Donald Forrester

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Donald Forrester
Il colloquio motivazionale con i genitori in difficoltà
Donald Forrester (CASCADE Center for Children’s Social Care, University of Cardiff,
UK)
Vi ringrazio per avermi invitato a parlare a questo convegno. È davvero un privilegio. Trascorro gran parte
del mio tempo a fare ricerca e a scrivere, ma mi chiedo sempre se qualcuno legge le cose che scrivo: mi fa
sempre piacere quando mi viene chiesto di parlare di fronte a un pubblico di professionisti, perché l’invito
mi fa capire che qualcuno, da qualche parte, ha letto qualcosa che ho scritto. Quando poi la richiesta mi
arriva da qui, dall’Italia, così lontano dalla mia sede di ricerca, ne sono ancora più felice, perché mi dico che
qualcuno anche qui ha letto qualcosa del mio lavoro. Quindi, grazie di cuore, davvero, per avermi invitato.
Ma il mio tempo è limitato, quindi iniziamo! Dividerò i miei 20 minuti in due parti. Nella prima metà,
cercherò di spiegare perché il colloquio motivazionale può rivelarsi un approccio efficace nel lavoro con i
genitori, nei casi in cui ci sia un sospetto di abuso o di trascuratezza; descriverò anche brevemente che cosa
è il colloquio motivazionale. Non è un compito facile, ma cercherò almeno di spiegare come io intendo il
colloquio motivazionale (CM).
Nella seconda parte del mio intervento, presenterò alcuni dei risultati più importanti che ho ottenuto nelle
ricerche che ho condotto nel Regno Unito.
Anche col rischio di bruciare le mie conclusioni, posso anticipare che le nostre ricerche suggeriscono che il
colloquio motivazionale può essere estremamente utile per coinvolgere i genitori e promuovere in loro un
cambiamento nei confronti dell’abuso e della trascuratezza; tra i risultati, però, è anche emerso che può
essere molto difficile raggiungere livelli di alta competenza nel CM all’interno di un’organizzazione. D’altra
parte, alcune persone sembrano davvero “prese”, e vorrei provare a spiegare il perchè.
Penso che innanzitutto sia importante sottolineare come l’approccio verso abuso e trascuratezza di minori
sia diverso di Paese in Paese.
Le politiche e le prassi di lavoro, la cultura e i valori e molti altri fattori che intervengono nella nostra
percezione del concetto di abuso, le modalità in cui lo Stato dovrebbe essere coinvolto nella vita familiare
dei cittadini e quindi il tipo di intervento e di aiuto ritenuto appropriato, sono tutti elementi che variano
enormemente tra i diversi Paesi. Tenere conto di queste differenze è un punto di partenza fondamentale. I
miei interessi di ricerca riguardano in particolare come condurre colloqui molto difficili con i genitori, in
modi che siano insieme rispettosi ed espliciti sui rischi che corrono i minori.
Questi dialoghi sono fortemente influenzati dal contesto specifico di ogni nazione: spero che tutto quello
che dirò oggi possa interessarvi, ma credo che dovrete poi valutare se e come i risultati della nostra ricerca
inglese possano o meno essere applicati al vostro lavoro qui in Italia. La mia speranza è che alcuni dei temi
principali – ad esempio, come possiamo aiutare le persone a cambiare, e come trovare un equilibrio tra
cura, empatia e rispetto, da un lato, e timori, rischi e uso appropriato dell’autorità, dall’altro – possono
essere motivi di interesse e sfide che vi sono familiari e che potrebbero avere un qualche rilievo anche per il
lavoro qui in Italia.
Dunque: perché il colloquio motivazionale (CM)? E che cos’è il CM?
Il mio interesse per il colloquio motivazionale nasce dalla mia esperienza di lavoro e dalle mie prime
ricerche. La mia prima ricerca ha riguardato i genitori che abusavano di alcol o sostanze stupefacenti. Un
tratto onnipresente erano le difficoltà incontrate dagli operatori, che si sentivano bloccati, in una posizione
di stallo. Spesso, gli operatori mi dicevano che i genitori non cooperavano con i servizi e mostravano una
vasta gamma di reazioni che andavano dall’aggressione diretta a una banale negazione o una
minimizzazione del problema.
C’è un caso che mi è sempre rimasto particolarmente impresso. Una madre era in ospedale per un
problema fisico legato al consumo di alcol; un giorno un infermiere la trovò nel letto, con un bicchiere
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pieno di vodka e una bottiglia nascosta sotto le lenzuola. Un’assistente sociale le chiese allora che cosa
fosse successo: la donna insisteva col dire che non aveva nessun problema con l’alcol, e che stava soltanto
tenendo la vodka per un’amica che era andata in bagno e non era più tornata. L’assistente sociale si sentì
completamente bloccata e non sapeva proprio come avrebbe potuto aiutare la famiglia di questa donna, di
fronte a una negazione così evidente.
Ma c’è di peggio: spesso, nel corso delle mie ricerche ho verificato come gli operatori sociali si sentono a tal
punto bloccati da aspettare che la situazione precipiti, in modo da avere l’autorità di intraprendere azioni
legali. Purtroppo, in alcuni casi, ci sono stati incidenti molto gravi, che hanno lasciato danni permanenti nei
minori.
Questa rappresentazione dell’operatore sociale “bloccato” non emergeva soltanto nella mia ricerca. Ho
lavorato nel campo della tutela dei minori per dieci anni, e la resistenza e la non-cooperazione erano tratti
costanti del mio lavoro.
Per questo, credo che la capacità di coinvolgere le persone che si trovano in situazioni molto difficili sia una
delle abilità fondamentali per un efficace lavoro sociale – e per ogni intervento professionale efficace – là
dove ci siano timori per il benessere dei minori.
Eppure, quando passai dal lavoro sul campo al mondo accademico, fui stupito dal constatare quanta poca
ricerca e quanta poca teoria ci fossero sul lavoro con forme di “resistenza”. Cominciai a consultare i manuali
di lavoro sociale, e notai che erano stranamente silenziosi sul lavoro con persone che non vogliono
collaborare.
Viceversa, tendevano a presentare molti metodi di lavoro con le persone ripresi dall’ambito terapeutico –
dalla terapia cognitivo-comportamentale alla pratica sistemica: tutti approcci che avevano in comune il
fatto di essere stati sviluppati per aiutare persone che vogliono essere aiutate. Mi sembrava una situazione
molto diversa da quella che avevo potuto constatare nel lavoro diretto con le famiglie in cui c’erano seri
timori riguardo ai minori, e che all’inizio non volevano in nessun modo che io avessi a che fare con la loro
vita.
Mi avvicinai al colloquio motivazionale per un motivo molto semplice: mi sembrava un approccio diverso da
tutti gli altri. Il CM era stato pensato, in origine, per lavorare con problemi legati all’alcol – anche se adesso
è usato ampiamente con un gran numero di questioni legate al cambiamento del comportamento. Inoltre,
il CM mi aveva colpito perché prendeva sul serio il fenomeno della resistenza opposta dall’utente: di fatto,
era un approccio che cercava di capire e di ridurre la resistenza, e da lì partire per pensare a tutti gli aspetti
legati al cambiamento.
La prima cosa che capii grazie al CM fu che la resistenza è un fenomeno perfettamente normale e
comprensibile. Sia che parliamo di abuso di droghe o alcol, sia che parliamo di un genitore che picchia suo
figlio o lo trascura, intervengono sentimenti profondi di vergogna e di stigma che rendono la negazione o la
minimizzazione di un problema una reazione del tutto comprensibile e giustificabile razionalmente.
Quando mi capita di fare formazione per gli operatori sociali, uno degli esercizi che propongo fa capire
perfettamente quello che voglio dire. Oggi qui siete in troppi per poterlo fare – decisamente troppi! – ma
permettetemi di descriverlo.
Innanzitutto, chiedo al gruppo di operatori di mettersi in cerchio, rivolti al centro, con gli occhi chiusi.
Quindi chiedo loro di pensare al loro segreto più intimo e più oscuro. Provate anche voi a prendervi un
momento per pensare al vostro segreto più intimo e oscuro e immaginatevi a fare questo esercizio. Dopo
qualche istante, comincio a camminare all’esterno del cerchio e dico ai partecipanti che li toccherò sulla
spalla, spiegando: «Quando sentirete il colpetto, dovrete condividere il vostro segreto con il gruppo».
Ovviamente, non lo faccio davvero. Ma quello che mi interessa sono le reazioni degli operatori messi in
questa situazione.
Molti di loro dicono che non condivideranno il loro segreto. Spesso, cominciano a pensare a un secondo
segreto, meno impegnativo. Alcuni dicono di aver provato rabbia all’idea che io avrei potuto proseguire con
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quello che avevo annunciato. Molti si sentono in ansia e intrappolati in una situazione difficile. Il punto è
che sono tutte reazioni perfettamente comprensibili. Quando ci viene chiesto di parlare di un qualcosa di
difficile e di cui ci vergogniamo, queste sono le reazioni normali – e sono esattamente le reazioni che
incontriamo quando parliamo con qualcuno di argomenti come l’abuso e la trascuratezza. È difficile parlare
di cose di cui vergogniamo, e negare, minimizzare e resistere in vari modi sono reazioni del tutto normali.
La seconda cosa che ho capito grazie al CM, è che gli studi al riguardo mostrano chiaramente un dato: il
modo in cui parliamo con le persone può aumentare o ridurre la resistenza che queste persone oppongono.
Negazione, minimizzazione e altre forme di resistenza sono reazioni normali in persone che stanno vivendo
situazioni di vergogna e di stigma, ed è quindi responsabilità del professionista ridurre al minimo queste
comprensibili reazioni. Il modo per farlo non è certo un mistero: attivare empatia e attenzione, ascoltare
senza giudicare, mostrare di capire i punti di vista e l’esperienza dell’altro sono tutti mezzi utili per ridurre
la resistenza che si incontra nei colloqui. Sono il punto di partenza per un aiuto efficace.
Viceversa, affrontare in modo diretto ed esplicito le persone, assumere una posizione da esperto, dire agli
altri quello che devono fare, provare a convincerli o dare consigli, sono tutti atteggiamenti che tendono a
creare resistenza. Capire questa dinamica è stato uno dei risultati più importanti ottenuti nel campo della
terapia delle dipendenze da alcol e droghe – perché molti degli approcci più comuni in questo campo
contenevano aspetti di tipo “confrontazionale” o educativo. La ricerca ha invece fatto capire che sono
approcci che non funzionano.
Tra l’altro, questo atteggiamento spiega anche quel circolo vizioso che si ritrova spesso nelle terapie di
disintossicazione da alcol e droghe, per cui quanto più una persona viene messa di fronte al suo
atteggiamento di negazione e minimizzazione, tanto più nega e minimizza. Una conseguenza è che gli
operatori sono sempre più frustrati e esauriti. Ma, soprattutto, la persona che deve essere aiutata anziché
diminuire il consumo di alcol, lo aumenta.
Da questo punto di vista si può fare un ovvio parallelo con l’ambito della tutela minorile.
Nelle ricerche che ho condotto nel Regno Unito, ho potuto senz’altro constatare come spesso gli operatori
sociali parlano con i genitori in modi che tendono ad aumentare la resistenza: dicono loro che cosa devono
fare, spiegano o sostengono che un certo comportamento è problematico, cercano di convincere le
persone a collaborare o a cambiare. Come nel campo dei problemi alcolcorrelati, anche gli operatori della
tutela minorile finiscono con il sentirsi frustrati, perché quanto più fanno pressione sulle persone con cui
lavorano, tanto più queste tirano indietro.
Nel counseling c’è una facile soluzione: «non sollevare le questioni in questo modo». Sii «centrato sulla
persona», sii empatico, non giudicare. Nel counseling però la persona che viene aiutata, di solito, ha scelto
di intraprendere quel percorso di aiuto, e la definizione del problema dal suo punto di vista è quindi di
fondamentale importanza. Nel lavoro di tutela minorile c’è invece un problema cruciale: una soluzione di
questo tipo non è accettabile, non è sufficiente. Talvolta – o spesso – noi dobbiamo sollevare questioni
delicate. Talvolta – spesso – noi dobbiamo intavolare dialoghi difficili. Talvolta dobbiamo “confrontare” le
persone, affrontando in modo esplicito un loro comportamento che si ritiene sia sbagliato.
Ed è qui che credo che il colloquio motivazionale possa fornire una terza, importante indicazione: il CM
permette di individuare la persona migliore per “confrontare” qualcuno a proposito del suo
comportamento.
La persona migliore per “confrontare” qualcuno intorno a un dato problema è la persona stessa che ha il
problema. Così, se sto lavorando con te su un tuo problema – ad esempio, la tua dieta, o l’impegno
nell’esercizio fisico – la persona più adatta per “confrontarti” rispetto ai problemi che il tuo
comportamento sta causando, non sono io. Sappiamo che se fossi io, genererei resistenza. La persona più
adatta per “confrontarti” sei TU. Che cosa vuol dire?
Cercherò di rispondere, spiegando come il colloquio motivazionale concettualizza la motivazione. La nostra
motivazione può essere pensata come la differenza che corre tra quello che vogliamo fare e quello che
facciamo in realtà.
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È la differenza tra la vita che stiamo vivendo e la vita che vorremmo condurre.
La differenza tra il genitore che vorremmo essere e il genitore che siamo; tra l’infanzia che desideriamo per
i nostri figli e l’infanzia che stanno davvero vivendo.
In sostanza, è la differenza tra i nostri valori e le nostre azioni.
Questo è il gap motivazionale. Se non c’è questo scarto, questa differenza – se sei felice e contento del tuo
comportamento – non c’è motivazione. Il carburante per costruire la motivazione al cambiamento è la zona
in cui senti una differenza tra quello che fai e quello che vorresti fare.
Al cuore del CM c’è l’idea che sia meglio aiutare le persone a esplorare in prima persona questa differenza e
a prendere in prima persona le decisioni che ne derivano, anziché mostrare loro dall’esterno questo gap o
convincerle che c’è un problema o cercare in qualche modo di costringerle a cambiare.
Un concetto a questo strettamente legato è quello di ambivalenza. Il livello di motivazione al cambiamento
che si sviluppa di fronte a un qualsiasi particolare problema può essere pensato come un continuum. A
un’estremità dello spettro, dove non c’è differenza tra i nostri valori e le nostre azioni, non c’è motivazione.
All’estremità opposta, si collocano le persone che sanno di non essere felici del loro comportamento e
vogliono fare qualcosa per cambiare. Molte di queste persone riescono a cambiare senza l’aiuto di un
professionista; se chiedono aiuto di solito fanno buoni progressi e cambiano velocemente.
Nel mezzo ci sono le persone ambivalenti: persone che percepiscono una discrepanza tra i loro valori e i
loro comportamenti (e avrebbero quindi una ragione per cambiare), ma che di solito hanno ragioni
altrettanto o più forti per non cambiare. Per esempio, un genitore può sapere che l’alcol lo fa diventare
violento e a volte lo spinge a maltrattare i figli, ma può darsi che bere lo aiuti ad affrontare una bassa
autostima, che i suoi amici e la sua cerchia sociale bevano pesantemente o che ci siano molti altri fattori
che lo inducono a bere.
Il CM aiuta le persone a esplorare la loro ambivalenza –a mettere a confronto il divario tra la persona che
vogliono essere e la persona che sono realmente – e quindi a decidere che cosa vogliono fare di questa
ambivalenza. Questa è sostanzialmente l’essenza del colloquio motivazionale.
Se qualcuno è interessato al tema, il nostro workshop del pomeriggio approfondirà proprio il CM.
Mi rendo conto che questa descrizione del CM è fin troppo breve, ma vorrei adesso parlare delle lezioni che
ho imparato facendo ricerca sull’uso del CM nel lavoro sociale con minori e famiglie.
Cercherò di riassumere gli insegnamenti che ho ricavato da dodici diversi progetti di ricerca. Questi
insegnamenti si possono sintetizzare in sei risultati di fondo. Che facendo un rapido calcolo equivalgono
ciascuno a due anni di lavoro…
Molte delle ricerche di cui parlo consistono nella valutazione di progetti specifici. Più recentemente, sto
realizzando un programma di ricerca per studiare il CM e il lavoro quotidiano nella tutela dei minori.
Dicendo “lavoro quotidiano” faccio riferimento non a progetti specialistici, ma al lavoro portato avanti dagli
operatori sociali nei servizi pubblici del Regno Unito, che comprende la valutazione delle situazioni che
vengono segnalate e il lavoro con le famiglie per garantire la sicurezza dei minori – che è il cuore di quello
che nel Regno Unito chiamiamo “protezione dei minori”.
La ricerca è stata condotta in due progetti pilota, uno studio randomizzato controllato piuttosto vasto, e tre
ulteriori progetti articolati su sette diversi enti locali, che stiamo completando in questo periodo.
Il primo risultato che abbiamo ottenuto è che, in generale, gli operatori sociali che lavorano con situazioni
in cui emergono sospetti di abuso o trascuratezza tendono a tenere un atteggiamento piuttosto
“confrontazionale” e poco empatico nei colloqui con i genitori.
Abbiamo misurato le abilità di CM e alcune altre abilità chiave su una scala a cinque livelli, in cui 5 stava per
capacità eccellente, 1 molto scarsa e 3 per media.
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Il punteggio medio che abbiamo rilevato per il nostro campione oscilla tra 2 e 2,5. Non posso farvi ascoltare
alcune registrazioni, come faccio quando presentiamo questo lavoro in Gran Bretagna, ma vi assicuro che
quando sentono come gli operatori parlano ai genitori, molte persone rimangono fortemente colpite.
Siamo davvero molto distanti dal modo in cui si pensa che gli operatori sociali dovrebbero parlare a una
persona. Circa il 40% degli operatori dice alla persona che cosa deve fare e non mostra nessun segnale di
ascolto reale.
È chiaro che in Italia il dato può essere molto diverso.
Se fosse così, tutto quello che dirò dovrà tenerne conto. Forse qui gli operatori sociali sono meno
“confrontazionali” e meno autoritari. E penso che sia piuttosto probabile. Ma vorrei anche dare un piccolo
avvertimento: non diamo per scontato che sia così. Noi stessi siamo stati davvero molto, molto stupiti dai
risultati che abbiamo ottenuto e dalla loro distribuzione coerente. Anche nel Regno Unito, molti stentano a
crederci – perché la pratica è molto diversa dalla teoria e dai valori. Però, abbiamo registrato circa 500
incontri, e altrettanti colloqui tenuti con attori, e il quadro che si delinea è decisamente ben definito.
Il nostro secondo risultato riguarda il rapporto tra le abilità di CM e gli esiti dell’intervento per la famiglia.
Cioè: in che modo le abilità di CM incidono sui risultati dell’intervento su genitori e figli? Quello che
abbiamo scoperto è che c’è una forte correlazione tra le abilità di CM degli operatori e il livello di
coinvolgimento dei genitori. Più collaborativo, empatico e rispettoso è un operatore, tanto più impegnata
tende ad essere la famiglia con cui lavora.
Particolarmente importante è un terzo risultato: gli operatori tendono a raggiungere questo esito di
maggiore coinvolgimento della famiglia senza perdere di vista il minore o le preoccupazioni che lo
riguardano.
Oltre che le abilità di CM abbiamo valutato anche alcuni fattori associati all’uso dell’autorità. Un’ipotesi era
che tanto più alti sono i livelli di abilità di CM, tanto più basso dovrebbe essere l’uso dell’autorità. In realtà,
abbiamo verificato che succede esattamente l’opposto, con una correlazione positiva coerente e costante.
In altre parole, gli operatori collaborativi sono anche quelli che esprimono con più chiarezza le loro
preoccupazioni e che fanno uso dell’autorità attribuita loro dal ruolo che rivestono. Per semplificare, i
nostri dati ci dicono che la cosa importante è l’abilità di un operatore, mentre importa meno se sceglie di
seguire una strategia improntata soprattutto all’assistenza, o piuttosto una strategia improntata al
controllo.
La quarta scoperta che abbiamo fatto è un po’ meno positiva. La correlazione tra abilità degli operatori e gli
indici di valutazione degli esiti dell’intervento tende ad essere piuttosto debole. Ci sono molte possibili
spiegazioni per questo fenomeno e abbiamo dedicato molto tempo a sondarle. Adesso siamo piuttosto
sicuri di aver intuito le ragioni di fondo: gran parte delle famiglie vede molto raramente l’operatore che
lavora con loro. Di fatto, nel giro di sei mesi, molte famiglie vedono l’operatore meno di tre volte, spesso
perché il caso viene chiuso dopo un mese o due.
Nello studio randomizzato controllato, abbiamo diviso le famiglie in tre gruppi: le famiglie che hanno visto
l’operatore 10 volte o più, quelle che lo hanno visto tra le 5 e le 9 volte, e quelle che l’hanno visto meno di 5
volte – ed abbiamo notato che il quadro che emerge è molto diversificato fra i tre scenari. Come era
prevedibile, nei casi in cui le famiglie hanno visto pochissimo il loro operatore, non abbiamo registrato
effetti significativi delle abilità sugli esiti. Dove c’è stato un contatto moderato, la correlazione è moderata.
Dove c’è stato un contatto più frequente, abbiamo registrato una correlazione tra abilità di CM e esiti
positivi che oscillava tra 0,5 e 0,6. Anche se misurata su un campione limitato, è pur sempre una
correlazione molto significativa.
Le ragioni che abbiamo individuato per spiegare questa correlazione sono due. La prima è che le famiglie
che hanno avuto più contatti con l’operatore, sono spesso le famiglie che hanno problemi più seri. In molti
altri casi, la valutazione iniziale suggeriva problemi di minor portata, per cui un cambiamento era meno
probabile o meno ovvio. La seconda ragione è più evidente: le abilità di CM degli operatori influenzano gli
esiti soltanto se essi vedono la famiglia con una frequenza sufficiente per fare effettivamente la differenza.
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Questi primi quattro risultati suggeriscono che le abilità di CM sono fondamentali per stabilire una
relazione con la famiglia e per promuovere il cambiamento, che sono particolarmente importanti
nell’aiutare le famiglie in cui ci sono problemi più seri, e che possono andare di pari passo con l’autorità e la
chiarezza riguardo ai motivi di preoccupazione. Tutto molto positivo. Il quinto risultato che abbiamo
ottenuto, però, rappresenta una sfida più seria: quando abbiamo lavorato con alcune organizzazioni per
cambiare le abilità degli operatori, o quando abbiamo valutato i loro cambiamenti, abbiamo sempre
verificato che modificare il lavoro concreto degli operatori è molto, molto difficile.
Nello studio randomizzato controllato, un programma di formazione di dieci settimane e una supervisione
settimanale hanno avuto sì un certo impatto sulle abilità di lavoro, ma non si è trattato di un impatto
particolarmente incisivo: il livello si è alzato da circa 2,4 su 5 a 3 su 5. Nello stesso tempo abbiamo valutato i
tentativi dei servizi degli enti locali di adottare il CM, e stiamo ancora valutando i feedback e la formazione.
Anche feedback e formazione contribuiscono ad alzare il livello della prestazione, ma non abbiamo ancora
trovato un’organizzazione, nel Regno Unito, la cui media delle abilità sia più alta di 3/3,5 su 5.
Al centro dei nostri attuali interessi di ricerca c’è proprio questo tema: come possiamo dar vita a
organizzazioni in grado di fornire dei servizi efficaci e sensibili alle persone, in linea con il CM. La risposta è
complessa. Peter Drucker, un noto consulente d’azienda, si è chiesto perché nelle grandi aziende le
strategie sviluppate dall’alto spesso non riuscivano a essere messe in pratica; per spiegarlo ha coniato lo
slogan: «La cultura si mangia la strategia a colazione». Parafrasandolo, noi possiamo dire: «La cultura si
mangia la formazione a colazione». Quello che abbiamo scoperto, nel corso delle nostre ricerche, è che le
pratiche di lavoro non sono modellate dai singoli professionisti, ma sono un frutto dell’organizzazione.
I valori dell’organizzazione, gli elementi che vengono valutati, il modo in cui sono condotti gli incontri, il tipo
di supervisione e molti altri fattori concorrono a dare forma all’idea complessa di «cultura»
dell’organizzazione, che a sua volta dà origine a determinati tipi di pratiche professionali.
Non è sufficiente, quindi, pensare che la formazione possa dar luogo al cambiamento. Le organizzazioni
devono mettere tutto il loro impegno nel CM, se vogliono che i loro operatori siano in grado di lavorare
secondo questo approccio.
Ogni operatore, tuttavia, può cambiare da solo le sue abilità professionali. In una delle nostre ricerche, è
successo qualcosa di inaspettato, e ho imparato di più da questa vicenda che da molti studi strutturati.
La ricerca più vasta che abbiamo condotto fin ad oggi ha coinvolto anche cinque ricercatori che avevano il
compito di osservare e valutare le abilità degli operatori prima e dopo la formazione nel colloquio
motivazionale. I ricercatori si dimostrarono molto interessati al CM e mi chiesero di poter seguire anche
loro dei corsi di formazione e avere dei feedback sulle loro prestazioni. Anche loro quindi parteciparono a
colloqui con attori, che furono registrati e valutati esattamente come i colloqui degli operatori sociali. In tal
modo, avremmo potuto farci un’idea delle loro capacità e dare loro consigli per aiutarli a svilupparle.
I risultati mi lasciarono senza parole, e ci insegnarono una lezione importante.
Dopo la formazione, il livello medio di abilità tra gli operatori sociali era di 3 su 5; il punteggio più alto era 4.
Tra i cinque ricercatori, invece, quattro ottennero una valutazione di 5 su 5, e uno di 4 su 5. Anche senza un
percorso di formazione e supervisione, i ricercatori avevano già ottime abilità di CM. Di fatto, TUTTI loro
erano migliori di OGNI operatore sociale oggetto della ricerca. Come dovevamo interpretare questo dato
così particolare?
La risposta più semplice è che i nostri cinque ricercatori avevano imparato da soli il CM.
Si erano interessati al tema, e osservando gli operatori si erano profondamente convinti che il CM può fare
davvero la differenza.
Avevano letto con interesse molta letteratura in materia di CM e avevano discusso tra di loro i problemi e le
opportunità che portava con sé. Così, avevano sviluppato un alto livello di abilità nel CM, anche senza una
formazione e una supervisione formali.
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Quello che posso concludere da questa vicenda è che il cambiamento riguarda sia le organizzazioni, sia i
singoli. Se dei singoli operatori vogliono sviluppare le loro abilità di CM, possono riuscirci anche da soli.
Ma questo non basta. Si tratta anche di avere la passione – la passione di voler fare la differenza, di dare il
meglio di sé.
A questo proposito, vorrei concludere con una citazione da Antoine de Saint-Exupéry:
Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, distribuire i compiti e impartire
ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto ed infinito.
Questo è il cuore del cambiamento. Se vuoi fare la differenza nella tua organizzazione, non bastano le
soluzioni tecniche. Devi anche motivare le persone a dare il meglio di sé. Questo principio è alla base del
CM: aiutare le persone a trovare da sole la giusta ispirazione per il cambiamento.
Ed è anche il punto di partenza per creare organizzazioni che sappiano davvero fare la differenza nella vita
delle persone.
Con questo mio breve intervento spero di aver acceso almeno una scintilla di interesse – una nostalgia –
per la capacità del CM di cambiare le cose. E spero che per alcuni di voi questo interesse possa diventare
passione. Una passione che saprà fare la differenza per molti minori e le loro famiglie.
Grazie.
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