17. pesce scaccia pesce

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17. pesce scaccia pesce
Questo racconto è tratto dal libro di Giovanni Tonzig
L'intimo intreccio - Storie di cibo e di gente
(Bietti editore).
17. PESCE SCACCIA PESCE
In fatto di inviti a pranzo, distinguerei due casi opposti ed estremi. Caso A:
l’invitato è di bocca buona, di cose di tavola non capisce niente e non capirà mai
niente. È, in un certo senso, la situazione più favorevole, essendo il rischio ridotto
al minimo: purché ci sia da mangiare in abbondanza e in allegria, il vostro ospite
sarà comunque felice. Per contro, non vi dovrete aspettare particolari gratificazioni:
qualunque cosa avrete portato in tavola, alla fine riceverete un complimento entusiastico, onnicomprensivo e un po’ irritante: «Tutto molto buono», senza nessun
tentativo di qualche più sottile distinzione, utile tra l’altro a rendere l’apprezzamento più credibile. Caso B: l’invitato è un fior di buongustaio. La faccenda allora
si complica, e a maggior ragione si complica se, in fatto di cucina, ritenete di avere
un prestigio da difendere: in compenso, il gioco diventa stimolante, e potete legittimamente aspettarvi, tutto andando bene, grosse soddisfazioni. In ogni caso, le
dieci regole che seguono, credo non del tutto scontate, potranno forse riuscire utili
a qualcuno dei miei lettori (e dei suoi ospiti).
1. Mai fare il passo più lungo della gamba. Mai provare per l’occasione una ricetta
nuova. Andare sul sicuro. Se avete invitato un buongustaio, non cercate di sbalordirlo con piatti complicati. Scegliete la semplicità, ma nella semplicità cercate la
perfezione: più è competente, più l’ospite apprezzerà il criterio da voi adottato. Lasciate perdere spiedini e grigliate su fuoco di carbonella: sono preparazioni allettanti come poche altre, ma la disponibilità di qualcuno a immolarsi nei pressi del
braciere non basta, l’operazione di cottura richiede un’abilità quasi sovrumana. In
mancanza di che, otterrete immancabilmente il risultato tipico di questi casi: qualcosa di allegramente orribile, con pezzi di carne  magari di maiale  ancora sanguinolenta alternati a brandelli di salsiccia e peperone pressoché carbonizzati. Se
proprio agli spiedini non volete rinunciare, cuoceteli nel tegame con po’ d’olio, sono diversi ma altrettanto buoni, e sbagliare è quasi impossibile.
2. Cortesia vuole che, se appena la cosa è possibile, si cerchi di venire incontro alle
esigenze degli invitati. Se non si è ben sicuri dei loro gusti, bisognerebbe, al momento dell’invito, accertare che non siano per caso soggetti a idiosincrasie nei riguardi di qualche particolare piatto o ingrediente: sarebbe tragico venire a sapere,
dopo aver portato in tavola uno splendido piatto di tagliatelle coi porcini, che qualcuno dei presenti non sopporta i funghi. Dunque, accertate. Se l’invitato dice che
gli piace tutto tranne trippa, fegato e baccalà, vi è andata bene. Se vi dice che non
ha nessun tipo di problema, ma non sopporta l’aglio (pare che anche Berlusconi,
come già Agnelli, appartenga alla categoria, tenetelo eventualmente presente), è
una rogna ma ve la potete cavare, vi resta pur sempre la cipolla. Se però vi dice che
gli va bene tutto, solo che non sopporta l’aglio e sta male se a quaranta metri di distanza qualcuno affetta una cipolla, siete effettivamente nei guai: se appena potete,
cambiate invitato.
3. Guardatevi dallo sciagurato schema «tutto pesce» (antipasto, primo, secondo), o
«tutto funghi», o «tutto griglia». Queste disdicevoli cose ricorrono a volte nei resoconti di alcuni famelici frequentatori di locali alla moda: certi ristoranti ne fanno
addirittura il proprio emblema, e può anche darsi che, commercialmente, la formula
funzioni. Voi non fatevi fuorviare: è una formula sbagliata, serve solo a confondere
palato e idee, a togliere sorpresa e appetibilità. Attenetevi semmai alla regola contraria: pesce scaccia pesce. Se volete che la meravigliosa padellata di gamberi che
intendete servire per secondo sia apprezzata come merita, evitate di farla precedere
da una zuppa di pesce, magari a sua volta preceduta da un antipasto di moscardini
in umido
4. Quando, in precedenza, un certo piatto vi è riuscito proprio bene, potete certamente decidere di includerlo nel menù. Ma c’è una legge: più il risultato già ottenuto è straordinario, più è improbabile che possa ripetersi allo stesso livello. C’è
sempre di mezzo, anche nelle cose di cucina, la fortuna, un concorso di circostanze
favorevoli che, per ragioni statistiche, difficilmente possono ripetersi tutte assieme.
5. Se intendete seguire lo schema classico «primo, secondo con contorno, dessert»,
lasciate perdere l’antipasto. In linea di massima, l’antipasto ha senso solo al ristorante: laddove, mentre vi preparano ciò che avete scelto, voi gustate qualche piccola squisitezza e con più fervido impegno, nell’interesse anche del ristoratore, vi disponete al prosieguo. A casa, invece, non ci sono attese da colmare: quando ci si
siede a tavola, il pranzo è pronto per essere servito: e, se sapete di aver fatto un
buon lavoro, non vi conviene disorientare le papille gustative dei vostri ospiti. Prosciutti, salami e cotechini possono essere favolosi, ma hanno personalità esuberante, invasiva; al contrario, i vostri aristocratici tagliolini con asparagi e fiori di zucca
sono di carattere un po’ timido, farli precedere da certe travolgenti leccornie vorrebbe dire mortificarli. Vi sembra il caso? 1
6. È sempre possibile un qualche piccolo o grande errore di preparazione. In tal caso, non puntate a farla franca, ricordatevi l’episodio degli spaghetti alla carbonara:
giocate d’anticipo, spiegate con semplicità l’errore, assumetevene la responsabilità,
e sarete perdonati. Se invece gli invitati siete voi, non negate l’evidenza: quando il
padrone o la padrona di casa segnalano l’errore, dichiaratevi d’accordo. Saprete
naturalmente dirlo col garbo che vi contraddistingue, per esempio «peccato, è già
1
A parziale conforto della mia tesi, alcuni mesi dopo aver scritto queste pagine ho letto nello splendido Il gastronomo educato di Alberto Denti di Pirajno (Neri Pozza editore) queste osservazioni: «Non
mancano i buongustai che vorrebbero (e non del tutto a torto) bandire gli antipasti dalla mensa. Dicono che questi piattini, quando sono abbondanti, guastano l’appetito; e se sono salati, drogati o piccanti
intorpidiscono il gusto… Ma io rifuggo dagli ostracismi senza discriminazione, e penso che non sia
un’eresia far precedere la colazione da un piatto singolo…». Dopo questa professione di liberalità,
Denti di Pirajno pone tuttavia limiti severi: «Escludiamo le terrines francesi, le acciughe e le aringhe
sempre troppo salate, i sottaceti che bruciano la lingua; siamo cauti quando nei ristoranti di lusso ci
servono gli hors-d’oeuvre…».
turalmente dirlo col garbo che vi contraddistingue, per esempio «peccato, è già
buono così, chissà cosa sarebbe stato». Nello stesso modo, non negate l’evidenza
quando un piatto vi è riuscito particolarmente bene. Non dite «non è esattamente
quello che speravo» se avete fatto il capolavoro della vita, ammettete di essere felici. Se poi, a lode e gloria del capolavoro, l’ospite non trova di meglio che definirlo «gustoso», oppure «delicato», dimenticate il suo nome, non invitatelo più (se foste voi l’invitato, cosa direste, ai padroni di casa, di un piatto pessimamente riuscito?
Gustoso, oppure saporito, o eventualmente appetitoso. E di un piatto insignificante?
Delicato). C’è ancora una possibilità, un’eventualità estrema: a commento del meraviglioso sapore del cibo di cui, senza alcun merito, si sta nutrendo, il vostro ospite potrebbe dire «caratteristico». Trattatelo, in tal caso, con particolare riguardo:
potrebbe essere pazzo.
7. Curate i particolari. Un errore tipico è quello di portare in tavola del vino bianco
a temperature polari, per poi abbandonarlo al suo destino lasciando che si riscaldi
fino a temperature da consommé. Evitate di portare in tavola troppe bottiglie tutte
assieme: meglio far arrivare in tavola una bottiglia per volta (fredda, non ghiacciata), al massimo due: si svuoteranno rapidamente (se il vino è buono) senza pericolo
di surriscaldamenti. In alternativa, potete utilizzare gli appositi contenitori salvafresco: funzionano bene, e se ne trovano oggi di abbastanza belli.
8. Per il pane, bandite quei panini anoressici che, con imperdonabile sciatteria, vi
rifilano perfino nei buoni ristoranti. Ricordate che, soppesato con la mano, il pane
deve risultare sempre alquanto «pesante», se è molto leggero non vale niente; e che
la mollica, se la tirate, deve cedere subito senza quasi lasciarsi allungare, esattamente come accadrebbe con una torta. Scegliete una bella pagnotta (tipo Altamura, per intenderci): lasciatela a far bella mostra di sé su un tagliere di legno in prossimità della tavola da pranzo, man mano che se ne presenta l’opportunità ne taglierete personalmente alcune fette. Cercate di rifornire i commensali prima che siano
loro a chiederlo.
9. D’estate non occorre, ma d’inverno non potete esimervi dal servire risotti, pastasciutte e tutte le vivande da consumarsi calde (con la sola eccezione delle minestre)
in piatti previamente riscaldati (il forno elettrico è l’ideale, ma d’estate, per non
surriscaldare la cucina, converrà usare quello a microonde). È un piccolo, fondamentale, magico tocco che rivelerà subito anche all’ospite più svagato la vostra intelligente attenzione nei suoi riguardi.
10. Infine, le bevande. Per il vino, non tenterò di sovrapporre la mia flebile voce al
coro sterminato dei suggerimenti. Tuttavia, due consigli li do. Il primo: non fatevi
impressionare più di tanto dalle indicazioni che i manuali gastronomici elargiscono
in fatto di abbinamenti (rileggete magari a tale riguardo il capitolo 9). Secondo: avete in cantina qualche cassetta natalizia contenente vini di gran nome? Toglietevi
dalla testa l’idea di farne uso, dimenticatevene: se devo giudicare dalla mia personale esperienza, sono vini mal riusciti di cui ben volentieri il produttore si libera,
approfittando della confusione, sotto le feste (vanno giusto bene per sfumare brasati, spezzatini e ragù). Quanto all’acqua, una sola raccomandazione: quali che siano
le vostre normali abitudini, guardatevi dal portare in tavola acqua minerale in bottiglie di plastica. Prima di tutto, sono orrende. In secondo luogo, maneggiarle è
scomodo. In terzo luogo, voi magari non ci fate più caso, ma chi abitualmente beve
acqua dalla bottiglia di vetro percepirà più o meno nettamente (dipende dalla marca,
e beninteso dal palato del bevitore) lo sgradevole sapore della plastica. Se non sapete di cosa parlo, provate a leccare una pallina da ping pong.