Napoli 2013 - Paolo De Benedetti
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Napoli 2013 - Paolo De Benedetti
A PROPOSITO DI UN PENSIERO DI MARTIN BUBER di Paolo De Benedetti Al recente incontro ebraico-cristiano di Camaldoli è nata una discussione, peraltro del tutto marginale e formale, ma non priva di una sua morale, su un pensiero di Martin Buber relativo a Gesù. Pensiero che potrebbe sembrare "scandaloso" soltanto a chi non conosca quella linea di riflessione ebraica che va dal medioevo a Franz Rosenzweig e oltre. Così per esempio scrive Jehudah ha-Levì (1075 ca-1141) nella sua opera Kuzarì, IV, 23: " ... queste nazioni [cioè i cristiani e i musulmani] sono la preparazione e l'introduzione al Messia che aspettiamo, che è il frutto, e tutti saranno suo frutto quando lo riconosceranno, e l'albero sarà uno solo" (trad. di E. Piattelli, /I re dei Khazari, Boringhieri, Torino 1960, p. 222). E Mosè Maimonide (1135-1204), nel Mishneh Torah, Hilkoth Melakhim XI, 4 (cit. in Pinchas Lapide, 1st das nicht Josephs Sohn? Jesus im heutigen Judentum, Calwer Vertaç-Kòsel Verlag, Munchen 1976, p. 104) dichiara: "Tutte queste cose relative a Gesù di Nazareth e all'ismaelita [cioè Maometto] che venne dopo di lui, servono soltanto a sgombrare la via per il re Messia, e a preparare il mondo intero alla venerazione di Dio con cuori uniti, come è scritto [Sof. 3,9]: 'Allora io darò ai popoli un labbro puro, perché invochino tutti il nome del Signore, e lo servano tutti sotto lo stesso giogo.' In tal modo la speranza messianica, La Torah e i comandamenti sono divenuti patrimonio religioso comune tra gli abitanti delle isole lontane e tra molti popoli incirconcisi di cuore e di carne". Su questa linea si pone Buber, che in un discorso tenuto a Gerusalemme nel 1948 in occasione del proprio settantesimo compleanno, disse: "lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita, riconoscerà Gesù; e non semplicemente come una grande figura nella sua storia religiosa, ma anche nel contesto organico di uno sviluppo messianico che si stende per millenni, il cui fine ultimo è la redenzione di Israele e del mondo. Ma io credo ugualmente in modo fermo che noi non riconosceremo mai Gesù come la venuta del Messia, perché ciò contraddirebbe il più profondo significato della nostra passione messianica". Questo testo, riportato da Gerard S. Sloyan, Buber and the Significance of Jesus, in The Bridge, 111/1958, p. 218 ss., che lo cita a sua volta da Maurice S. Friedman, Martin Buber: the Life of Dialogue, University of Chicago Press, 1955, p. 279, si può leggere nell'importante saggio di Renzo Fabris, L'immagine di Gesù nel mondo ebraico, in AA. VV., Tu solus altissimus. La figura di Gesù Cristo nel tempo, Edizioni O.R., Milano 1976, p. 34. Come si è detto, le considerazioni di Buber, che qui si citano sia per utilità degli ascoltatori di Camaldoli che ci leggeranno, sia per tornare sul tema che ha occupato parecchi numeri di "SeFeR", non sono una novità e meno che mai un'eccezione nel pensiero ebraico contemporaneo: si veda per esempio il saggio di Will Herbeg, A Jew Looks at Jesus, in D. Kirpatrik (a c. di), The Finality of Christ, Abingdon Press, Nashville-New York 1976, pp. 91-101, saggio che ci proponiamo di offrire prossimamente ai nostri lettori, e in cui è riportata la famosa frase di Franz Rosenzweig (il quale non fu meno ebreo di Buber o di Elia Benamozegh): "Israele può portare il mondo a Dio solo attraverso il cristianesimo". Trarre conclusioni da queste posizioni richiede, come dicevano gli "uomini della Knesseth ha-Gedolah" o Grande Assemblea (secc. IV-III a.E.V.), di essere "ponderati nel giudizio": perché, se è pur vero che l'idea di Gesù ebreo messia dei pagani è un'ipotesi teologica che, lungi dallo spossessare Israele della propria missione (chi mai ha detto, tra gli ebrei, che il loro compito è di convertire le genti all'ebraismo?), ne esalta la funzione universale e mediatrice, è pur vero che l'ebraismo può non pensare affatto a Gesù (come il cristianesimo a Maometto); ma all'ebraismo, e ai pensieri ebraici su Gesù, deve pensare molto e sempre la chiesa, se non vuole perdersi, come disse Gesù alla samaritana, adorando quello che non conosce.