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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
Relazioni di cura e cura della
relazione. II dialogo Martin Buber Carl R. Rogers (1957)
Daniele Bruzzone
Introduzione
Il dialogo tra il filosofo Martin Buber (1878-1965), considerato "il più
radicale" e "il più influente pensatore religioso del ventesimo secolo"1 e lo
psicologo e psicoterapeuta Carl R. Rogers (1902-1987), riconosciuto come "il
più influente psicoterapeuta" e "uno dei più influenti psicologi" della storia
americana, viene proposto in queste pagine per la prima volta al lettore
italiano, sulla base di uno studio filologico che ne conserva, attraverso la
traduzione, il clima originario e ne puntualizza, mediante il commento
critico, le questioni nodali, relative alla comunicazione interpersonale e alla
relazione d'aiuto2 .
Martin Buber era stato invitato, per iniziativa di Leslie Farber e con il
supporto della William Alanson White Foundation, a tenere un ciclo di lezioni
presso la Washington School of Psychiatry, prestigiosa istituzione fondata
dal massimo rappresentante della psichiatria relazionale, Harry Stack
Sullivan. Il Rev. DeWitt C. Baldwin, coordinatore religioso presso l'Università
1
L. Streiker, The Promise of Buber.
Lippincott, Philadelphia, 1969, p. 12.
Desultory Phillippics and Irenic Affirmations,
2
H. Kirschenbaum, "Author's note", in M. M. Suhd, Positive Regard: Carl Rogers and Other
Notables He Influenced, Science & Behavior Boote, Palo Alto 1995, p. 98.
1
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del Michigan, colse l'opportunità della presenza del filosofo di Gerusalemme
per organizzare ad Ann Arbor un convegno di tre giorni in suo onore. La sera
del secondo giorno (giovedì 18 aprile 1957) avvenne l'incontro pubblico con
Carl Rogers, a quell'epoca professore di Psicologia e responsabile del
Counseling Center dell'Università di Chicago. Moderatore della serata fu
Maurice Friedman (allora giovane docente del Sarah Lawrence College, oggi
professore emerito dell'Università di San Diego, California), uno dei più
autorevoli interpreti americani del pensiero di Buber, che aveva intrattenuto
con il pensatore ebreo uno scambio epistolare nel corso degli anni Cinquanta
e aveva notato in un suo libro3 le assonanze tra i principi della filosofia
dialogica4 e quelli della terapia centrata-sul-cliente5.
I due interlocutori si impegnarono in una conversazione della durata di
un'ora e mezza circa, svolta in presenza di un folto e qualificato uditorio (tra
cui anche la moglie di Buber, Paula, e sua nipote Judith, nota sociologa),
mettendo a confronto le proprie idee e la propria esperienza dei rapporti
interumani. L'incontro si rivelò per molti versi un'esperienza "memorabile"6.
Secondo Rogers, il dialogo si dimostrò, ben oltre le aspettative, "molto
significativo per entrambi"7, come del resto sarebbero stati in seguito i suoi
famosi incontri con B. F. Skinner, P. Tillich, M. Polanyi e C. Bateson8 . Si tratta
in effetti di un momento estremamente interessante nella storia della
filosofia e della psicologia delle relazioni interpersonali: grazie alle
molteplici affinità tra i due autori, ma anche in virtù delle loro non meno
significative divergenze, la dimensione del dialogo, che comporta un'opzione
antropologica fondamentale e si traduce in precisi atteggiamenti
comunicativi, emerge come la via regia di un profondo e autentico incontro
da persona a persona, capace di liberare le potenzialità evolutive e
costruttive insite nell'individuo e di catalizzare i dinamismi della crescita e
del cambiamento. L'interazione dialogica si pone quindi chiaramente come
un imprescindibile criterio metodologico della relazione d'aiuto, con
importanti risvolti di carattere psico-pedagogico.
La registrazione audiomagnetofonica dell'incontro, che Rogers ottenne
nonostante l'iniziale reticenza di Buber (il quale non aveva permesso che
venissero registrate le sue lezioni alla Washington School of Psychiatry), fu
trascritta probabilmente da una segretaria dello stesso Rogers e pubblicata
3
M. Friedman, Martin Buber: The Life of Dialogue, University of Chicago Press, Chicago,
1955.
4
M. Buber, I and Thou, T.&T. Clark, Edinburgh, 1937.
C.R. Rogers, Client-Centered Therapy. Its Current Practìce, Implìcations, and Theory,
Houghton Mifflin, Boston, 1951.
5
6
M. Friedman to C. Rogers, New York - 23 April 1957 (Lettera non pubblicata). The Carl R.
Rogers Collection, Manuscript Division, Library of Congress, Washington DC (box 6, folder 1).
7
R.l. Evans, Carl Rogers: The Man and His Ideas, Dutton, New York, 1975, p. 111.
8
cfr. H. Kirschenbaum, V.L. Henderson (eds.), Carl Rogers: Dialogues, Houghton Mifflin,
Boston, 1989. "Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", Psychologia, 1960, 3, pp.
208-221.
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dapprima in una rivista giapponese9 cui fecero seguito altre edizioni in
inglese10 e una in tedesco11 , sebbene tutte rechino in varia misura lacune e
imprecisioni. Il testo di riferimento adottato per la traduzione italiana è
quello dell'edizione critica più recente12 e si avvale dell'accesso a documenti
di prima mano conservati in diversi archivi13. Si è cercato, per quanto
possibile, di fornire una versione in lingua italiana che rispettasse
fedelmente lo sviluppo letterale della conversazione, benché le frequenti
interiezioni del parlato, le esitazioni, le inflessioni vocali e le interruzioni
della sintassi abbiano in qualche caso reso difficile l'impresa. Le note di
commento che accompagnano il testo hanno lo scopo di chiarire gli eventuali
problemi linguistici e interpretativi, di precisare laddove necessario i rimandi
bibliografici impliciti nella conversazione, e di sottolineare di volta in volta
gli snodi teorici e le implicazioni degne di nota emergenti dal discorso14 .
Poiché Rogers e Buber nel corso dell'incontro hanno affrontato alcuni temi
cruciali del loro pensiero, il dialogo offre molteplici spunti utili ad accostare
l'opera dei due interlocutori e a svilupparne il significato teoretico e
operativo. L'incontro tra Buber e Rogers, mentre testimonia il valore del
confronto interpersonale, è emblematico anche della difficoltà del dialogo:
alcune delle questioni che vengono affrontate non sono definitivamente
risolte, tra i due interlocutori permangono elementi di reciproca
incomprensione e, al di là degli evidenti punti di contatto, anche qualche
elemento di disaccordo. Ma ciò, in fondo, appartiene alla natura del dialogo
in quanto tale, e rende la conversazione doppiamente interessante: non solo
9
"Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", Psychologia, 1960, 3, pp. 208-221.
10
Cfr. M. Friedman, "Dialogue Between Martin Buber and Carl Rogers", in Id. (ed.), The Worlds
of Existentialism: A Criticai Keader, Random House, New York, 1964, pp. 485-497; M. Buber,
The Knowledge of Man: A Philosophy of the Interhuman, Harper & Row, New York,
1965; H. Kirschenbaum, V.L. Henderson (eds.), Carl Rogers: Dialogues, cit., pp. 41-63. "
11
"Dialog zwischen Martin Buber und Carl Rogers", Integrative Therapie, 18 (1992), pp. 245260.R. Anderson, K.N. Cissna, The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript
With Commentary, State University of New York Press, New York, 1997.
12
R. Anderson, K.N. Cissna, The Martin Buber - Carl Rogers Dialogue. A New Transcript With
Commentary, State University of New York Press, New York, 1997.
13
Il fondo documentale di Carl R. Rogers è confluito in maniera significativa presso la
Donald C. Davidson Library dell'Università della California a Santa Barbara (Department of
Special Collections, collection number: HPA Mss 32), ma un'altra parte notevole dei materiali
è conservata presso la Manuscript Division della Library of Congress di Washington DC
14
Per una trattazione puntuale e analitica dei problemi tecnici relativi al significato del
dialogo e alle vicende relative alle sue diverse trascrizioni, si rinvia agli studi più significativi
pubblicati sull'argomento: K.N. Cissna, R. Anderson, "The 1957 Martin Buber-Carl Rogers
Dialogue, as Dialogue", lournal of Humanistic Psychology, 34 (1994), pp. 11-45; M. Friedman,
"Reflections on the Buber-Rogers Dialogue", lournal of Humanistic Psychology, 34 (1994), pp.
46-65.
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per gli argomenti che vi sono discussi, ma anche per il modo in cui avviene il
colloquio. Anche per questa ragione, il testo dell'incontro Buber-Rogers, a
cìnquant'anni di distanza, rimane una pagina memorabile della psicologia e
della filosofia delle relazioni umane, densa di suggestioni per gli studiosi
(filosofi, psicologi, pedagogisti) e i professionisti della cura (psicoterapeuti,
consulenti, psichiatri, insegnanti, educatori) e per tutti coloro che sono
interessati alle risorse terapeutiche e alle potenzialità educative insite nella
relazione da persona a persona.
1.
[I primi 11 minuti di registrazione sono perlopiù
incomprensibili] ... il dottor Maurice Friedman come interprete o
moderatore... e sono sicuro che molti di voi hanno atteso questa
opportunità di vedere lo scambio e di sentire... [incomprensibile] di due
uomini come il dottor Carl Rogers e il dottor Buber. E così15 , il mio
stasera è un compito molto piacevole, quello [la qualità della
registrazione migliora] di darvi il benvenuto e di dirvi accomodatevi e
godetevi almeno un'ora di tempo in cui poter pensare con due uomini
che vogliono pervenire ad una comprensione un po' più ravvicinata delle
loro idee. Voglio soltanto presentarvi una persona e lasciare poi che sia
lui a parlare degli altri. Il moderatore è il professor Maurice S. Friedman,
professore di filosofia al Sarah Lawrence College di Bronxville, New
York. Il professor Friedman, come tutti coloro che hanno partecipato al
convegno sanno bene, è uno dei migliori interpreti americani di Martin
Buber. Egli ha studiato ad Harvard prima della laurea, e dopo la laurea
alla Ohio State University di Chicago, dove ha conseguito il dottorato, e
forse è conosciuto in relazione a Martin Buber soprattutto per il suo
libro, Martin Buber: The Life of Dialogue. Quindi, Maurice, a te la parola,
so che ti divertirai16 .
2. MAURICE FRIEDMAN: Grazie, DeWitt Baldwin. Mi fa molto piacere fare da
moderatore perché posso dire che forse sono stato io ad avviare il
dialogo tra il professor Buber e il professor Rogers alcuni anni or sono,
quando qualcuno mi fece notare certe somiglianze nel loro pensiero;
scrissi al dottor Rogers e lui gentilmente mi fornì dei materiali e in
seguito ci scrivemmo per un po', poi inviai questo materiale a Buber,
REV. DEWITT BALDWIN:
15
Qui DeWitt Baldwin esita e si schiarisce la voce. Nella trascrizione originale sono
fedelmente riportati i numerosissimi segnali paralinguistici che accompagnano e intercalano
la conversazione (schiarimenti di voce, balbettii, ripetizioni di singole parole, errori e
autocorrezioni, suoni vocali che significano esitazione o stupore o assenso, ecc.) ma per non
ostacolare la lettura si è preferito ometterli in questa traduzione. Alcune indicazioni relative
a interruzioni, risate, segnali di partecipazione del pubblico, ecc. sono invece state
conservate tra parentesi. Per il resto, si è tentato di mantenere la massima aderenza
possibile al testo parlato nelle sue forme grammaticali e sintattiche.
16
Questa versione dell'introduzione di Baldwin è più estesa e dettagliata di quella contenuta
nel dattiloscritto originale e spesso omessa nelle trascrizioni pubblicate.
4
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inclusi degli articoli del professor Rogers, e fui davvero molto felice
quando venne fuori l'idea di averli entrambi qui a parlare in dialogo.
Penso che sia un incontro estremamente significativo, non solo in
rapporto a - [breve interruzione prevalentemente incomprensibile
apparentemente dovuta alla posizione del microfono] non solo in
rapporto alla psicoterapia, ma per il fatto che tutti e due questi uomini
hanno... [incomprensibile] la nostra ammirazione, come persone che
hanno un approccio alle relazioni personali e al divenire personale. Ci
sono così tante somiglianze rilevanti nel loro pensiero che è persino
affascinante avere il privilegio di vederli parlare insieme e vedere quali
questioni potranno anche venirne fuori. E il mio ruolo di moderatore è
solo, se si presenterà l'occasione, di precisare tali questioni od
interpretarle in un modo o nell'altro. Non avete bisogno, penso, che vi
presenti il professor Buber, dal momento che il convegno è incentrato su
di lui, e sono sicuro che non avete neppure bisogno che vi presenti il
dottor Rogers. Egli, naturalmente, è stato famoso per moltissimi anni
come il fondatore della terapia un tempo cosiddetta "non direttiva", ora,
credo, ribattezzata terapia centrata-sul-cliente, ed è il direttore del
Counseling Center dell'Università di Chicago, dove ha avuto rapporti
molto fecondi con il gruppo dei teologi e i corsi sulla personalità e la
religione. E la forma di questo dialogo sarà che il dottor Rogers stesso
porrà delle domande al dottor Buber e il dottor Buber risponderà, forse
con una domanda, forse con un'affermazione. Lasceremo che siano loro
a continuare, adesso. Dottor Rogers17 .
3. CARL R. ROGERS: Una cosa che sento di voler dire all'uditorio prima di
iniziare a parlare con il dottor Buber è che questo è assolutamente un
dialogo non preparato. Le condizioni del tempo mi hanno costretto a
impiegare tutto il giorno per arrivare qui, e così è stato soltanto un'ora
fa o due che ho incontrato il dottor Buber, anche se l'ho incontrato
molto tempo fa nei suoi scritti. Penso che la prima domanda che mi
piacerebbe porle, dottor Buber, potrebbe suonare un tantino
impertinente, ma vorrei spiegarla e dopo forse non sembrerà
impertinente. Mi sono chiesto: come ha fatto a vivere relazioni
interpersonali così profonde e a raggiungere una tale comprensione
17
Il ruolo centrale di Buber, attorno al quale ruota l'intero convegno, è chiaramente delineato
nell'intervento introduttivo di Friedman, tanto che la funzione di Rogers, solo in parte
rispettata nel corso della conversazione, dovrebbe essere quella di porre domande e
attendere risposte. In genere, l'atteggiamento degli interlocutori, soprattutto inizialmente,
appare piuttosto diverso: Buber tende a rispondere in maniera più assertiva e solo
progressivamente cede alla dialettica; Rogers, invece, assume immediatamente un ruolo più
problematizzante. Sembra che fosse stato stabilito precedentemente anche la posizione
eminentemente passiva dell'uditorio, per cui nessuno, in queste prime battute, menziona la
possibilità di porre domande da parte del pubblico. È comunque immediatamente evidente
che il tema della discussione è duplice ma allo stesso tempo unitario: "le relazioni e il
divenire personale", non come due questioni parallele, bensì nelle loro intersezioni
specifiche. Il tema delineato fin dall'inizio è quindi quello del rapporto tra la comunicazione
interpersonale e i dinamismi del cambiamento, ovvero la questione cardine della stessa
natura del dialogo come processo terapeutico ed educativo.
5
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dell'essere umano, senza essere uno psicoterapeuta? [Buber ride; il
pubblico ride] La ragione per cui lo chiedo è che mi sembra che molti di
noi sono arrivati a intuire e sperimentare alcune di quelle acquisizioni
che lei ha espresso nei suoi scritti, ma molto spesso ci siamo arrivati
attraverso la nostra esperienza di psicoterapia, lo penso che ci sia
qualcosa nella relazione psicoterapeutica che ci permette, quasi in modo
formale, di entrare in un rapporto profondo e intimo con una persona, e
in questo modo noi tendiamo ad apprendere in maniera molto profonda.
Penso a un mio amico psichiatra che dice che18 non sente mai totalmente
o così tanto una persona, come nei suoi colloqui terapeutici; e io
condivido questa impressione. E quindi, se non è troppo personale, mi
interesserebbe sapere quali sono stati i canali di conoscenza che le
hanno permesso di imparare davvero così tanto sulle persone e sulle
relazioni19?
4. MARTIN BUBER: Hmmm. È piuttosto una questione biografica. Penso che
dovrò dare due risposte anziché una. Una, - [poco chiaro: aber, "ma" in
tedesco, o forse rather] questo è solo un particolare - è che io non sono
del tutto estraneo, me lo lasci dire, alla psichiatria, perché quand'ero
studente -molto tempo fa - ho studiato per tre trimestri psichiatria e
quella che in Germania chiamano "Psychiatrische-Klinique". lo ero più
che altro interessato a quest'ultima. Vede, non ho studiato psichiatria
per diventare uno psicoterapeuta. L'ho studiata per tre trimestri. Prima
con Flechsig a Lipsia, dove ero uno degli allievi di Wundt. Poi a Berlino,
con Mende], e il terzo trimestre con Bleuler a Zurigo, che era il più
interessante dei tre. Volevo, allora... [incomprensibile: frase in tedesco?]
- ero anche un uomo molto giovane, senza esperienza, e non molto
perspicace. Ma ebbi l'impressione che volevo conoscere l'uomo e l'uomo
nel cosiddetto stato patologico. Dubitavo anche allora che fosse il
termine giusto. [Rogers: "Oh, capisco"] Volevo vedere, incontrare se
possibile, quelle persone, e - per quanto posso ricordare - stabilire la
relazione, la vera relazione tra quello che noi chiamiamo un uomo sano
e quello che chiamiamo un uomo patologico. E questo l'ho imparato in
qualche misura - per quanto un ragazzo di circa vent'anni può [Buber
18
La trascrizione originale riporta qui 2,5 secondi di pausa, e indica i momenti successivi di
attesa o di silenzio indicando tra parentesi la loro durata cronologica. Benché non siano
prive di significato, per rendere più scorrevole la lettura si è deciso di omettere tali
indicazioni.
19
Rogers dichiara fin dall'inizio la presenza e l'importanza del pubblico e puntualizza che
l'incontro non è stato preparato. Dalle carte rogersiane conservate nella sezione manoscritti
della Library of Congress (Washington DC) emerge come Rogers conoscesse gli scritti di
Buber almeno da alcuni anni: nel 1952, per esempio, ne fece oggetto di insegnamento nei
suoi corsi a Chicago. Egli aveva approntato nove domande da porre a Buber, ma riuscì a
farne soltanto quattro. Le cinque rimaste inespresse con-cernevano i seguenti argomenti: se
Buber considerasse la natura umana fondamentalmente positiva; quali fossero secondo
Buber gli elementi decisivi per produrre cambiamento in una relazione lo-Tu; se Buber fosse
d'accordo nel dire che una persona, una relazione, una nazione o una scienza sono migliori o
più efficienti quando sono in un processo di divenire; quale fosse l'idea buberiana di
apprendimento e di educazione; se anche Buber credesse che le scienze del comportamento
minacciano di produrre una prevaricazione del rapporto Io-esso sulla relazione lo-Tu.
6
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sorride] imparare queste cose. Ma ciò che soprattutto ha formato ciò che
lei mi chiede, è stato qualcos'altro. È stata una certa inclinazione a
incontrare le persone, per quanto possibile, per cambiare se possibile
qualcosa nell'altro, ma anche per lasciarmi cambiare da lui. In ogni caso,
non vi opponevo resistenze, lo - già allora, da giovane - sentivo che non
avevo il diritto di voler cambiare un altro se non ero disposto ad essere
cambiato da lui per quel tanto che è giusto. Qualcosa deve essere
cambiato e il tocco dell'altro, il suo contatto, è capace di cambiarlo più o
meno. Non posso stare, per così dire, al di sopra di lui e dire: "No! Sono
fuori gioco! Tu sei matto". Quindi - vediamo - ci sono state due fasi. La
prima fase fino all'anno '18-'19, fino quasi ai miei quarant’anni20 .
5. ROGERS: Fino a quasi quarant’anni?21
6. BUBER: Esatto. E poi, nel 1819, sentii qualcosa di piuttosto strano. Sentii
che ero stato, fortemente influenzato da qualcosa che stava finendo
proprio allora, cioè la seconda, la prima guerra mondiale22.
7. ROGERS: Nel 1918.
8. BUBER: Mhmmm. Finì allora, e durante la guerra, non mi resi granché
conto di questa influenza. Ma alla fine mi accorsi: "Oh, sono stato
terribilmente influenzato", perché io, non potevo resistere a ciò che
stava accadendo, ero quasi costretto, se così posso dire, a viverlo.
Capisce? Le cose che accadevano in quel momento. Si potrebbe
chiamarlo "immaginare il reale". Immaginare ciò che stava accadendo.
Questo immaginare, per quattro anni, mi ha influenzato terribilmente.
Proprio quando finì con un certo episodio, forse nel '19, quando un mio
amico, un grande amico, un grande uomo, fu ucciso dai soldati
antirivoluzionari in modo barbaro, e io, ancora una volta - e fu l'ultima fui, costretto ad immaginare questo assassinio, non solo però in modo
visivo, ma se così posso dire, con il mio corpo23 .
20
Buber appare interessato fin dall'inizio alla situazione patologica - di pertinenza specifica
della psichiatria e della psicoterapia - come situazione limite per la comunicazione.
Nonostante faccia riferimento ad una cura di tipo clinico, però, non rinuncia a chiarire che il
dialogo consiste in una certa predisposizione alla reciprocità e non in una tecnica per la
manipolazione unilaterale dell'altro.
21
Nell'approccio centrato-sulla-persona, la ripresa della verbalizzazione dell'interlocutore,
anche nella semplice forma della ripetizione delle sue ultime parole da parte del terapeutafacilitatore, tende a supportare l'interazione, confermando l'altro e incoraggiando il
prosieguo della comunicazione.
22
Buber, già dalla frase precedente, dice "eighteen nineteen" invertendo le cifre per errore:
in realtà vuole dire "nineteen eighteen", cioè indicare l'anno 1918, come risulta
evidentemente dal riferimento alla fine della prima guerra mondiale e dalla correzione di
Rogers subito dopo.
23
II "grande amico" cui Buber fa riferimento è Gustav Landauer, incontrato nell'ambito del
movimento filo-socialista Die neue Gemeinschaft e tragicamente scomparso nel 1919. I
biografi considerano la sua morte uno dei tre eventi maggiormente incisivi nell'esistenza di
Buber. (Cfr. anche M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici, trad. dal tedesco, Città
Nuova, Roma 1998).
7
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9. ROGERS: Con i suoi sentimenti24.
10.BUBER: E questa è stata la... [incomprensibile] decisiva o meglio, il
momento decisivo, dopo di che, dopo alcuni giorni e notti in questo
stato, sentii che: "Oh, mi è accaduto qualcosa". E da allora in poi, questi
incontri con le persone, in particolare con i giovani, con le persone
giovani, furono - diventarono - in qualche modo diversi. Avevo avuto
un'esperienza decisiva, un'esperienza di quattro anni, un'esperienza
molto concreta e da allora dovevo dare qualcosa di più, che la mia
inclinazione a scambiare pensieri e sentimenti, e così via. Dovevo dare il
frutto di un'esperienza.
11. ROGERS: Sembra che lei stia dicendo che la conoscenza forse, o una
parte di essa, è venuta negli anni '20, ma poi parte della saggezza che lei
ha in fatto di relazioni interpersonali, è venuta dal voler incontrare le
persone apertamente, senza volerle dominare. E poi - la vedo come una
sorta di triplice risposta - terzo, dall'aver vissuto realmente la guerra
mondiale, ma dall'averla vissuta nei suoi sentimenti e nella sua
immaginazione25.
12.BUBER: Hmm. Proprio così. Perché quest'ultimo è stato veramente, non
posso dirlo con altre parole, è stato veramente un vivere con quelle
persone. Persone ferite, uccise in guerra.
13.ROGERS: Lei sentiva le loro ferite26 .
14.BUBER: Sì. Ma non è abbastanza forte la parola "sentire".
15.ROGERS: Vorrebbe qualcosa di più forte. Vorrei suggerire una cosa,
anche se ci interrompe un po'. Non posso guardare il microfono e
guardare lei contemporaneamente. Le dispiace se giro un po' il
tavolino27?
16.BUBER: Sì, prego, prego.
17.ROGERS: Allora
18.BUBER: Devo sedermi qui?
24
Esempio di risposta di riformulazione o delucidazione: Rogers cerca di esplicitare ciò che
Buber vuole esprimere.
25
Il riferimento agli "anni '20" è da intendersi piuttosto come un riferimento ai vent'anni
del giovane Buber. Riassumendo e riorganizzando la risposta di Buber pur senza
aggiungervi elementi estranei, Rogers offre un esempio del procedimento metodologico
dell'"ascolto attivo".
26
Risposta-riflesso che tenta di cogliere empaticamente e rinviare all'altro il vissuto
espresso nella comunicazione, in modo che egli vi si riconosca o tenti di esprimerlo più
accuratamente.
27
La riformulazione "Vorrebbe qualcosa di più forte" predispone ad un'ulteriore
esplicitazione dell'esperienza, ma in questo caso l'opportunità decade a causa
dell'interruzione dovuta allo spostamento del tavolino. Del resto, anche quest'attenzione alla
strutturazione fisica del setting dell'interazione e alla posizione reciproca è un elemento
fondamentale dell'attenzione al contesto comunicativo, a cui Rogers sembra molto sensibile
anche in questa occasione.
8
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19.ROGERS: Sì. Lo sposti avanti solo un po' e poi penso che –
20.BUBER: Così va bene?
21. ROGERS: Mi sembra meglio. Spero vada bene per il pubblico.
22.FRIEDMAN: Mentre si sta spostando, dirò questo, che la domanda del
professor Rogers mi ha fatto venire in mente uno studente di teologia di
un seminario battista che mi parlò per un'ora del pensiero del professor
Buber, e quando se ne andò disse: "Devo farle una domanda. Il professor
Buber è così buono. Come mai non è un cristiano?" [Risate]
23. BUBER: Posso raccontarle una storia, non su di me, ma una storia vera,
non un semplice aneddoto. Un ufficiale cristiano, ufficiale- non so,
colonnello, o qualcosa del genere -doveva spiegare ad alcune persone in
- penso - in Galles, doveva spiegare loro qualcosa durante la guerra, la
seconda guerra... [incomprensibile] spiegare - ai soldati - qualcosa sugli
ebrei. Iniziò, naturalmente, con la spiegazione di ciò che dice Hitler e
così via, e spiegò loro che gli ebrei non sono proprio una razza barbara,
hanno una grande cultura, eccetera; e poi indicò un soldato ebreo che
era là e che ne sapeva qualcosa e gli disse: "Ora va avanti tu e di' loro
qualcosa". E questo giovane ebreo raccontò loro qualcosa su Israele e
perfino su Gesù. E uno dei soldati rispose: "Vuoi dire che prima del tuo
Gesù non eravamo cristiani?" [Lunga risata]
24. BUBER: Ora vada avanti lei.
25. ROGERS: Oh no... [Incomprensibile - "Non dopo questo"?]
26. BUBER: No? [Ancora risate]
27. ROGERS: Bene, vorrei passare a una domanda che mi sono fatto
spesso. Mi sono chiesto se il suo concetto - o la sua esperienza - di ciò
che ha chiamato la relazione lo-Tu è simile a ciò che io vedo come il
momento efficace in una relazione terapeutica. E - se me lo permette vorrei spendere qualche istante per dire ciò che ritengo [Buber: "Sì, sì".]
essenziale in essa, e poi forse lei potrà commentarlo dal suo punto di
vista. Sento che quando sono efficace come terapeuta, entro nella
relazione come una persona, non come un esaminatore, non come uno
scienziato, eccetera. Sento anche che quando sono più efficace, allora in
certo senso io sono intero in quella relazione, o la parola che mi sembra
significativa è "trasparente". Ossia, non c'è nulla - certamente ci possono
essere molti aspetti della mia vita che non sono portati all'interno della
relazione, ma ciò che c'è nella relazione è trasparente. Non c'è nulla,
nulla di nascosto. Poi penso anche che in tale relazione sento una vera e
propria volontà che quest'altra persona sia ciò che è. lo la chiamo
"accettazione". Non so se sia una parola molto buona, ma ciò che voglio
dire è che voglio che ella abbia i sentimenti che ha, abbia gli
atteggiamenti che ha, sia la persona che è. E poi suppongo che un altro
aspetto che per me è importante è che io penso in quei momenti di
essere veramente capace di percepire con una certa chiarezza come la
sua esperienza le appare, vedendola davvero dal suo interno, e tuttavia
senza perdere in questo la mia personalità o la mia distinzione. E poi se,
in aggiunta a queste cose da parte mia, il mio cliente o la persona con
cui sto lavorando è capace di percepire qualcosa di questi miei
atteggiamenti, allora mi sembra che ci sia un vero incontro esperienziale
tra persone, in cui ciascuno viene cambiato. Non so - penso a volte che il
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cliente venga cambiato più di me, ma penso che entrambi siamo
cambiati in questo genere di esperienza. Ora, mi pare che ciò abbia una
qualche somiglianza con il genere di cose che lei ha detto sulla relazione
lo-Tu. Tuttavia, sospetto che vi siano delle differenze. In ogni caso, mi
interesserebbe molto il suo commento su come questa descrizione le
sembra, in relazione a ciò che ha pensato nei termini di due persone che
si frequentano, o di una relazione del tipo lo-Tu28 .
28.BUBER: Posso provare - ma mi permetta di fare qualche domanda anche
su ciò che lei pensa. Anzitutto, direi, questa è l'azione di un terapeuta. È
un ottimo esempio di un certo modo di esistenza dialogica. Voglio dire:
due persone hanno in comune una certa situazione. Questa situazione è,
dal suo punto di vista - punto non è una buona parola, ma vediamola
pure dal suo punto di vista - è che un uomo malato viene da lei e le
chiede un particolare tipo di aiuto. Ora, provi a guardare...
[incomprensibile - Rogers si sovrappone] - che cosa vedrebbe?
29. ROGERS: Posso interromperla qui?
30. BUBER: Sì, prego.
31. ROGERS: lo sento che, se dal mio punto di vista questa è una persona
malata [qualcuno versa dell'acqua], allora probabilmente non sarò
d'aiuto come potrei essere. Sento che questa è una persona. Sì, qualcun
altro la chiamerebbe malata, o se la guardassi da un punto di vista in
qualche modo oggettivo, potrei anche essere d'accordo: "Sì, è malata".
Ma entrando in relazione mi sembra che se la guardo come "lo sono una
persona relativamente sana e questa è una persona malata" 32. BUBER: No, ma non intendo questo.
28
Rogers pone il problema degli atteggiamenti nella relazione efficace, e inizia da quel
prerequisito fondamentale che consiste nell'autenticità o congruenza (qui "trasparenza"), per
poi incentrarsi sulla condizione sine qua del cambiamento terapeutico, cioè in
quell'atteggiamento di "accettazione", di accoglienza calorosa e non giudicante dell'altro, che
progressivamente si verrà definendo come "considerazione positiva incondizionata", che ha
la funzione di creare un clima psicologico di sicurezza e di fiducia, incrementando
l'autoaccettazione e l'autostima, cosicché le resistenze autodifensive vengano eliminate alla
radice. Il terzo atteggiamento caratterizzante la relazione d'aiuto, qui solo accennato, è
quello della comprensione empatica, mediante la quale si riesce a cogliere l'esperienza
vissuta dell'altro senza sovrapporvi interpretazioni indebite e senza cadere nel rischio della
identificazione. Rogers fa riferimento infine alla necessità che l'altro percepisca tali
atteggiamenti, ovvero alla dimensione della "implementation" che esige di tradurre le
disposizioni interiori in comportamenti operativi e in qualche misura concretamente
percepibili nella comunicazione da persona a persona. È forse utile ricordare che, proprio in
quei mesi, Rogers stava elaborando il suo studio sulle condizioni "necessarie e sufficienti"
della relazione efficace (cfr. C.R. Rogers, "The Necessary and Sufficient Conditions of
Therapeutic Personality Change", Journal of Consulting Psychology, 21 11957], 2, pp. 95-103).
Circa lo sviluppo delle concettualizzazioni rogersiane e i progressi della ricerca empirica
sulle condizioni della relazione terapeutica efficace, si rinvia ai 4 volumi della serie Rogers'
Therapeutic Conditions: Evolution, Theory and Practice, vol.1 : Congruence (a cura di C.
Wyatt), voi. 2: Empathy (a cura di S. Haugh e T. Merry), voi. 3: Unconditional Positive Regard
(a cura di J.D. Bozarth e P. Wilkins), voi. 4: Contaci and Perception (a cura di G. Wyatt e P.
Sanders), PCCS Books, Ross-on-Wye 2001-2002.
10
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
33. ROGERS: - non va bene.
34. BUBER: Non intendo questo. Mi permetta di tralasciare questa parola,
"malato". Un uomo viene da lei in cerca d'aiuto. La differenza - la
differenza essenziale - tra il suo ruolo e quello di lui in questa
situazione è ovvia. Lui viene da lei per un aiuto. Lei non va da lui per un
aiuto. Non solo, ma lei è capace, più o meno, di aiutarlo. Lui può fare
diverse cose, ma non aiutare lei. Non solo. Lei lo vede, in realtà. Non
intendo dire che lei non può sbagliare, sa, ma lei lo vede, come diceva,
come egli è. Lui non può, affatto, vedere lei. Non solo nella stessa
misura, ma anche con lo stesso tipo di sguardo. Lei è, naturalmente, una
persona molto importante per lui. Ma non una persona che lui voglia e
possa vedere e conoscere. Lei è importante per lui. Dal momento che
viene da lei, lui è, direi, intrappolato nella sua vita, nei suoi pensieri, nel
suo essere, nella sua comunicazione, eccetera. Ma non gli interessa lei in
quanto tale. Non può. Lei è interessato, dice così e ha ragione, a lui come
persona. Questo tipo di presenza distaccata lui non può averla né darla.
Ora questo è il primo punto, per come la vedo io. E il secondo è - ora,
prego, dica 35. ROGERS: ... [incomprensibile] Sì, io non sono del tutto sicuro 36. BUBER: Può interrompermi in qualsiasi momento.
37. ROGERS: Oh, va bene, lo, per la verità, volevo capire. Il fatto che io sia
capace di vederlo in maniera meno distorta di come lui veda me, e che io
abbia il ruolo di aiutarlo e che lui non stia provando a conoscermi nello
stesso senso - è questo che intende per "presenza distaccata"?
38. BUBER: Sì, hmmm hmm.
39. ROGERS: Volevo solo essere sicuro 40. BUBER: Hhmm. Hmmm.
41. ROGERS: Okay.
42. BUBER: Sì, solo questo.
43. ROGERS: Uh huh.
44. BUBER: Ora, il secondo fatto, perché lo vedo come un fatto, consiste in
questa situazione, che lei ha in comune con lui, solo da due lati. Lei è da
un lato della situazione, per così dire, più o meno attivo, e lui più o
meno passivo, non del tutto attivo, non del tutto passivo, naturalmente ma relativamente. E questa situazione - guardiamo adesso a questa
situazione comune dal suo punto di vista e da quello di lui. La stessa
situazione. Lei può vederla, sentirla, sperimentarla, da entrambi i lati.
Dal lato di lui - oh, incominciamo dal suo lato, vedendolo, osservandolo,
conoscendolo, aiutandolo -ma lui - dal lato suo e da quello di lui. Lei può
sperimentare, oserei dire, sperimentare completamente, il suo lato della
situazione. Quando lei fa, per così dire, qualcosa a lui, lei si senfe
toccato da ciò che gli ha fatto. Lui non può affatto farlo. Lei è dalla sua
parte e dalla parte di lui contemporaneamente. Qui e là, o diciamo
meglio, là e qui. Dove è lui e dove è lei. Lui non può che essere dove è. E
questo lei lo vuole, non solo lo vuole, lo pretende. I suoi bisogni inferiori
possono essere quelli che sono. Lo accetto. Non ho nulla da obiettare.
Ma la situazione presenta un'obiezione. Lei ha necessariamente un
atteggiamento nei confronti della situazione diverso da quello che ha lui.
Lei può fare qualcosa che lui non può fare. Non siete uguali, e non
11
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
potete esserlo. Lei ha un grande compito - autoimposto - un grande
compito autoimposto di integrare questo bisogno di lui e di fare di più
che in una situazione normale. Ma, naturalmente, ci sono dei limiti, e se
posso dirlo - certamente nella sua esperienza di terapeuta, di persona
che guarisce o aiuta a guarire, deve sperimentarlo continuamente [sono] limiti alla semplice umanità. "Alla semplice umanità" significa:
all'essere, io e il mio partner, per così dire, simili l'uno all'altro, sullo
stesso piano. Capisco che lei intenda essere sullo stesso piano, ma non
può esserlo. Non c'è soltanto lei, il suo modo di pensare, il suo modo di
fare, c'è anche una certa situazione - le cose stanno così e così - che
talvolta può essere tragica e persino più terribile di ciò che definiamo
tragico. Lei non può farci niente. [Buber sospira] L'umanità, la volontà
umana, la comprensione umana, non sono tutto. C'è una realtà con cui ci
confrontiamo, che si confronta con noi. Non possiamo - non ci è
permesso - dimenticarla per un momento29 .
45. ROGERS: Be', indubbiamente ciò che lei ha detto suscita dentro di me
molte reazioni. Una, penso, è questa. Mi lasci iniziare da un punto sul
quale penso che saremo d'accordo. Suppongo che lei sarà anche
d'accordo che se questo cliente arriva al punto da poter sperimentare
ciò che sta esprimendo, ma anche la mia comprensione di ciò e la mia
reazione ad esso e così via, allora davvero la terapia è quasi finita.
46. BUBER: Sì. È proprio quello che voglio dire.
47. ROGERS: Okay. Ma l'altra cosa che sento è questa. Mi sono chiesto
talvolta se questa è semplicemente una mia idiosincrasia, ma mi sembra
che, quando un'altro esprime davvero se stesso e la sua esperienza e
così via, io non mi sento, nel modo da lei descritto, diverso da lui. Cioè non so precisamente come dirlo - ma sento che in quel momento il suo
modo di guardare alla propria esperienza, per quanto possa essere
distorto, è qualcosa che posso considerare come se avesse la stessa
autorità, la stessa validità rispetto al modo in cui io vedo la vita e
l'esperienza. E mi pare che ciò sia la vera base dell'aiuto, in un certo
senso.
48. BUBER: Sì.
49. ROGERS: E sento che c'è un autentico senso di parità tra noi.
29
Gran parte della divergenza che contrappone Rogers e Buber in questa parte della loro
conversazione è dovuta probabilmente, come emerge sempre più chiaramente nella
prosecuzione del discorso, ad una differenza di punti di vista: da un lato, l'adozione
rogersiana di una prospettiva fenomenologica radicale, per cui ciò che conta non è tanto la
situazione reale quanto l'esperienza personale che il soggetto ha della realtà "esterna";
dall'altro, invece, l'esigenza buberiana di considerare la relazione terapeutica come una
forma sui generis e specializzata di esistenza dialogica, nella quale, per il fatto stesso che si
tratti di una relazione "d'aiuto", è impedita una perfetta reciprocità. È necessario osservare,
però, che la "pariteticità" a livello comunicativo e relazionale (caratteristica tipica
dell'approccio centrato-sulla-persona) consiste principalmente in uno strumento
metodologico per assicurare un rapporto entro il quale si faciliti la libertà di cambiare, e non
intende in ogni caso negare la "asimmetria" che "oggettivamente" costituisce ogni relazione
terapeutica o educativa.
12
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
50. BUBER: Nessun dubbio su questo. Ma io non sto parlando dei suoi
sentimenti, bensì di una situazione reale. Voglio dire, voi due guardate,
come lei ha appena detto, alla esperienza di lui. Né lei né lui guardate
alla sua esperienza. Il soggetto è esclusivamente lui e l'esperienza di lui.
Lui non può nel corso, diciamo, di un colloquio con lei, non può
cambiare la sua posizione e domandarle: "Oh, dottore, dov'è stato ieri?
[Risate] È andato al cinema? Cosa davano e che impressione le ha fatto?"
Lui non può fare questo. Quindi io vedo e capisco molto bene il suo
sentimento, il suo atteggiamento, il suo coinvolgimento. Ma lei non può
cambiare la situazione data. C'è qualcosa di oggettivamente reale di
fronte a lei. Non solo lui, la persona, ma la situazione stessa. Lei non
può cambiarla.
51. ROGERS: Be', ora mi sto chiedendo, chi è Martin Buber, lei o io, perché
ciò che sento 52.BUBER: Eh eh eh! [L'uditorio si unisce alla risata]
53. ROGERS: perché 54.BUBER: lo non sono, diciamo così, "Martin Buber", come si dice, con i
segni, le parentesi? Sì - no30?
55. ROGERS: In questo senso, neppure io sono "Carl Rogers". [Risata]
56. BUBER: Sì, vede, io non sono un uomo tra virgolette, che pensa così e
così, eccetera.
57. ROGERS: Lo so.
58. BUBER: Stavamo dicendo [Rogers: Certo. Giusto.] qualcosa che ci
interessa, forse, nella stessa misura. Lei è diverso, lei è sempre in
contatto, in contatto pratico con 59.ROGERS: Adesso dimentichiamo questa osservazione scherzosa. Quello
che volevo dire è questo: penso che lei abbia ragione, che c'è una
situazione oggettiva, che si potrebbe misurare, che è reale [qualcuno
versa dell'acqua], sulla quale molte persone potrebbero convenire se
esaminassero la situazione da vicino. Ma la mia esperienza è che quella
è la realtà quando è osservata dall'esterno, e che non ha veramente nulla
a che fare con la relazione che produce la terapia. Che è qualcosa di
immediato, di paritetico, un incontro tra due persone su una base
uguale - anche se nel mondo [Buber sospira] dell'lo-esso, questa
potrebbe essere considerata una relazione molto diseguale.
60. BUBER: Hmm. Ora, dottor Rogers, questo è il primo punto sul quale
dobbiamo dirci: "Non siamo d'accordo".
61. ROGERS: Okay. [Risate]
62. BUBER: Vede, io non posso guardare soltanto lei, le sue cose, la sua
esperienza. Mi permetta, prendiamo il caso che anch'io potessi parlargli,
30
Buber dice "brackets" [parentesi] in luogo di "quotes" [virgolette], ma il senso è
immediatamente ristabilito. Buber, del resto, parlava correntemente nove lingue, ma a
quanto pare apprese l'inglese relativamente tardi: la sua prima conferenza in inglese non
avvenne prima del 1947, quando egli aveva ormai 68 anni. Ciò giustifica qualche incertezza
linguistica e alcune difficoltà di comprensione dovute all'accento.
13
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
al suo paziente. Sentirei, naturalmente, da parte sua, un racconto molto
diverso su questo stesso momento. [Rogers: Sì.] Ora, vede, io non sono
un terapeuta. A me interessate lei e lui. lo devo vedere la situazione.
Devo vedere lei e lui in questo dialogo ostacolato dalla tragedia. A volte,
in molti casi, una tragedia che può essere superata. Secondo il suo
metodo, lo non ho affatto alcuna obiezione sul suo metodo, sa? Non c'è
bisogno di parlarne. Ma a volte il metodo non basta, e non può fare
quello che era - che è - necessario fare. Ora, mi permetta di farle una
domanda che apparentemente non centra niente, ma è sempre lo stesso
punto. Lei ha certamente molto a che fare con gli schizofrenici. Vero?
63. ROGERS: Alcuni"31.
64. BUBER: Lei ha, ha anche a che fare, mi permetta, con dei paranoici?
65. ROGERS: Alcuni.
66. BUBER: Hum?
67.ROGERS: Alcuni.
68. BUBER: Ora, lei direbbe che la situazione è la stessa nell'uno e
nell'altro caso? Cioè, la situazione per quanto concerne questa relazione
tra lei e l'altra persona. Questa relazione che lei descrive è dello stesso
tipo nell'uno e nell'altro caso? Può dire - questo è un caso, una domanda
che mi interessa molto, perché mi interessava molto la paranoia quando
ero giovane. Ne so molto di più di schizofrenia, ma spesso sono molto
impressionato e vorrei, mi piacerebbe sapere, lei ha - questo
significherebbe moltissimo - lei può, incontrare il paranoico nello stesso
modo?
69. ROGERS: Mi permetta prima di precisare un po' la mia risposta, lo non
ho lavorato in un ospedale psichiatrico. I miei rapporti sono stati con
persone che per la maggior parte sono capaci almeno di adattarsi in
qualche modo alla comunità, per cui non conosco quelli davvero
cronicamente malati.
70. BUBER: Oh, capisco.
71. ROGERS: D'altro canto, noi trattiamo con individui che sono
schizofrenici ed altri che certamente sono paranoici. E una delle cose
che io dico con molta esitazione, perché mi rendo conto che è
combattuta da gran parte dell'opinione psichiatrica e psicologica, ma
direi che non c'è nessuna differenza nella relazione che io stabilisco con
una persona normale, con uno schizofrenico, con un paranoide. Non
sento veramente alcuna differenza. Ciò non significa, ovviamente, che
31
È utile ricordare che Rogers proprio nell'autunno del '57 avrebbe lasciato Chicago per
trasferirsi all'università del Wisconsin, dove avrebbe avuto modo di collaborare con psicologi
e psichiatri e di realizzare presso il Mendota State Hospital di Madison una ricerca su un
campione di 48 pazienti schizofrenici: questa esperienza avrebbe avuto largo influsso sullo
sviluppo del suo pensiero, contribuendo soprattutto a confermare la validità delle sue
intuizioni sulle condizioni della relazione di cura e inducendolo a porre maggiore enfasi
sull'esigenza di un atteggiamento di congruenza e genuinità da parte del terapeuta, quale
condizione fondamentale dell'incontro terapeutico. (Cfr. C.R. Rogers, E.T. Gendlin, D.J.
Kiesler, C.B. Truax, The Therapeutic Relationship and Its Impact. A Study of Psychotherapy
with Schizophrenics, University of Wisconsin Press, Madison, 1967).
14
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
quando - be', di nuovo è questione di guardare dall'esterno. Guardando
dall'esterno, si possono riconoscere molte differenze.
72. BUBER: No, no. Non voglio dire73. ROGERS: Neppure io. E mi sembra che, se la terapia è efficace, ci sia
questo stesso tipo di incontro tra persone, non importa quale sia
l'etichetta psichiatrica. E c'è un altro punto, in relazione a quanto lei ha
detto, che mi ha colpito. Mi pare che i momenti in cui le persone sono
più disposte a cambiare, o penso anche i momenti in cui le persone di
fatto cambiano, sono i momenti in cui forse la relazione viene esperita
come la stessa da entrambe le parti. Quando lei dice che potrebbe
parlare al mio paziente e ne avrebbe un'immagine molto diversa, sono
d'accordo - sarebbe vero riguardo moltissime delle cose che sono
accadute nei colloqui. Ma sospetto che in quei momenti in cui accade il
vero cambiamento, accade perché c'è stato un vero incontro tra persone
che è stato sperimentato ugualmente da entrambe le parti32 .
74. BUBER: Sì. Questo è davvero importante. E 75.FRIEDMAN: Posso inserire [Buber inizia a parlare] una domanda qui?
come 76. BUBER: No. Può, può aspettare un momento? [Friedman: Va bene,
grazie ma-] Voglio soltanto spiegare al dottor Rogers perché questa
domanda è partico-larmente importante per me, e anche la sua risposta.
[Buber sospira]. Un punto molto importante del mio pensiero è il
problema dei limiti, cioè, io faccio qualcosa, tento qualcosa, voglio
qualcosa, e impiego tutti i miei pensieri, tutta la mia esistenza - nel farlo.
E giungo, in un certo momento, ad un muro, ad un confine, ad un limite
che non posso ignorare. Questo è vero, anche, per ciò che mi interessa
più di tutto: l'effetto umano del dialogo. Attraverso, cioè, il dialogo, non
il semplice parlare. Il dialogo può essere silenzioso. Potrebbe,
potremmo, forse, senza il pubblico. Raccomanderei di farlo senza un
pubblico. Potremmo sedere insieme, o meglio camminare insieme in
silenzio, e questo sarebbe un dialogo. Quindi anche al dialogo, al dialogo
pieno, è posto un limite. Per questo mi interessa la paranoia. Qui c'è un
limite al dialogo. A volte è molto difficile parlare con uno schizofrenico.
In certi momenti - per quella che è la mia esperienza di queste cose,
naturalmente, [sospira] come posso dire, da dilettante? lo posso parlare
ad uno schizofrenico nella misura in cui lui vuole lasciarmi entrare nel
suo mondo particolare, che è il suo mondo; e nel quale in genere non
vuole che tu entri, tu o altre persone. Ma lascia entrare alcuni. E quindi
può lasciare entrare anche me. Ma, nel momento in cui si chiude, io non
posso proseguire. E lo stesso, soltanto in un modo terribile,
32
Questa affermazione di Rogers circa la relazione terapeutica con pazienti schizofrenici o
paranoici chiarisce ulteriormente il presupposto fondamentale per cui, quale che sia la
situazione "oggettiva" entro la quale due persone si incontrano, l'efficacia della relazione
dipende dalla capacità di comunicare in modo simmetrico, autentico ed empatico. Ciò, del
resto, spiega la vasta applicazione delle condizioni rogersiane ad una serie di contesti
comunicativi e relazionali anche lontani dall'iniziale esperienza psicoterapeutica.
15
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
terribilmente forte, è il caso del paranoico. Lui non si apre e non si
chiude. Lui è chiuso. C'è qualcos'al-tro che gli è stato fatto che lo chiude.
E questo destino terribile io lo sento fortemente perché nel mondo delle
persone normali, ci sono casi del tutto analoghi in cui un uomo sano si
comporta, non con tutti, ma si comporta con alcune persone proprio
così, chiudendosi. E il problema è se possa essere aperto, se possa
aprirsi, e così via. [Buber sospira] E questo è un problema per gli esseri
umani in generale.
77. ROGERS: Sì, penso di vederlo come, come 78. BUBER: Sì, ora forse il dottor Friedman vuole intervenire 79.FRIEDMAN: Questo è il mio ruolo in quanto moderatore. L'unico ruolo
che gioco qui - Non sono del tutto sicuro per quanto riguarda, in questo
interscambio, appena prima del paranoico-schizofrenico, fino a che
punto sia una questione, fino a che punto possa essere un uso diverso
delle parole, quindi permettetemi di chiedere al dottor Rogers un passo
avanti. Per quanto ho capito, ciò che Buber ha detto è che la relazione è
una relazione lo-Tu, ma non una relazione pienamente reciproca, nel
senso che nel momento in cui ha l'incontro, tuttavia lei vede dal punto
di vista dell'altro e lui non può vedere dal suo. E nella sua risposta lei ha
insistito più volte sull'incontro che ha luogo e anche sul cambiamento
che può aver luogo da entrambe le parti. Ma non le ho sentito mai
affermare che lui veda dal suo punto di vista, o che sia pienamente
reciproco, nel senso che anche lui sta aiutando lei. E mi chiedevo se
questa non potrebbe essere forse una differenza, se non di parole, di
punti di vista, ove lei stava pensando a come si sente verso di lui, cioè
che egli è una persona uguale e che lei lo rispetta. [Alcuni secondi di
pausa - poi risata]33
80. BUBER: Resta una differenza decisiva. Non è una questione di obiettare
all'aiuto dell'altro. È una questione di voler aiutare l'altro. Lui è un uomo
che vuole aiutare l'altro. [Rogers: Sì.] E lui, tutto il suo atteggiamento è
questo atteggiamento attivo, di aiuto. Questa è - uso dire, totalità di
differenza, quanto il cielo intero, ma preferirei dire quanto l'inferno
intero - la differenza dal suo atteggiamento. Questo è un uomo
nell'inferno. Un uomo nell'inferno non può pensare, non può
immaginare di aiutare un altro. Come potrebbe?
81. ROGERS: Ma è qui che sorgono alcune differenze. Perché a me sembra,
di nuovo, che nei momenti più veri della terapia non credo che questa
intenzione di aiutare sia qualcosa di più che un substrato da parte mia.
In altri termini, sicuramente non farei questo lavoro se questa non fosse
33
In modo non del tutto esplicito, Friedman coglie nel segno. La differenza nell'uso del
concetto di reciprocità e di simmetria tra i due interlocutori consiste nel fatto che essa non
significa, per Rogers, indifferenza o confusione di ruoli o perfetta reversibilità, bensì
un'intesa psicologica ed emozionale profonda in cui il terapeuta coglie il vissuto dell'altro e
lo accetta, e nello stesso tempo l'altro è consapevole di questa comprensione ed
accettazione: ciò gli consente di conoscersi, di evolversi e di crescere. Questa
interpretazione, del resto, è confermata da Rogers poco dopo.
16
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
parte della mia intenzione. E quando vedo il cliente per la prima volta,
ciò che spero di poter fare è essere capace di aiutarlo. Tuttavia,
nell'interscambio del momento, non penso che la mia mente sia
occupata dal pensiero: "Adesso voglio aiutarti". È molto più un: "Voglio
capirti. Che persona sei dietro questo schermo paranoide, o dietro tutte
queste confusioni schizofreniche, o dietro tutte quelle maschere che
rivesti nella vita reale?" "Chi sei tu?" E non penso che - mi sembra che
questo sia un desiderio di incontrare una persona, non: "Ora voglio
aiutarti". Mi sembra che sia piuttosto questo: ho imparato dalla mia
esperienza che quando possiamo incontrarci, allora l'aiuto accade, ma è
un sottoprodotto34 .
82.FRIEDMAN: Dottor Rogers, non sarebbe d'accordo, però, che questo
non è pienamente reciproco, nel senso che quell'uomo non ha lo stesso
atteggiamento verso di lei: "lo voglio comprenderti. Che tipo di persona
sei tu?"
83. ROGERS: Questo è - l'unica modifica che ho fatto è che forse nei
momenti in cui avviene il vero cambiamento, allora mi chiedo se non è
reciproco nel senso che sono capace di vedere questo individuo come
egli è in quel momento e lui realmente percepisce la mia comprensione e
accettazione. E questo penso sia ciò che è reciproco e forse ciò che
produce il cambiamento35 .
84. BUBER: [Sospira. L'uditorio ride] Hmmm. Vede, io, naturalmente, sono
completamente dalla sua parte quanto alla sua esperienza. Non posso
esserlo se devo guardare all'intera situazione, la sua esperienza e quella
di lui. Vede, lei da a lui qualcosa per renderlo uguale a sé. Lei integra il
bisogno di lui nella relazione. Lei lo fa, di certo - se posso esprimermi in
modo così personale - a motivo di una certa pienezza lei gli da ciò che
lui vuole per poter essere, soltanto per questo momento, per così dire,
sullo stesso piano con lei. Ma anche questa - veramente - è una tangente.
È una tangente che può non durare che un momento. Non è, per come la
vedo, la situazione di un'ora; è la situazione di alcuni minuti. E questi
minuti sono resi possibili da lei. Assolutamente non da lui36 .
34
Questa definizione rogersiana dell'aiuto come "sottoprodotto", quasi un effetto
collaterale, un risultato preterintenzionale della relazione efficace è molto significativa: il
primato della modalità comunicativa sullo scopo terapeutico equivale al primato
dell'individuo sul ruolo e al primato dell'incontro fra persone sul motivo concreto e
contingente che ha determinato la richiesta d'aiuto.
35
L'interpretazione che i due interlocutori danno della parola "reciproco" sembra essere
leggermente discrepante, e questo probabilmente è all'origine della discussione: se da un
lato Buber intende "reciproca" una relazione perfettamente simmetrica in cui gli stessi atti
compiuti dall'Io siano possibili al Tu (cosa che renderebbe impossibile e forse anche
inopportuna una piena reciprocità nella relazione d'aiuto), Rogers usa d'altro canto il
termine "reciproco" riferendosi al fatto che il terapeuta comprende il cliente in senso
profondo e il cliente deve poter cogliere questa sua comprensione.
36
Che la relazione d'aiuto sia qualificata da "minuti", brevi momenti o attimi significativi in cui l'interazione
17
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
85. ROGERS: Tuttavia, io percepisco - con quest'ultima cosa sarei
completamente d'accordo - ma percepisco un qualche disaccordo perché
mi pare che ciò che io do a lui è il permesso di essere. Che non è - che è
un po' diverso, in certo senso, dal concedergli qualcosa, o roba del
genere.
86. BUBER: lo penso che nessun essere umano possa dare più di questo.
Rendere possibile all'altro la vita, fosse solo per un momento. Il
permesso37 .
87. ROGERS: Bene, se non stiamo attenti, ci troveremo d'accordo. [Risate]
88. BUBER: Adesso andiamo... [incomprensibile: avanti?]
89. ROGERS: Mi piacerebbe passare da questo ad un altro argomento,
perché, se ho capito ciò che lei ha scritto eccetera, mi pare di
distinguere un altro tipo di incontro molto significativo per me nel mio
lavoro, di cui, per quanto ne so, lei non ha parlato. Ora, posso
sbagliarmi, non so. Ma ciò che voglio dire è che mi sembra che uno dei
più importanti tipi di incontro o di relazione sia la relazione di una
persona con se stessa. Nella terapia, di nuovo, che devo tirare in ballo
perché è il mio campo [Buber: Certo.] di esperienza 90. BUBER: Naturalmente.
91. ROGERS: - ci sono alcuni momenti molto vividi in cui l'individuo
incontra qualche aspetto di sé, un sentimento che non aveva mai
riconosciuto prima, qualcosa di significativo in se stesso che non aveva
mai conosciuto prima -Potrebbe essere qualunque cosa. Può essere il
suo intenso sentimento di solitudine, o il sentirsi terribilmente offeso, o
qualcosa di totalmente positivo come il suo coraggio, e così via. Ma in
ogni caso, in quei momenti, mi pare che sia presente qualcosa dello
stesso tipo di ciò che colgo in una vera relazione di incontro. Che lui è
nel suo sentimento e il suo sentimento è in lui. È qualcosa che lo
soffonde. Non l'ha mai sperimentato prima. In senso molto concreto,
penso che possa essere descritto come un incontro reale con un aspetto
di sé che non aveva mai incontrato prima. Ora, io non so se questo le
sembra che possa ampliare il concetto che lei ha usato. Mi piacerebbe
avere una sua reazione in proposito. Se a lei questo sembra un tipo
possibile di relazione reale o di "incontro"? Perché, be', credo che mi
spingerò un poco oltre. Credo di essere convinto che è proprio quando
una persona ha incontrato se stessa in questo modo, probabilmente in
molti aspetti differenti, che poi, e forse solo allora, è davvero capace di
incontrare un'altra persona in una relazione lo-Tu38 .
apre la possibilità di una rivisitazione del vissuto e delle proprie percezioni e quindi produce
cambiamento, è una convinzione che Rogers e Buber sembrano condividere ampiamente.
37
Su questo punto le prospettive dei due autori sembrano riconciliarsi: dare all'altro il
permesso di esistere e di essere ciò che è, significa non soltanto rinunciare a cambiarlo in
maniera coercitiva, ma anche permettere che si evolva in modo libero e costruttivo.
38
Rogers sta descrivendo l'esperienza dell’insight, per cui ogni sviluppo autodiretto del
soggetto è accompagnato da un aumento di consapevolezza e responsabilità: ogni
18
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
92. BUBER: [Buber sospira] Qui siamo dinanzi a un problema di linguaggio.
Lei chiama dialogo qualcosa che io non posso chiamare così. Ma posso
spiegare perché non posso farlo, perché vorrei un altro termine tra
dialogo e monologo per questo. Ora, per quello che io chiamo dialogo,
c'è bisogno essenzialmente del momento della sorpresa. Voglio dire39 93. ROGERS: [Sovrapponendosi] Momento della sorpresa?
94. BUBER: Sì, essere sorpresi. Un dialogo - prendiamo una immagine
piuttosto banale. Il dialogo è come una partita a scacchi. Tutto il fascino
degli scacchi sta nel fatto che io non so e non posso sapere che cosa il
mio partner farà. Sono sorpreso da ciò che fa e su questa sorpresa si
basa tutto il gioco. Ora, lei ha accennato al fatto che un uomo può
sorprendere se stesso. Ma in modo molto diverso da come una persona
può sorprenderne un'altra 95. ROGERS: Penso che... [stenta a riprendere il discorso] lo spero che
forse un giorno potrò farle ascoltare qualche registrazione di colloqui
per mostrarle come l'elemento sorpresa possa essere realmente
presente. Cioè, una persona può esprimere qualcosa e immediatamente
essere colpita dal significato di ciò che è uscito da qualche parte dentro
di lei e che non riconosce. In altre parole, è realmente sorpresa di se
stessa. Ciò può indubbiamente accadere. Ma l'elemento che io vedo
maggiormente estraneo al suo concetto di dialogo è che è assolutamente
vero che questa alterità in se stessi non è qualcosa da apprezzare, lo
penso che - in questo tipo di dialogo di cui sto parlando - è quella
alterità che probabilmente viene abbattuta. E mi rendo conto che questo
è probabilmente, in parie - che l'intera discussione può anche essere
fondala su una differenza Ira noi nell'uso delle parole. Voglio dire che40 96. BUBER: E vede, posso aggiungere una questione tecnica? Ho imparato
nel corso della mia vita ad apprezzare le parole. E penso che la
psicologia moderna non lo faccia in maniera adeguata. Quando trovo
cambiamento autentico è accompagnato da una ristrutturazione del campo percettivo, per
cui è solo comprendendosi più profondamente e aprendosi a quelle dimensioni
dell'esperienza (significati e sentimenti) che erano state rimosse o misconosciute per effetto
di una struttura del sé troppo rigida, che la persona può imparare ad essere diversa.
39
L'obiezione buberiana è solo in parte giustificata: Rogers, parlando del rapporto
dell'individuo con se stesso, non ha usato la parola (in questo contesto molto specifica)
"dialogo", bensì unicamente e ripe-tutamente la parola "incontro" [meeting]. In ogni caso, è
chiaro che Buber disapproverebbe l'uso del termine dialogo in un contesto intrapsichico e
non interpersonale. A quanto pare, il tema era stato oggetto di dibattito anche nel corso
delle sue recenti lezioni a Washington.
40
L'alterità nel cuore dell'individuo stesso, che viene "abbattuta" nella relazione terapeutica,
sembra essere qui l'alterità inconscia, per cui il processo di crescita coincide sempre con una
riappropriazione di sé e della propria esperienza organismica e in un progressivo abbandono
dei criteri nevrotici di valu-tazione "esterna" o estrinseca che minacciano l'integrità
personale. L'insight consiste in una riconquista alla coscienza di un pensiero o di un
sentimento prima non adeguatamente simbolizzato, e in questo senso rappresenta una
fondamentale esperienza di apprendimento.
19
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
qualcosa di essenzialmente diverso da qualcos'altro, voglio una parola
nuova. Voglio un nuovo concetto. Vede, per esempio, la psicologia
moderna, in genere, dice dell'inconscio che è una certa modalità dello
psichismo. Per me non ha nessun senso. Se qualche cosa è così diversa
da un'altra - se due cose sono così diverse tra loro come questo urlo
dell'anima, che cambia in ogni istante, dove non posso afferrare nulla,
quando tento di afferrarlo fugge via, da una parte - questo essere
puramente nel tempo, ciò che chiamiamo l'inconscio, non è affatto un
fenomeno. Non possiamo - non abbiamo nessun accesso ad esso, noi
abbiamo solo a che fare con i suoi effetti, eccetera. Noi non possiamo
dire questo è psichico e questo è psichico; l'inconscio è qualcosa in cui
psichico e fisiologico sono, come posso dire, "mescolati?"; e non basta.
Sono compenetrati in modo tale che noi vediamo che in relazione a ciò
le parole "corpo" e "anima" sono, per così dire, parole recenti, [Rogers
ride] concetti recenti - e che la coscienza è una realtà primordiale 41. Ora,
come possiamo comprendere questo concetto qui? Ma questo è solo 42- "
97. ROGERS: lo sono molto d'accordo con lei su questo, ma penso che quando un'esperienza è indubbiamente di un altro tipo, allora merita
una parola diversa. Penso che su questo siamo d'accordo. Forse, visto
che il tempo corre, vorrei sollevare un'altra questione che è molto
significativa per me, e non so come porla. Penso che forse si tratta di
questo: per come vedo le persone che entrano in relazione nella terapia,
penso che una delle cose che sono arrivato a credere e a percepire e a
sperimentare è che ciò che concepisco come la natura umana o la natura
umana originaria - è un termine povero, forse lei ha un modo migliore
per dirlo - è qualcosa in cui bisogna veramente avere fiducia, f. mi
sembra di aver colto in qualcuno dei suoi scritti, qualcosa di simile a
questo sentimento. Ma, ad ogni modo, ho sperimentato moltissimo nella
terapia che non c'è bisogno di fornire una motivazione verso il positivo
o verso il costruttivo. Essa esiste nell'individuo. In altre parole, se
riusciamo a liberare ciò che di più originario c'è nell'individuo, questo
sarà costruttivo. Ora, non lo so. Di nuovo, spero che forse [Buber: Sì.] ciò
provocherà qualche commento da parte sua43.
41
Significativa questa critica buberiana all'ipostatizzazione psicoanalitica dell'inconscio: la
realtà primordiale è la coscienza, anteriore ad ogni distinzione euristica tra corpo, psiche e
spirito. In questo senso, è verosimile che Buber abbia detto "questo è psichico e questo è
psichico", ma intendesse dire piuttosto: "questo è psichico e questo è fisico" (l'allitterazione
tra i due termini phisical e psychical rende probabile l'errore).
42
A questo punto il nastro subisce un'interruzione, per cui alcune parole di Buber sono
andate perdute. Nelle varie trascrizioni dell'incontro compare la medesima spiegazione:
mentre il nastro viene cambiato, Buber prosegue nella trattazione del dialogo, dicendo che
una seconda caratteristica dell'incontro autentico è proprio l'apprezzamento dell'alterila
dell'altro. La registrazione riprende dall'inizio dell'intervento di Rogers [§ 97].
43
La questione che qui viene sollevata è una questione dirimente: si tratta di definire il
principio antropologico di base, di qualificare cioè la natura umana originaria che, secondo
Rogers e la sua teoria della "tendenza attualizzante", è fondamentalmente buona e degna di
fiducia, in quanto capace - se messa nelle condizioni ideali e in questo senso "facilitata" da
20
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
98. BUBER: Non colgo ancora l'esatta domanda.
99. ROGERS: L'unica domanda che sto ponendo, suppongo, è: "Lei è
d'accordo?". O, se non sono stato chiaro, la prego mi faccia altre
domande. Proverò a metterla, forse in un altro modo. Be', potrebbe
essere un modo per contrasto. Mi pare che molto del punto di vista della
psicoanalisi ortodossa almeno ha sostenuto l'opinione che quando un
individuo si rivela, voglio dire quando si scende in ciò che davvero c'è
dentro le persone, si trovano soprattutto istinti, atteggiamenti e così via,
che devono essere controllati. Ora, ciò è diametralmente opposto alla
mia esperienza personale, cioè che quando si arriva a ciò che vi è di più
profondo nell'individuo, questo è veramente l'aspetto in cui
maggiormente si può confidare che sia costruttivo o che tenda verso la
socializzazione o verso lo sviluppo di migliori relazioni inter-personali,
eccetera. Questo ha qualche significato per lei?
100. BUBER: Capisco. La metterei in un modo un po' diverso. Per come la
vedo io, quando ho a che fare con, mi lasci dire, una persona
problematica, o proprio una persona malata, una persona problematica,
una persona che la gente chiama, o vuole chiamare, una persona
"cattiva". Vede, generalmente coloro che hanno a che fare davvero con
ciò che chiamiamo lo spirito non sono chiamati per le persone buone,
ma per le persone cattive, o problematiche, o inaccessibili, e così via. Le
persone buone, noi possiamo essere loro amici, ma loro - naturalmente loro non ne hanno bisogno. Quindi, a me interessano proprio i
cosiddetti cattivi, problematici, eccetera. E la mia esperienza è che se ci
riesco - e questo è vicino a ciò che lei ha detto, ma in qualche modo
differente - se mi avvicino alla realtà di questa persona, io la sperimento
come una realtà polare.
101. ROGERS: Come cosa? Una realtà -?
102. BUBER: Realtà polare. Vede, in genere diciamo che una cosa è A o
non-A. Non può essere A e non-A contemporaneamente. Non può. Non
può. Voglio dire, ciò di cui lei dice che ci si può fidare. Direi che ciò sta
in relazione polare con ciò di cui in questa persona ci si può fidare di
meno. Lei non può dire, e forse dissento da lei su questo punto, lei non
può dire: "Oh, cerco in lui solo ciò di cui ci si può fidare". Direi che
quando io lo vedo, lo afferro più a pieno e più a fondo di prima, vedo la
sua polarità e quindi vedo come il peggio e il meglio di lui dipendano
una relazione rassicurante - di evolversi in maniera positiva e costruttiva, verso
l'autorealizzazione e l'integrazione sociale. Un criterio che Buber può condividere solo in
parte, essendo legato - come lui stesso chiarisce subito dopo - ad una visione meno
ottimistica e più polarizzata dell'essere umano, tra orientamenti positivi e orientamenti
distruttivi. Come risulta evidentemente dallo scritto "Sull'educativo", che riproduce la
relazione di Buber in occasione della Terza Conferenza Internazionale di Pedagogia dal titolo
"II dispiegarsi delle forze creative nel bambino" (Heidelberg, 1925), il filosofo non si trova
d'accordo né con il concetto di "dispiegamento", né con la riduzione dell'attività educativa al
semplice sviluppo delle "forze creative" insite nella natura umana. (Cfr. M. Buber, II principio
dialogico ..., cit., pp. 159-182). Ciò nonostante, la posizione buberiana è da interpretarsi
decisamente non in senso moralistico: la sua idea del bene come "direzione" e non come
"sostanza" [cfr. § 102] preserva da una tale interpretazione e, in ultima analisi, concorda con
la visione rogersiana della "vita buona" e della "vita piena" come processo continuo e non
come stato dell'essere.
21
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
l'uno dall'altro, siano attaccati l'uno all'altro. E posso aiutarlo - posso
essere capace di aiutarlo - proprio aiutandolo a cambiare la relazione tra
i poli. Non solo per scelta, ma [sospira] per una certa forza che lui da al
primo polo in relazione all'altro, essendo essi molto diversi tra loro, lo
direi [esita a lungo per pensare] che non ci sono, come perlopiù
pensiamo, nell'anima di un uomo il bene e il male contrapposti. C'è
continuamente in diverse maniere una polarità, e i poli non sono il bene
e il male, ma piuttosto sì e no, piuttosto l'accettazione e il rifiuto. E noi
possiamo rinforzare, possiamo aiutare lui a rinforzare il polo positivo. E
poi, magari, possiamo rinforzare la forza di direzione in lui, perché
questa polarità è molto spesso priva di direzione. È uno stato caotico.
Possiamo introdurvi una nota cosmica. Possiamo aiutare a mettere
ordine, a dare una forma. Perché penso che il bene, o ciò che possiamo
chiamare il bene, è sempre solo la direzione. Non una sostanza44 .
103. ROGERS: Uh huh. Bene. E se prendo l'ultima parte in particolare, lei
dice che forse possiamo aiutare l'individuo a rinforzare il "sì", cioè ad
affermare la vita piuttosto che a rifiutarla. È questo 104. BUBER: Mhmmm. Mhmm. E, sa, dissento solo su questa parola, io non
direi "vita". Non metterei un oggetto.
105. ROGERS: Uh huh.
106. BUBER: Direi semplicemente "sì".
107. ROGERS: Uh huh. Uh huh. Uh huh. Uh huh.
108. ROGERS: Lei [Rivolgendosi a Friedman] sta guardando come se
volesse dire qualcosa... [Incomprensibile] Be', potrei 109. FRIEDMAN: Sono tentato di 110. ROGERS: Be', potremmo andare avanti per sempre nel –
111. FRIEDMAN: II mio ruolo di moderatore, uno, è di sottolineare i
problemi e credo che ci siano due cose correlate che sono state toccate
qui, ma forse non esplicitate, e penso che siano di particolare
importanza, che mi piacerebbe vedere. Quando il dottor Rogers prima
ha chiesto al professor Buber quale fosse il suo atteggiamento verso la
psicoterapia, ha menzionato come uno dei fattori che fanno parte del
suo approccio alla terapia, la "accettazione". Ora, il professor Buber,
come abbiamo visto ieri sera, spesso usa il termine "conferma", e
personalmente sento, in base a quanto hanno detto stasera e alla mia
conoscenza dei loro scritti, che potrebbe essere di grande importanza
chiarire se intendono in qualche modo la stessa cosa. Il dottor Rogers,
circa l'accettazione, oltre a dire che è una calorosa considerazione per
l'altro e un rispetto per la sua individualità, in quanto è una persona dal
valore incondizionato, scrive che significa "un'accettazione e una
considerazione dei suoi atteggiamenti del momento, non importa
quanto negativi o positivi, non importa quanto possano contraddire altri
atteggiamenti che ha tenuto in passato", e che "tale accettazione di ogni
aspetto transitorio di quest'altra persona costituisce per lei una
relazione di calore e sicurezza". Ora, mi chiedo se il professor Buber
consideri la conferma qualcosa di simile, oppure vedrebbe la conferma
44
Cfr. M. Buber, Immagini del bene e del male, trad. dal tedesco, Edizioni di Comunità,
Milano, 1965.
22
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
come qualcosa che include forse il non essere accettato, che include
qualche richiesta all'altro che potrebbe significare in certo senso una
non accettazione dei suoi sentimenti del momento, per confermarlo più
tardi45 .
112. BUBER: Hmm. Vorrei dire [sosta per riflettere] che ogni vera, diciamo,
relazione esistenziale tra due persone, inizia con l'accettazione.
L'accettazione - per "accettazione" io intendo - forse i due concetti sono
non del tutto simili - ma per "accettazione" io intendo essere capaci di
dire, o forse non di dire, ma solo di far sentire all'altra persona che io
l'accetto esattamente come ella è. Ti prendo proprio come sei. Ma questo
non è ancora ciò che io intendo per "confermare l'altro". Perché
accettare, è accettare l'altro per come è in questo momento, nella sua
attualità. Confermare significa anzitutto accettare tutte le potenzialità
dell'altro, e fare anche una decisiva distinzione nelle sue potenzialità,
distinguendo tra - e questo è, naturalmente [sospira due volte],
possiamo ingannarci continuamente in questo, ma è una possibilità tra
gli esseri umani, lo posso riconoscere in lui, conoscere in lui, più o
meno, la persona che - riesco a dirlo solo in questo modo - è stato creato
per diventare. Nel linguaggio semplice dei fatti, non troviamo le parole
per dirlo perché non troviamo in esso la parola, il concetto "essere
inteso nel proprio divenire". Questo è ciò che dobbiamo, nella misura in
cui ci è possibile, cogliere, se non dal primo momento, almeno in
seguito. E quindi, io non solo accetto l'altro per come è, ma lo confermo,
in me stesso, e poi in lui, in relazione a questa potenzialità che è intesa
da lui ed essa allora si può sviluppare, può evolversi, può entrare a far
parte della realtà della vita. Egli può fare di più o di meno per questa
possibilità, ma anche io posso fare qualcosa. E questo attraverso
obiettivi anche più profondi del l'accettazione. Prendiamo, per esempio,
un uomo e una donna, marito e moglie. E lui dice, non espressamente,
ma attraverso tutta la sua relazione con lei: "Ti accetto come sei". Ma
questo non significa "Non voglio che tu cambi". Vuoi dire piuttosto:
"Scopro in te, proprio attraverso il mio amore e la mia accettazione,
scopro in te ciò che tu sei destinato a diventare". Questo, naturalmente,
non è qualcosa che si possa esprimere in parole esplicite. Ma può essere
che cresca sempre più con gli anni di vita in comune46 .
45
Friedman sta citando passi dal testo "Some Hypotheses Concerning the Facilitation of
Personal Growth", allora non pubblicato, che sarebbe diventato il secondo capitolo nel best
seller di C.R. Rogers, On Becoming a Person, Houghton Mifflin, Boston, 1961.
46
La sollecitazione di Friedman consente molto opportunamente ai due protagonisti di
chiarire i rispettivi concetti di "accettazione" e "conferma" e permette, soprattutto, di
comprendere la loro sostanziale affinità per cui, secondo Martin Buber ma anche per Carl
Rogers, "accettare" l'altro non significa solo accogliere in maniera non giudicante ciò che egli
attualmente è, ma intuire e aiutarlo a portare a compimento ciò che ancora può diventare.
Anzi, Rogers sembra ritenere che l'accettazione di ciò che uno è sia la condizione affinché
egli si evolva verso la realizzazione delle proprie potenzialità.
23
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
113. ROGERS: Be', io penso che 114. BUBER: È questo che lei intende? [Rogers: Uh huh. Sì, sì.] Bene.
115. ROGERS: E penso che suona molto simile alla qualità che è insita
nell'esperienza che io definisco accettazione, anche se ho teso a
descriverla in modo differente, lo penso che accettiamo un individuo e
le sue potenzialità. Penso che la vera domanda è se possiamo accettare
l'individuo com'è, perché spesso egli è magari in una condizione
abbastanza triste, se non fosse per il fatto che - in qualche modo cogliamo e riconosciamo anche le sue potenzialità. Credo, anche, che
l'accettazione del tipo più completo, l'accettazione di questa persona
per come è, sia il fattore più forte che io conosca che contribuisce al
cambiamento. In altre parole, penso che liberi il cambiamento o liberi le
potenzialità sapere che così come sono, esattamente come sono, sono
pienamente accettato - allora non posso fare a meno di cambiare. Perché
allora, penso, c'è - [si schiarisce la gola], allora non c'è più alcun bisogno
di barriere difensive, quindi ciò che assume il controllo sono i processi
progressivi della vita stessa, penso.
116. BUBER: Temo di non esserne così sicuro come lo è lei, forse perché io
non sono un terapeuta. E io ho necessariamente a che fare con il lato
problematico dell'uomo problematico. Non posso - nella mia relazione
con lui - prescindere da questo. Non posso metterlo da parte. Come ho
detto, ho a che fare con entrambi gli uomini. Ho a che fare con il
problematico che è in lui. E ci sono casi in cui devo aiutarlo contro se
stesso. Lui vuole che lo aiuti contro se stesso. Vuole, capisce, lui - la
prima cosa di tutte è che lui ha fiducia in me. Sì, la vita è diventata
precaria per lui. Non può camminare su un terreno solido, sulla terra
ferma. È, per così dire, sospeso nell'aria. E che cosa vuole? Ciò che vuole
non è soltanto un essere in cui possa avere fiducia come un uomo ha
fiducia in un altro, ma un essere che gli dia ora la certezza: "C'è un
terreno. C'è un'esistenza. [Buber picchia due volte sul tavolo sull'"è"
delle due frasi precedenti] II mondo non è [Buber picchia di nuovo sul
tavolo] condannato alla deprivazione, alla degenerazione, alla
distruzione. Il mondo può essere salvato, lo posso essere salvato perché
c'è questa fiducia". [Buber picchia sul tavolo quattro volte mentre dice
"perché c'è questa fiducia"] E se si arriva a questo, allora posso aiutare
quest'uomo anche nella sua lotta contro se stesso. E ciò lo posso fare
soltanto se distinguo tra "accettare" e "confermare" 47.
117. ROGERS: Penso proprio che una difficoltà nel dialogo sia che
facilmente ci potrebbe non essere una fine, ma penso che, per pietà del
dottor Buber e del pubblico, basti così - quindi io non - [Risata]
47
La resistenza di Buber ad accogliere l'identità tra il concetto di "accettazione" e quello di
"conferma" sembra motivato in realtà dalla preoccupazione di dover salvaguardare la visione
antropologica di fondo, per cui la "problematicità" e l'ambiguità originaria dell'uomo gli
impedisce di orientarsi spontaneamente in maniera positiva, come invece vorrebbe l'idea più
ottimistica e progressiva sostenuta da Rogers.
24
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
118. BUBER: Questo - come dice?
119. ROGERS: Dico che per riguardo a lei e per riguardo al 120. BUBER: Non a me. Eh eh 48
121. ROGERS: Oh, va bene - [Risata] Solo per riguardo al pubblico –
122. FRIEDMAN: Posso essere così impietoso da fare un'ultima domanda?
l'impressione che il dottor Rogers sia più centrato-sul-cliente che 123. BUBER: Cosa?
124. FRIEDMAN: Più centrato-sul-cliente - più interessato [Risate] - più
interessato al divenire della persona. Ed egli parla nel suo secondo
articolo di essere capaci di aver fiducia nell'organismo, nel fatto che
troverà soddisfazione, che esprimerà me. E parla del luogo dei valori
come interiore, mentre ho l'impressione, dal mio incontro con il dottor
Buber, che egli veda i valori più nel "mezzo". Mi chiedo, questa è una
questione reale tra voi due?49
125. ROGERS: Potrei esprimere la mia visione a riguardo in un modo che la
pone in termini completamente differenti rispetto a quelli da lei usati,
tuttavia penso che si riferisca alla stessa cosa. Visto che ho tentato di
pensarci negli, negli ultimi mesi, mi sembra che si potrebbe parlare dello
scopo a cui tende la terapia, e io immagino lo scopo verso il quale si
muove la maturità in un individuo, come un essere "in divenire", o
essere, sapendolo e accettandolo, ciò che uno è più profondamente. In
altre parole, anche questo esprime una fiducia reale nel processo che
noi siamo, che forse non può essere interamente condiviso da
entrambi50.
126. BUBER: Ora [sospirando] forse sarebbe di qualche aiuto se
aggiungessi [sospira ancora] un problema che ho trovato proprio nel
leggere questo suo articolo, o un problema che [sospira] riguarda me. Lei
parla di persone, e il concetto di "persona" è, apparentemente, molto
vicino al concetto di "individuo". Penserei che è consigliabile distinguere
tra di essi. Un individuo è una certa unicità di un essere umano. E, se
può svilupparsi, può svilupparsi solo sviluppando la sua unicità. Questo
è ciò che Jung chiama "individuazione". Che - può diventare sempre più
un individuo senza diventare sempre più umano, lo ho molti esempi di
uomini divenuti molto, molto individui, molto distinti dagli altri, molto
48
Le frequenti pause di sospensione e le esitazioni negli ultimi scambi possono aver
suggerito a Rogers che forse il suo interlocutore, anche in ragione dell'età più avanzata, si
stava stancando. Forse però Buber credette di essere trattato con eccessiva
accondiscendenza, e per questo può aver tentato di rassicurare il pubblico di poter
continuare ancora.
49
Friedman si riferisce qui al testo di Rogers "What II Means to Become a Person", che
divenne in seguito il capitolo sesto del già citato On Becoming a Person.
50
Forse Rogers si riferisce ai suoi scritti "A Process Conception of Psychotherapy" e "A
Therapist's View of Personal Goals", che più tardi sarebbero diventati i capitoli settimo e
ottavo di On Becoming a Person.
25
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
sviluppati nel loro essere in un certo modo, senza essere affatto ciò che
io chiamerei un uomo. Perciò la persona, direi, l'individuo è proprio
questo, questa unicità, che può essere sviluppata, e via dicendo. Ma la
persona, direi, è solo un individuo che vive realmente con il mondo. E
con il mondo, non voglio dire nel mondo, ma in reale contatto, in
autentica reciprocità con il mondo in tutti i punti in cui il mondo può
incontrare l'uomo. Non dico solo con l'uomo, perché talvolta incontriamo il mondo in altre forme diverse da quella dell'uomo. Ma questo è ciò
che io chiamerei una persona e io sono, se posso dire espressamente "sì"
e "no" ad alcuni fenomeni, io sono contro gli individui e per le persone51 .
127. ROGERS: Uhm huh. Giusto. [Molto rapido, molto debole - lontano dal
microfono?] [Applauso]
128. FRIEDMAN: Abbiamo ragione di sentirci profondamente in debito
con il dottor Rogers e il dottor Buber per un dialogo unico. È certamente
unico nella mia esperienza: anzitutto perché è un dialogo reale, che
avviene dinanzi a un uditorio, e io penso che lo sia in parte per ciò che
loro volevano darci e ci hanno dato, e in parte perché voi [rivolgendosi
al pubblico] vi avete preso parte, quasi come in un "trialogo" o,
aggiungendo me, un "quadralogo" al quale voi avete partecipato
silenziosamente. [Applauso - Buber dice alcune parole incomprensibili
durante l'applauso].
51
Buber accenna forse qui un'interpretazione del concetto esistenzialista di essere-nelmondo non come situazione di fatto (il mero trovarsi nel mondo), ma come intenzionalità
progettante, ovvero "in reale contatto, in autentica reciprocità" (quindi in un rapporto di cura
e responsabilità) con il mondo. Inoltre, la distinzione qui richiamata dal filosofo tra la
nozione di "individuo" e quella di "persona" tocca effettivamente uno snodo cruciale, in
quanto Rogers sembra frequentemente utilizzare i due termini in maniera indifferenziata e
quasi sinonimica. L'appunto sull'uso dei termini non deve trarre in inganno: non significa di
per sé che Buber stia accusando la terapia centrata-sul-cliente di produrre più "individui" che
"persone" (critica che altri peraltro hanno mosso all'orientamento non direttivo), ma
semplicemente che i due termini possono indicare cose diverse. Nondimeno è evidente che,
nel complesso del pensiero rogersiano, ('"individuo" sano di cui si parla non sia un essere
isolato, egocentrico e narcisista, bensì l'uomo aperto al mondo, agli altri e all'esperienza,
dotato di un'intrinseca natura relazionale e di una originaria propensione all'attualizzazione
di sé e all'integrazione sociale. (Cfr. C.R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, cit., pp. 182195; Id., Libertà nell'apprendimento, cit., pp. 322-346).
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