JU-NO-KATA:

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JU-NO-KATA:
JU-NO-KATA:
una calma profana
Qualcuno dirà che si cerca di vincere e di non perdere, come
se la cosa fosse sufficiente di per sé, ma non è così semplice.
Il pensiero fisso di dover vincere a tutti i costi (proiezione nel
futuro) o di non essere sconfitti (legame col passato), provoca
una fissità psicologica che rende incerti e toglie la possibilità
di essere disponibili all’azione.
Jigoro Kano
Se la cedevolezza non è passività, se l’avversario non ti colpisce solo con pugni e
calci, allora l’esercizio Ju-No-Kata, ideato dal fondatore del Judo moderno Jigoro
Kano, esprime una magnifica metafora, per chi guarda. Ho avuto modo di scoprirla
senza nessun preavviso e per questo con ancora più stupore, come quando arrivano
delle meraviglie inattese durante la vita, e non si sa se per caso o destino.
Un’umida, appiccicosa serata estiva in un piccolo, anonimo paesotto,
importantissimo solo per chi ha scelto di viverci. Una festa della birra come ce ne sono
a centinaia dalle nostre parti, tutte uguali (è questo il difficile), tutte piene di passione,
impegno e sudore, per chi le organizza. Una manifestazione durante una di queste
serate, di una scuola di judo, la disciplina che da un po’ di tempo ha coinvolto tutta la
mia famiglia: ottenere la cintura gialla è stato l’argomento principale di discussione in
casa negli ultimi mesi, e per i prossimi temo che sarà solo il colore la novità. A parte
un volo che ho rimediato in cucina grazie alla moglie (e per fortuna che a quel tempo
era ancora di colore bianco la cintura), tutto il resto per me è filato liscio e sereno nei
confronti del judo: il piacere di vedere all’opera personale qualificato, la soddisfazione
di notare i cambiamenti in moglie e figli, la curiosità di osservare le dinamiche interne
dell’associazione come la gestione della leadership, le modalità di affrontare i conflitti,
gli schemi utilizzati per prendere le decisioni, i livelli di coesione del gruppo, il
rapporto con la progettazione e la formazione, l’integrazione con altri servizi, il lavoro
in rete sul territorio…
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Interessante – mi sono detto varie volte, così come quando si studia dall’esterno
un fenomeno che attrae. Interessante, cerco sempre di dire con convinzione e
guardando dritto negli occhi quando non sento ‘un brivido freddo’ che mi percorre
lungo tutta la schiena, come scriveva Emily Dickinson a proposito della vera poesia.
E poi, dopo salti, cadute, spinte e botte, un esercizio più tranquillo e innocuo.
Pensavo fosse una scelta per alternare meglio i ritmi della manifestazione,
evidentemente scelti con grande oculatezza ed eseguiti nella pratica con esercizi dai
judoka, tutti pienamente coinvolti nel loro ruolo. Ma si trattava pur sempre di salti,
cadute, spinte e botte che a me, a parte quella volta in cucina, coinvolgevano ben poco.
Un piccolo sentore, a dire il vero, l’avevo già avuto guardando le spinte: chi le
riceveva non faceva proprio un cavolo di niente di quello che uno si aspetta da chi si
mena da una vita su un tatami. Invece di resistere, si becca tutta la spinta, la usa,
forse addirittura la sfrutta la forza altrui per cadere e cade, porco cane se cade. Fa
anche rumore, batte per terra con tutto il braccio e questa forza altrui è quella che
serve per risalire. Cadi insomma, se qualcosa ti colpisce, perché se il colpo ti arriva,
che senso ha opporsi? Cadi e ti rialzi, ti rialzi e cadi e in quel momento mi è tornato in
mente anni fa, al ritorno da Amsterdam, in aereo, dopo una settimana al Museo Van
Gogh (quasi solo lì): ero pieno della gioia che (quasi) solo Vincent mi dona ogni volta e
pure gratis e sulle piccole televisioni ci facevano vedere le comiche di Charlot prima di
atterrare.
Cade e si rialza, lo colpiscono e si rialza, riparte, continua, procede.
Ma poi altri salti, la salamella e qualche zanzara mi hanno distratto.
Quando è arrivato il momento dell’esercizio Ju-No-Kata, c’erano due ragazze.
Giovani e sorelle. O forse il contrario, ma lo sanno davvero solo loro l’ordine giusto (la
mamma e il papà però credono di saperlo). Non ho cognizione della precisione tecnica
dei gesti che hanno eseguito, non riesco ovviamente a cogliere la problematicità dei
movimenti né ad intuire cosa bisogna aver imparato prima di riuscire a farlo (e questo
è super interessante, cioè quello che viene prima). E a dire il vero non me ne frega
niente perché né voglio imparare a farlo né scoprire dove e come si poteva realizzare
meglio.
So solo che mi hanno sbattuto sugli occhi e nel cuore pensieri, emozioni, ricordi.
In pochi minuti, due ragazzine con armonia, precisione e una convintissima quiete
(non lentezza), si sono spinte le spalle, hanno preso i polsi, sollevato braccia, alzato il
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mento, girato le gambe con movimenti così semplici e sontuosi, preordinati e naturali,
da sembrare una preghiera laica, una calma allertata, un’umile presentazione di una
possibile scelta di vita. Come se perdere, lasciare, farsi colpire, fosse una consapevole
opzione. Mi sono spuntate fuori d’un colpo tutte le persone che ho conosciuto e che
hanno perso, sono cadute, sono ‘senza’: ho pensato a quante di loro sono poi riuscite a
camminare di nuovo e hanno imparato a rivivere. Senza il figlio, il marito, la mamma.
E le cadute, i movimenti in perenne equilibrio, l’alternanza tra rilassamento e
tensione diventano metafore di ciò che la vita ci sbatte addosso.
Le mani sembrano soffici, i muscoli deboli, l’esatto contrario di ciò che ci
insegnano tutti quanti a fare nella vita: resisti, reagisci, non ti abbattere.
Alla morte di chi hai amato, combatti per te e per chi ancora ti è accanto.
Alla fine dei tuoi progetti, rispondi creandone di nuovi.
Alla disperazione che ti avvolge ogni santo giorno, non dargliela vinta.
E se fosse invece una via smettere di spingere contro la spinta, non opporsi alla
forza che ti colpisce ma trovare un nuovo equilibrio che, ed è qui il fascino, arriva dopo,
solo dopo che ‘l’avversario’ ha dato il massimo di sé? Forse, se così fosse, l’effettiva
forza del dolore comincia a perdere d’intensità e di capacità penetrativa, non perché
abbiamo opposto alternative e resistenza ma perché abbiamo lasciato che ci invadesse
pienamente. Piangere allora tutte le lacrime del mondo quando chi amiamo muore,
ascoltare il vuoto che riempie la vita, sentirne le conseguenze nella pancia, nel sonno,
nel mezzo del torace, accettare di essere colpiti, a terra, feriti. Servirsi del dolore che
c’investe per toccare veramente il fondo; battere, magari battere, per attutire il colpo, o
per renderlo ancora più potente, e solo allora alzarsi. Perché da là dove si è caduti non
c’è altra scelta: ci si può solo alzare.
Ed è da qui, proprio da questa consapevolezza del tutto concreta, che inizia il
contrattacco, il nuovo equilibrio. Stare accanto a chi è in lutto allora non è proporre
strategie, dispensare consigli, testimoniare la forza interiore personale ma favorire
prima la caduta, con la consapevolezza che non la si vive soli, e poi progettare insieme
la risalita. Il principio del disturbo e del nuovo equilibrio, che è alle fondamenta del
Ju-No-Kata ha tanto da donare a chi combatte fuori da una palestra, a chi deve
allenare, e con urgenza, la sua vita diventata debole, troppo debole.
Alla fine dell’esercizio ho pensato che forse le due sorelle non erano pienamente
consapevoli di tutto questo e hanno imparato i movimenti così come apprendono le
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prese e i vari colpi. Ho cercato allora dei video per vedere i grandi maestri mondiali
all’opera in questo stesso ’Kata-superiore’: di sicuro la padronanza tecnica sarà
superiore e così pure la coscienza dei vari gesti.
Ma quando esprimi una meraviglia, che importanza ha la consapevolezza?
Nicola Ferrari
Associazione Maria Bianchi
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