1 03.01.2009 03.01.2009 → treno `Cisalpino` Milano

Transcript

1 03.01.2009 03.01.2009 → treno `Cisalpino` Milano
PARTENZE (DAL CAHIER NOIR)1
La nostalgia può essere calcolata anche usando i numeri.
È distanza moltiplicata per un fattore di amore.
Beremiz Samir, in L’uomo che sapeva contare, di Malba Tahan
La fuga nella vita, chi lo sa,
che non sia proprio lei la quintessenza.
Paolo Conte
03.01.2009 treno ‘Cisalpino’ Milano/Zü
Milano/Zürich
Zürich HB
Sono finalmente sul treno.
L’ennesimo. Quello di ieri sera per arrivare qui a Milano è stato il solito viaggio della speranza: il
profondo nord non si smentisce: su un viaggio di due ore scarse Torino-Milano siamo riusciti ad
accumulare mezz’ora di ritardo.
Quella di stamattina si configura come una mezza fuga da una città che respinge. Respinge la
sua metro che dorme, respinge la millanteria di una città che si dice europea e ha manifesti pubblicitari che danno la notizia strabiliante che la metro tiene aperta un’ora in più (non si capisce
se solo il fine settimana o meno). Una cosa strabiliante che forse appena fuori da questi angusti
confini di stato è un evento che accade da sempre.
Questo il motivo della fuga: gli angusti confini di stato.
Fuggire, almeno per qualche giorno, da cartelloni
pubblicitari che dicono che “comprare Philips da
Darty è un tuo diritto”. I diritti dovrebbero essere
ben altri, come quelli rivendicati con una certa partecipazione dalla signora seduta di fronte a me, che
sostiene, al controllo dei documenti di viaggio,
l’incompetenza (possibile, probabile) di chi le ha
fatto i biglietti qui in Italia. Lei paga un qualche abbonamento in Svizzera che le dà diritto a.
Il controllore sa, capisce, sorride alla veemenza delle rivendicazioni. Timbra e saluta, quasi a non voler, alla fin fine, dar soddisfazione a tutto
quell’agitarsi. Il contrappasso dei diritti di chi si è
autoesiliato appena oltre il confine. Chissà che non
abbiano ragione loro.
La pubblicità da cui fuggo – sempre intravista in
metro – è quella che mostra una specie di schermo
Partenze – © Giampaolo Talani
ipod/iphone con icone che indicano percorsi di
formazione, di apprendimento, non capisco promossi da chi, a che scopo (che se è quello ‘nobile’
dell’inserimento nel mondo del lavoro, allora siamo in buona compagnia…). La scritta che campeggia in grande suona qualcosa del tipo “il processo formativo” o “costruttivo”, su cui qualcuno,
stanco di essere preso in giro da queste cose, ha opportunamente cancellato il “pro”, probabilmente per renderlo più vicino al reale. Il ‘Cisalpino’ oramai oltre Monza (anzi ad Albate o qual1
Le riproduzioni qui proposte sono quadri di Giampaolo Talani, al quale NON ho chiesto espressamente il consenso,
seppure, in una mail a cui ancora non ho ricevuto risposta, ho manifestato interesse per una delle sue (ri)produzioni che
vorrei acquistare. Per informazioni sulle sue opere si veda il sito www.talani.it.
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cosa del genere: altro stucchevole dettaglio di questo ipertrofico hinterland milanese è la terribile toponomastica di tutti questi luoghi satellite che terminano in “-ate”…) si inerpica verso la
montagna.
Siamo in arrivo a Como. Posto che già mi sembra frontierasco, per i racconti (anche) di un cugino di mia madre che credo abbia fatto i soldi in gioventù facendo il contrabbandiere. Il treno ha
trovato una sua quiete dopo una logistica difficoltosa: sono bastate un paio di persone con valige
over size impossibili da stipare se non su seggiolini destinati a persone, a intoppare gli angusti
corridoi di questo treno che vuole assomigliare sempre più a un aereo.
Si sentono cellulari in cui si parlano esclusivamente varietà di dialetti del Sud o italiani con inflessioni dialettali marcate: il Sud dell’emigrazione, della Puglia, della Sicilia. La mia stessa storia
– penso a tanta parte dei parenti di madre – sarebbe potuta essere non tanto diversa da queste.
Sarei potuto essere uno di questi tanti figli trapiantati.
Nel frattempo ci sono casini con le prenotazioni dei posti a sedere: la signora – in compagnia di
madre e figlia – che rivendicava i propri svizzeri diritti, pare non abbia i titoli per stare seduta
dove sta, insieme alla figlia piccola e alla madre letterata (o quanto meno: di letture impegnate,
visto che aveva sfoderato niente meno che una consunta edizione tascabile Einaudi di un Dalla
parte di Swann…) e disattenta (credo che tutti quelli che le sono passati accanto abbiano raccolto qualche pezzo del suo vestiario: dalla sciarpa al cappello di pelliccia, passando per guanti e
maglione…). Una coppia di colore, infatti – che parla un po’ di inglese, nessun francese e molto
tedesco – mi dicono, mostrandomi il biglietto, che hanno i posti delle signore.
Mentre avviene la conversazione la signora con la figlia piccola sono via, al bar, e la madre letterata e disattenta cerca di interagire in francese, ma
il ragazzo si rivolge a me dicendomi che posso liberamente parlargli in tedesco, se preferisco. Col mio
approssimato inglese, usato per tentare di spiegare il
pasticcio, gli rispondo, ma m’hai visto bene?, che
sono italiano: Entschuldigung, mi spiace, Ich verstehen sehr wenig Deutsch, und nicht sprechen…
Insomma: una babele linguistica commovente.
Nel frattempo arriviamo a Chiasso, confine che il
Consorzio Suonatori Indipendenti (ma non solo loro) vorrebbero illusoria convenzione arbitraria fatta
di aria e luce. Ma illusoria non è: di solido confine
si tratta per paesaggio che non muta nella sostanza,
ma che ha materializzato d’incanto gendarmi che,
nel millennio terzo dell’era cristiana, vedo sopraggiungere sul treno. Divise di guardie di frontiera,
finanzieri, tra l’Europa Unita e uno staterellocaccola come la Svizzera che all’Europa, con tutta
evidenza, non si vuole unire. Illusoria questa aria e
luce, questo etere che di tutti non è: appena varcato Partenze nella nebbia – © Giampaolo Talani
il confine quasi all’unisono i cellulari ricevono il
messaggio di benvenuto nel roaming internazionale.
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A tal proposito vien utile citare Marco Aime:
L’enfasi sempre maggiore posta sulle culture e sulle loro presunte radici conduce a una crescente attenzione verso il locale e i localismi. Accade poi che alcuni localismi, impugnati da élite dotate di sufficiente potere, vengano gonfiati di aspirazioni globali: le regioni vogliono diventare stati, i dialetti
lingue e così via. Tutto questo in nome dei cosiddetti popoli o delle culture locali che rivendicano autonomia nei confronti degli stati-nazione. Alcuni sostengono che una lingua altro non è che un dialetto che ha fatto fortuna, altri, come Noam Chomsky, affermano che «una lingua è un dialetto con un
passaporto e un esercito». Che cosa sono esercito e passaporto se non i segni evidenti di uno statonazione, con il suo monopolio della forza e il suo controllo sui confini e sugli individui? Esattamente
quanto molti localisti (sinceri) vorrebbero rifuggire, ma che, spinti da élite meno spontanee con velleità di potere e capacità di strumentalizzazione, vorrebbero creare.
Ecco come nascono molti «conflitti culturali» che sembrano caratterizzare la nostra epoca e che sotto
la patina della cultura celano spesso ben altre spinte, ben altri interessi.
Nel dicembre 2002 sono stato a Istanbul. Osservando dall’alto della collina di Sultanahmet la striscia
grigia del Bosforo mi sono tornate in mente le parole del «Filemazio, protomedico, matematico, astronomo, forse saggio» della canzone di Francesco Guccini, Bisanzio.
«Me ne andavo l’altra sera quasi inconsciamente, / giù al porto Bosforeion là dove si perde, / la terra
dentro al mare, fino quasi al niente / e poi ritorna terra e non è più Occidente. / Che importa a questo
mare essere azzurro o verde?»
Appunto. Europa, Asia, che importa? Tutte le guide turistiche e i libri enfatizzano il confine tra i due
continenti, e il Bosforo assurge a simbolo di linea d’acqua tra due mondi, due civiltà, due culture. Di
qua l’ellenica Europa, poi divenuta Occidente; di là il mondo ottomano, quello delle delizie degli harem e delle affilate scimitarre di sultani assetati di sangue cristiano. Eppure a Istanbul – già Costantinopoli, già Bisanzio – delle astrazioni dei geografi e degli storici, impegnati a separare continenti, e
delle fantasie dei romantici esotici nulla importa.
Esiste, uguale a se stessa, sulle due sponde. Nessuno deve aver detto ai suoi abitanti che vivono a cavallo di un orizzonte generato dagli occidentali, specialisti nel creare confini.
Chiamarla Santa Sofia o Aya Sofya non fa differenza. Lo splendido edificio che domina la collina di
Sultanahmet venne fatto costruire da Giustiniano in nome della Divina Sapienza nel 537, e fino al
1453, quando passo agli Ottomani, rimase la più grande chiesa della cristianità; poi divenne una moschea e tale restò fino al 1935. Oggi è un museo. L’impressione che si prova a visitare questa maestosa
costruzione è ingannevole. Mosaici cristiani e versi del Corano sembrano inseguirsi; linee armoniose e
contrafforti aitanti si confondono in un gioco di contraddizioni stilistiche, in un susseguirsi di affermazioni e negazioni architettoniche2. Era il simbolo della cristianità, ma non è stata distrutta dai musulmani: anzi, furono proprio i fedeli di Allah a costruire i rinforzi che ne hanno impedito il crollo.
Ecco perché al razionale Filemazio, Bisanzio appare come «un simbolo insondabile, crudele e ambiguo, come questa vita. Bisanzio è un mondo che non mi è consueto».
Anche a noi non è consueto pensare alla cultura come a quell’edificio: un sovrapporsi e un intrecciarsi
di storie, idee, gusti, identità, sogni, scienze. È più facile pensare a linee nette che segnano confini
precisi, frontiere che ci piace credere come naturali e pertanto difficili da cancellare. «Le frontiere? –
ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome. Nei miei viaggi ne
ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini».3
Nella italianissima Svizzera oltre Lugano, nella babele linguistico-trenica cui ho fatto cenno,
l’omino del carrello vivande non spiccica una parola d’inglese, al punto che ha fatto lo scontrino
2
Incidentalmente le sensazioni sono le stesse che ho provato frequentando e visitando chiese in Sicilia e Puglia,
nell’estate del 2006: una diacronia riassunta in una storia architettonica stratificata nei secoli: una sorta di “macchina del
tempo” in situ, con parti antiche alle quali si sono aggiunte nell’accavallarsi delle stagioni parti più moderne, ma alla
quale si affianca la inevitabile sincronia di avere tutto davanti insieme, in quel momento. L’effetto, come dice Aime, è
straniante.
3
Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, pp. 4-6.
3
alle signore di fianco per far capir loro quanto dovevano sborsare. Un po’ di francese? Chissà
come va il suo tedesco…
Chiudo gli occhi. Mi appisolo. E quando li riapro il cielo è tornato azzurro e il Cisalpino serpeggia sinuoso e lento, in una gola stretta di queste alpi. L’idioma, come l’architettura, è cambiato:
siamo in Germania. Dopo Arth-Goldau – dove è tornato il tempo grigio e bigio – scorgo un bellissimo lago sulla sinistra (Zuger See) dopo essermene perso uno sulla destra (Lauerzer See).
La fuga, da transfuga comunitario in terra extracomunitaria, ha una sua precisa connotazione legata al fatto che (1) giro con una borsa che mi fa sembrare un venditore di tappeti quando la
porto sulla spalla e (2) posso pagare il biglietto Zürich/Luxembourg in contanti ma danno il resto in franchi svizzeri – di cui onestamente non so che farmene – oppure, ovviamente, con carta
di credito che, tra mille scuse della signorina oltre lo sportello, richiede mille controlli (carta
d’identità, firma, ecc.).
Mangio un panino e bevo una bottiglietta d’acqua dove accettano euro (anche se, al solito, mi danno un resto in franchi che spendo per una cartolina). Zurigo è
negozi, negozi e ancora negozi («non voglio comperare né essere comprato…» dice il buon Giovanni Lindo
Ferretti). Il freddo tagliente, accompagnato da un leggera brezza, e il borsone da emigrante mi fanno desistere da ogni proposito escursionistico, per quanto mi
faccia piacere camminare, nella considerazione che mi
attendono altre funf stunde tonde tonde di viaggio
(14.36 19.36) prima di arrivare. Ora sono in compagnia di una allegra combriccola caciarona di giovani di
lingua tedesca, molto probabilmente di ritorno da
qualche giro sulla neve: hanno snowboard, pantaloni
col cavallo basso, ipod, iphone e birre a volontà. Alla
terza a testa cominciano i rutti, ma i ragazzi, a parte
questo vezzo, sono innocui.
Ci mangiano sopra e questo aiuta a non far dare di testa. A Basilea il treno si affolla. Una bambina (10, forse
11 anni, non credo di più) siede di fronte a me. Ha i
Due musicisti – © Giampaolo Talani
lineamenti, le pose e i vestiti di una donna adulta. È
molto bella – e forse, ahimè, già troppo consapevole di esserlo. Da grande farà girar la testa a
molti uomini.
Due posti più in là un uomo sfoglia Le Figaro : l’ultima pagina è occupata quasi per intero da una
foto che mi pare ritrarre il nostro Paolo nazionale (Conte), nella sua posa più classica: vagamente imbronciato e col baffone fluente. Nonostante il passare degli anni e un successo decretato in
qualche modo anche al di qua dei confini nazionali, continua a valere anche per lui la singolare
‘regola’ che nessuno è profeta in patria.
La montagna nel frattempo ha definitivamente ceduto il passo alla piana e non c’è traccia di neve. Compare un inatteso sole dal coperchio di nuvole, sul filo dell’orizzonte. Colonna sonora, fino a questo momento: i CSI di Tabula Rasa Elettrificata e i Placebo, nel programmatico Without
you I’m nothing. I cellulari si sono rimessi a squillare ed è assai probabile che si sia oltrepassato
qualche altro confine.
4
Il freddo di Zurigo mi fa ripensare alle terribili testimonianze di Germano Facetti4 sulla deportazione verso i campi di concentramento. Germano racconta che le guardie più sadiche facevano
letteralmente, e con la massima semplicità, morire di freddo il deportato che aveva commesso
qualcuna delle inspiegate disobbedienze legate all’assurdo codice di condotta dei campi. Bastava
lasciarlo fuori una notte. Scarsamente vestito. Già deperito il giusto. Lui racconta di aver sentito
uno dei primi morti di cui si è preso la briga di tener conto, tutta la notte lamentarsi. La mattina
successiva ai rigori dell’inverno continentale si era aggiunto il definitivo rigor mortis.
Non so perché questo pensiero. Non c’è motivo specifico. Ma avere freddo, questo freddo, e
pensare di non aver alcuna possibilità di difendersene credo possa gettare nel panico anche la
mente più salda.
Ora, dentro il treno, questo languido e serafico tramonto, composto come le persone che occupano questa carrozza – la combriccola di ragazzi tedeschi nel frattempo è scesa – illumina vecchi
edifici industriali di mattoni rossi, che scorrono sullo schermo del finestrino. Dalle finestre orbe,
coi vetri rotti, non so perché non mi sarei stupito di vedere un angelo – sì, sempre quelli di
Wenders ne Il cielo sopra Berlino… – comparire all’interno, affacciarmi, sorridere e salutarmi
con un cenno della mano. Deve essere l’effetto collaterale di qualche farmaco che prendo a rendere così vivida la mia fantasia.
PS: che questa sia zona frontierasca lo dice l’intercambiabilità di francese e tedesco. La ragazza
nel seggiolino di fronte al mio, accanto alla bimba-adulta, esaurito il suo romanzo francese Un
regalo inatteso, ha tirato fuori un corposo volume della Suhrkamp, di cui però ignoro autore e
titolo (e quindi se narrativa o saggistica).
06.01.2009
06.01.2009 TGV Luxembourg/Paris
Sto arrivando nella città in cui sarei voluto arrivare con la
donna amata, da amare. Ci arrivo con l'amica di sempre, Valeria, che in poche ore mi abbandonerà. Penso curiosamente
al mio primo vero amore platonico internazionale che era
francese: Benedicte di Monfort. Quelle cose da quindicenni
per le quali fino a quando si è l'uno accanto all'altra in vacanza, al sole, nel mare, non succede assolutamente niente.
Fino al momento della partenza fatta da un solo unico lunghissimo bacio – Je t’aime. Moi aussi – e tonnellate di lacrime e lettere in francese che ancora in qualche recondito antro di una cantina o di in solaio conservo in qualche dimora
nella quale ho vissuto. Lettere che capivo e alle quali rispondevo in italiano e mi facevo tradurre in francese da Piera, la
sorella di Anna. Chissà dov'è Benedicte. Che cosa ha fatto in
questi oltre vent'anni. Come sta. Se è felice. Spero che come
me non stia su facebook a rincorrere o/e a farsi rincorrere da
compagni dell’asilo che le chiedono l’amicizia. Non voglio
caricare di attese questo passaggio parigino, ma è una città
nella quale non sono mai stato.
Che mi è stata negata nella vita precedente, da amori precedenti.
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Raccolte da Paolo Crepet, in un libro scritto a quattro mani: La ragione dei sentimenti, Einaudi, Torino.
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Tutto questo penso mentre il tgv fa il suo dovere di tgv nella tratta Metz Parigi nel sole pallido,
ostaggio del ghiaccio del cielo. Missile con le ruote che solca la campagna ibernata in un accordo
commerciale transnazionale con le DB tedesche. Colonna sonora: ancora Without you I’m
nothing (Placebo).
06.01.2009
06.01.2009 Hotel Cambrai, 129 bis, Boulevard Magenta – Paris, 75010
Il tempo, in Lussemburgo, è trascorso veloce. La casa accogliente e calda che Daniele ha trovato
in affitto è stata la casa del riposo: il clima rigido e il poco da vedere all’esterno – a parte il
Granduca ☺ – hanno giocato un loro preciso ruolo. Lussemburgo ville, alla fine fa 77mila e rotti
residenti. Un quartiere di Torino, più o meno. Metti che con l’indotto della Comunità Europea
arrivi al doppio, ma è sempre poco più di una modesta cittadina italiana.
Graziosa, ma che si gira davvero in poco, al punto che la già sottile guida verde del Touring Club
– notoria per la sua dovizia di particolari – comprendente Belgio e Lussemburgo, dedica a
quest’ultimo giusto qualche pagina.
Belli alcuni scorci, soprattutto quando il tappo di grigio decide di lasciar spazio ad altri colori e
qualche raggio di sole arriva… mentre nevica! La casa di Daniele è curiosamente un sottotetto
come quella di Francesco a Berlino: dalle finestrelle sugli spioventi si tassellano e riquadrano
piccole superfici di un cielo spesso omogeneo per tonalità e, per quel che m’è dato vedere finora,
con tonalità di prevalenza al grigio. Atmosfere languido-malinconiche che hanno fatto oscillare
l’animo tra un film di Wenders e uno di Kiesslowski.
Siamo arrivati a Parigi nell’intorno di mezzogiorno. Il ghiaccio lussemburghese non è diminuito,
anzi: è pure un po’ aumentato. Una volta espletate le singole burocrazie – per me la presa di possesso della stanza dalla quale in questo momento scrivo, non lontana dalla Gare de l’Est, dove
siamo scesi; per Valeria la riconversione in biglietto di una prenotazione, a cui è seguito un biglietto che però non le è arrivato a casa in tempo e che quindi le è costato un nuovo biglietto
che, dicono i francesi in francese, le verrà rimborsato dalla prestigiosa SNCF direttamente sulla
carta di credito… – ci siamo chiusi in una brasserie affollata e riscaldata in modo approssimativo per un
boccone frugale, di fronte alla Gare de Lyon.
Riaccompagnata Valeria al treno per l’Italia, sono
pronto per affrontare Parigi in solitudine. Sbaglio subito strada, perché nonostante i consigli di Vale, decido di andare a piedi: vuoi mettere passeggiare (e perdersi) per Parigi, ora che si è pure messo al sereno e il
freddo che non soffro (sono senza guanti, senza cappello…) rischia di staccarmi di netto le orecchie? Le
strade, i marciapiedi soprattutto, sono ghiacciati e c’è
poco da star col naso all’insù: si rischia di volare a ogni
passo (e un paio, di cui un signore non proprio giovanissimo che deve essersi anche fatto male, me li sono
visti in diretta).
Non che da queste parti se ne curino molto, mi semL’uomo e la rosa – © Giampaolo Talani
bra: per altro la gente continua ad andare in scooter o
con le velò – che si possono, come in Lussemburgo, affittare in ogni cantone.
Sento che però il freddo morde più di quanto son pronto ad affrontare (soprattutto per
l’abbigliamento che è standard: maglioncino, camicia, jeans…) e presto ne scopro il perché su
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uno di quei termometri digitali che le farmacie espongono insieme alla croce verde: dice -4 alle
tre del pomeriggio.
Sbaglio strada, dicevo, dirigendomi verso la Bastiglia, di
cui vedo però solo il monumento che è una sorta di
Siegessäule in miniatura. Una volta chiaritomi la geografia, taglio giù verso la Senna per andare al cuore della città. La cattedrale di Notre-Dame, il museo del Louvre (obiettivo della giornata), gli Champs-Élysées e, se
proprio sono in forma, l’Arco di Trionfo. La mappa mi
inganna perché sembra tutto più vicino di quanto lo sia
nella realtà. Così, passato davanti a Notre-Dame – non
viene tanto da indugiare e fare “ooooh” a -4… – viaggio
spedito verso il Louvre.
Eh! Si fa presto a dire Louvre! Una struttura immensa
dove ci metto più di un attimo – anche perché non ci
sono indicazioni – a capire da dove si entra (ovvero:
dalla parte opposta rispetto a quella da cui arrivo io).
Contento della scoperta e di pensarmi al caldo, di fronte a un Mantegna o alla Gioconda, arrivo alle famose
piramidi di accesso (che ignorante! Neppure sapere da
La valigia delle donne – © Giampaolo Talani
dove si entra!), salvo il fatto che il museo è… fermeé.
Così, con il sorriso beffardo di chi fa crollare le speranze a un disgraziato come me, che in trentotto anni, in una vita seconda, restituitagli, cerca di mettere piede in uno dei musei più importanti del mondo, così pronuncia la parola tranquilla il gendarme/custode.
Leggo bene sugli scarni avvisi: vicino alle tariffe per l’ingresso dice: martedì giorno di chiusura.
E a questi non gliene importa una pippa se oggi è la befana: mica siamo in Italia! Sorrido - perché nella vita non si può che sorridere di fronte a certe cose. In trentotto anni mi fermo ventiquattro ore a Parigi e in quelle ventiquattro ore il museo è chiuso.
Mi dico: segno evidentissimo che qui ci devo tornare. Solo che sono talmente abbattuto e affranto dal vento e dalla temperatura che non so più neanche bene dove andare. Torno verso nord,
verso rue de Rivoli, abbandonando la Senna. Non riesco neppure a far foto tanto mi sento rattrappite le mani. E poi m’è pure passata la voglia.
Scopro quasi casualmente che poco distante, alla Biblioteque Nationale de France, in rue de Richelieu, c’è una mostra che mi incuriosisce: «’70: la photographie americaine». Certo, non è il
Louvre, ma almeno faccio una scorta di caldo. Così è: entro, mi avventuro, la biblioteca è bellissima, la mostra mantiene meno di quel che promette, ma si lascia guardare. Alle 18 sono di nuovo fuori al gelo, determinato a godermi ancora qualche scorcio. Vado nella direzione che è
press’a poco quella dell’albergo e, in un grande boulevard di cui non ricordo il nome, trovo uno
di questi megastore Virgin: decido di entrare più per la solita questione del caldo – nel frattempo il sole se n’è definitivamente andato e magari la temperatura è scesa di un altro paio di gradi
– che per l’effettiva necessità di acquistare qualcosa.
Al netto di una impressione di ‘globalizzazione’ e di omologazione, i francesi sono davvero linguisticamente impermeabili: tutto è in francese; al bancone TGV delle ferrovie Valeria non ha
trovato nessuno che parlasse inglese (nel centro d’Europa, nell’anno domini 2009!); qui nel megastore, allo scaffale ‘turismo’ le guide nazionali – la Francia, Parigi – sono scritte… in francese
e basta! Il 90% degli scaffali del piano sotterraneo, che contengono musica e video in grandi
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quantità, vedo solo cantanti, musicisti, registi, film, documentari francesi. Ma non tradotti in
francese – come può accadere da noi in Italia, che si traduce quel che arriva da fuori – proprio
francesi e basta! Autarchia! Non so: faccio fatica a pensare che un posto del genere abbia un rilievo così determinante per la cultura europea. Non mi si fraintenda: di fatto lo è e questo ruolo
ce l’ha. Ma è questa sorta di ‘impermeabilità’ a lasciarmi perplesso. Poi è vero: la lingua ufficiale
delle ex colonie (loro) è il francese e questo di sicuro ha un suo peso specifico, ma se la lingua
‘franca’ è stata ormai universalmente riconosciuta come l’inglese, davvero non capisco perché si
ostinino così tanto. Di sicuro ci saranno precise ragioni storiche, antropologiche, ecc., ma la «capacità di cambiamento»?5
Mi è sembrato, in tal senso, molto più crogiolo e ricco di aperture linguistiche (e quindi tout
court culturali) il Lussemburgo (dove si parla l’inglese, il tedesco, il francese e quello che sembra
somigliare a un fiammingo/olandese…) che non Parigi!
Esco un po’ perplesso. Il mio soggiorno francese si chiude in un ristorante indiano, di cui sono
l’unico avventore, a pochi passi dall’albergo (basta
freddo: ho fatto il pieno!). Curato, ha i suoi begli elementi kitsch dei quali sorrido tra me. Saluto, che domani sarà comunque un’altra lunga giornata di viaggio
verso ‘casa’ (Milano: non propriamente casa, ma insomma…). Sulla via del ritorno penso a questa modernità che accomuna e appiattisce: anche a Parigi
hanno i numeri verdi (che però si chiamano azzurri)
dove magari hanno tanti signor Malaussène che di
mestiere fanno i capri espiatori e si prendono i cazziatoni della gente. Anche qui, come da noi, hanno agenzie interinali con posti da elettricista e tornitore ad assunzione immediata.
PS (prima di dormire): alcune volte credo che il non
avere un buon possesso di una lingua straniera sia una
specie di fortuna che fa da forte deterrente a qualche
curioso pensiero per il quale mi vien voglia di mollar
tutto e tutti per ricominciare daccapo da un’altra parNotte di S. Lorenzo – © Giampaolo Talani
te.
07.01.2009
07.01.2009 Aeroporto Charles De Gaulle, terminal 2B
Come previsto arrivo con largo anticipo, ma non senza imprevisto: abbandonata la pur dignitosa
(e confortevole: almeno per il letto) stamberga nella quale ho alloggiato questa notte, passato per
un café che mi ha ricordato di essere ancora e pur sempre a Parigi (caffè e croissant 4 €: poi ci si
chiede il motivo di certi sommovimenti popolari come quelli avvenuti alle Balenieu), mi avvio
alla Gare du Nord : ieri, mentre accompagnavo Valeria, ho visto una specie di servizio navetta
che conduce all’aeroporto.
Cerco di fare il biglietto alle macchinette automatiche, metà delle quali sono fuori servizio. Mi
metto diligentemente in coda in una di quelle in servizio. Scopro, scegliendo sul menu a video,
che il biglietto costa 8,40 €, ma anche che la macchinetta non accetta nient’altro che monete!
5
Per chi fosse interessato ad approfondire un minimo la questione linguistico-culturale francese, Marco D’Eramo, in un
suo vecchio e illuminante libro, Lo sciamano in elicottero, dedica un intero capitolo a questa vicenda.
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Non avendo ottovirgolaquarantaeuro in monete, desisto e vado alla biglietteria: la signora capisce immediatamente, nonostante io parta dall’inglese, la mia latinità e si sforza di parlare un italo-spagnolo commovente. Forse cara andrebbe bene anche la tua lingua madre, purché non parlata come una scheggia. Mi indica anche il binario, il 43, della RER (uno dei sicuri acronimi
francesi che sta tra TGV – pronuncia: tegevè – e VTT – pronuncia: vetetè6), una specie di “ferrovia leggera”, di metro extraurbana. Guardo, cerco conferma e… riesco a sbagliare il tornello
d’ingresso!
Solo che una volta pinzato il biglietto indietro non si torna (non è come per la maggior parte
delle metro italiane, per le quali l’accesso in uscita è
sempre garantito), salvo imitare il giochetto di uno
che ha avuto la mia stessa sorte e che, con nonchalance, si accoda appiccicandosi a uno che esce col biglietto letto per l’uscita.
Aspetto un po’ poi faccio lo stesso, ma il problema,
avendo già convalidato in ingresso il biglietto una
volta, si ripresenta: non vengo accettato per un secondo ingresso. Così, vista l’assenza del personale di
controllo, faccio il portoghese, anzi: l’italiano e, di
nuovo, pure in ingresso, mi infilo al volo dietro uno
che entra. Stavolta sono nel posto giusto, anche se i
treni per l’aeroporto sono in ritardo e la banchina è
sovraffollata. Riesco a stiparmi, a farmi acciuga nonostante il bagaglio e, in capo a due fermate, la ressa
scema al punto da potersi comodamente sedere.
L’ultimo attimo di panico mi viene all’uscita del
terminal 2, dove il biglietto metro/RER deve essere
riconvalidato per poter uscire. Il giochino, com’è logico che sia (in effetti dalle infernali macchinette dei
L’uomo che aspetta – © Giampaolo Talani
tornelli è stato timbrato una sola volta in ingresso),
funziona, anche se date le premesse, poteva non essere scontato. La morale della storia è: se
prendete la metro a Parigi NON buttate MAI via il biglietto PRIMA di essere usciti definitivamente dalla metro e NON lo perdete (e li fanno sufficientemente piccoli apposta che non è
un’ipotesi remota…): potrebbe costarvi caro. Soprattutto perché bisogna spiegare al personale
SNCF e poi, se questi non capiscono, alla gendarmerie francese che magari parla solo francese,
perché il solito italiano furbo che sembra non voler pagare e/o aver trovato il solito escamotage
per, in realtà ha solo sbagliato a infilare una porta per sbadataggine, ma fors’anche per una segnaletica non proprio limpida (ma, almeno qui, anche in inglese).
07.01.2009 Gare de l’Est, Paris,
Paris, TGV Paris Luxembourg
Luxembourg
Gli imprevisti non sono finiti e pare abbiano portata maggiore di quanto previsto. I voli Easyjet
diretti verso l’Italia (ovvero: verso tutti gli aeroporti del nord Italia…) di oggi sono stati cancellati causa neve. I treni, ammesso che qualcuno parta, subiscono stessa sorte e stesso incerto destino. Prigionieri di Francia, dunque, per almeno un giorno. Mi faccio delle pensate. Potrei ri6
Come non sapete cos’è una VTT? La mountain bike, no? Solo, siccome i francesi traducono tutto, l’acronimo indica le
velò tout terrain. E vabbé, coi francesi va così…
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manere qui a Parigi, ma ho la cattiva impressione che domani sia come oggi. Forse cattivo presagio, non so. So che non ho voglia di.
Certo: potrei anche andare finalmente a vedere il Louvre, ma c’è qualcosa di definitivo in certi
episodi: ho deciso che sarà per un’altra volta. Mi pare che Parigi sia una città intasata, che non
offra soluzioni a tutte le persone che oggi sono bloccate qui e per le quali domani si prospetta
comunque un rientro rocambolesco. Forse mi sbaglio, ma, al solito, sono portato all’azione.
Chiedo informazioni a Valeria via sms su quali sono le condizioni meteo in Italia, su quali sono
le concrete possibilità di rientro sulla linea alternativa percorsa all’andata (Milano, Zurigo, Lussemburgo), che, alla fine, diventerà anche quella del ritorno. Certo: toccherà viaggiare al solito
tutto il giorno, ma alla fine mi pare il risultato più sicuro.
Vedremo. Vedrò quando arriverò alla stazione di Lussemburgo, alle 18,20. Quanti giorni l’anno
è impossibile rientrare nel proprio Paese per il maltempo (soprattutto quando il Paese in questione ha un clima mite come l’Italia)? Probabilmente con un frequenza non lontana a quella
per la quale si capita a Parigi una volta in 38 anni e si trova il Louvre chiuso.
08.01.2009
08.01.2009 Lussemburgo stazione. In partenza ververso Zurigo
Così sono tornato qui. Daniele mi accoglie tra lo stravolto e il perplesso dal lavoro: fatica – non avevo dubbi – con la lingua che per convenzione è l’inglese, ma
l’inglese di chi è tedesco, quello di chi è olandese o
francese o spagnolo. Inglesi diversi comunque, e non
standard. In più è tutto nuovo: casa, città, colleghi, solitudini. Il ragazzo è giovane e di belle speranze. Come
si dice in questi casi: si farà. Ma, fuori da ogni possibile
battuta, Daniele è uno in gamba e presto, prima di
quanto creda, arriverà a padroneggiare con sufficiente
sicurezza anche questo aspetto di questo nuovo assetto
di vita.
Per cena ci consoliamo con una pizza, in un ristorante
italiano, anzi siciliano, visto che si chiama “La Zagara”. Il richiamo di casa, lo capisco, è forte. Ci si sente
un po’ spersi in un luogo dove si deve pensare a ogni
Partenza di un violinista – © Giampaolo Talani
frase che si dice, in una lingua che, per altro, non è
neppure quella di questo Paese. Ma così è.
Chiacchieriamo di molte cose. La serata passa veloce, tra il sottofondo costante delle canzoni di
Adriano Celentano e i menu scritti in questo italiano un po’ approssimativo, che mi fa tenerezza, come il cameriere che ci tiene a parlare italiano, perché nato in Sardegna. E ci tiene a correggersi quando lo guardiamo (forse senza pensare) con sguardo interrogativo per una macedonia alcolizzata, anziché alcolica.
Si corregge, ci chiede scusa per l’errore e pure arrossisce un poco. Mi viene per un attimo, voglia
di alzarmi e abbracciarlo. Anche da questo, penso, passa l’amor di patria. Chissà quanto ha girato, in quanti posti sarà stato questo ragazzo sardo che non ricorda alla perfezione la sua lingua
madre.
Torniamo indietro sulle strade bianche, polverose di sale cosparso a piene mani, a differenza
della verglassen Parigi. Qui sarà che sono in pochi, ma si vede che il granduca ci tiene un po’ di
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più alla salute dei propri concittadini. Bianco del sale che si frammischia al bianco della neve
indurita, gelata, che crea scorci suggestivi.
Questa mattina i saluti. Esco dopo Daniele tirandomi la porta dietro. Il tempo si è messo al sereno e si è quindi fa il freddo che ha fatto a Parigi l’altro giorno, accompagnato dalla sgradevole
sensazione che le orecchie debbano cascare come due cubetti di ghiaccio da un momento
all’altro (ovviamente continuo a non avere né guanti né cappello…). Il treno ha 15 minuti di ritardo che diventano 25 alla partenza (scopro che Lussemburgo è una sorta di capolinea). Ho
un’ora e 10 minuti di attesa per il cambio a Zurigo e mi auguro di farcela.
Nell’androne della quieta stazione nordica, poco fa, tre anziani ne chiamano un quarto con sibili
e fischi brevi, senza nome. Come un codice a lungo sperimentato. Fanno immediatamente crocchio e un po’ di caciara. Indovinate un po’ quale può essere la loro nazionalità? Tre su quattro
hanno la coppola, il quarto, rubizzo, porta un cappello a tesa larga e sotto le gote evidenti due
mustacchi di una volta. Hanno aspetto e aria florida, sono allegri.
Italienisch, emigrantes, cìngali, direbbe Mario Perrotta. Starei a osservarli tutta la mattina se
non dovessi prendere il treno. Nonostante siano le 11 del mattino il sole non scalda neanche un
po’ il ghiaccio intorno.
Primo pomeriggio in arrivo a Saint
Louis, ultimo
ultimo pezzo di Francia prima
della Sviz
Svizzera
Due ragazzi spartani nel vestire, forse
operai, forse macchinisti della SNCF,
chiacchierano fitto mentre la campagna, il paesaggio intorno, viaggiano
veloci, come le dita di Paolo Conte
sul pianoforte che suona Elegia in
mp3, nelle mie orecchie.
Ore 17 circa Zurigo, in partenza
per Lugano e, si spera, Milano
Uno strisciante sciovinismo sembra
essere presente anche qua: se la destinazione finale del treno è un’altra,
perché non metterla? Vabbè, sono finito in coda, che adesso diventa la testa, proprio a ridosso della cabina di
guida. Vedo il macchinista che apre
la porticina di accesso. Si è portato,
con passo lento e gesti misurati, i
“ciottolini”, quelli del cambio banco,
da questa parte. Il macchinista che fa
vita grama anche oltre il confine,
L’uomo che se ne va – © Giampaolo Talani
guidando locomotive marchiate “cargo” (quindi atte al trasporto merci) che trainano carrozze viaggiatori (visto in arrivo in stazione
qualche minuto fa).
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Interrompo la scrittura perché scopro… di essere sul binario sbagliato! Ero sull’ETR sbagliato, il
Dürrenmatt. In effetti la direzione era la stessa, ma non la destinazione (Lugano e non Milano,
da qui il pensiero sullo ‘sciovinismo’…). Solo non c’era scritto ‘Cisalpino’. Poi la fleißig signorina degli annunci aveva annunciato «gleis funf» e ha ripetuto in italiano binario cinque. Mi sembrava troppo vuoto e poi ho visto arrivare questo sul quale sono seduto, sul binario di fianco. E
vabbè dopo tutto ‘sto viaggiare ed essere quasi arrivati, sarebbe stato il colmo sbagliare il penultimo (ma decisivo) treno per arrivare.
Come ho fatto a sbagliare! Con tutta l’italianità caciarona che ho intorno – a differenza della totale assenza
di persone dell’altro, sul quale sta addirittura scritto in
tedesco «zona del silenzio», con una bella croce sul
simbolo del cellulare e pure di lettori audio con le cuffiette!
Vabbè, prima di partire, ora, con 15 minuti di ritardo,
mi sono fatto il mio giretto per sgranchire le gambe ai
-5 offerti dalla città. Fuori dalla stazione la fontana,
all’andata, non la ricordavo con una barba di ghiaccio
così folta. Comunque torno in fretta nel centro commerciale sotterraneo, sotto la stazione, per osservare,
se mai ve ne fosse il bisogno, quanto son brutte le
scarpe nei negozi. Sapranno pure fare gli orologi e anche la cioccolata, ma quanto a vestirsi e calzarsi, tranne qualche rara eccezione, siamo ancora lontani dal
buon gusto. Osservo con curiosità una rastrelliera alla
quale sono legati dei portafogli: che non porti fortuna
averne uno svizzero, visto che è un posto nel quale paLa violinista – © Giampaolo Talani
re che i soldi si conservino bene?
Ora ho seduto di fronte a me un ragazzo che ha interloquito al telefono con la fidanzata, chiamata “amore”. Quella che si dice una sineddoche. La più fantastica e abusata delle – aggiungerei.
Al netto dello stucchevole tono della conversazione (quanto mi ami? Che fai? Mi manchi. Anche tu. Ma quanto. Tanto. Ma tanto quanto, ecc. ecc.), mi fa impressione una frase per la quale
questo giovanotto sveglio, nel pieno dei suoi anni e delle sue facoltà ha chiesto a un altro italiano – simpatico, che lavora all’ambasciata – quale fosse il treno giusto.
Vabbè, io l’ho sbagliato, per una sorta di leggerezza e di approssimazione con la quale alle volte
faccio le cose, ma arrivare a «è stato gentile, mi ha aiutato», mi pare fin eccessivo: dove siamo,
nella foresta amazzonica? Zurigo, alla fine, è dietro casa ragazzo!
Provenienza: Treviglio, tra Milano e Bergamo. Profondo nord. Che incontra il profondo sud: il
ragazzo nella conversazione telefonica prosegue infatti, sostenendo di aver incontrato durante
questo viaggio un altro italiano con il quale ha conversato un po’. Un siciliano che vive da
vent’anni in Germania (quindi si presume sappia il tedesco almeno come l’italiano).
Morale – ammesso che una la si voglia trovare in questo aneddoto finale: la necessità aguzza
l’ingegno e talvolta (quasi sempre) conduce un pezzo più avanti chi ne è soggetto.
La Svizzera a quest’ora, dopo tutte queste ore di viaggio, scorre lenta, con i suoi 25 minuti di ritardo, le sue curve, i suoi bui, i suoi silenzi.
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17.01.2009 Massa, casa dei miei – un post scriptum
Ripenso a questo scritto. E ad altri di viaggi passati. Non so dire se in essi vi sia poesia o meno.
Di certo nel suo senso etimologico di ‘composizione’, ‘produzione’, senz’altro. Ma per come la si
intende comunemente, o almeno, per come a me piace intenderla – aspetto immaginifico, potenza della parola che trasporta altrove chi legge – credo che il successo sia modesto e per lo più
si tratti di tentativi e prove. Di qualcosa di definitivo che forse verrà o forse non verrà mai.
In ogni caso, di qualunque cosa si tratti, è possibile che tutto possa venir capitalizzato, in una vita intera, per un solo “verso immortale”, come suggerisce Rainer Maria Rilke ne I quaderni di
Malte Laurids Brigge:
...Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente,
sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città,
uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti
con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d'infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per altri), a malattie dell'infanzia che cominciavano in modo così strano con tante
trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al
mare, a mari, a notti di viaggio che passavamo alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non
basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale
all'altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza
nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e
ne esca la prima parola di un verso.
Luciano
Un uomo – © Giampaolo Talani
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