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12° Corso per Infermieri
Prepàrati a lavorare in équipe
G Gerontol 2011;59:369-381
369
Venerdì, 2 dicembre 2011
Prima Sessione
Modelli per le cure infermieristiche
all’anziano
Moderatori: Nicoletta Franceschini (Genova), Ermellina Zanetti
(Brescia)
Chronic care model: educare alla salute
A. Gant, P. Fortini
Direzione Assistenza Infermieristica Territoriale, Zona Nord Ovest, Azienda Sanitaria di Firenze
Fig. 1.
I sistemi sanitari dei paesi più sviluppati sono costantemente alla
ricerca di un buon equilibrio fra il quadro epidemiologico e demografico e la sostenibilità economica, ovvero devono dare risposte appropriate ai nuovi bisogni di salute e allo stesso tempo razionalizzare
le spese in linea con le logiche aziendali.
La strategia è investire sulle cure primarie: le evidenze scientifiche
che abbiamo a disposizione in letteratura, infatti, ci dimostrano
come i sistemi basati sull’alta specializzazione siano meno efficaci
oltre che più costosi.
Questo inevitabile processo di riorganizzazione ha l’obiettivo di
superare la logica dell’isolamento professionale, dell’intervento
specialistico come risposta ai problemi di salute e della frammentazione dei servizi a favore di una logica basata sul lavoro in équipe
multiprofessionali, sull’implementazione di percorsi assistenziali
governati sul territorio, e sulla realizzazione di una rete che consenta
una collaborazione attiva fra tutti i servizi che si prendono cura del
cittadino-paziente.
In una situazione in cui è innegabile la limitatezza delle risorse, le
evidenze scientifiche ci dicono anche che occorre rivedere i nostri sistemi di finanziamento dei servizi sanitari, troppo spesso sbilanciati
verso l’ospedale mentre occorre potenziare il territorio che è il setting
da prediligere in quanto luogo di vita e fulcro dell’intero processo
assistenziale socio-sanitario.
Il progetto “Sanità d’Iniziativa” della Regione Toscana (PSR Regione
Toscana 2008-2010, Delibera n. 716 del 03-08-2009) recepisce il
Chronic Care Model nella sua versione evoluta: “Expanded Chronic
Care Model” (Fig. 1), in cui ai noti elementi clinici vanno ad aggiungersi aspetti di sanità pubblica, prevenzione primaria, attenzione ai
determinanti di salute. Questo, pertanto, è il modello di riferimento
adottato come strategia di risposta sanitaria all’aumento di popolazione vecchia e conseguentemente delle patologie croniche.
La novità principale è rappresentata dalla costituzione di team assistenziali in cui la figura del MMG è affiancata da infermieri dell’ASL
ed altri professionisti sanitari.
Medicina Generale e Aziende Sanitarie Territoriali s’incontrano dunque per dare nuove risposte agli utenti.
Gli obiettivi cardine:
- promozione della salute;
- proattività nella gestione delle malattie croniche;
- razionalizzazione dell’utilizzo di risorse.
I team multi professionali sono orientati dal Chronic Care Model
verso l’adozione di un modello assistenziale proattivo, che intercetti
cioè il bisogno di salute prima dell’insorgere della malattia o dell’aggravamento della stessa.
I percorsi assistenziali per le principali patologie croniche (Scompenso Cardiaco, Diabete, Ictus, BPCO, Ipertensione) condivisi a
livello Aziendale, l’organizzazione dei team assistenziali in “Moduli”
(unità di misura consistenti in sottopopolazioni di circa 10.000 assistiti facenti capo a un gruppo di 7-8 MMG) e un’infrastruttura informatica per la realizzazione dei “registri di patologia” e la gestione
dei dati sono gli elementi essenziali di questo programma.
Parallelamente e sulla scia di questa esperienza, la riflessione ed
il dibattito, già presente in Azienda, sullo sviluppo del Nursing, si è
arricchito di argomenti e spunti.
Un Nursing avanzato, infatti, è al tempo stesso premessa necessaria
e naturale conseguenza di un tale modello organizzativo dell’assistenza.
Nei 5 anni passati si sono svolte in Azienda alcune significative esperienze di gestione di pazienti cronici (es. ambulatori per scompenso e
diabete) in cui gli infermieri svolgevano già un’importante funzione
di educazione terapeutica, formazione e informazione all’utente per
rafforzare l’autogestione della malattia, follow-up, supporto al care
giver. Queste, in qualche modo, possono considerarsi un importante
e propedeutico preludio al più articolato progetto della Sanità d’Iniziativa in atto.
Dato il livello di gradimento mostrato dagli utenti verso simili approcci terapeutico-assistenziali, considerando la motivazione degli
infermieri per un tale sviluppo professionale e l’assoluta necessità
di stabilire un forte livello di collaborazione con i MMG ai fini di un
efficace risposta ai bisogni di salute dei cittadini, diventa necessario
e possibile l’adozione di modelli organizzativi dell’assistenza infermieristica avanzati nell’ambito delle cure primarie. Ecco che parlare
di presa in carico, primary nursing, case management, piano di
assistenza, con tutto ciò che ne consegue sul piano degli strumenti
e delle metodologie di lavoro (percorsi assistenziali multi professionali, cartella informatizzata, audit, briefing, revisione dei casi, ecc.)
diventa ora di estrema attualità e necessità.
In letteratura ci sono diversi studi condotti in vari paesi, europei e
non, che dimostrano come la professione infermieristica sia determinante all’interno dei servizi di cure primarie e rappresenti un punto
di primo contatto molto gradito dai cittadini quando si rivolgono ai
servizi sanitari.
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Per esempio nel modello Spagnolo (Catalano), pur essendo il Medico
di medicina generale il Gatekeeper del sistema di cure e i cittadini
iscritti nella lista di un Medico di libera scelta (con un rapporto
numerico fra i medici e la popolazione e di 300/1), l’Infermiere
è un professionista con un ruolo significativo e di spessore, ha
competenze e funzioni proprie molto sviluppate e opera con larga
autonomia. Il modello catalano soprattutto è organizzativamente
molto avanzato ed è studiato a livello mondiale per le sue caratteristiche di efficacia ed efficienza; qui infatti la multiprofessionalità è
ampiamente sviluppata e diffusa con notevoli vantaggi per i pazienti
che ne usufruiscono.
Nel modello Svedese e Finlandese invece l’accesso ai servizi non
avviene mediante un Gatekeeper, i pazienti possono liberamente
rivolgersi ed accedere ai vari servizi. In rapporto alla popolazione
i Medici di medicina generale sono 320/1 in Svezia e 230/1 in Finlandia. In questi sistemi l’Infermiere ha un ruolo molto importante
nelle cure primarie ed opera all’interno di team multi professionali.
Il paziente viene gestito quindi all’interno di percorsi condivisi dai
diversi professionisti.
Questo modello di Svezia e Finlandia sarebbe auspicabile in quanto
è quello dove l’infermiere sviluppa spiccatamente le competenze
proprie della professione operando all’interno dei gruppi multiprofessionali con larga autonomia. Il sistema di accesso ai servizi è
libero e non governato da una figura di gate-keeper; questo applicato
al nostro contesto ed in questa fase della riorganizzazione del nostro
sistema sanitario, potrebbe rappresentare una minaccia per la perdita di ruolo da parte del medico di medicina generale, che potremmo
però neutralizzare attraverso un incremento del lavoro in équipe
all’interno delle quali il medico recupererebbe le sue competenze
professionali avanzate nella sfera clinica.
Il modello spagnolo potrebbe essere definito come applicabile in
quanto porta in sé minori minacce rispetto a quello del nord Europa
se comparato al nostro modello e nello stesso tempo offre alla professione infermieristica ampi spazi per l’incremento delle competenze.
Risulta evidente che il passaggio della Sanità d’Iniziativa da progetto
a sistema configurerà un’organizzazione che tende necessariamente
verso modelli più evoluti, come quelli sopra descritti, in cui la multi
professionalità, l’accesso più elastico alle cure ed un ruolo di centralità dell’Infermiere saranno requisiti fondanti.
Dovendo l’organizzazione sanitaria, garantire comunque sia la
“medicina d’attesa” (disegnata sulle malattie acute) che quella
d’iniziativa, risulta chiaro come le due figure del MMG (gate keeper
nel 1° caso e responsabile clinico nel 2°) e dell’Infermiere (gestore
del piano assistenziale e figura centrale nel supporto all’autocura)
dovranno armonizzarsi in un rapporto di collaborazione dinamico
e variabile, superando così vecchi schematismi. A seconda dei casi il
loro rapporto si articolerà attraverso meccanismi di delega (tanto
più necessari quanto più decrescerà il n° di MMG nel prossimo
futuro) piuttosto che attraverso la gestione multi professionale dei
percorsi nel pieno esercizio dell’autonomia e delle competenze proprie del proprio profilo professionale.
Risulta difficile, quindi, concludere se il meccanismo prevalente
sarà quello dell’accrescimento di funzioni delegate, piuttosto che
l’elevazione di proprie competenze da parte dell’infermiere. In ogni
12° corso per infermieri
caso le competenze richieste all’infermiere potranno e dovranno
svilupparsi.
Bibliografia
Maciocco G. Politica, salute e sistemi sanitari. Le riforme dei sistemi sanitari nell’era della globalizzazione. Roma: Il Pensiero Scientifico 2009.
Regione Toscana, Direzione Generale Diritto alla Salute e Politiche di Solidarietà. Piano Sanitario Regionale 2008-2010.
Roti L, Bartolini R. Vince il rapporto col paziente. Il Sole 24 ore Sanità
Toscana. Supplemento al n° 35, settembre 2010.
Starfield B, Shi L, Macinko J. Contribution of primary care to health systems and health. Milbank Q 2005;83:457-502.
Torselli R, Salvadori R. All’Infermiere il ruolo di counselling. Il Sole 24 ore
Sanità Toscana. Supplemento al n° 35, settembre 2010.
Nurses Improving Care for Health System Elders
(NICHE): migliorare l’assistenza agli anziani in
ospedale
P. Gobbi
Collegio Interprovinciale Ipasvi di Milano-Lodi-Monza Brianza; SIGG
sezione Nursing; ASL Monza Brianza
La riprogettazione dell’assistenza erogata all’anziano ospedalizzato
impone alcune tappe fondamentali, che in successione cronologica
e logica vengono qui di seguito riassunte. In primo luogo la definizione della mission infermieristica della UO: nonostante che molti
infermieri stessi diano per scontato che il loro mandato è assistere,
oggi l’infermieristica è così tanto ampia e variegata al suo interno
da far risultare insufficiente questa definizione.
La mission infermieristica permette di individuare la specificità
dell’assistenza infermieristica in ogni contesto, l’impegno che questa
assume nel partecipare ai più ampi obiettivi aziendali, gli scopi che
l’équipe infermieristica si prefigge e il contratto che di conseguenza
assume con l’utenza.
Successivamente la definizione del modello concettuale di riferimento da parte dell’équipe infermieristica.
La scelta di un modello organizzativo di riferimento per l’assistenza: classicamente il modello funzionale (o per compiti) ha pervaso
fino ad oggi le unità operative ospedaliere, senza che visioni più
moderne e legislazione corrente lo mettessero in crisi. Basti pensare,
a quest’ultimo proposito, quanto espresso dal Profilo (DM 739/94) e
dalla L. 251/00: la metodologia infermieristica, l’orientamento alla
personalizzazione dell’assistenza e l’organizzazione del lavoro per
obiettivi sono definizioni della normativa già formalizzate da anni,
ma tutto ciò sembra aver sfiorato marginalmente le nostre realtà.
Ancora limitate sono le esperienze di piccole équipe o settorializzazione, pressoché sconosciuto il case management (se si esclude
l’Emilia Romagna, che ne ha fatto un modello regionale).
L’inserimento dell’Oss deve essere preceduto da una riflessione
sull’organizzazione del lavoro assistenziale, con la conseguente
scelta di un modello organizzativo congruente con la disponibilità
e il coerente impiego dei due profili a disposizione. Sicuramente l
modello delle piccole équipe può risultare ottimizzante l’inserimento
dell’Oss.
Non in ultimo, l’assegnazione delle responsabilità e la definizione
dei relativi standard: per la discrezionalità che caratterizza oggi
l’organizzazione interna dei servizi, è necessario che in ognuno di
12° corso per infermieri
questi venga definito chi fa che cosa, individuando la figura giusta
per ciascuna prestazione assistenziale che deve essere assicurata nel
servizio. Lo strumento più indicato per questa attività è la costruzione della job description, oltre alla definizione degli standard
assistenziali, così da socializzare nel team di lavoro i patrimoni
individuali di ciascuno (D’Addio, 2005).
Il modello NICHE
Il Nurses Improving Care for Health System Elders (NICHE) è
un modello assistenziale specificatamente creato per migliorare
l’assistenza infermieristica agli anziani ricoverati in ospedale. Nasce
nel 1981 ad opera di Terry Fulmer, Decano al College of Nursing di
New York, che al Beth Israel Hospital di Boston introduce il Geriatric
Resources Nurse (GRN), consistente in un servizio di consulenza
erogato dagli infermieri dell’unità operativa di geriatria ai colleghi
degli altri reparti, relativamente a specifici problemi di clinica geriatrica dei loro pazienti. Da questa esperienza scaturisce la necessità
di stendere protocolli assistenziali condivisi, ed implementati in tutte
le unità Operative, relativi alla gestione dei più comuni problemi
assistenziali geriatrici, al fine di migliorare l’assistenza ai pazienti
anziani ed elevare la competenza del gruppo infermieristico (Fulmer,
2001). Tale modello viene poi esportato allo Yale New Haven Hospital, come parte integrante del progetto HOPE (Hartford Foundation’s Hospital Outcomes Program for the Elderly) (Inouye et al.,
1993). Il successo è tale che la Hartford Foundation destina cospicui
fondi per implementare il modello di assistenza infermieristica del
progetto HOPE negli ospedali di comunità. Diventa così il modello
NICHE, con l’obiettivo di migliorare l’assistenza agli anziani ricoverati negli ospedali, erogando cure infermieristiche di qualità.
Viene costituito un board di infermieri con competenze avanzate
in geriatria, per la stesura di protocolli per la pratica infermieristica relativi alla valutazione, prevenzione e gestione delle quattro
maggiori problematiche/complicanze che possono portare l’anziano
ospedalizzato al peggioramento delle capacità funzionali: ulcere da
pressione, incontinenza, disturbo del sonno, uso della contenzione
fisica. Questi protocolli hanno costituito la base per la realizzazione
del Geriatric Institutional Assesment Profile (GIAP), uno strumento
utilizzato per aiutare gli ospedali ad analizzare i bisogni dei loro pazienti anziani ospedalizzati e determinare il fabbisogno assistenziale
(Fulmer et al., 2003).
.Attualmente il NICHE è diventato un programma nazionale di
assistenza in area geriatrica, adottato da più di duecento ospedali
di 40 Stati degli USA, e diffuso anche in Canada. La mission di
NICHE è quella di diffondere principi e strumenti per promuovere
il cambiamento nella cultura delle strutture sanitarie, a favore di
un’assistenza all’anziano ospedalizzato patient-centered. La vision
di NICHE è l’erogazione di assistenza di qualità a tutti i pazienti over
65 anni ospedalizzati.
Il NICHE Tool Kit prevede la fornitura di materiali e servizi necessari
per stimolare e supportare i processi di cambiamento nell’assistenza
agli anziani:
1. Il NICHE Planning and Implementation Guide: consiste in una
varietà di approcci infermieristici, i quali possono riorganizzare e
migliorare efficacia ed efficienza delle cure infermieristiche rivolte agli anziani ospedalizzati. Questi includono i modelli Geriatric
Resources Nurse e l’Acute Care for Elders (ACE).
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2. Action plan worksheet (manuali dei piani di attuazione) che
aiutano il personale a pianificare il miglioramento delle cure
geriatriche a partire dalle lacune evidenziate dalla valutazione
3. L’implementazione dei protocolli di pratica clinica che riportano gli standard della pratica infermieristica relativamente a 13
importanti sindromi geriatriche.
Dopo l’implementazione di NICHE gli ospedali riferiscono (Boltz
et al., 2008; Turner et al., 2001; Kim et al., 2007):
- conoscenze ed abilità di cura aumentate per quanto riguarda il
trattamento delle sindromi geriatriche più comuni;
- maggior soddisfazione dei pazienti;
- diminuzione dei tempi di degenza dei pazienti anziani;
- riduzioni dei tassi di riammissione;
- aumenti nella durata fra le riammissioni;
- riduzioni dei costi associate alle cure dei pazienti anziani ospedalizzati.
Bibliografia
Boltz M, Capezuti E, Bowar-Ferres S, et al. Changes in the geriatric care
environment associated with NICHE (Nurses Improving Care for HealthSystem Elders). Geriatr Nurs 2008;29:176-85.
Counsell SR, Holder CM, Liebenauer LL, et al. Effects of a multicomponent
intervention on functional outcomes and process of care in hospitalized
older patients: a randomized controlled trial of Acute Care for Elders
(ACE) in a community hospital. J Am Geriatr Soc 2000;48:1572-81.
D’Addio L. Modelli assistenziali: dalla cura per acuti alla cronicità. Modelli organizzativi. G Gerontol 2004;52:454-8.
Fletcher K, Hawkes P, Williams-Rosenthal S, et al. Using nurse practitioners
to implement best practice care for the elderly during hospitalization:
the NICHE journey at the University of Virginia Medical Center. Crit
Care Nurs Clin North Am 2007;19:321-37.
Hogan DB, Fox RA, Badley BW, et al. Effect of a geriatric consultation
service on management of patients in an acute care hospital. CMAJ
1987;136:713-7.
www.consultgerirn.org
www.nicheprogram.org
Modelli per l’assistenza all’anziano affetto
da demenza: dall’ospedale al territorio
F. Podavitte
Direttore Dipartimento ASSI-ASL Brescia
I primi impulsi nazionali orientati alla ricerca di modelli condivisi
di gestione del paziente affetto da demenza risalgono a poco più
di un decennio fa. Essi riguardavano specificamente la gestione
diagnostico-terapeutica e solo in seguito l’organizzazione dei servizi
della rete territoriale.
Oggi si rende necessaria un’ulteriore svolta nella gestione complessiva di questa tipologia di pazienti. Una presa in carico innovativa
delle demenze infatti deve prevedere il passaggio dalla costruzione
di una rete intesa come insieme di unità di offerta alla definizione e
condivisione del percorso dedicato, riguardante l’accompagnamento
di paziente e famiglia nelle diverse fasi della malattia.
L’interesse di vecchia data dell’ASL di Brescia per tale tematica si
è attualmente orientato verso la riorganizzazione della rete delle
UVA con loro trasformazione in strutture per le demenze di 1° e 2°
livello e l’elaborazione del PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico
Assistenziale) dedicato, elaborato con il coinvolgimento di UVA,
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MMG, rappresentanti di RSA/CDI. Una chiara definizione di ruoli,
strumenti, obiettivi e la condivisione di strategie facilita un approccio effettivamente multidimensionale, integrato e coordinato nella
gestione dei bisogni insiti nella malattia.
Lo scopo del PDTA è di migliorare la modalità di gestione del
paziente con decadimento cognitivo/demenza e della sua famiglia
attraverso una conoscenza più puntuale dei servizi esistenti e di
un loro appropriato utilizzo, oltre ad una più organica integrazione tra servizi/strutture e tra operatori. In particolare il PDTA
definisce i principali passaggi del percorso che malato e famiglia
affrontano, in modo da migliorare il funzionamento del sistema
di rete, ottimizzare l’utilizzo delle risorse e ridurre i disagi a loro
carico. Questo percorso vede agire in modo integrato Strutture per
le demenze, MMG ed Unità di Continuità Assistenziale Multidimensionale (UCAM) in un unico piano di intervento, con chiara
definizione dei reciproci ruoli, prevedendo anche il coinvolgimento
dei Servizi della rete territoriale.
Nell’ASL di Brescia un’indagine effettuata attraverso le banche dati
disponibili ha rilevato la presenza di ben 12.643 pazienti affetti da
demenza (Tab. I), numero in incremento sia per il progressivo invecchiamento della popolazione, sia per la maggior appropriatezza
diagnostica.
Tab. I. Pazienti con demenza ASL di Brescia.
Pazienti con Alzheimer
Pazienti con demenza
(non Alzheimer)
Totali
di cui in RSA
Pazienti con Alzheimer
Pazienti con demenza
(non Alzheimer)
Totale
di cui in ADI
pazienti con Alzheimer
pazienti con demenza
(non Alzheimer)
Totale
maschi
997
2.637
femmine
2.950
6.059
totale
3.947
8.696
3.634
9.009
12.643
1.534
3.159
4.693
758
1.558
2.316
Il numero elevato di persone affette da demenza e la specificità dei
loro bisogni motivano l’opportunità
di costruire sinergie e garantire l’appropriatezza degli interventi, a
partire da:
a) un iter diagnostico, terapeutico, di follow-up chiaro e condiviso
tra UVA e con i MMG;
b) una maggiore comunicazione fra operatori delle varie unità di
offerta, in particolare fra UVA, MMG ed UCAM;
c) chiarezza di raccordo fra UVA ed UCAM, per una valutazione
complessiva dei bisogni, l’accompagnamento nell’accesso alla
rete territoriale di servizi e la valorizzazione di esperienze innovative;
d) maggior specificità dell’intervento domiciliare, con particolare
attenzione alla gestione dei disturbi comportamentali, monitorandone gli esiti;
e) iniziative di supporto ai familiari ed ai caregiver non professionali nel delicato ruolo assistenziale.
La gestione dei disturbi comportamentali è il problema di maggior
rilievo, incidendo sulla qualità della vita dei caregiver e della famiglia, non solo dei malati e notevolmente sul clima sia familiare sia
dei servizi; per tale motivo è fondamentale individuare strategie per
farsene carico.
Anche il momento del ricovero ospedaliero rappresenta occasione
di significativa criticità per i pazienti con decadimento cognitivo
e disturbi psico-comportamentali, sia quando già con diagnosi di
demenza, poiché scatena il disorientamento nel malato ed il conseguente acuirsi dei disturbi psico-comportamentali, sia in fase non
sospetta di malattia, poiché l’evento acuto (es. frattura, intervento
chirurgico ecc.) può divenire causa scatenante dell’esordio della
malattia o per l’emergere di manifestazioni deliranti transitorie. Le
UO ospedaliere maggiormente coinvolte sono quelle chirurgiche,
internistiche e geriatriche. Le procedure di ammissioni/dimissioni
protette sottoscritte fra ASL e strutture ospedaliere possono essere utilizzate anche nella gestione dei pazienti con decadimento cognitivo,
nelle seguenti modalità:
a. ricovero ospedaliero di paziente con diagnosi pregressa di
demenza: il MMG e l’UCAM forniscono al reparto di ricovero
documentazione ed informazioni utili ai fini della gestione del
malato;
b. durante il ricovero ospedaliero comparsa di sintomi/sospetti:
l’UO ospedaliera attiva l’UVA di riferimento che effettua una
prima valutazione di inquadramento con screening prediagnostico e decide l’iter successivo, sino ad una eventuale dimissione
protetta.
Nel percorso assistenziale del paziente i due momenti che assumono particolare rilievo, specialmente nel rapporto con i familiari, sono la comunicazione della diagnosi e la valutazione e
l’individuazione di capacità ed effettiva disponibilità familiare al
prendersi carico del malato. Alcune delle condizioni che richiedono
la segnalazione dell’UVA a MMG/UCAM per l’attivazione di servizi
territoriali sono:
- il paziente è solo o non dispone più di validi riferimenti familiari/
caregiver;
- l’ambiente domestico necessita di adeguamento alle esigenze del
malato;
- i familiari/caregiver presentano un livello non sufficiente di conoscenza della malattia e/o degli strumenti di sua gestione e/o di
capacità di utilizzo degli stessi;
- i familiari/caregiver sono in difficoltà o non in grado di gestire i
problemi comportamentali del malato;
- il quadro del paziente subisce un aggravamento clinico e/o sociale che richiede la ricerca di nuove soluzioni;
- l’assistito con demenza è in fase terminale.
Di seguito vengono brevemente elencati i Servizi territoriali attivabili
ed alcune iniziative in atto nel bresciano.
• Assistenza domiciliare integrata nelle sue varie forme:
- occasionale/estemporanea (es. prelievo domiciliare; ciclo di
terapia iniettiva);
- credit mensile: assegno virtuale per l’acquisto di prestazioni
esclusivamente sanitarie erogate da caregiver professionali;
12° corso per infermieri
- voucher socio-sanitario: assegno virtuale per l’acquisto di
prestazioni socio sanitarie erogate da caregiver professionali.
• Servizi diurni:
- CDI (Centri Diurni Integrati), che possono garantire anche
ricoveri notturni;
- CDD (Centri Diurni per Disabili), nei casi di demenza precoce
(pazienti con età inferiore ai 65 anni).
• Servizi residenziali:
- RSA (Residenza Sanitario Assistenziale) e ricoveri di sollievo;
- RSD (Residenze Sanitarie per Disabili) per pazienti non
anziani(es. pazienti con demenza malattia rara in età giovane
adulta);
- rete riabilitativa (posti letto in strutture di riabilitazione, in
particolare ex IDR).
• Iniziative a supporto del caregiver:
- Scuola di Assistenza Familiare con corsi di formazione a supporto della famiglia/caregiver non professionale, dedicati alle
fragilità, fra cui le demenze e Manuale “Istruzioni per l’uso”.
La figura dell’infermiere è presente in tutte le tipologie di servizi: Ospedali-UVA e rete territoriale (es: Assistenza Domiciliare
Integrata, RSA, CDI). Pertanto assume un ruolo di particolare
significato nel percorso di gestione del paziente con demenza. Il
buon esito dell’attuazione dei modelli organizzativi presuppone la
consapevolezza di una funzione specifica richiesta agli operatori
per tipologia di bisogni. Un aspetto peculiare in questo ambito è la
particolarità di approccio richiesta, benché non sufficientemente
riconosciuta e la conseguente necessità di acquisizione di strumenti relazionali per gestire i rapporti con i familiari e specifici
strumenti per la gestione dei disturbi comportamentali del paziente. Di seguito vengono elencate alcune declinazioni di ruolo per
tipologie di servizio:
1. in ospedale: capacità di osservare e di rilevare sintomi sospetti (a
seguito di ricovero) utile ai fini dell’attivazione della consulenza
UVA, contestualmente alla garanzia di assistenza adeguata nella
fase di degenza. Quando il paziente ha una diagnosi pregressa di
demenza, la conoscenza della sintomatologia determinata dalla
patologia per una sua buona gestione, sino alla dimissione verso
il territorio;
2. nell’ADI: un ruolo educativo, di indirizzo a favore dei caregiver
nella gestione a domicilio dei disturbi comportamentali, oltre
che delle patologie correlate e dei bisogni di natura sanitaria più
noti;
3. in RSA e nei CDI: un ruolo organizzativo, in particolare per
quanto riguarda le terapie non farmacologiche di presa in carico
degli ospiti, sempre con attenzione alla sfera relazionale/comportamentale.
Anche le demenze pertanto richiedono una formazione specifica
per essere gestite in modo ottimale. Attraverso la condivisione di
percorsi ed obiettivi è possibile migliorare l’appropriatezza e non
solo l’intensità dei livelli assistenziali a favore di persone affette
da demenza.
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Seconda Sessione
Frattura di femore
Moderatori: Pietro Fabris (Venezia), Nicoletta Nicoletti (Torino)
Anziani con frattura di femore: dalla valutazione
all’intervento
E. Meregalli
Azienda Ospedaliera “S. Gerardo Monza”, Università Milano-Bicocca,
Struttura Clinicizzata di Geriatria
Dal 19 marzo 2007 presso l’Azienda Ospedaliera San Gerardo Monza,
reparto di Geriatria, è entrato in funzione un settore dedicato all’ortogeriatria. Questo al fine di fornire, vista l’alta incidenza di persone
fratturate di età maggiore di 70 anni, un’assistenza mirata e ridurre
le complicanze generali, migliorando la qualità complessiva della
gestione clinica e fornendo la ripresa precoce dell’autonomia.
L’anziano è una persona fragile a causa della polipatologia, della
polifarmacologia e della riduzione delle capacità di adattamento, di
comprensione del proprio stato di salute e di risposta autonoma, ed
è quindi maggiormente a rischio fratture.
L’ortogeriatria dell’ospedale di Monza è costituita da sei letti dedicati,
per i quali viene individuato un processo di cura dalla presa in carica
in pronto soccorso fino alla fase riabilitativa finale, coinvolgendo i
professionisti di diverse unità operative e avendo come obiettivo la
stabilizzazione e la guarigione in tempi brevi. Questi fattori condizionano infatti notevolmente la qualità della vita a breve e medio termine nella persona anziana fragile, che altrimenti incorrerebbe nelle
complicanze di cui sopra, quali ad esempio delirium, malnutrizione,
lesioni da decubito e sindromi da immobilizzazione.
Nell’ambito infermieristico è importante fare molta attenzione alla
valutazione del dolore poiché il suo aumento e la sua continua presenza possono portare a sempre più frequenti episodi di confusione
e agitazione, fino al vero e proprio delirium (condizione clinica caratterizzata da un’alterazione acuta e fluttuante dello stato psichico,
con perdita dell’attenzione e alterazione dello stato di coscienza).
Una delle principali difficoltà dal punto di vista infermieristico è data
dalla scarsa attendibilità o addirittura dall’impossibile valutazione
dell’NRS (Numerical Rate Scale) riguardante la persona con deterioramento cognitivo e Alzheimer. Ciò porta spesso ad una valutazione
soggettiva da parte dell’infermiere stesso che rischia di essere in
alcuni casi anche sottostimata.
In termini più pratici l’obiettivo dell’ortogeriatria è quello di seguire
la persona fratturata tenendo presente prima di tutto l’aspetto Geriatrico con le sue patologie correlate, e nello stesso tempo l’aspetto
ortopedico e anestesiologico nel pre-operatorio e anche fisiatrico
per il post-operatorio, avvalendosi dell’esperienza di personale specializzato.
Parlando degli anziani con frattura di femore dalla valutazione
all’intervento è importante soffermarsi sul periodo di tempo che
deve di norma essere di meno di 48 ore per la riduzione delle complicanze.
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12° corso per infermieri
Tab. I. Caratteristiche pazienti elegibili in ortogeriatria.
Criterio
1. Età ≥ 70 anni
2. Tipo di frattura: femore, altre ossa lunghe
3. Polifrattura
4. Comorbilità (almeno due patologie)
5. Polifarmacoterapia (assunzione cronica di
almeno tre principi attivi o solo TAO)
6. Deficit cognitivo o neuromotorio
antecedente (es. Demenza, Alzheimer, M. di
Parkinson)
7. Scompenso emodinamico (classe
NYHA > II)
8. Nutrizione e idratazione inadeguate
9. Anemia (Hb < 8 gr/dl)
10. Ipotensione (PAS < 100 mm/Hg)
11. Ipossiemia (sat.02 in aria ambiente
< 90%)
12. Diabete mellito scompensato
13. Insufficienza renale cronica
14. Mancanza di supporto sociale (vive solo)
Sì
×
×
No
×
×
×
×
×
×
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In questo lasso di tempo oltre alle preparazione fisica della persona
(clistere, tricotomia, ecc.) bisogna fare attenzione all’aspetto psicologico che viene “alterato” per l’ospedalizzazione la valutazione di
autonomia, di movimento e il dolore.
È importante anche valutare il quadro che circonda il malato in
quanto spesso la caduta che ha portato alla frattura è un evento improvviso che mette in difficoltà oltre al paziente anche tutta l’unità
famigliare che lo circonda.
Dal punto di vista infermieristico abbiamo creato delle istruzioni
operative per il personale di reparto (GERSG-IO-001, 002 e 003)
al fine di descrivere le procedure da mettere in atto per i pazienti
ortogeriatrici, creando così una “modalità di cura” più specifica e
mirata, mantenendo stretta collaborazione tra tutte le figure professionali e il rispetto di procedure condivise.
In conclusione, in questi primi anni di ortogeriatria si è potuta
constatare una riduzione delle complicanze, quali infezioni delle
vie urinarie, della ferita chirurgica e delle difficoltà cardiache e
respiratorie, poiché è stata mantenuta alta principalmente la visione
complessiva geriatrica e non solo l’aspetto ortopedico. In questo
modo si è riusciti a evidenziare maggiormente e quindi intervenire
in anticipo nella comparsa di complicanze.
Il case management del paziente con frattura
di femore
V. Parisi, C. Pelati, C. Andreati, F. Anzivino, K. Bassam
Azienda USL Ferrara
Introduzione
Nella regione Emilia-Romagna si verificano ogni anno 5500 ricoveri di pazienti con frattura di femore e il tasso di mortalità negli
anziani oltre i 75 anni è del 4%. La natura multifattoriale dei problemi riguardanti questa tipologia di pazienti richiede un approccio
multidisciplinare ed un efficace lavoro in team (medico, fisiatra,
coordinatore infermieristico, infermiere case manager, infermieri,
fisioterapisti, assistente sociale, consulenti vari, ecc.).
Il progetto di modernizzazione “Gestione delle malattie croniche ad
alto impatto assistenziale sul territorio secondo il chronic care model
al fine di ridurre la disabilità, il ricorso inappropriato all’ospedalizzazione e di migliorare la qualità di vita del paziente e del caregiver”
che ha visto coinvolta l’Azienda USL di Ferrara nel 2011 ha previsto
l’approccio al paziente con frattura di femore secondo la logica del
case management. In letteratura l’approccio secondo un modello di
case management nelle patologie croniche ha documentato un miglioramento della qualità di vita e una riduzione degli eventi avversi
di tipo assistenziale.
Obiettivo generale
Presa in carico precoce da parte di un infermiere case manager del
paziente con frattura di femore in ambito ospedaliero allo scopo di
agevolarne il percorso clinico assistenziale (dall’accoglimento alla
dimissione) nonché monitorarne costantemente gli esiti assistenziali.
Metodi
Nell’ambito del percorso Ortogeriatrico realizzato nell’Ospedale
del Delta di Lagosanto che prevede un collegamento funzionale
tra équipe ortopedica, geriatrica e riabilitativa nella gestione del
paziente con frattura di femore si è introdotto il case manager
infermieristico.
Tutti i pazienti sottoposti ad intervento di riduzione della frattura di
femore nel periodo ottobre 2010 - luglio 2011 sono stati arruolati dal
progetto indipendentemente dall’età.
Il case manager individuato tra gli infermieri con competenze avanzate in ambito geriatrico ha le seguenti funzioni:
a) Effettuare la valutazione multidimensionale entro 72 ore dalla
consulenza fisiatrica nell’unità operativa di Ortopedia, con la
somministrazione di un set minimo di scale validato e condiviso
all’interno del gruppo di progetto le scale costituenti il dossier
paziente sono:
- BADL (autonomia delle attività della vita quotidiana);
- IADL (autonomia nelle attività strumentali della vita quotidiana);
- CIRS (indice di comorbilità);
- BRADEN (valutazione del rischio di lesione da pressione);
- SPMSQ (valutazione dello stato mentale);
- Scala analogico-visiva (valutazione qualità della vita);
- GDS o ADRS (depressione del paziente anziano);
- valutazione del dolore o PAINAD;
- vulnerabilità psicosociale dell’anziano;
- BRASS (Blaylock Risk assessment screening);
- Scala di Conley.
b) Monitorare l’andamento del percorso clinico assistenziale interfacciandosi con le diverse équipe e con familiari
dell’utente se necessario attivando da subito interventi di
tipo educativo.
c) Rivalutare attraverso il set di scale condiviso ad 1 mese dalla
prima valutazione indipendentemente dal setting il paziente
(Lungodegenza Post-Acuzie o a Domicilio) allo scopo di monitorare l’andamento ed eventualmente effettuare delle variazio-
12° corso per infermieri
ni riguardanti il progetto di dimissione o attivando interventi
di altri specialistici. Se il paziente era al domicilio il dossier
era utilizzato in versione abbreviata (BADL, IADL, Valutazione
della qualità della vita, valutazione del dolore) con contatto
telefonico.
Alla dimissione a domicilio tutti i pazienti arruolati erano inseriti
in un percorso di tele monitoraggio gestito dal Comune, per questi
ultimi il case manager fungeva da:
1. raccordo per i soggetti in trattamento riabilitativo domiciliare
con il Fisiatra e il Geriatria;
2. raccordo con gli operatori del servizio di tele monitoraggio
per quanto riguarda le problematiche assistenziali emerse nel
colloquio attivando le risorse sanitarie più appropriate (MMG,
Specialista Ortopedico o Specialista Geriatra).
A 6 mesi dal reclutamento il case manager effettuava la terza valutazione multidimensionale di follow-up per i soggetti che erano
a domicilio.
Risultati
Non tutte le scale del dossier sono state somministrate in quanto non
sono risultate sempre applicabili.
I partecipanti reclutati con frattura di femore sono stati 44 donne
con età media 79 anni e 10 uomini con età media 79 anni. Da un
punto di vista dell’età i partecipanti più anziani rilevano attraverso
la scala di Braden la possibilità di sviluppare maggiormente l’insorgenza di lesioni da pressione. Il punteggio medio dei pazienti
fratturati è stato 15, ovvero rischio moderato di insorgenza di lesioni
da pressione.
La scala BRASS ha identificato attraverso il punteggio assegnato
nel 67% dei casi un percorso di dimissione corretto rivelandosi un
ottimo strumento di programmazione, infatti il 30% dei pazienti ha
proseguito il trattamento riabilitativo post-operatorio presso l’Unità
Operativa di Geriatria e Lungodegenza, il 24% è stato dimesso in CP/
RSA, il 46% è rientrato a domicilio con supporto ADI. Dei 25 pazienti
dimessi a domicilio, 2 hanno proseguito il trattamento riabilitativo
in regime ambulatoriale e 6 pazienti hanno beneficiato del trattamento fisioterapico domiciliare.
I casi clinici riguardanti il trattamento riabilitativo domiciliare
sono stati discussi settimanalmente dal fisiatra con l’infermiera case
manager e la fisioterapista, consentendo la rapida valutazione della
prescrizione di ausili e la richiesta di consulenze varie.
La funzionalità di base dei pazienti fratturati diminuisce significativamente tra entrata e uscita, influenzando notevolmente la qualità
di vita che subisce una leggera oscillazione al momento dell’entrata
con un punteggio di 6 all’uscita con un punteggio di 6,5.
La vulnerabilità psicosociale dei pazienti reclutati ha rilevato un
punteggio di 11, ovvero la presenza di una condizione e supporto
sociale debole, supportando così l’importanza di avviare un percorso
di dimissione precoce e l’attivazione dei servizi più adeguati alle
esigenze del paziente e familiari.
Conclusioni
I dati del progetto di modernizzazione rispetto ad un progetto pilota
effettuato nell’anno 2010 confermano che il modello orto geriatrico
offre migliori risultati con l’introduzione un infermiere case manager responsabile dell’assistenza personalizzata del paziente.
375
Bibliografia
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Paladino M, Tosoni T. Il case management nella realtà socio-sanitaria
italiana. Milano: FrancoAngeli 2000.
Il percorso riabilitativo nell’anziano con frattura
di femore
M. Pevere
SIGG
La frattura di femore nell’anziano è spesso un evento traumatico
che va ben al di là della lesione ossea: i dati di letteratura indicano
che la disabilità nella deambulazione è permanente nel 20% dei casi
e meno del 50% dei soggetti torna ad avere le stesse performance
funzionali precedenti il trauma 1. Anche il tasso di mortalità entro
l’anno è elevato e destinato ad aumentare con l’aumento dell’età
media della popolazione.
Trattandosi di pazienti anziani, spesso comorbidi, l’approccio multidisciplinare e multidimensionale è senz’altro da preferirsi a quello
tradizionale ed il trattamento riabilitativo ne tiene conto prevedendo, oltre ad un programma specifico di esercizi, anche l’integrazione
con le altre figure dell’équipe assistenziale e con il caregiver che, insieme al paziente, viene opportunamente educato nella gestione delle attività della vita quotidiana. L’obiettivo principale dell’intervento
del team assistenziale è infatti il recupero della massima autonomia
funzionale ed il ruolo del fisioterapista è centrale. L’intervento riabilitativo prevede una valutazione del paziente che, a partire dalla
conoscenza del tipo di frattura e di riparazione eseguita, consideri
dolore, vissuto della situazione, grado di collaborazione del paziente,
stato funzionale premorboso e postoperatorio, eventuali comorbilità
muscolo scheletriche e sistemiche. Il trattamento mira ad intervenire
su tre ambiti: quello segmentario per il recupero del ROM, della forza
ed elasticità muscolare; quello della mobilità globale, con particolare riguardo alla deambulazione ed all’equilibrio per la prevenzione
di nuove cadute; quello del recupero delle attività della vita quotidiana che nei primi tempi richiede l’educazione del paziente (uso
di strategie alternative, soprattutto nei casi di impianto di protesi
d’anca) e del caregiver (assistenza nel cammino e nei trasferimenti).
Dal punto di vista della sequenza temporale possiamo distinguere
tre fasi: fase acuta, dal 1° giorno postoperatorio al 7° giorno; fase
subacuta, dall’8° giorno fino a 2/4 settimane post-intervento; fase
degli esiti, dopo le 4 settimane dall’intervento o comunque quando
il paziente è in grado di deambulare e di eseguire i trasferimenti
in modo autonomo 2. Una parte del percorso riabilitativo si svolge
376
all’interno dell’ospedale, nei reparti di ortopedia o di orto geriatria,
per poi proseguire nelle UO di riabilitazione, nelle lungodegenze o
nelle strutture intermedie, fino al domicilio o all’istituzionalizzazione. Secondo il seguente schema:
Esaminiamo ora nel dettaglio l’intervento: nella prima fase, in
collaborazione con l’infermiere, il fisioterapista ha cura che l’igiene posturale del paziente sia svolta correttamente per prevenire il
rischio di lussazione (in caso di riduzione della frattura mediante
protesi) e di lesioni da pressione; il trattamento riabilitativo specifico va applicato precocemente, già dalla prima giornata, in
quanto questo, secondo alcuni autori, migliora significativamente
la deambulazione a distanza di due mesi. Il fisioterapista quindi
mobilizza l’arto operato, rispettando la comparsa di dolore, e stimola
il paziente all’attivazione volontaria dei principali gruppi muscolari
interessati attraverso esercizi di contrazione isometrica. Vanno evitati movimenti combinati poliarticolari e l’esercizio del ponte che
potrebbero sottoporre la sede di lesione a forze eccessive. Il paziente
va anche stimolato a rimanere il più a lungo possibile alzato dal
letto, in poltrona, per questo è necessario fin da subito istruirlo su
come eseguire correttamente il trasferimento letto-sedia, ciò previene il rischio dell’immobilizzazione e le sue complicanze fra cui
la retropulsione e l’ipotensione ortostatica. Sempre in questi primi
giorni è importante, in collaborazione con il personale infermieristico, istruire adeguatamente il paziente su come muoversi a letto il
più autonomamente possibile. Quando non vi sono segni di infiammazione, le condizioni cliniche sono stabilizzate e vi è un controllo
del dolore e cioè, in genere, a partire dalla prima settimana, viene
concesso un carico parziale ed il trattamento entra nella fase subacuta; oltre a continuare negli esercizi per il recupero dell’escursione
articolare attiva, verranno iniziati esercizi di rinforzo muscolare in
stazione eretta e proseguirà il training ai passaggi posturali ed ai
trasferimenti, al recupero delle ADL (in particolare apprendimento di
strategie alternative per l’abbigliamento, uso del wc o della comoda,
addestramento all’uso di ausili) coinvolgendo anche il caregiver in
preparazione del rientro a domicilio. È in questa fase che il paziente
viene addestrato al corretto modo di salire e scendere le scale e a
salire e scendere dall’auto. Durante il trattamento, soprattutto nella
gestione degli ausili, possono evidenziarsi disturbi delle funzioni
esecutive che, anche se sfumati, rivestono un importante significato
sull’outcome finale del percorso riabilitativo e clinico più generale:
è compito del fisioterapista rilevarli e tempestivamente segnalarli
al medico. Un altro aspetto da considerare è la manifestazione di
sintomi depressivi, presenti in proporzione variabile dal 10% al 40%,
essi costituiscono un grande ostacolo all’intervento riabilitativo e,
per alcuni autori, correlano significativamente con la sopravvivenza
inferiore ad un anno se associati a demenza 3. Nella fase degli esiti
il trattamento mira ad ottimizzare i risultati conseguiti in termini
di forza muscolare, resistenza cardiorespiratoria ed equilibrio per
prevenire il rischio di nuove cadute, infatti la paura di cadere, fear
of falling, è un importante fattore di rischio che nei soggetti che
12° corso per infermieri
hanno avuto almeno una caduta ha una prevalenza doppia rispetto
a coloro che non sono mai caduti 4; la paura di cadere, inoltre, ha
ricadute negative sulla funzionalità fino a produrre una perdita di
autonomia nelle attività della vita quotidiana (BADL)) e in quelle
strumentali (IADL).
Resta tuttora molto problematica e poco esplorata in letteratura 5 la
presa in carico riabilitativa dei soggetti con grave deterioramento
cognitivo che hanno in genere outcome peggiori rispetto alla popolazione generale sia in termini funzionali che di sopravvivenza. Per
questi soggetti le linee guida scozzesi raccomandano una gestione da
parte di un gruppo con specifica formazione geriatrica ed è sicuramente auspicabile che gli operatori siano addestrati alla comunicazione con il soggetto demente.
Bibliografia
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2
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nelle fratture di femore: dalla revisione della letteratura al razionale
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3
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lavoro. Roma: Carocci 2009.
4
Brigoni P, De Masi S, Di Franco M, et al. Prevenzione delle cadute da
incidente domestico negli anziani. Linee Guida PNLG 2007.
5
Davis E, Biddison J, Cohen-Mansfield J. Hip fracture rehabilitation in
persons with dementia: How much should we invest? Ann Longterm
Care 2007;15(3):19-21.
Terza Sessione
La prevenzione delle cadute in casa
di riposo: una sfida per tutta l’équipe
Moderatori: Paola Gobbi (Milano), Ermellina Zanetti (Brescia)
La prevenzione delle cadute in casa di riposo:
una sfida per tutta l’équipe
A. Libardi, E. Negri, A. Passarella
Trento
Le cadute rappresentano uno dei principali problemi clinici identificati delle sindromi geriatriche. Cadere rappresenta, infatti, un
importante indicatore clinico di uno stato di instabilità e vulnerabilità legato alla perdita di riserva funzionale del soggetto e ad eventi
esterni che comportano un effetto molto più negativo dell’atteso.
Parlare di cadute significa pertanto parlare di fragilità, nella cui
definizione si identificano spesso le cadute come elemento caratterizzante la sindrome stessa. Le cadute, pertanto, come la fragilità (quasi
a diventare un tutt’uno) rappresentano un segno premonitore della
sua istituzionalizzazione o addirittura del decesso del paziente che
può essere dovuto non solo alle lesioni conseguenti alla caduta.
Diversi fattori contribuiscono alla instabilità e alla caduta, ma i
cambiamenti legati all’invecchiamento (cardiovascolari, neurologici, sensoriali) svolgono probabilmente un ruolo primario in molte
cadute. Con l’avanzare dell’età diminuiscono, ad esempio, i riflessi
di correzione posturale, la sensibilità neuro muscolare e sensitiva in
genere, e soprattutto diminuisce la massa muscolare in particolare
12° corso per infermieri
per le donne (sarcopenia) e quindi la forza dei muscoli importanti
per il mantenimento della postura. La debolezza muscolare è molto
frequente nella popolazione anziana e la sua prevalenza varia da un
48% nella popolazione di comunità fino a un 80% nelle residenze
assistenziali. Pazienti con difficoltà nel cammino sono presenti nel
20-50% della popolazione e 2/3 delle persone che cadono hanno di
questi problemi.
Studi prospettici hanno rilevato che approssimativamente dal 35%
al 60% della popolazione ultra sessantacinquenne residente in
comunità, anche se in buona salute può cadere annualmente, che
circa la metà sperimentano multiple cadute e che la percentuale di
anziani che cadono aumenta dopo i 75 anni. Le donne cadono più
frequentemente degli uomini fino ai 75 anni di età, quindi la situazione si capovolge. Spesso, inoltre, è difficile nell’anziano raccogliere
una corretta anamnesi per la presenza di deficit mnesici, cognitivi,
mancanza di testimoni.
Sia l’incidenza delle cadute sia la severità delle relative complicanze
aumenta con l’età e in particolare dopo i sessanta anni. Le potenziali complicanze della caduta sono rappresentate da fratture, in
particolare di femore e vertebre, da lesioni dolorose dei tessuti molli,
ma è altrettanto drammatico il rischio di ricovero in Case di riposo
o l’incapacità di riprendere movimento e le proprie attività della vita
quotidiana. La paura di uscire, con conseguente aumento di richieste
di servizi sociali, la cosiddetta “post-fall syndrome” rappresentata
da paura, ansietà o depressione post-caduta colpisce il 30-73% dei
pazienti, con conseguente riduzione delle attività quotidiane.
L’incidenza delle cadute nelle residenze per anziani ed in ospedale,
nelle persone sopra i 65 anni, è di quasi tre volte superiore (1,7
cadute ogni letto/ anno). I rischi, in tali ambienti, sono legati alla
maggior prevalenza di polipatologie tra cui la demenza, aggravata
dall’incontinenza, la polifarmacoterapia, la disabilità ma, soprattutto, è stato dimostrato che per pazienti di RSA un’anamnesi positiva
per cadute è il fattore di rischio maggiormente predittivo di successive cadute, seguono wandering, uso di ausili (bastone o altro),
basso punteggio all’ADL, età > 87 anni, deficit della deambulazione,
conservata indipendenza nel salire e scendere dal letto, conservata
indipendenza negli spostamenti su sedia a rotelle. L’uso di ausili e
insicurezza a deambulare, e talora anche insufficiente o inadeguata
assistenza, sono rischi importanti.
Lo screening del rischio diventa quindi un metodo efficace per identificare le persone a rischio di caduta. Questa valutazione dovrebbe
essere effettuata su tutte le persone ammesse in un setting per acuti
o residenziale entro 24-48 ore, e qualora le condizioni della persona
si modifichino.
La valutazione del rischio di caduta può essere efficacemente effettuata mediante uno strumento standardizzato e mediante la valutazione clinica del professionista, che è un elemento irrinunciabile
nella definizione del rischio di caduta, in quanto nessuno strumento
di valutazione del rischio, da solo, è in grado di identificare tutte le
persone a rischio o tutti i fattori di rischio.
È successivamente opportuna una valutazione specialistica per avere
informazioni cliniche dettagliate relative a specifici fattori di rischio,
come base per l’identificazione degli interventi necessari.
Il progetto presentato a questo convegno, intrapreso da un gruppo
di Residenze per Anziani trentine e sostenuto e coordinato dall’Unio-
377
ne Provinciale Istituzioni per l’Assistenza, è nato da tali premesse
scientifiche abbinate alla rilevazione che in molti casi anche la
contenzione diveniva strumento per evitare le cadute nella persona
anziana istituzionalizzata. Il progetto è stato elaborato a partire dalle linee guida proposte dall’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari
Trentina ed è finalizzato a implementare nelle Residenze una serie
di interventi allo scopo di ridurre le cadute e il ricorso ai mezzi di
contenzione fisica. La prevenzione delle cadute è la giustificazione
prevalente all’utilizzo dei mezzi di contenzione, sebbene non vi siano evidenze di efficacia. Il progetto presenta una serie di interventi
alternativi e relega il ricorso alla contenzione fisica quale ultima
scelta e sempre conseguente a un’attenta e documentata valutazione
dei possibili benefici a fronte dei possibili rischi.
La prevenzione delle cadute, quale principale causa di contenzione,
non trova infatti alcun riscontro negli studi condotti: non vi è infatti
alcuna prova che la contenzione fisica eviti la caduta nei soggetti
anziani ospedalizzati. In particolare, l’uso di mezzi di contenzione
non si associa ad un numero significativamente più basso di cadute
o infortuni in sottogruppi di residenti a rischio di caduta. Questi
risultati sostengono la necessità di un approccio individualizzato a
queste persone per ridurre il rischio di caduta e favorire la mobilità,
anziché l’immobilità. L’utilizzo delle spondine non si associa ad una
riduzione di cadute dal letto e la loro rimozione, per contro, non è
associata ad un aumento di cadute tra gli anziani istituzionalizzati.
Gli studi che hanno valutato l’incidenza di cadute nei programmi
di riduzione della contenzione hanno riportato che la significativa
riduzione dell’utilizzo dei mezzi di contenzione non si associa ad
un aumento delle cadute. Altri studi hanno valutato l’impatto della
contenzione sulle lesioni traumatiche e hanno osservato: o nessun
cambiamento significativo in relazione all’uso o al non uso della
contenzione o una riduzione delle lesioni più gravi e l’aumento di
quelle lievi in relazione ad una significativa riduzione della contenzione. Questi risultati suggeriscono che gli anziani continuano a cadere, con o senza l’uso di contenzione fisica a causa di cambiamenti
associati al processo di invecchiamento e alla presenza di fattori di
rischio. Rimuovere la contenzione può diminuire la gravità degli
effetti conseguenti la caduta.
Tra gli interventi che un’équipe multiprofessionale è chiamata a
mettere in atto per prevenire le cadute dell’anziano, si trovano anche
quelli che incidono sul suo ambiente di vita. Essi hanno come obiettivo quello di renderlo sicuro, protesico, facile da “leggere” per tutti i
residenti, inclusi quelli affetti da deficit cognitivi e/o funzionali.
Sulla base delle evidenze presenti in letteratura, il nostro gruppo
di lavoro ha individuato una serie di requisiti riferiti all’ambiente
per prevenire le cadute, realizzando una check list in cui essi sono
riportati.
Tali requisiti si riferiscono ai diversi spazi fisici in cui l’anziano vive
e si muove (camera da letto, bagno, soggiorno/sala da pranzo, spazi
comuni interni, spazi comuni esterni) e si distinguono, inoltre, tra
necessari e consigliati. I primi attengono alla prevenzione delle cadute dell’anziano (ad esempio nel bagno: maniglioni, alza wc, luce
notturna), mentre i secondi sono funzionali alla riduzione ulteriore
del rischio (ad esempio lavandino e specchio regolabili).
Veloce da utilizzare e di immediata comprensione, la check list ambientale elaborata offre al professionista la possibilità di verificare se
378
le caratteristiche dell’ambiente in cui opera siano tali da ridurre o
aumentare il rischio di caduta dei residenti.
Prevenire le cadute significa inoltre mettere in atto, a livello organizzativo, interventi mirati in tal senso.
Il nostro lavoro ha portato all’individuazione di specifiche azioni che i referenti della struttura (Direttore, Direttore sanitario,
Coordinatore RU) o del nucleo/reparto dovrebbero attuare, tra
le quali adeguare gli ausili alle esigenze degli ospiti, promuovere
la formazione del personale su quest’argomento, incentivare la
presenza di parenti e volontari, organizzare le attività in modo
flessibile, favorire la presa in carico degli ospiti, rilevare sistematicamente le cadute.
Per ciascuno di questi interventi sono state specificati gli strumenti e
le modalità di realizzazione e l’indicatore di risultato.
È fortemente raccomandata la realizzazione di programmi per la
prevenzione delle cadute che comprendano più interventi, in quanto
i fattori di rischio associati ad esse sono multifattoriali.
Per quanto attiene alla persona è fondamentale la corretta gestione
clinica delle patologie preesistenti che possono contribuire al rischio
di caduta della persona come:
- patologie neuromuscolari;
- infezioni del tratto urinario;
- ipossia;
- disidratazione;
- bisogni nutrizionali;
- iperammoniemia;
- ipotensione ortostatica.
Nell’approccio all’anziano a rischio di caduta, trattare con priorità
l’ipotensione ortostatica, razionalizzare la terapia, quando possibile,
e realizzare interventi che migliorino l’equilibrio, la capacità di eseguire i passaggi posturali e che migliorino la marcia.
Le strategie per prevenire le cadute dipenderanno dalla valutazione
del rischio di cadere della persona stessa te e dal livello del rischio
appurato.
12° corso per infermieri
Fornire approcci non farmacologici per le persone con deficit cognitivi,
emozionali, comportamentali; intraprendere strategie interdisciplinari
per assistere le persone con depressione, agitazione o aggressività; comunicare in modo rilassato e calmo; fornire istruzioni semplici, evitando
motivazioni dettagliate e spiegazioni; favorire la presenza da parte dei
familiari; fornire strategie non farmacologiche per favorire il sonno.
Le strategie organizzative che possono essere usate per i pazienti a
rischio includono le seguenti azioni:
- ridurre la distanza tra il letto o la sedia usati dalla persona ed il
bagno;
- assicurare l’accesso al campanello, che esso funzioni, e che vi sia
pronta risposta alla chiamata;
- in situazione di emergenza, e solo per periodi di tempo limitati,
considerare la possibilità di collocare il materasso per terra se
l’anziano è particolarmente confuso;
- prima della deambulazione controllare che la persona indossi
abiti e scarpe della giusta misura (evitare le ciabatte e le calzature con suola scivolosa);
- se la persona è portatrice di pannolone, controllare che sia ben
posizionato;
- utilizzare gli ausili idonei alla persona ed in collaborazione con
il fisioterapista, fornire l’addestramento necessario.
Bibliografia
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12° corso per infermieri
Comunicazioni orali
Analisi dell’incident reporting delle cadute nell’Istituto
Piccolo Cottolengo Don Orione, Milano
A. Castaldo, R. Bagarolo
Piccolo Cottolengo di Don Orione, Milano
Scopo. Le cadute nelle persone istituzionalizzate, soprattutto se anziane,
rappresentano un problema sanitario rilevante, in quanto talvolta possono
portare ad esiti molto sfavorevoli. Tra il 30% e il 75% delle persone degenti/
residenti in servizi di lungo assistenza cade ogni anno e di questi tra il 40%
e il 50% ha cadute ricorrenti. Le cadute traumatiche aumentano con l’età1 e
variano dal 9% al 15% nei diversi setting residenziali, esitando in frattura nel
4% circa dei pazienti2. Il presente studio è basato sull’analisi dell’incident reporting relativo alle cadute delle persone assistite presso l’istituto don Orione
di Milano, struttura di cure a lungo termine che al 2010 comprendeva: 201
posti letto (pl) di RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani), 82 pl
di RSD/CSS (Residenza Sanitaria per Disabili e Comunità Socio Sanitaria
per disabili), 24 pl di REG (Riabilitazione Extraospedaliera estensiva generale/geriatrica e mantenimento).
Metodi e strumenti. I dati sono stati rilevati attraverso apposite schede
di segnalazione introdotte nel 2002 e modificate nel 2008, in occasione
dell’implementazione di un protocollo clinico assistenziale sulla valutazione
e prevenzione delle cadute.
Risultati. Le cadute registrate nel 2010 sono state 259, di cui il 62,5% riferite
alla RSA, il 24,3% alla RSD e il 13,1% alla REG. L’incidenza delle cadute
per 1000 giornate/ospite varia da 2,30 per le RSA e RSD a 4,20 per la REG.
Le persone accolte in tutti i servizi nel 2010 sono state 457; di queste 106
(23,2%) sono cadute, di cui in REG l’11,9% (16/135) dei pazienti, in RSA il
27,5% (66/240) e in RSD il 29,3% (24/82) degli ospiti. La media delle cadute
per ospite nei diversi servizi è risultata statisticamente diversa: REG (1,75, Ds
± 0,93), RSD (2,67, Ds ± 3,34), RSA (2,53, Ds ± 3,86), con un ampio range
di cadute (1-31). Il 50% degli ospiti (53/106) è caduto solo una volta e l’altra
metà ha avuto cadute ricorrenti nell’anno. L’età media degli ospiti caduti è
74,4 anni (Ds ± 17,16; range 32-102). La metà delle cadute sono avvenute
durante il turno del pomeriggio. Le cadute sono avvenute più frequentemente nei luoghi comuni [soggiorno, sala da pranzo, corridoio (52,4%)] rispetto
agli spazi privati [camera di degenza e bagno (40,3%)]. In circa il 70% dei
casi l’ospite prima di cadere stava svolgendo un’attività: camminare, stare
in piedi, alzarsi o sedersi. La maggior parte delle cadute si sono verificate per
una perdita di equilibrio (32,5%) o per uno scivolamento (28,2%). Nel 90%
circa delle cadute non è stato segnalato un concomitante o recente problema
clinico degli ospiti. La media dei farmaci/die assunti dagli ospiti al momento
della caduta era di 5,20 (Ds ± 3,140). Il numero di operatori presenti mediamente al momento della caduta era 3,72 (Ds ± 1,7; range: 1-9). Il 70% delle
cadute sono avvenute senza conseguenze, il 27% circa aveva determinato
una lesione minore e solo 1,2% una lesione maggiore.
Conclusioni. L’incidenza delle cadute e la prevalenza degli ospiti caduti
nel nostro istituto è simile o inferiore a quella riportata in letteratura. Il
confronto con gli anni precedenti ha evidenziato un andamento crescente
nei primi anni, imputabile ad un graduale incremento delle segnalazioni di
cadute, e poi decrescente, associato verosimilmente ad un maggior utilizzo
di buone prassi per la valutazione e la prevenzione delle cadute. L’adozione
di protocolli e la formazione di tutte le figure professionali si sono dimostrati efficaci nel creare una cultura diffusa e condivisa dell’importanza di
documentare, ri-valutare il rischio di caduta e ridurre per quanto possibile
il rischio di ulteriori cadute.
379
Bibliografia
World Health Organization. WHO Global report on falls prevention in older age.
Geneve 2007.
Bemis-Dougherty A, Delaune MF. Reducing falls in inpatient settings. Magazine of
Physical Therapy, May 2008.
Studio di prevalenza della disfagia in un reparto
di riabilitazione
C. Luzzani1 2, F. Guerini1 2, S. Gentile1 2, G. Bellelli2 3, M. Trabucchi2 4
1 Istituto Clinico di Riabilitazione Ancelle della Carità di Cremona; 2 Gruppo di
Ricerca Geriatrica di Brescia; 3 Università degli Studi di Milano Bicocca;4 Università di Roma “Tor Vergata”
Scopo. La disfagia è un disturbo comune tra la popolazione anziana. In
letteratura sono presenti numerosi studi di prevalenza sulla popolazione ricoverata in ospedale con patologia acuta, mentre sono meno frequenti studi
relativi alla prevalenza di tale disturbo in setting riabilitativi. Obiettivo della
ricerca è valutare la prevalenza di disfagia oro-faringea in una popolazione
di pazienti anziani degenti in un setting riabilitativo.
Materiali e metodi. Nel periodo di tempo intercorso tra l’aprile 2009 e
il giugno 2010 sono stati valutati all’ingresso tramite 3-oz Water Swallow
Test 1 tutti i pazienti (n. 1434) ricoverati nel dipartimento di Riabilitazione
delle Ancelle della Carità di Cremona. Dove il test è risultato dubbio o positivo è stata effettuata la valutazione di secondo livello dal logopedista e
assegnato un punteggio di gravità, secondo la scala DOSS 2, e impostata una
dieta a consistenza modificata. Durante la degenza i pazienti affetti da ictus
e tutti coloro che all’ingresso erano in trattamento con nutrizione enterale/
parenterale seguivano un trattamento specifico per la deglutizione e la ripresa dell’alimentazione orale dove possibile. Alla dimissione tutti i pazienti
sono stati rivalutati con scala DOSS e, qualora fosse accertata la persistenza
di disfagia, veniva educato il care-giver principale.
Risultati. Il test di screening 3-oz Water Swallow Test è risultato dubbio o
positivo in 169 pazienti (11,8%), mentre alla valutazione di secondo livello
149 pazienti (10,3%) sono risultati essere disfagici. Il grado di disfagia è
migliorato alla dimissione in 42 pazienti (28,2%), con una variazione del
punteggio medio DOSS da 3,9 ± 1,5 all’ingresso a 5,8 ± 1,4 alla dimissione.
Tra i 42 pazienti disfagici migliorati 25 (59,5%) erano affetti da ictus, mentre 5 (11,9%) da disturbi respiratori. Alla dimissione 13 pazienti (31%) erano
in dieta libera e 14 (33,3) in dieta di facile masticazione.
Il grado di disfagia rimaneva invariato o peggiorava in 107 pazienti
(71,8%).
Conclusione. I dati dimostrano che in un setting riabilitativo la prevalenza
di disturbi di deglutizione è rilevante. Inoltre si è dimostrato che in circa un
terzo dei pazienti il trattamento specifico ha portato ad un miglioramento
della disfagia e di conseguenza alla dimissione in maggiore sicurezza e
autonomia non solo dei pazienti, ma anche dei care-giver. Pertanto la valutazione e il trattamento della disfagia sono importanti anche in un setting
riabilitativo, purché si sappiano coniugare approcci specifici del logopedista
con una formazione specifica del personale e del care-giver.
Bibliografia
1
DePippo KL, Holas MA, Reding MJ. Validation of the 3-oz water swallow test for
aspiration following stroke. Arch Neurol 1992;49:1259-61.
2
O’Neil KH, Purdy M, Falk J, Gallo L. The dysphagia outcome and severity scale.
Dysphagia 1999 Summer;14(3):139-45.
380
La sperimentazione del “Kit Ring” nell’ASL TO2
N. Nicoletti1, C. Bianchi2, M. Di Biase3, S. Cabodi4
1 Responsabile Infermieristico Dipartimento salute Anziani ASL TO; 2 Responsabile
Ufficio Salute, Coordinatore Progetto RING, Divisione Servizi Sociali e Rapporti
con le ASL, Torino; 3 Infermiere Dipartimento Salute Anziani ASL TO2; 4 Direttore
Dipartimento Salute Anziani ASL TO2
La demenza è uno dei maggiori problemi di salute pubblica e rappresenta
una sfida tra le più impegnative per i sistemi di welfare dell’attuale secolo.
Essa inoltre ha forti implicazioni sulla tipologia di informazioni, indicazioni
e consigli necessari a chi si prende cura: il caregiver. Quest’ultimo è spesso
chiamato a prendere decisioni molto delicate riguardanti le modalità di assistenza del proprio familiare malato. I caregiver possono diventare a loro volta una “seconda vittima” della malattia, altrettanto bisognosa di assistenza.
Sulla base di tale consapevolezza è maturato il Progetto europeo “Ring”.
Scopo. Presentare l’esperienza dell’ASL TO2, partner del progetto, nella
sperimentazione del Kit Ring su un gruppo di caregivers formali e informali.
La finalità del Progetto è rappresentata dalla preparazione, sperimentazione
e diffusione del Kit Ring, uno strumento informativo mirato a sostenere i
caregiver nella loro relazione d’aiuto, fornire informazioni fondamentali sul
decorso delle demenze, supportare coloro che si trovano ad accompagnare
alla fine della vita la persona affetta da demenza.
Materiali e metodi. Il Kit Ring nasce dall’integrazione di tre strumenti (la
guida per chi si prende cura, il GAM programma psicoeducazionale e il DVD)
a valenza formativa ed informativa rivolti a caregiver formali (operatori
socio-assistenziali-sanitari) ed informali (familiari, volontari) che, a diverso titolo ed attraverso differenti modalità, si prendono cura di anziani con
demenze. La sperimentazione consiste nell’effettuare incontri formativi (6
incontri da due ore) tenuti da psicologi (formati con apposito corso) rivolti
a caregivers formali e informali. Sono stati arruolati 43 caregivers formali
e 10 caregivers informali (totale della sperimentazione di tutti i partners:
864 caregivers). La sperimentazione è stata preceduta da un questionario
per l’analisi dei bisogni formativi e, al termine della sperimentazione, da un
questionario che indagasse: 1) Livello di soddisfazione dei caregivers rispetto
all’utilizzo dei singoli componenti il Kit Ring e rispetto all’utilizzo del Kit
Ring completo; 2) Livello di stress e ansia dei caregiver prima dell’utilizzo
del Kit Ring e dopo l’utilizzo del Kit Ring. 3) Il livello di competenze iniziali
e finali dei caregivers formali ed informali dopo la sperimentazione del kit
Ring; 4) il livello di soddisfazione dei formatori.
Risultati. 1) il 48% ha ritenuto come strumento più utile la visione di
spezzoni di film inerenti la tematica della relazione d’aiuto con le persone
affette da demenza o disabili o con problemi psichiatrici; il 27 % ha ritenuto
come strumento più utile il libro contente indicazioni sulle modalità di assistenza e cura, anche nel fine vita, delle persone affette da demenza; il 25%,
ha ritenuto le sessioni in aula, riguardanti aspetto psico educazionali per la
gestione delle emozioni durante il lavoro dicura di persone affette da demenza o disabili come strumento più utile. 2) Per quanto riguarda i caregivers
informali, i risultati ottenuti mostrano una riduzione dello stress del 22,1%
e dell’ansia del 26,9% dopo la sperimentazione del Kit Ring. Per quanto riguarda i caregivers formali, i risultati ottenuti mostrano una riduzione dello
stress del 15,5% e dell’ansia del 12,1% dopo la sperimentazione del Kit Ring.
3) Miglioramento delle competenze nell’azione di cura da parte di entrambe
i gruppi. 4) Ottimi risultati di soddisfazione dei formatori rispetto a tutti gli
elementi del kit utilizzati.
Conclusione. La costituzione dei gruppi di sperimentazione è stata eterogenea, ma omogenea all’interno di ciascun gruppo; i formatori coinvolti
appartengono a profili professionali diversi (Sanitari e Sociali). Questi
fattori insieme hanno garantito una ricchezza di opinioni, di possibilità di
confronto e di crescita culturale. La partecipazione è stata ritenuta positiva
da parte dei Caregivers, tanto che in un caso, il gruppo creatosi per la speri-
12° corso per infermieri
mentazione, si è trasformato in un gruppo di Auto-Mutuo-Aiuto. Le variabili
che hanno sicuramente influenzato questa sperimentazione possono essere
ricondotte ai seguenti aspetti: situazione abitativa del malato o di istituzionalizzazione; provenienza geografica dei Caregivers; carico emotivo e di
cura; differenze tra caregivers formali e informali.
Le cadute nelle persone anziane residenti
in struttura: studio retrospettivo
C. Papparotto*, S. Zuliani**, C. Demgne***
* A.s.p. Opera Pia Coianiz, Tarcento (Udine); ** Università degli Studi di Udine,
Udine; *** Azienda Ospedaliero Universitaria “Santa Maria della Misericordia”,
Udine
Scopo. Nelle strutture residenziali per anziani le cadute sono un problema
che presenta ancora oggi una prevalenza elevata, infatti ogni anno circa il
50% degli anziani residenti in struttura cade 1. Le cadute hanno importanti
conseguenze in termini di aumento della morbilità, della mortalità e del
peggioramento della qualità di vita 2.
Lo scopo di questo studio era quello di rilevare la prevalenza delle cadute
nelle persone anziane residenti in struttura, di descrivere le caratteristiche
delle cadute, di identificare alcuni fattori estrinseci ed intrinseci di caduta e
di analizzare le conseguenze delle cadute.
Materiali e metodi. Per raggiungere questo scopo, è stato condotto uno studio osservazionale retrospettivo in una struttura residenziale per anziani. Il
campione di convenienza era costituito da tutte le persone anziane (65 e più
anni) cadute nel periodo dal 1 gennaio al 31 dicembre 2008. Al fine di identificare le caratteristiche delle cadute, alcuni fattori estrinseci ed intrinseci e
le conseguenze delle cadute sono state analizzate le schede di segnalazione
delle cadute utilizzate dalla struttura. Sono inoltre stati raccolti i seguenti
dati relativi alle persone anziane cadute: caratteristiche demografiche, patologia principale, comorbilità, autosufficienza/non autosufficienza rilevata
con la scheda B.I.N.A. (Breve Indice di Non Autosufficienza) e dipendenza
nelle attività di vita quotidiana, rilevata con l’Indice di Barthel.
Risultati. Nel periodo considerato gli anziani caduti sono stati 50, pari al
17,6% degli ospiti residenti in struttura; le cadute totali verificatesi sono
state 102.
Le persone anziane cadute avevano un’età media di 86,3 anni. Per quanto riguarda le attività di vita quotidiana, il 40,0% era completamente dipendente
nello svolgimento delle stesse, mentre il 22,0% era indipendente. Gli anziani
caduti erano per la maggior parte affetti da demenza (38%) e la presenza di
4 o più patologie caratterizzava il 56% degli anziani stessi.
Il 48,5% delle cadute si è verificato nella fascia oraria 14-21 e il 33% dalle
ore 7 alle 14. Le cadute avvenivano più frequentemente in camera (45,1%) e
si verificavano da posizione eretta (28,8%), durante il cammino senza ausili
(19,2%) o con ausili (10,6%), da posizione seduta (14,4%). Il motivo della
caduta era rappresentato soprattutto da perdita dell’equilibrio (41,3%) e
perdita di forza (14,9%).
Per quanto riguarda le caratteristiche ambientali, il pavimento bagnato
e/o scivoloso caratterizzava il 3,3% delle cadute, seguito dall’illuminazione
inadeguata (2,5%).
Le scarpe chiuse erano indossate dagli Ospiti nel 51% degli episodi di caduta,
seguite dalle ciabatte (32,7%).
Nel 44,4% dei casi la terapia farmacologica era rappresentata da sedativi e
nel 19,7% da diuretici, seguiti da ipotensivi (16,2%).
Rispetto alle conseguenze delle cadute, nella maggior parte dei casi (67,0%)
non era stata riportata alcuna lesione. Le lesioni conseguenti sono state
nella maggioranza lesioni non gravi, mentre si è verificato solo un caso di
lesione grave (frattura).
Conclusioni. I risultati di questo studio evidenziano che le cadute rappresentano un problema frequente nelle persone anziane residenti in struttura.
12° corso per infermieri
Nella popolazione considerata gli interventi di prevenzione delle cadute
dovrebbero essere orientati a valutare attentamente con i medici curanti la
terapia farmacologica e a pianificare interventi preventivi, in particolare nei
confronti delle persone con demenza e con comorbilità.
I risultati emersi da questo studio offrono una prima analisi della situazione
esistente nella struttura considerata al fine poi di identificare interventi mirati alla prevenzione delle cadute e successivamente valutarne l’efficacia.
381
Bibliografia
1
Hill EE, Nguyen TH, Shaha M, et al. Person-environment interactions contributing
to nursing home resident falls. Research in Gerontological Nursing 2009;2:287-96.
2
Rubenstein LZ. Falls in older people: epidemiology, risk factors and strategies for
prevention. Age and Ageing 2006;35-S2:ii37-ii41.