il perfetto e inaspettato corrispondente

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il perfetto e inaspettato corrispondente
“N”, inserto culturale del “CLARIN”
(quotidiano di Buenos Aires)
IL
PERFETTO
CORRISPONDENTE
E
19 gennaio 2008
INASPETTATO
Ryszard Kapusciński è nato povero in un paese arretrato e
sonnolento, e capì che doveva partire. Ha percorso il
mondo, presenziato rivoluzioni e lotte per l’Indipendenza.
Conosceva le miserie umane e le raccontò (senza prendere
appunti, senza cellulare e senza Internet). Bellino, che lo
intervistò poco prima della morte, ne trae il suo profilo.
La storia del reporter Ryszard Kapusciński è quella di un
uomo che pur non sentendosi occidentale e non amando
l’Occidente - essendo cresciuto nella Polonia comunista,
Occidente atipico e non proprio liberale - non lo ha mai
rifiutato, negato o attaccato. Quest’uomo, nato nel 1932 a
Pink, villaggio della parte orientale (oggi Bielorussia), ha
vissuto la guerra di civiltà dentro di sè e, a un anno dalla
morte (23 gennaio 2007), è ricordato per aver sperimentato un
metodo lontano dall’odio che, riassunto in tre parole, consiste
nel guardare, criticare per poi assimilare. I suoi reportage,
famosi in tutto il mondo e tradotti in 15 lingue, pur non
raccontando il mondo occidentale, non hanno il tono di chi
odia il ricco e il potente e pensa che l’America ha torto
sempre e comunque e, grazie all’esperienza diretta del
comunismo, smascherano la struttura più intima delle dittature
e le fragilità del potere assoluto. Il suo approccio al mestiere
del giornalista emergeva già nel primo reportage, quando, da
ragazzo cresciuto in un mondo un po' fuori dal mondo,
portava nella scrittura una curiosità infantile e uno stupore
continuo. La storia di Kapusciński comincia dal desiderio di
“varcare la frontiera” polacca per il gusto di meravigliarsi
delle differenze. Sin da bambino era incuriosito da cosa ci
fosse al di là di Pińsk. Il suo sogno era la “semplice azione di
oltrepassare la soglia della sua terra e dare un’occhiata
dall’altra parte”, non quello di fare il reporter di guerra. “Mi
piacerebbe andare all’estero” svelò a Irena Tarlowska, la capo
redattrice del “Sztandar Mlodych”, giornale dove cominciò a
lavorare a 23 anni. Dopo un anno l’occasione arrivò: “Ti
mandiamo in India” gli disse Tarlowska, che per la prima
volta inviava un cronista all’estero, e il giovane Ryszard partì
senza parlare neanche l’inglese. Era il 1956 e l’aspirante
giornalista si trovò nel posto giusto al momento giusto. La
Polonia stava stringendo legami con l’India. Aveva da poco
ricevuto la visita del primo Presidente fuori dal blocco
sovietico, il leader indiano Jawaharlal Nehru, e una serie di
buoni articoli avrebbero contribuito a consolidare i rapporti tra
i due Paesi. In Kapusciński però non ardeva il sacro fuoco del
reporter. Salendo su quel vecchio bimotore DC-3 che lo
avrebbe portato a Roma e poi a Nuova Delhi, Ryszard, vestito
di stracci e spaventato dall’inimmaginabile luminosità della
città italiana, aveva già ottenuto il suo scopo: uscire dalla
povera, scura e umiliata Pińsk. In borsa, insieme ai dizionari,
custodiva un libro distribuito in Polonia solo nel 1955 che, sin
dai tempi dell’Università a Varsavia, rappresentò la sua guida
al mestiere: “Storie” dello storico greco Erodoto. L’inesperto
giornalista partì con la segreta speranza di fare un viaggio del
mondo sulle tracce lasciate dal suo idolo 250 anni prima. In
quel libro c’è l’origine dell’uomo che Kapusciński è diventato
negli anni: viaggiatore appassionato, esploratore coraggioso e
narratore preciso. Insomma, un esemplare reporter dall’estero,
ma nato assolutamente per caso. I suoi articoli, soprattutto
all’inizio della carriera, erano tutti legati ad accordi politici tra
la Polonia e altri Continenti. Sia il “Sztandar Mlodych”, sia
l’agenzia polacca PAP individuarono nel volenteroso Ryszard
un’ottima pedina per consolidare legami con nuovi Paesi
indicati dal Governo. Il giornalismo, che Kapusciński definì
“il mestiere degli schiavi”, rappresentò per lui la chiave per
lasciare la Polonia. Il desiderio di oltrepassare la soglia torna
in ogni libro ma è in “Imperium” (1994) a raggiungere
l’apice. Qui racconta l’incontro con l’Impero Sovietico e il
viaggio alla scoperta dei più sconosciuti Paesi dell’ex URSS
che fa nel momento del declino e lo porta a varcare non solo
numerose frontiere, ma anche migliaia di km di filo spinato
che recintavano il territorio, “sbarramenti alti e fitti, annodati
e intrecciati con tale minuzia da non lasciar passare nemmeno
un topo”. “Si moltiplichi il tutto per gli anni di vita del potere
sovietico – scrive - e risulta chiaro come mai nei negozi di
Smolensk o di Omsk sia impossibile comprare una vanga, un
martello, non parliamo poi di un cucchiaino: la materia prima
per quel tipo di cose è sempre mancata, se ne andava tutta in
filo spinato. […] Per anni e anni, invece di costruirsi case e
ospedali, invece di riparare le fognature e gli impianti elettrici
perennemente scassati, la gente non ha fatto altro che
occuparsi della recisione interna ed esterna, locale e nazionale
del suo Impero”. Le avventure di Kapusciński continuano in
Pakistan, Afghanistan, Iran, Giappone, Cina, Africa e
America Latina. Nonostante le difficoltà per reperire
informazioni, i suoi reportage, che lui chiamava “letteratura a
piedi”, piacquero e i capi continuarono a inviarlo lontano da
Pińsk che, nel suo immaginario, era un punto strategico per
raggiungere tutti gli Oceani. Quest’idea ha guidato la sua vita
racchiusa nel 2006 in “Autoritratto di un reporter”, resoconto
di quattro decenni di guerre, rivoluzioni e colpi di stato narrati
affidando al dettaglio il significato dell’insieme e mescolando
ricerca storica, analisi sociale e cronaca coraggiosa. Le sue
narrazioni acquistano sostanza di pagina in pagina grazie
all’abilità di ricavare da ogni evento un significato “altro” di
quello imposto dalla cronaca e di cogliere il momento preciso
in cui lo sviluppo umano entra in una nuova fase. In qualità di
corrispondente da Africa, Asia e America Latina, Kapusciński
si è mosso con sorprendente disinvoltura tra guerre civili,
rivolte, carneficine. E’ stato testimone oculare di 27
rivoluzioni. Ha percorso deserto, mare, montagne, zone buie,
aride e sabbiose dove si poteva viaggiare solo di giorno.
Sempre solo, con la complicità delle persone del luogo. Si è
ammalato di malaria e ne è guarito. Ha sofferto la fame e la
sete. Di fronte ai pericoli prometteva a se stesso: “la prossima
volta non lo faccio più” e poi è sempre ripartito rischiando più
volte la vita. Nel suo bagaglio c’erano sempre libri. Non si è
mai stancato di leggere, studiare e approfondire la Storia.
Questa spinta a sgobbare arrivava da un ingombrante senso di
ignoranza che sentiva rispetto ai colleghi. Cresciuto in uno dei
paesi più arretrati dell’Europa dell’Est tra il secondo conflitto
mondiale, il Comunismo e la guerra fredda, Kapusciński ha
interiorizzato un grande complesso di inferiorità verso gli
europei dell’Ovest, tipico della maggior parte dei suoi
connazionali, che da adulto ha trasformato in punto di forza.
La sua personalità si è fondata proprio nella profonda
identificazione con le popolazioni non occidentali. Lo
scrittore ha fatto dell’immedesimazione con la vita misera e
disagiata una condizione fondamentale del suo lavoro ed è
stato testimone del cammino verso l’indipendenza dei popoli
africani, la scomparsa di Colonie, la nascita del Terzo Mondo
e il cambiamento della mappa del globo. Per lui “il terzo
mondo non è un termine geografico, né razziale, ma un
concetto esistenziale. Indica la vita povera caratterizzata dalla
stagnazione, dall’immobilismo strutturale, dalla tendenza alla
regressione, dalla continua minaccia della rovina totale, da
una diffusa mancanza di via d’uscita”. In “Ebano” (1998), uno
dei libri più venduti, racconta luoghi, eventi e personaggi
dell’Africa in vari viaggi tra il 1957 e il 1997. Non percorsi
ufficiali, storie di Palazzo, personaggi noti e grande politica,
ma incontri spontanei con gente comune, i villaggi, il gran
caldo, stregoneria e religione, la percezione dell’uomo bianco
da parte dei neri e sullo sfondo rivoluzioni e lotte per il potere.
Come un nomade Kapusciński ha accettato passaggi su vecchi
camion in Ghana, Tanzania, Uganda, Kenya, Zanzibar,
Nigeria, Ciad, Guinea, Etiopia, Sudan, Ruanda, Zaire,
Burundi, Mali, Burkina Faso, Senegal, Eritrea. In “La prima
guerra del football e altre guerre di poveri” (1978) approda in
in Sudafrica e poi in Sud America dove, per descrivere il
confine sottile tra calcio e politica, racconta la guerra del
pallone scoppiata nel 1969 tra l’Honduras e il Salvador. Cento
ore di battaglia tra tifosi con oltre seimila morti. Kapusciński
non ha mai scritto libri sulla Polonia. “Un reporter riesce a
combinare qualcosa solo se resta anonimo. La gente parla
diversamente a un giornalista e a una persona incontrata per
caso”. La fama guadagnata negli anni gli ha impedito di
cercare verità tra le strade della sua terra, eppure il suo
sguardo è polacco. Nei reportage “c’è sempre un riferimento
alla Polonia, una continua ricerca di collegamenti tra la nostra
mentalità e il modo di vedere degli occidentali”. In
“Lapidarium” sottolinea: “da quando in Polonia è scoppiata la
rivoluzione della libertà, ogni viaggio in Occidente mi fa
l’effetto di una doccia fredda. Che distanza c’è tra noi e loro.
Anni luce addirittura”. Il bisogno irrefrenabile di allontanarsi
dalla Polonia non è ha avuto come conseguenza il distacco e il
rinnegamento della Patria, ma ha semplicemente evidenziato
un’idea di fondo della sua esistenza: il movimento perenne.
“La mia casa è altrove. Appena mi fermo in un posto
comincio ad annoiarmi, sto male, devo ripartire”. E così
questo giornalista irrequieto ha trovato la sua casa tra
emarginati, umiliati e poveri che, come lui, hanno conosciuto
il disagio di non avere le scarpe per camminare, il cibo per
mangiare, i libri per studiare. Anno dopo anno ha maturato un
grande senso di umiltà. In “In viaggio con Erodoto” (2004)
dice: “la scoperta del mondo mi ha insegnato a essere umile”.
Un modo di essere che ha portato con sé fino all’ultimo
giorno e che ha sempre sorpreso chi lo incontrava. Il suo
aspetto era poco eroico, ma modesto e trasandato. Il suo volto
non era cupo e sofferente, ma pacifico, sereno, solare.
Sembrava quello di un bambino felice. Eppure alla domanda:
“cosa ricorda della sua infanzia?” rispondeva: “la mia prima
esperienza consapevole è stata la paura. Ricordo la prima
immagine: un topo di fronte a me mi terrorizzava e io a mia
volta spaventavo lui”. Questa scena riflettere perfettamente
l’atteggiamento maturato nei confronti dell’Occidente: pur
essendone spaventato sin da piccolo, ha avuto il coraggio di
guardarlo in faccia. Mosso dall’esasperata curiosità e dal
pesante senso di inferiorità rispetto agli occidentali, ha sfidato
il conformismo dell’informazione accettando di andare nei
continenti lontani e sconosciuti dove nessun reporter voleva
metter piede guadagnandosi l’etichetta di “pazzo”. “Quando
ho cominciato a scrivere – spiega – sono stato costretto a
trovare un mio spazio altrove, dove non c’erano già bravi
corrispondenti”. Kapusciński, inoltre, non ha mai rincorso
l’intervista esclusiva al potente di turno, né ha mai avuto un
atteggiamento d’assalto nei confronti delle notizie. “Mi siedo
e aspetto che le informazioni arrivino da me” diceva. Pur
essendo uno dei reporter più attivi del XX secolo, il suo
approccio al mestiere è stato passivo: “non faccio domande a
chi incontro, ma divento parte della sua giornata”.
Kapusciński divideva nettamente il momento della raccolta di
notizie da quello della scrittura. Anche se collezionava penne
e block-notes non ha mai preso nota di nulla. Non scriveva
appunti ma memorizzava immagini. Alcune delle sue pagine
migliori sono nate proprio dalla descrizione di scene a cui ha
assistito celato tra la folla. Grazie all’esperienza maturata
negli anni, costretto a stare chiuso in albergo a Theran durante
la rivoluzione iraniana, ha scritto uno dei suoi libri più intensi,
”Shah-in-Shah” (1982), partendo dalla descrizione di vecchie
fotografie, ritagli di giornali, copertine di libri, vignette e
pellicole amatoriali da 8 mm. Prendendo spunto da questa
documentazione ha raccontato la storia della caduta dello Scià
di Persia, la fine della monarchia in Iran e la nascita della
Repubblica Islamica guidata da Khomeini nel 1979. Nel suo
viaggio in Italia a ottobre 2006, lo scrittore ha svelato il suo
antico amore per la poesia presentando “Taccuino d’Appunti”,
raccolta di versi che porta nei meandri più intimi delle sue
paure e nei labirinti più ingarbugliati dei suoi desideri. Stessi
timori e stessi sogni del bambino che a 10 anni, in prossimità
dell’inverno, si trovò senza scarpe e cominciò a vendere
sapone per comprarsele. “Che fatica: ogni saponetta costava
uno sloty, me ne servivano 400”. Ne ha fatta di strada da
allora quel bambino terrorizzato dall’Occidente. E dopo tanti
km percorsi con l’ansia di arrivare per poi ripartire, oggi
Kapusciński sarà ricordato come l’uomo che varcava le
frontiere. Per il reporter polacco che fino all’ultimo giorno ha
scritto con la macchina da scrivere disdegnando computer,
cellulari ed emal e “ci sono tre eventi che hanno cambiato
l’universo odierno: la fine della guerra fredda, la rivoluzione
tecnologica e l’avvento di internet”. “Il mondo non ha più
frontiere – aveva detto pochi mesi prima di morire - Non ci
sono più barriere provocate dalle ideologie, né dalle distanze
fisiche. Sempre più persone sono in movimento da un paese
all’altro e le diverse culture sono a portata di mano di tutti.
Siamo messi alle strette: penso che non esista più la possibilità
di sentirci divisi nel mondo. Una strada è tentare di capirci”.
Francesca Bellino