie ed epigrafiche: ad Eleusi, ad esempio, l’amministrazione del
santuario provvedeva all’acquisto della terra e controllava le operazioni di preparazione dell’argilla e di formatura dei mattoni. Anche in
età romana l’ampio utilizzo di queste tecniche è provato sia dai dati
archeologici sia dalle fonti letterarie: Plinio, descrivendo i muri in pisé
(parietes formacei), ne sostiene la durata “nei secoli”, e ne ricorda la
diffusione, ai suoi tempi, in Africa e nella penisola iberica (Nat. Hist.
XXXV, 48). Informazioni anche maggiori riguardano i mattoni crudi (o
lateres) la cui produzione viene descritta da Vitruvio con abbondanza
di particolari (De Arch. II, 3) e ricordata da molti autori successivi,
fino alla tarda antichità; il fatto che nell’editto dei prezzi di
Diocleziano (302 d.C.) venga fissato il compenso per i produttori di
mattoni crudi costituisce una prova ulteriore del loro ampio utilizzo in
tutto l’Impero.
Murature “de loto” (= di fango) sono ricordate in numerosi testi
scritti di età altomedievale, epoca in cui esse dovettero essere usate
non solo per le case, ma anche per le fortificazioni e per le chiese.
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Edilizia abitativa in pisé e in adobe è inoltre documentata per tutta
l’età Medievale e postmedievale, sia sulle coste del Mediterraneo, sia
nelle regioni dell’Europa temperata: resti archeologici di edifici con
muri in argilla su bassi zoccoli di pietra, databili al XII-XV secolo, sono
stati posti in luce da scavi archeologici in Inghilterra, in Germania, in
Francia, in Italia. In Marocco la tecnica del pisé registra una straordinaria continuità fino ai giorni nostri, essendo ancora utilizzata per
costruire monumentali edifici a più piani.
Meno noti sono altri casi di lunga durata della costruzione di muri
di terra, come quello della pianura alessandrina, dove si conservano
numerosi edifici abitativi e annessi rustici realizzate sia in pisé, sia in
mattoni crudi, che sono stati oggetto, in anni recenti, di accurate indagini archeologiche. Lo studio delle date scritte e dei reperti ceramici
rinvenuti all’interno dei muri ha provato che le costruzioni più antiche risalgono al XVII secolo e si trovano ancora in buono stato di conservazione; si è registrato, infatti, che lo strato esterno delle murature non protette si è ridotto di circa 10 centimetri in un periodo di oltre
quattro secoli. Questi dati aiutano a comprendere perché gli autori
antichi apprezzassero tanto le opere in argilla, attribuendo loro una
durata anche maggiore di quelle in blocchetti lapidei.
È forse sulla base di simili osservazioni che il celebre architetto
Cointeraux propose, alla fine de XVIII secolo, l’utilizzo del “nouveau
pisé”, da realizzarsi con presse meccaniche, per la costruzione di case
rurali economiche e di qualità. Benché l’idea dell’architetto lionese
(regione in cui il pisé era allora ampiamente diffuso) non abbia prodotto il successo sperato, la pubblicazione della sua opera, nel 1793,
costituisce comunque una fonte preziosa di informazioni per la conoscenza di questo antichissimo materiale da costruzione.
5. La cottura
Anche se l’utilizzo della terra cruda ha rivestito un’importanza storica notevole, l’impiego maggiore dell’argilla è però avvenuto in seguito alla cottura, operazione attraverso la quale l’oggetto foggiato perde,
in maniera irreversibile, la sua plasticità e diventa un prodotto ceramico. Secondo la studiosa Cuomo di Caprio, la fase della cottura era “il
banco di prova dell’intero ciclo di lavorazione” dell’argilla, dato che ogni
manufatto “soltanto quando esce dalla fornace diventa corpo ceramico,
solido, dotato di tali caratteristiche di resistenza da sfidare i secoli”.
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Gli ambienti destinati alla cottura erano le fornaci: costruzioni
spesso molto modeste, ma realizzate sempre in modo da garantire il
migliore funzionamento in termini di calore prodotto e di tiraggio. La
loro introduzione ha sostituito, (in tempi diversi a seconda delle regioni e dei contesti storici) l’uso dei più rudimentali “forni all’aperto”, in
cui i manufatti, posti a contatto diretto col combustibile incandescente, presentavano, dopo la cottura, chiazze di colori diversi, dovute alla
disomogenea distribuzione dell’ossigeno e della temperatura.
Se si eccettuano alcune esperienze di età micenea, l’introduzione
di vere e proprie fornaci avvenne, in Grecia e in Etruria, nell’Età del
Ferro. Divenute costruzioni fisse, esse assunsero forme e tipologie
svariate, ma contraddistinte da alcune caratteristiche funzionali
costanti; in primo luogo la presenza di una camera di cottura separata dal combustibile, nella quale penetravano i prodotti di combustione (gas caldi, fumi, fiamme), attraverso un sistema di tiraggio,
ossia di circolazione dell’aria comburente. In genere le fornaci venivano costruite entro una fossa, in modo che il piano di combustione
risultasse seminterrato. Tale accorgimento consentiva di resistere ai
fortissimi sbalzi di temperatura (che in una sola settimana poteva
raggiungere i 900°C/1000°C e poi tornare a quella ambiente) e impediva inoltre che una parte del calore venisse dispersa per dissipazione. Oltre ad aumentare l’isolamento termico la costruzione seminterrata permetteva anche di ridurre la manutenzione dei muri in
elevato.
La documentazione archeologica ha dimostrato l’ampia diffusione
di un tipo di forno caratterizzato da una pianta ‘a otto’, attestato
anche per la produzione della calce o del vetro (cfr. III.4. e V.3.).
Per garantire il passaggio del calore veniva scavata nella parte
antistante una fossa più piccola, chiamata dai romani ‘prefurnium’,
che corrispondeva a uno dei due cerchi dell’’otto’. La strozzatura esistente tra il prefornio e la camera di combustione produceva l’effetto
di un mantice, dato che, per la legge di Bernulli, i gas aumentano la
loro velocità se nel percorso incontrano una strettoia che li comprime,
e ne accresce la pressione. Si può dunque affermare che i fornaciai del
passato applicassero empiricamente una precisa legge fisica, molti
secoli prima che la scienza moderna ne fornisse le spiegazioni.
In questo sistema, detto ‘a fossa’, la camera di combustione veniva
a trovarsi nella parte più bassa, mentre il materiale da cuocere veniva collocato nella parte superiore, dove la temperatura raggiungeva i
massimi valori. La presenza del prefurnium, della strozzatura e del-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
39- Fornace per laterizi di epoca romana (da MC WHIRR 1979)
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l’apertura nella parte alta del forno garantivano perciò un ottimo
tiraggio e consentivano una buona cottura.
Già a 600°C il materiale argilloso abbandona la plasticità in
maniera irreversibile; infatti questa temperatura causa la perdita dell’acqua che fa parte dei cristalli dei minerali argillosi; si determina
cioè un cambiamento chimico dell’argilla, che muta radicalmente la
sua struttura: essa diviene un materiale non più cristallino, ma organizzato in maniera disordinata, e definito ‘argilloide’.
Alzando ancora la temperatura (tra gli 800°C e i 900°C) la silice e
l’allumina si riorganizzano in nuovi silicati (di calcio, ad esempio),
simili a quelli che costituiscono alcune rocce magmatiche; questa trasformazione fa ritirare ulteriormente l’impasto che diventa più rigido,
più resistente e meno poroso; ciò causa anche l’annerimento dei prodotti argillosi.
A temperature ancora superiori comincia la fusione del quarzo,
ovvero i prodotti ceramici subiscono una semivetrificazione, mentre
l’argilla si compatta e perde ulteriormente volume. È questo il caso dei
mattoni scuri la cui presenza si osserva non di rado nelle murature o
nelle pavimentazioni di età medievale e postmedievale. Lo studio
della documentazione archivistica genovese ad esempio, ha permesso
di capire che tali mattoni più scuri, molto cotti, venivano definiti, nei
capitolati di costruzione dal XVI al XVIII secolo, ‘ferrioli’; i censori
della Repubblica di Genova avevano stabilito che per tali laterizi si
pagasse un prezzo più alto che per gli altri, proprio perché erano più
impermeabili e resistenti.
Temperature ancora maggiori danno luogo alla fusione del prodotto
ceramico, che perde definitivamente la propria forma. Quest’ultimo caso
avveniva di frequente in passato, per la non omogeneità termica delle
fornaci; in generale però i ceramisti erano in grado di controllare la temperatura ottenuta nella camera di combustione attraverso strumenti
empirici, come il colore raggiunto dai prodotti, procedimento definito nel
gergo dei fornaciai “cuocere al rosso”, “cuocere al bianco”, ecc. Ciò permetteva loro di intervenire sul processo di cottura aumentando la quantità di combustibile oppure regolando le aperture dei tiraggi.
Una grande trasformazione nella produzione dei laterizi è stata
portata dall’introduzione delle fornaci Hoffmann, avvenuta nel secolo
XIX. Questo tipo di impianti venne studiato e messo a punto per superare i limiti delle fornaci tradizionali e cioè la dispersione del calore e
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40- Pianta, sezione e schema di funzionamento di una fornace Hoffmann:
la zona del fuoco è situata nelle camere 12 e 13; i nuovi mattoni da cuocere sono posti nella 4; quelli già cotti vengono scaricati dalle camere 5 e 6.
L’aria entra dalla zona 4, raffredda i laterizi cotti delle camere 5 e 6 riscaldandosi essa stessa; aumenta perciò la resa termica delle camere 12 e 13;
quindi passa a preriscaldare i mattoni crudi posti nelle camere da 14 a 3
(da MENICALI 1992)
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il funzionamento ‘intermittente’, ovvero basato sulle quattro fasi di
carico, cottura, raffreddamento e scarico. Le fornaci Hoffmann furono
il primo tentativo di realizzare un ciclo di produzione ininterrotto e
senza spreco di calore. Erano formate da una galleria anulare continua, che costituiva un grande canale di cottura, diviso in celle per
mezzo di paratie. La cottura si sviluppava in due vani per volta, ubicati in posizione opposta alla zona di carico, che era invece adiacente,
ma separata da quella di scarico. L’aria entrava fredda nella cella con
i mattoni appena cotti, li raffreddava e si surriscaldava lei stessa, in
modo che, una volta raggiunte le celle di cottura, ne aumentava la
resa termica; infine fuoriusciva per preriscaldare le stanze dove si trovavano i laterizi crudi. La zona di cottura veniva continuamente spostata e così le altre di carico, scarico, ecc. Questo sistema era in grado
di produrre dai 15000 ai 20000 laterizi in 24 ore.
Le fornaci Hoffmann sono state successivamente sostituite dai
forni a tunnel, a fuoco fisso.
6. Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici
I prodotti ceramici presentano una grande varietà e vengono classificati in base al tipo di argilla, alla presenza o meno di rivestimento
e ai caratteri di quest’ultimo. Prima di analizzare i manufatti usati
nell’architettura, è perciò necessario premettere una classificazione
tecnologica di tutti i tipi ceramici, basata, per lo più, su caratteri visibili macroscopicamente.
La prima distinzione riguarda l’impasto che può essere bianco o
colorato, in relazione, come si è scritto, alla presenza o meno di ossidi
metallici nell’argilla. In secondo luogo i corpi ceramici (bianchi o colorati che siano) possono essere porosi oppure impermeabili.
La porosità è dovuta alle caratteristiche del corpo argilloso, che, se
viene cotto a temperature non eccessive, non raggiunge la semifusione degli impasti. In tal caso, per ottenere l’impermeabilità, è necessario aggiungere un rivestimento. Quest’ultimo (detto anche coperta)
veniva applicato sia per scopi estetici, sia per motivi di funzionalità.
Le ceramiche a corpo colorato, poroso, che non ricevono alcun rivestimento, vengono definite ‘nude’ (grezze o depurate a seconda della
granulometria dell’inerte) o ‘terrecotte’. Una sorta di impermeabilità
può essere ottenuta lisciando a crudo la superficie, oppure pennellan-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
dola con un ulteriore strato di argilla fine, molto diluita. Queste operazioni consentono di aumentare la resistenza all’acqua e di ridurre la
porosità esterna, dopo la cottura.
-Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici
La maggior parte dei prodotti ceramici utilizzati nelle costruzioni
(mattoni, tegole, coppi, terrecotte architettoniche) appartiene a questa
categoria.
L’ingobbio (dal francese engobe) è il tipo di rivestimento più antico,
essendo noto già nella Preistoria. Veniva realizzato con un materiale
della stessa natura del corpo ceramico, vale a dire con argilla, più
diluita e depurata di quella con la quale era stato foggiato il vaso.
Pertanto di per sé non attribuiva l’impermeabilità, ma soltanto se era
lisciato o lucidato poteva rendere il vaso meno poroso.
I greci usarono per primi, su vasi di argilla rossa, un tipo di ingobbiatura bianca, a base di caolino, stesa su coppe (kylikes) o su vasi a
forma chiusa (lékitoi) allo scopo di ottenere superfici bianche, da decorare con vivaci policromie.
Nel Medioevo l’ingobbio bianco a base caolinica veniva steso, sempre su corpi ceramici rossi, sotto al rivestimento vetroso, per fare
risaltare meglio la decorazione policroma presente nella vetrina.
La vernice sinterizzata non va confusa con la vetrina, è infatti
costituita anch’essa da un’argilla, che prende il nome di barbotina, e
che veniva depurata fino a ottenere una eliminazione totale dello
scheletro, lasciando solo i minerali di grandezza inferiore al micron,
ricchi di ioni di ferro. Una volta stesa (a pennello o a immersione) sul
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vaso essiccato, la cottura doveva raggiungere temperature tali da sinterizzare i minerali della vernice stessa, ovvero a portarli a una temperatura compresa fra gli 800°C e i 900°C, in seguito alla quale la
barbotina cambiava colore. Essa poteva assumere un rosso corallino
(dovuto alla trasformazione del ferro delle argille in ematite, o ossido
ferrico; Fe2O3), oppure nero, (dovuto alla trasformazione del ferro
delle argille in magnetite, o ossido ferroso-ferrico FeOFe2O3). La
varietà di tale esito dipendeva dal tipo di cottura, che, se ossidante,
dava luogo alla formazione dell’ossido ferrico, se riducente, dava origine alla magnetite. In altre parole le barbotine sinterizzavano nel
senso che il ferro si riorganizzava in cristalli lucenti di magnetite
oppure di ematite. L’abilità dei ceramisti consisteva nel saper controllare l’atmosfera di cottura, ovvero la quantità di ossigeno presente nel
forno ad alte temperature. Le superfici esterne dei vasi acquistavano
così una lucidità che le rendeva riflettenti e impermeabili, anche in
assenza di un vero e proprio rivestimento vetroso.
Queste tecniche erano già conosciute dai Cretesi e dai Micenei, ma
vennero particolarmente perfezionate dai greci di età storica. Se è
relativamente facile comprendere come si potessero ottenere superfici
interamente rosse o interamente nere, attraverso i meccanismi
descritti, più difficile è riuscire a capire come si ottenessero superfici
con due diverse colorazioni, vale a dire come si producessero i vasi a
figure nere su sfondo rosso, oppure i famosi vasi attici a figure rosse
su sfondo nero, nei quali era evidente una perfetta padronanza di questo tipo di tecnica. Di recente si è compreso che i ceramisti greci dell’età classica giocavano molto sui diversi tipi di cottura (ossidante e
riducente) applicati su uno stesso vaso; per poterla controllare meglio
cuocevano un vaso per volta. Se si cercava il fondo rosso, si faceva una
prima cottura ossidante e quando questa era ultimata si dipingevano,
col pennello immerso nella barbotina, le figure; queste ultime diventavano nere con la seconda cottura in ambiente riducente. Quando il
ferro cristallizza in ematite o in magnetite si creano composti stabili,
che non cambiano subito, anche se entrano in un nuovo ambiente.
Pertanto, se il fondo del vaso era già sinterizzato in rosso (cioè se si
erano già formati cristalli di ematite), la seconda cottura riducente
non faceva in tempo a riorganizzare i cristalli per trasformarli in quelli di magnetite. Di conseguenza se la seconda cottura avveniva velocemente, non era in grado di alterare gli esiti della prima.
Con le vernici sinterizzate si otteneva un ottimo risultato estetico,
ma anche una buona impermeabilità del vaso.
100
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Dopo i greci questa tecnica passò ai romani, i quali la usarono
soprattutto per produrre vasi con rivestimenti monocromi (neri in età
repubblicana, rossi in età imperiale, arancio in età tardoimperiale).
Con la fine dell’Impero la tecnica dei rivestimenti sinterizzati è tramontata, e non è stata più reintrodotta nel Medioevo.
L’aggiunta di coperte vetrose, per rendere impermeabili i manufatti ceramici porosi, avveniva invece con applicazione al corpo ceramico di materiali che fondessero in cottura. Ciò poteva avere luogo
attraverso due procedimenti: la monocottura e la biscottatura. Il
primo consisteva nello stendere sul corpo ceramico, foggiato ed essicccato, una polvere di vetro, (precedentemente macinata) finissima, che
veniva sospesa in acqua e data a pennello o per immersione. In cottura, la polverina rimasta in superficie dopo l’assorbimento giungeva al
rammollimento. Il vetro, non avendo uno stato cristallino, non ha un
preciso punto di fusione, ma comincia ad essere molle attorno ai 500°C
(cfr. V.1.). Perciò la fluidità del vetro avveniva in superficie mentre
l’interno del vaso non aveva ancora ultimato la cottura, di conseguen za i gas che si liberavano da dentro, non trovavano in superficie vie di
sfogo, in quanto i pori della ceramica erano già impermeabilizzati dal
rivestimento. Cercavano perciò di fuoriuscire dal vetro, nel quale spesso rimanevano imprigionati, lasciando bolle, rigonfiamenti, piccoli
crateri, mentre la vetrina veniva in parte riassorbita dal corpo ceramico. Ne risultavano superfici irregolari, benché l’adesione del vetro
al corpo ceramico fosse molto alta.
Nel sistema della biscottatura, invece, il manufatto ceramico veniva cotto due volte. La prima riguardava il vaso appena essiccato e non
rivestito; con la seconda, a temperatura più bassa, l’oggetto era cotto
insieme alla polvere vetrosa del rivestimento. In questo modo non si
formavano bolle e la superficie rimaneva più regolare, perfettamente
speculare. Questa tecnica era già usata in epoca romana imperiale,
per decorare oggetti prodotti a stampo, con motivi che imitavano quelli dei vasi bronzei a sbalzo. Il colore giallo della vetrina rendeva ancora più simile il contenitore ai prodotti metallici.
Le proprietà di impermeabilizzazione del rivestimento vetroso vennero sfruttate, soprattutto in epoca postclassica, per la produzione di
pentolame da cucina, particolarmente utile nella preparazione dei cibi
liquidi.
Nel Medioevo la tecnica dell’invetriatura venne molto perfezionata, sia nel mondo bizantino, sia in Europa, ed estesa alle piastrelle da
Aurora Cagnana
101
rivestimento (cfr. II.7.). In particolare venne utilizzata per la produzione di ceramiche policrome, nelle quali la decorazione colorata, ottenuta con l’aggiunta di ossidi metallici alla vetrina, veniva valorizzata
per la presenza, tra vetrina e corpo ceramico, di un ingobbio bianco,
caolinico, applicato sull’oggetto crudo. Questo sistema era usato anche
per ottenere le ceramiche graffite, diverse dalle ingubbiate e dalle
invetriate policrome, in quanto decorate (oltre che col colore) anche
mediante incisioni praticate sull’ingobbio a crudo, prima dell’invetriatura. In entrambe i casi l’ingobbio bianco sottostante rivestiva unicamente una funzione estetica.
Le terraglie sono invece prodotti ceramici a corpo bianco, realizzato cioè con caolino e con scheletro bianco (calcite, generalmente) che
mantiene tale colore anche in seguito alla cottura. A differenza della
porcellana, caratterizzata anch’essa da corpo bianco, ma vetrificato, la
terraglia non subisce una cottura superiore ai 900°C, anche perché a
tali temperature la calcite si scomporrebbe e perderebbe il suo stato
cristallino. Di conseguenza non si raggiunge la fusione del quarzo, e il
prodotto non è impermeabile, ma dotato di un rivestimento applicato,
vetroso e trasparente, detto ‘cristallina’, che lo rende impermeabile.
La terraglia venne prodotta per la prima volta in Inghilterra, nel
1745-47, allo scopo di mettere in commercio un prodotto molto simile
alla porcellana, ma molto più a buon mercato. Inizialmente veniva
decorata con pittura a mano. Nel corso del XIX e del XX secolo, quando queste ceramiche conobbero una grande diffusione, ricevettero una
decorazione applicata a decalcomania, ottenuta con un procedimento
meccanico molto più veloce. I motivi decorativi venivano infatti realizzati su matrici e quindi stampati su fogli di carta, con pigmenti a
base metallica. La carta veniva applicata al biscotto, rivestito della
polvere della cristallina, che era poi mandato in seconda cottura, dove
bruciava, lasciando aderire al prodotto il pigmento. La terraglia è
stata utilizzata in architettura per produrre piastrelle, bianche o decorate, e per i servizi igienici.
Le ceramiche smaltate, o maioliche, sono caratterizzate dalla presenza di un rivestimento vetroso, reso opaco con l’aggiunta di ossido
di stagno nella vetrina, secondo un procedimento usato anche nella
decorazione dei metalli, soprattutto per i prodotti di oreficeria. Per
opaco si intende, in ceramologia, un corpo non trasparente, cioè che
non lascia passare la luce, anche se lucido in superficie.
102
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
La presenza di una vetrina non trasparente e bianca permetteva di
evitare la stesura dell’ingobbio sottostante, onde evidenziare bene i
colori.
Fra i prodotti opacizzanti, il più antico a essere utilizzato era l’antimoniato di calcio, costituito da granelli piccolissimi, che creavano
una nuvola bianca nel vetro.
Successivamente, già dall’età romana, ma poi soprattutto da parte
degli Arabi (a partire dal X-XI secolo) venne usato il biossido di stagno, che si trova in natura sotto forma di un minerale detto cassiteri te, oppure si poteva produrre artificialmente, surriscaldando con un
mantice lo stagno metallico, che assumeva così l’aspetto di una polvere bianca. La smaltatura è stata molto usata dagli arabi e, in Europa,
è stata introdotta nel Medioevo e si è diffusa in particolare modo a
partire dal Rinascimento, per piastrelle policrome, decorate e figurate
(cfr. II.7).
L’unico manufatto ceramico a corpo bianco e impermeabile è la por cellana. Prodotta in Cina in epoca corrispondente al I secolo d.C., era
già nota ai romani, ma è stata importata nei paesi Mediterranei in
misura maggiore a partire dal Medioevo. In Europa si è imparato a
produrla solo nel 1720, in Sassonia. Nell’architettura la porcellana è
stata usata, limitatamente ai servizi igienici, a partire dall’Ottocento.
Per la produzione della porcellana è necessario il caolino, l’unica
argilla, come si è visto, completamente priva di ferro, e che perciò
cuoce in bianco (cfr. II.2). Se era necessario aggiungere lo scheletro,
per mantenere il colore del corpo ceramico, si sceglievano soltanto
minerali bianchi, e cioè quarzo fine e feldspati, che in cinese venivano
detti petunzé. L’impermeabilità del prodotto è dovuta al fatto che esso
presenta un corpo ceramico molto duro, formato da quarzo vetrificato.
Questo minerale fonde a 1770°C, temperatura impossibile da ottenere in tutte le età preindustriali: in Europa si sono costruite molto tardi
fornaci in grado di superare i 1100°C, mentre in Cina, tramite piccoli
forni molto coibentati, si ottenevano temperature che al massimo
oscillavano fra i 1200°C e i 1400°C. Per provocare la fusione del quar zo in tali condizioni era necessaria la presenza di fondenti, costituiti
dagli alcali (sodio, potassio) contenuti nei feldspati che venivano
aggiunti allo scheletro. In presenza di tali fondenti i tetraedri di silice
si possono staccare, poiché il sodio o il potassio riescono a sostituirsi
all’ossigeno, causando la separazione tra due tetraedri, ovvero disorganizzano lo stato solido cristallino e ne provocano la fusione (cfr.
Aurora Cagnana
103
V.3.). Pertanto, sfruttando la presenza dei petunzé, nell’antica Cina si
riusciva a fondere il quarzo, che costituiva lo scheletro del caolino.
L’impermeabilità della porcellana è dunque legata alla vetrificazione
della silice, dato che il vetro è l’unico materiale assolutamente non
poroso.
Il gres è un altro tipo di manufatto ceramico impermeabile, realizzato però con argilla alluvionale, cioè colorata dalla presenza di ossidi
metallici. Analogamente alla porcellana semivetrifica in cottura, perché il manufatto viene foggiato con un’argilla contenente anche elementi fondenti (sodio, potassio, o calcio); la loro presenza permette
così la fusione del quarzo già a 900°-1000°C, secondo un processo che
viene appunto definito greissificazione.
I primi, in Europa, a sfruttare questo fenomeno furono i Paesi
Bassi, la penisola scandinava, e soprattutto le città baltiche della lega
anseatica. In queste regioni la produzione del grés prese avvio già nel
bassomedioevo; in età moderna tale sistema venne usato anche per
produrre piastrelle colorate da pavimento.
La greissificazione dei prodotti ceramici poteva avvenire anche
non intenzionalmente; non di rado, ad esempio, si osserva nelle murature la presenza di mattoni parzialmente vetrificati. Evidentemente
sono stati cotti eccessivamente, fino a temperature tali da raggiungere la vetrificazione della silice. Ciò li ha resi più duri e impermeabili,
e pertanto particolarmente adatti a essere impiegati nelle cisterne o
nelle pavimentazioni stradali. È interessante ricordare come nei documenti scritti genovesi del XVI e XVII secolo ricorra l’espressione “mat toni da carroggio”, (cioé ‘da vicolo’) che con ogni probabilità si riferisce
proprio a laterizi greissificati, (forse non intenzionalmente) ma
comunque resi particolarmente resistenti e adatti alle pavimentazioni stradali.
7. I materiali ceramici usati nell’architettura
Le proprietà plastiche dell’argilla erano certamente conosciute già
nel Paleolitico, quando si iniziarono a fabbricare i primi manufatti,
ma dovettero trascorrere diversi millenni prima che la produzione di
oggetti ceramici si estendesse dall’ambito domestico all’industria edilizia; le più lontane testimonianze sembrano risalire alle civiltà della
Mesopotamia e dell’Egitto.
104
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Nella grande varietà di manufatti ceramici usati, nel corso dei
secoli, come materiali da costruzione, occorre fare una distinzione fra
quelli prodotti per scopi indipendenti e il cui impiego nell’architettura
è di carattere secondario, anche se tutt’altro che occasionale, e quelli
destinati esclusivamente per l’edilizia e utilizzati su scala tanto vasta
da aver alimentato un fiorente mercato manifatturiero, sottoposto al
rispetto di precise normative emesse dalle autorità pubbliche, come
nel caso dei mattoni.
Rientrano fra i manufatti ceramici impiegati nell’architettura per
usi secondari le anfore da trasporto romane, che dal punto di vista tecnologico sono classificabili fra i prodotti a corpo colorato, poroso, privi
di rivestimento o, al massimo, impermeabilizzati con un ingobbio
argilloso. A partire dalla tarda antichità esse sono state utilizzate
ampiamente per le costruzioni di volte. L’impiego di tali contenitori,
che dopo essere svuotati delle derrate alimentari diventavano inutili,
risultava economicamente vantaggioso poiché costituiva una sorta di
riciclaggio di rifiuti che permetteva di evitare produzioni apposite di
materiale da costruzione. D’altro canto le anfore ben si prestavano,
per la forma cilindrica e per la vuota cavità interna, all’utilizzo per
costruzione di volte, offrendo il duplice vantaggio di essere materiali
resistenti e al tempo stesso leggeri. Fra i diversi esempi noti nell’ambito dell’architettura tardoantica dell’Impero d’Occidente è molto interessante, per il buono stato di conservazione, quello del sacello milanese di San Simpliciano, con una copertura costituita da anfore poste
a strati ora perpendicolari, ora paralleli alla volta, annegate in abbondante malta.
Un altro fenomeno di utilizzo secondario di manufatti ceramici è
costituito dall’impiego, a scopi decorativi, di grandi piatti da mensa,
rivestiti di coperte vivacemente colorate, che venivano collocati sulle
superfici murarie dei principali monumenti romanici dell’Italia centro-settentrionale e della Sardegna. Lo studio di questi oggetti, che
vengono chiamati “bacini”, utilizzando la definizione che ne diede il
primo studioso che se ne occupò, alla metà del XVIII secolo, ha dimostrato, ormai da anni, la straordinaria ricchezza dei motivi decorativi,
delle tecniche, e la varietà dei circuiti di approvvigionamento. Roma,
Pavia, Bologna e Pisa, sono i centri più ricchi di tali testimonianze, e
proprio in quest’ultima città, nel Museo Nazionale di San Matteo, si
conserva la più vasta raccolta di bacini, formata da oltre 600 esemplari, realizzati in ceramiche invetriate, graffite, smaltate, uscite da
botteghe artigiane di tutto il Mediterraneo, e risalenti a un arco cro-
Aurora Cagnana
105
41- L’uso delle anfore
nella copertura del
sacello milanese di San
Simpliciano (sec. V
d.C.)(da BOCCHIO 1990)
42-Bacini ceramici inseriti nella muratura della chiesa di S.Martino a
Pisa (da BERTI, TONGIORGI 1981)
106
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
nologico compreso fra X e XVI secolo. I vari metodi di inserimento
nella muratura (senza alcun dubbio contemporanei alla costruzione)
sono stati studiati in occasione della rimozione, attuata per scopi con servativi.
Un caso di studio particolarmente interessante è rappresentato
dalla chiesa duecentesca di San Romano di Lucca, dove è stata evidenziata con precisione la tecnica di inserimento: essa prevedeva un
ancoraggio dei ‘bacini’ tramite legatura, attorno al piede, di una cordicella in cotone, che è stata in parte ritrovata; tale legamento permetteva di fissare il vaso ad un mattone interno alla muratura.
La maggior parte dei manufatti ceramici che interessano il costruito è stata però realizzata appositamente per essere utilizzata negli
edifici, sia nelle strutture, sia nelle decorazioni interne o esterne.
La produzione più vasta è quella dei laterizi destinati alle murature, agli archi, alle volte, agli impianti idrici, alle coperture, alle pavimentazioni.
I primi mattoni (sovente segnati con un marchio o un’iscrizione)
vennero realizzati, già nel 3000 a.C., presso le civiltà urbane del
medio-oriente, anche se il loro impiego era marginale rispetto a quello dell’argilla cruda e limitato alle parti degli edifici che richiedevano
maggior protezione (rivestimenti, canalizzazioni, bacini).
Anche nell’antica Grecia la produzione principale era destinata
alle coperture: tegole (keramìs) e coprigiunti da porre sul colmo dei
tetti (kaluptér). Documentate fin dall’epoca arcaica in due diversi tipi
(corinzio e laconico) tegole e coprigiunti dovevano essere commerciati
attivamente, se negli scavi dell’agorà di Atene, si è rinvenuto un
modello destinato al controllo delle dimensioni dei pezzi da fornire ai
cantieri, che erano venduti a numero, come provano molti testi epigrafici. Decisamente più scarse sono invece le testimonianze dell’impiego di mattoni, documentati sporadicamente e solo a partire dall’età
ellenistica, come nel caso della produzione di laterizi bollati attestata
nella colonia focese di Velia.
Anche nell’architettura romana di età repubblicana l’impiego di
laterizi fu indirizzato quasi esclusivamente alla realizzazione delle
tegole o delle parti ornamentali dei tetti. È significativo che Vitruvio
dedichi un intero capitolo alle strutture in argilla e non faccia riferimento ai mattoni, ma solo alle tegole (De Arch. II, 8), delle quali consiglia la riutilizzazione nei muri, secondo un sistema ampiamente
attestato dall’archeologia. È dopo Augusto e soprattutto dall’età nero-
Aurora Cagnana
107
niana che si sviluppa una manifattura laterizia su larga scala, finalizzata a realizzare intere opere portanti. Da questo momento in poi
gli edifici in mattoni sono destinati a moltiplicarsi, in molte regioni
dell’Impero Romano. Realizzati in argilla alluvionale, porosa, priva di
rivestimento, i mattoni romani erano cotti in ottime fornaci, spesso
(anche se non sempre) ben distinte da quelle per la produzione di vasi.
Anche se il modulo rettangolare non era sconosciuto e se tutt’altro
che rari erano i pezzi triangolari o circolari, quelli quadrati erano decisamente prevalenti e le loro misure corrispondevano a multipli o sottomultipli del ‘piede’; fra le pezzature più diffuse erano il pedale (col
lato di un piede, cioè cm 29,6 X 29,6 ) il bipedale (col lato di due piedi,
cioè cm 59,2 X 59,2), il sesquipedale (col lato di un piede e mezzo, cioè
43- Le diverse pezzature dei laterizi romani, caratterizzati dalla generale
adozione del modulo quadrato (da ADAM 1989)
108
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
cm 44,4 X 44,4) e il bessale (col lato di due terzi di piede, cioè cm 19,7
X 19,7). La forma quadrata rendeva necessaria la posa in opera con
due mani (e talora richiedeva anche due operai) per ciascun mattone;
in compenso le grandi dimensioni consentivano di usare i laterizi
come elementi passanti da parte a parte nel muro e perciò tali da
“legare” le strutture troppo disomogenee, come quelle in blocchetti
lapidei, dove i lati esterni erano generalmente scollegati rispetto al
nucleo interno.
In età imperiale una vasta produzione di manufatti per l’edilizia in
ceramica colorata, porosa, priva di rivestimento, è ben attestata sia da
resti di edifici messi in luce dagli scavi, sia dall’architettura sopravvissuta. In tale epoca l’uso dei laterizi si estende ad altre parti degli
edifici, come le pavimentazioni e le tubature, in virtù delle proprietà
di tenuta idraulica e di resistenza termica dei materiali ceramici.
Assai frequenti sono i resti di tubature, definite fistulae, incassate
nelle pareti e destinate allo smaltimento delle acque. Per gli impianti
termali era invece in uso un sistema di intercapedini, poste sotto i
pavimenti, che servivano a far circolare l’aria calda e che erano sostenute da pilastrini realizzati in apposite mattonelle (quadrate o circolari) dette suspensurae.
L’uso di imprimere iscrizioni sui laterizi, dopo la foggiatura e
prima della cottura, è attestato, con maggiore o minore intensità, dal
I secolo a.C. al VI sec. d.C. Lo studio delle migliaia di tipi di ‘bolli’noti,
avviato già dall’Ottocento, costituisce un campo d’indagine di notevole importanza per comprendere l’organizzazione della produzione, che
era basata su officine (figlinae) gestite da officinatores (imprenditori,
per lo più di condizione libera) e da domini (proprietari delle cave di
argilla o, secondo alcuni studiosi, anche degli impianti). Molte figline
appartenevano al fisco imperiale o erano proprietà personale degli
imperatori, che sovente figurano come domini nei bolli.
Con i secoli dell’Altomedioevo la produzione di laterizi subisce un
vistoso tracollo: l’archeologia dimostra infatti che anche gli edifici più
importanti venivano sovente realizzati in mattoni o tegole di recupero, provenienti dal crollo o dallo smantellamento di edifici più antichi.
Alle manifatture in impianti permanenti, saldamente regolamentate
dalle autorità pubbliche, si sostituirono rare produzioni occasionali,
spesso legate a cantieri monastici; ne sono esempio i mattoni altomedievali fabbricati nei cenobi di Novalesa (Torino), Montecassino
(Frosinone), Farfa (Rieti), San Vincenzo al Volturno (Isernia), casi
Aurora Cagnana
109
piuttosto isolati all’interno di un panorama dominato, anche nelle
aree urbane, dalle pratiche di recupero.
A partire dalla prima metà del XII secolo si registra, in diverse
città europee, la ripresa, più o meno simultanea, di produzioni sistematiche di laterizi. Per i caratteri tecnologici i mattoni medievali non
si differenziano da quelli romani, se si eccettua il fatto che non sono
più segnati da bolli.
Importanti differenze riguardano invece le dimensioni: i laterizi
medievali sembrano infatti avere definitivamente abbandonato il
modulo quadrato di epoca classica, per assumere quello nuovo, rettangolare, più piccolo e perciò tale da consentire il sollevamento di un
pezzo con una sola mano. Recenti indagini archeologiche hanno provato che le misure di cm 30 x 15 x 7,5 circa (cioè un piede x mezzo
piede x un quarto di piede) sembrano accomunare le prime produzioni di mattoni medievali anche in aree molto lontane fra loro (da
44- Lapide con indicazione in scala 1:1 delle misure imposte ai produttori
di mattoni dal comune di Assisi (1349)
110
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Genova a Savona, a Milano, a Venezia, alla Lucchesia, e persino alle
città tedesche come Lubecca). Le ragioni di questa iniziale corrispondenza delle misure non sono ancora del tutto note, ma è probabile che
siano da ricercare in una uniformità legislativa (e quindi metrologica)
che affonderebbe le sue radici nell’amministrazione imperiale, oppure
nell’universalismo dei cenobi monastici. Proprio lo studio delle dimensioni dei laterizi costituisce, da diversi decenni, un campo d’indagine
assai importante per l’archeologia medievale e postmedievale, sia per
le notevoli ripercussioni che tali ricerche hanno in ambito storico-economico, sia perché, in molti casi, l’esame delle misure dei mattoni si è
rivelato un ottimo strumento di datazione per l’architettura. La men siocronologia, o datazione dei mattoni in base alle dimensioni, si basa
infatti sull’analisi matematica delle misure dei laterizi, supportata
dal confronto con la documentazione scritta relativa alle norme che ne
regolamentavano la produzione e lo smercio. Poiché i mattoni erano
venduti a numero, le autorità pubbliche prescrivevano le misure alle
quali i fornaciai dovevano attenersi e in base alle quali venivano effettuati severi controlli. Oltre che da fonti archivistiche questa prassi è
documentata dai numerosi esempi, ancora conservati, di modelli in
45- Rappresentazione assonometrica della diminuzione delle misure dei
mattoni genovesi dal XII al XIX secolo (da MANNONI , MILANESE 1988)
Aurora Cagnana
111
pietra che venivano apposti sui muri dei palazzi pubblici e che recavano, in scala reale, le sagome e le misure che dovevano avere le cassette per la foggiatura dei laterizi messi in commercio. La validità di
tali norme era limitata ai confini dei vari stati territoriali, e tale rimase fino alla fine dell’Antico Regime.
Tuttavia, se si esaminano le dimensioni dei mattoni di una muratura omogenea, provenienti cioè da un’unica fornitura, si riscontra
un notevole divario di dimensioni (nello spessore, nella larghezza,
nella lunghezza) che possono presentare differenze anche superiori a
un centimetro. Ciò è dovuto a vari fattori, fra i quali il più importante è il diverso ritiro dell’argilla, durante la cottura, che causa le differenze visibili nei prodotti finiti, provenienti da un’unica infornata.
Tali differenze non potevano né essere previste né essere eliminate
dai fornaciai. La lettura dei testi legislativi dimostra come vi fosse
una precisa conoscenza di questo fenomeno: alcuni capitoli della corporazione dei produttori di mattoni di Savona del 1598, ad esempio,
fanno riferimento alle frodi commesse ‘nella bontà’, ossia in buona
fede, e sembrano riferirsi proprio ai problemi del ritiro dell’argilla
durante la cottura.
È stato provato che se si dispongono su un grafico i valori delle
dimensioni dei mattoni di un’unica produzione, le differenze di misure dei singoli pezzi tendono a formare una curva ‘a campana’, o ‘gaussiana’ che è appunto caratteristica delle variazioni che non dipendono
da interventi volontari, ma dal caso. Il vertice della curva, corrispondente alla media,
è la misura cui tendevano i produttori,
quella imposta dalla
legge e alla quale il
fabbricante cercava di
attenersi, nonostante
le piccole variazioni,
indipendenti dalla sua
volontà.
Lo studio delle
46- La curva a campana, o ‘gaussiana’, che
dimensioni
dei mattoni
rappresenta le piccole differenze di misure
ha
inoltre
provato
che
riscontrabili su mattoni coevi, dovute a
tali medie tendono a
variazioni casuali
112
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
ridursi continuamente dal XII al XVIII secolo. Questa riduzione è più o
meno accentuata e più o meno continua a seconda delle diverse città e
dipende da motivi di carattere economico. A Genova, per esempio, si è
registrata una diminuzione piuttosto drastica delle misure nei momenti di più intensa attività costruttiva (fra XII e inizi XIV secolo e poi fra
XVI e XVII secolo) e una riduzione più graduale nei secoli di maggiore
stasi dell’attività edilizia. È evidente che tale riduzione delle dimensioni è da ricondurre non più a fenomeni casuali, ma a cause volontarie,
legate all’andamento del mercato edilizio e che operavano molto lentamente nel tempo, mascherate dalle variazioni involontarie. Tali diminuzioni volute sono perciò diverse da città a città, da stato a stato e
determinano un notevole particolarismo nelle misure dei laterizi,
(esclusa, come si è visto, la fase iniziale, dove il panorama pare assai
omogeneo). In Italia a una vera e propria uniformità delle misure dei
mattoni si giunse solo nel secolo scorso, parallelamente al processo di
unificazione nazionale, che portò all’introduzione dei mattoni ‘UNI’.
Accanto alla produzione di mattoni, anche l’uso di tegole dai bordi
rialzati, e dei relativi coprigiunto, riprese su larga scala nel Medioevo,
soprattutto nelle città. Tuttavia in alcune aree montane, come
l’Appennino ligure, o l’arco alpino, l’uso delle tegole sembra essere cessato con la caduta dell’Impero Romano; successivamente in queste
zone si generalizzò l’impiego di lastre da copertura in pietra scistosa
(filladi, ardesie, ecc.), più abbondanti in loco e più facili da produrre e
da trasportare.
Le mattonelle da pavimento, conosciute già in epoca romana, vennero anch’esse prodotte diffusamente a partire dall’età bassomedievale. Spesso, quando una pavimentazione usurata doveva essere rifatta,
non veniva rimossa, ma vi si sovrapponeva direttamente quella nuova.
Nelle indagini archeologiche effettuate a Genova in occasione dei
lavori per il recupero del Palazzo Ducale, ad esempio, si sono rilevate,
in diversi ambienti, più pavimentazioni sovrapposte, frutto di successivi rifacimenti, avvenuti nel corso del tempo, che hanno conservato
un’ampia casistica di laterizi. Le cosiddette “chiappelle”, mattonelle
rettangolari fabbricate in ceramica a corpo colorato, poroso, senza
coperta, appositamente per pavimenti, sono state rinvenute soprattutto nei fondi, nelle cantine, nei vani di servizio. Esse presentavano
dimensioni inferiori rispetto ai coevi mattoni e soprattutto spessori
molto bassi (cm 2,0-2,5), che ne riducevano notevolmente la resisten-
Aurora Cagnana
113
za all’urto. È forse per questo che non compaiono mai nelle pavimentazioni degli esterni, dove si usavano invece i mattoni e soprattutto
quelli più refrattari e duri, come si è visto.
Nei piani nobili si è notata una maggiore ricercatezza delle pavimentazioni, ottenuta intervallando mattonelle ottagonali con laterizi più piccoli, quadrati, talvolta rivestiti di coperte colorate in smalto verde, blu, o
nero. L’impiego di materiale ceramico per i pavimenti era spesso preferito al marmo poiché offriva un maggiore isolamento termico.
Anche l’uso di tubature incassate nei muri riprende in piena età
medievale, quando, soprattutto nelle aree urbane, vengono prodotte
appositamente a questo scopo condutture in ceramica a corpo colorato, poroso, impermeabilizzate con una coperta costituita da vetrina
piombifera, stesa solo sulla superficie interna e di colore verde o
bruno. A Genova questo sistema rimane in uso anche in età moderna,
quando si moltiplica l’impiego delle tubature invetriate, definite trom bette nei documenti d’archivio e costituite da varie parti, incastrabili
fra loro, grazie alle misure decrescenti del diametro.
Accanto ai diversi tipi di laterizi finalizzati alle parti strutturali,
fin qui descritti, non minore importanza riveste la produzione di
manufatti ceramici destinati alle decorazioni dell’architettura, che
hanno una storia altrettanto antica.
Fregi di terrecotte figurate ornavano i principali edifici greci ed
etruschi fin dall’epoca arcaica. Singole lastre foggiate a matrice venivano applicate con chiodi in ferro alle travature e avevano il duplice
scopo di proteggere le strutture lignee del tetto e di costituire lunghe
fasce decorate. Lo studio di alcuni contesti di terrecotte architettoniche dell’Etruria ha dimostrato l’uso di due tecniche artistiche: una
detta ‘a ritaglio’ (usata in particolare per gli acroteri di epoca arcaica)
che consisteva nel modellare i pezzi a crudo uno ad uno, utilizzando
un coltello in modo da praticare dei motivi a traforo; un’altra tecnica,
più veloce, era invece basata sull’uso di matrici in ceramica. Dopo l’essiccazione i pezzi venivano rivestiti con un ingobbio di argilla depurata e diluita, stesa a pennello e quindi sovradipinti in bianco, (con caolino), in rosso, in marroncino, in nero (con argille ricche di ferro) e
quindi mandati in cottura.
Anche le statue acroteriali collocate sul colmo dei tetti venivano
ottenute con l’uso di stampi, erano svuotate internamente in modo da
essere più leggere. La produzione di ceramiche per la decorazione
architettonica (o coroplastica) di tradizione etrusca continuò per tutta
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
l’età romana repubblicana e scomparve a partire dall’età augustea per
essere sostituita dall’uso massiccio di marmi e pietre colorate.
Un rinnovato impiego di laterizi decorati con motivi a rilievo si
registra a partire dall’età tardoantica a Cartagine e nell’area nordafricana, da dove sembra essersi diffuso alla Spagna visigota e alla
Gallia merovingia, verosimilmente attraverso le isole Baleari. Questi
mattoni, murati nelle pareti interne o esterne degli edifici, erano decorati con motivi geometrici, vegetali, figurati, oppure con simboli cristiani; presentano una forma quadrangolare o rettangolare e misure
ancora basate sul modulo romano. La loro produzione continua per
tutto l’Altomedioevo ed è ampiamente attestata anche in Italia, come
provano, ad esempio, i celebri casi di San Salvatore di Brescia, di
Cividale, di Canosa di Puglia. Benché non manchino i prodotti sicuramente ottenuti a stampo, è però certo che, in molti casi, le decorazioni venivano scolpite a cotto, spesso utilizzando mattoni romani di
recupero, come è stato provato dalle differenze e irregolarità riscontrate in occasione di specifiche analisi archeologiche. Le ragioni di una
tale pratica vanno ricercate, ancora una volta, nel panorama storico
ed economico dell’età altomedievale, nella quale tutte le produzioni
manifatturiere conobbero un drastico ridimensionamento e la ‘cultura
del reimpiego’ si affermò sotto varie forme.
Col XIII e XIV secolo si registra un recupero della produzione di
terrecotte ornamentali, ottenute a stampo entro madreforme negative, generalmente realizzate in ceramica, ma talora anche in gesso.
Con l’affermarsi del gusto rinascimentale tale produzione conobbe
una diffusione maggiore, soprattutto in area padana e toscana; nelle
decorazioni vennero introdotti motivi nuovi (ovuli, perline, dentelli,
candelabre), ispirati al mondo classico. Cornici ornamentali erano
spesso composte mediante l’assemblaggio di elementi modulari prodotti serialmente; stampi particolari permettevano di realizzare
balaustre e mensole con modanature complesse. Non sempre tali decorazioni mantenevano il colore rosso vivo dell’argilla: sono documentati, infatti, casi in cui sulla superficie delle terracotte è stata stesa una
tinteggiatura grigia, allo scopo di imitare il materiale lapideo.
Accanto alla tecnica a stampo ne esisteva anche un’altra, effettuata a crudo sui laterizi essiccati, che venivano graffiti e scolpiti sulla
base di precisi disegni preparatori. Doveva essere particolarmente
usata nella produzione dei mattoni destinati agli archi, dove l’andamento del motivo decorativo veniva stabilito, sui pezzi montati a
Aurora Cagnana
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terra, attraverso linee guida segnate col compasso. Un caso simile è
stato documentato, attraverso una meticolosa analisi archeologica, sul
portale in cotto della chiesa di San Bartolomeo di Bologna.
Un altro gruppo di manufatti ceramici prodotti appositamente per
l’edilizia, a scopi decorativi, è quello delle mattonelle rivestite da
coperte vetrose o smaltate. Già conosciute nell’architettura dell’antico
oriente (si pensi ai celebri mattoni invetriati della strada processionale di Babilonia, della fine del VII secolo a.C.) le mattonelle rivestite da
coperte vetrose conobbero una rinnovata importanza nel Medioevo,
quando vennero utilizzate sia per i rivestimenti parietali interni o
esterni, sia per le pavimentazioni, sostituendo i mosaici in pietra e
marmo, decorati a motivi geometrici, usati nei secoli precedenti.
Si tratta di prodotti nei quali la foggiatura del corpo ceramico
richiama metodi propri della produzione dei laterizi (uso di stampi),
mentre le coperte vetrose sono applicate secondo gli stessi procedimenti usati per il vasellame.
Nel Mediterraneo orientale la produzione di laterizi rivestiti prende avvio con la fine del IX-inizi del X secolo. A da partire tale periodo
le regioni del mondo bizantino iniziano a produrre mattonelle e placche ornamentali con invetriature moncrome o policrome, mentre nel
mondo arabo si dà avvio alla produzione di manufatti smaltati.
Nell’Europa nord-occidentale mattonelle invetriate policrome vennero usate, a partire dal XII secolo, soprattutto negli edifici religiosi;
nel corso del XIII e del XIV secolo il loro uso si estese anche ai castelli e alle residenze laiche. Più rare, soprattutto all’inizio, erano invece
le mattonelle smaltate. Una ricca produzione istoriata è attestata nel
XIV secolo nella sontuosa residenza papale di Avignone.
Recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce, nel sottosuolo di Marsiglia, i resti di fornaci ceramiche che, oltre a vasellame
domestico, producevano anche mattonelle in maiolica, decorate con
motivi a croce, forse copiati da analoghi prodotti ingobbiati e invetriati del nord della Francia. Erano state fabbricate in serie, modellando
l’argilla con forme lignee quadrangolari prive del fondo, e quindi rifinite (una volta essiccate) con un coltello che ne ritagliava i bordi in
modo da ottenere angoli fortemente inclinati, utili per facilitare la
posa in opera. La vera difficoltà tecnica era però rappresentata dal
rivestimento in smalto (applicato in seconda cottura), con decorazione
dipinta in verde (ramina) e bruno (manganese).
In Italia, se si escludono alcuni casi isolati di laterizi rivestiti data-
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
bili al XII secolo, la diffusione di questi prodotti comincia ad essere più
significativa a partire dalla prima metà del XIII secolo. Piastrelle
semicircolari rivestite da una coperta verde ornano i campanili duecenteschi di San Francesco e Santa Chiara ad Assisi; sempre in
Umbria la facciata della chiesa di San Francesco di Perugia è decorata da losanghe bicolori bianco-verdi.
Risalgono invece ai primi decenni del XIV secolo i quadrelli monocromi blu posti nel secondo ordine del campanile di Giotto a Firenze,
per i quali non è ancora stata chiarita la natura del colorante utilizzato, anche se pare da escludersi l’ossido di cobalto.
Fra gli esempi più celebri è la serie delle 27 formelle ancora collocate
nelle murature esterne del duomo di Lucca; si tratta di elementi di forma
romboidale, con lato di cm 28 circa, realizzate in ‘maiolica arcaica’, cioè
rivestite di uno smalto bianco e dipinte con pigmenti bruno-manganese
e verde-ramina. Queste ceramiche, databili ai primi decenni del XIV
secolo, presentano decorazioni geometriche, ma anche istoriate, copiate
sia dai motivi intarsiati attestati nel duomo stesso, sia desunti dall’area
francese meridionale, come suggerirebbero alcune somiglianze con i
pavimenti avignonesi (più sopra citati) ad essi contemporanei.
Un interessante contesto di mattonelle smaltate destinate ad
ambienti interni è stato rinvenuto (in giacitura secondaria) negli scavi
condotti nell’abbazia benedettina di San Fruttuoso di Camogli (Genova).
Si tratta di 170 piastrelle a forma di croce e di stella a otto punte, con
smalto monocromo (bianco, verde ramina, bruno manganese), databili al
XIV secolo, che dovevano incastrarsi a formare una composizione geometrica e forse erano state impiegate in un pavimento. È interessante
osservare come la forma sia chiaramente derivata da esemplari di area
islamica, mentre l’impasto del corpo ceramico e i colori delle coperte provano che i pezzi sono usciti da botteghe liguri, forse savonesi.
In tutti i casi fin qui descritti si tratta di manufatti di lusso, prodotti su committenza specifica, generalmente di ambito ecclesiastico, e
destinati a monumenti religiosi o comunque a raffinate élites sociali.
Meno rare erano invece le mattonelle quadrate o rettangolari,
rivestite da coperte monocrome, prodotte nel XIV e XV secolo in varie
regioni italiane e spesso definite ‘quadretti’.’
Nei secoli finali del Medioevo la Spagna araba divenne la maggiore
produttrice di piastrelle smaltate, (dette azulejos), che venivano distribuite in tutte le maggiori città Mediterranee: a Genova, ad esempio, ne
veniva importato un tipo assai elegante, con decorazione a intreccio realizzata in bianco, su fondo blu, caratteristica di botteghe valenzane della
Aurora Cagnana
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47- Piastrelle a forma di croce e stella (sec. XIII) rinvenute negli scavi del
monastero di San Fruttuoso di Camogli (Genova)
metà del XV secolo. È significativo il fatto che in questa città italiana le
piastrelle da rivestimento in maiolica decorata vengano definite ‘laggio ni’, con un termine derivato dall’arabo ‘zullaygiun’, che significa appunto mattonella. I genovesi non solo le importavano per consumo interno,
ma, nel XV secolo, dovevano essere fra i principali mediatori commerciali delle ceramiche spagnole, come attestano, ad esempio, i registri
portuali di Southampton (Inghilterra), che menzionano una “gene pots”
(ceramica genovese), che era probabilmente maiolica spagnola. Fra la
fine del XV e la prima metà del XVI secolo veniva importato dalla
Spagna un tipo di laggioni eseguiti con una tecnica definita ‘a cuenca’.
Essa consisteva nel riprodurre a stampo, sulle piastrelle ancora crude, i
motivi decorativi (geometrici o vegetali) i contorni dei quali rimanevano
in rilievo, mentre la parte centrale si infossava, formando, appunto,
delle ‘conchette’. Dopo la prima cottura ogni cavità riceveva uno smalto
di colore diverso (bianco, azzurro, verde, bruno, giallo); in seguito alla
seconda cottura si otteneva così una decorazione a rilievo, policroma. Si
trattava comunque di una produzione piuttosto seriale, che consentiva
di ottenere grandi quantità di merce con una certa velocità.
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ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
48- Laggioni policromi decorati ‘a cuenca’, di produzione spagnola
(sec.XVI), rinvenuti a Genova
A partire dalla fine del XV secolo la tecnica di produzione delle
maioliche italiane conobbe profonde innovazioni: il rivestimento di
smalto divenne più spesso e migliorò nel colore e nella qualità; tale
cambiamento era dovuto sia all’aumento della percentuale di stagno,
sia all’introduzione di fornaci dette ‘a muffola’, nelle quali i manufatti venivano protetti dal contatto diretto col fumo. Queste innovazioni
tecnologiche, oltre ai nuovi motivi decorativi, distinguono le maioliche
rinascimentali da quelle medievali; le prime ad adottare i nuovi sistemi furono le manifatture dell’Italia centrale (Toscana, Marche,
Umbria) e della val Padana (Faenza).
Una interessante produzione di laggioni smaltati di tipo rinascimentale è attestata a Genova a partire dagli anni 1530-40, in seguito
a scavi archeologici condotti in un quartiere allora suburbano (via San
Vincenzo). In tale zona si sono evidenziati i resti di una cava d’argilla
e un curioso ‘tappeto’ di piastrelle rinascimentali, tutte realizzate con
lo stesso disegno, ma con diverse tonalità di colore. La loro sistemazione (senza uso di malta) ha fatto pensare a un campionario, oppure a un
Aurora Cagnana
119
reimpiego, per un pavimento posticcio, di ‘prove’ di cottura scartate.
Ciò che è certo è che si tratta della più antica traccia di una produzione genovese a ‘smalto pesante’, cioè di tipo rinascimentale. È assai probabile che l’impianto di questa manifattura sia da collegare all’insediamento, avvenuto proprio all’inizio del XVI secolo (stando alle fonti
scritte), dei Da Pesaro, famiglia di ceramisti marchigiani, i quali
avrebbero introdotto a Genova le innovazioni tecniche della maiolica
rinascimentale. Occorre però notare che i motivi decorativi dipinti sullo
smalto non derivano dal repertorio dell’Italia centrale, ma imitano prodotti arabi, turchi, persiani, ripresi a loro volta dalle porcellane cinesi.
Evidentemente la scelta della decorazione, con tipici motivi mediterranei, era stata imposta dai committenti (verosimilmente ricchi mercanti) in vista di uno smercio di tali prodotti a vasto raggio. Questa ipotesi risulta confermata dal ritrovamento di simili manufatti in Egitto, in
Spagna (dove le produzioni locali erano decadute dopo la ‘riconquista
cattolica’) e persino oltre Atlantico, a Città del Messico.
8. Principali cause di degrado
Le costruzioni in argilla cruda sono soggette a deterioramento da
parte delle acque piovane; in primo luogo la pioggia battente può causare danni meccanici, dilavare e portare via lo strato superficiale (quello impermeabile), mettendo a nudo la parte più interna. Se però le
piogge sono modeste e senza venti, questo danno non è particolarmente veloce; pertanto, se il muro è stato costruito con uno spessore maggiore del necessario, oppure se ha un buon intonaco, può durare molto
a lungo, come si è verificato nello studio dell’architettura in terra dell’alessandrino (cfr. II.4). La presenza della ghiaia all’interno dell’argilla consente di ridurre l’eccessiva plasticità e di resistere più a lungo
all’erosione dell’acqua battente, rallentando il degrado superficiale.
I laterizi sono invece soggetti, talvolta, a fenomeni di efflorescenza
(cfr. I.7.) dovuti all’impiego di argille provenienti da depositi marini o
lacustri, ricche di sostanze solfuree provenienti da residui organici che,
sotto forma di solfuri di ferro (piriti) rimangono nelle argille. Durante la
cottura i solfuri si ossidano, lo zolfo si lega al calcio e forma solfato di calcio. In presenza di acque circolanti all’interno dei muri, il solfato viene
trasportato in soluzione e depositato poi in superficie con la fuoriuscita.
I laterizi sono inoltre soggetti allo stesso tipo di degrado che interessa le rocce silicatiche porose.
120
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
I rivestimenti vetrosi e le decorazioni a base di ossidi metallici
sopradipinte, invece, offrono il grande vantaggio di non alterarsi mai
nel tempo. Le piastrelle policrome sono soggette a usure meccaniche,
ma non ad alterazione dei loro colori originali, che possono durare,
praticamente intatti, per molti secoli.
9. Nota bibliografica
Sulla formazione dei minerali argillosi e sui caratteri delle argille
molte notizie si trovano nel volume di CUOMO DI CAPRIO 1985, dove si
esaminano accuratamente anche i sistemi tradizionali di preparazione e di foggiatura. Su questi ultimi aspetti si veda inoltre il manuale
di CARUSO 1983, che contiene anche molti esempi di ‘archeologia sperimentale’ sulle varie tecniche di lavorazione dell’argilla. Le principali fasi del ciclo di produzione dei manufatti ceramici sono inoltre
descritte nel volume di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996 (pp. 78-88).
Per le costruzioni in argilla cruda si segnala l’opera curata da
LASFARGUES 1985, che contiene gli atti di un importante convegno tenutosi a Lione nel 1983 e incentrato sull’architettura in terra e legno
(soprattutto del Mediterraneo occidentale) dalla protostoria al
Medioevo, con particolare attenzione all’età romana. All’interno del
volume si segnala, in particolare, il saggio di ARCELIN, BUCHSENSCHUTZ
1985, dedicato a un’esauriente disamina delle fonti antiche che menzionano o descrivono in vario modo le costruzioni in terra e legno.
Sull’uso dell’argilla cruda nell’architettura greca antica è ancora molto
valida la già citata opera di MARTIN 1965 (pp. 46-63) che pone a confronto dati epigrafici e archeologici. Per quanto concerne
l’Altomedioevo, interessanti esempi di case di terra di area abruzzese
vengono esaminati nel saggio di S TAFFA 1994, (corredato di un’utile
bibliografia e arricchito da confronti etnografici); case realizzate in
terra vengono inoltre considerate nella classificazione di FRONZA,
VALENTI 1994 (tipo AVIII). Per le case di terra di età medievale si veda
PESEZ 1985, con un succinto ma essenziale quadro della realtà europea;
interessanti esempi documentati in area toscana attraverso l’archeologia sono trattati nel saggio di FRANCOVICH, GELICHI, PARENTI 1980; mentre i risultati delle ricerche sulle case di terra dell’alessandrino sono
raccolti in PAGELLA POGGIO 1992. Sull’utilizzo del pisé in età medievale
e postmedievale in area toscana cfr. inoltre PARENTI 1995, p. 378.
Alla cottura della ceramica è dedicato ampio spazio nel citato volu-
Aurora Cagnana
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me di CUOMO DI CAPRIO 1985 (pp. 125-149) e alla stessa Autrice si deve
un’esaustiva tipologia delle fornaci per mattoni e vasellame in area
italiana, dalla preistoria a tutta l’epoca romana (cfr. CUOMO DI CAPRIO
1971/72). Per la classificazione tecnologica dei prodotti ceramici è
sempre fondamentale la lettura del volume di MANNONI 1975; il testo
di ALIPRANDI, MILANESE 1986, di carattere più divulgativo, contiene
comunque essenziali informazioni sui caratteri tecnologici e sulla sto ria delle principali categorie di prodotti ceramici dall’antichità all’epoca contemporanea.
Sull’uso dei bacini ceramici nell’architettura esiste una vastissima
bibliografia, ci si limita pertanto a segnalare solo le opere principali: per
la situazione pisana BERTI, TONGIORGI 1981 con il catalogo di tutti i bacini e BERTI 1997, per una breve guida al Museo di San Matteo. Molti articoli si trovano in due Convegni svoltisi, a distanza di tempo, ad Albisola
e dedeicati, il primo, all’impiego della ceramica nell’architettura (AA.VV.
1983) e il secondo specificamente ai bacini murati medievali (A A.VV.
1996); di quest’ultimo si segnala, in particolare, il contributo di BERTI,
GABBRIELLI, PARENTI 1996 incentrato sulle tecniche di inserimento dei
bacini nelle murature. Lo studio del caso di San Romano di Lucca, più
sopra citato, si trova invece in BERTI, PARENTI 1994.
Sulla produzione di laterizi nella Grecia antica cfr. MARTIN 1965, p.
63 e segg.; per i laterizi bollati prodotti a Velia si veda MINGAZZINI
1954. Sui laterizi di epoca romana le notizie essenziali si trovano nei
più noti manuali sulle tecniche costruttive come ADAM 1989, (p. 65 e
segg.); per una raccolta di contributi specifici su singole ricerche si
veda inoltre MC WHIRR 1979. Sui bolli dei laterizi romani la bibliografia è vastissima e si rimanda perciò ai principali lavori di sintesi quali
BLOCH 1947; STEINBY 1974-75 e STEINBY 1986. Per i problemi relativi
alla produzione di laterizi durante l’altomedioevo cfr. FIORILLA
1985/86; FIORILLA 1986 per l’area lombarda ed ARTHUR, WITEHOUSE
1983 per l’Italia centro-meridionale. Sulla produzione laterizia di età
medievale e postmedievale e sulla mensiocronologia dei mattoni cfr.
MANNONI, MILANESE 1988; GHISLANZONI, PITTALUGA 1989; PITTALUGA,
GHISLANZONI 1991; PITTALUGA, GHISLANZONI 1992; QUIROS CASTILLO
1996; RECCHIONE 1996; ROTA, SARTORI 1996; P ITTALUGA, QUIROS
CASTILLO 1997; QUIROS CASTILLO 1997; PARENTI, QUIROS CASTILLO c.s.;
CASOLO GINELLI 1998.
Interessanti spunti sulla produzione di tegole nell’Inghilterra
meridionale fra la fine del XIII e l’inizio del XVI, scaturiti da un’analisi delle fonti d’archivio, si trovano in HARE 1991. Un sistematico spo-
122
ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
glio della documentazione archivistica genovese del XVI e XVII secolo
concernente le pavimentazioni in laterizio è contenuto nel saggio di
BOATO, DECRI 1992, dal quale sono tratte le sporadiche citazioni riportate nei precedenti paragrafi.
Per quanto concerne gli aspetti tecnologici delle decorazioni architettoniche greche ed etrusche, la bibliografia è tutt’altro che abbondante, oltre al citato MARTIN 1965, p. 87 e segg. (per l’area greca), utili
notizie sono riportate in AA.VV. 1986, p. 93 e segg. (per l’area etrusca).
Sulla produzione di laterizi a stampo in età tardoantica e altomedievale cfr. NOVARA 1994, con un ricco apparato bibliografico.
Sui mattoni decorati di epoca medievale e rinascimentale esistono
numerosi saggi incentrati sullo studio di singoli contesti; ottimi lavori di sintesi, che comprendono una rassegna delle principali tecniche
attestate sono stati curati da G ABBRIELLI, PARENTI 1992 e P ARENTI
1997, ai quali si rimanda anche per l’amplia bibliografia riportata. Il
caso del portale di San Bartolomeo di Bologna, citato più sopra, è
stato esaminato in D I CARLO ET ALII 1985. Sui mattoni decorati di età
medievale è inoltre fondamentale la lettura del poderoso lavoro storico-archeolgico curato recentemente da B ARACCHINI, GELICHI ,
PARENTI 1998, relativo all’area lucchese, ma di valore metodologico
più generale.
Per le piastrelle smaltate e invetriate di epoca medievale si segnala il recente volume curato da GELICHI, NEPOTI 1999, con contributi
che abbracciano l’intera area mediterranea. Per l’area francese si
segnalano il volume curato da DERŒUX 1986, che raccoglie gli atti di
un convegno specifico svoltosi nel 1985. Assai utile è inoltre il catalogo della mostra svoltasi ad Avignone nel 1995 (AA. VV. 1995); per lo
scavo delle fornaci marsigliesi di mattonelle smaltate cfr. MARCHESI,
THIRIOT, VALLAURI 1997, p. 307 e segg. Una puntuale rassegna delle
mattonelle maiolicate impiegate nell’architettura medievale
dell’Italia centrale si trova inoltre in BERTI, CAPPELLI 1994, dove vengono esaminate in particolare le formelle del Duomo di Lucca (p. 169
e segg.). Per quelle del campanile di Giotto a Firenze, più sopra citate
cfr. MOORE VALERI 1986 oltre alla scheda specifica contenuta in
GELICHI, NEPOTI 1999, p. 104. Per le piastrelle medievali rinvenute
negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso, più sopra citate, una scheda
specifica si trova ancora in GELICHI, NEPOTI 1999, pp. 90-91. Per le
mattonelle maiolicate rinascimentali, molti saggi si trovano negli Atti
dei Convegni Internazionali di Albisola; per il caso della manifattura
genovese di via S.Vincenzo, cfr. MANNONI 1994, pp. 88-111.