Relazione Umanesimo Scienza

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Relazione Umanesimo Scienza
Liceo Classico Orazio
Roma
Umanesimo e Scienza
Tema di approfondimento culturale
per l’a.s. 2008/2009
a cura della
Prof.ssa Licia Fierro
con la collaborazione di
(in ordine alfabetico)
Prof.ssa Anna Paola Bottoni
Prof. Mario Carini
Prof.ssa Elisabetta De Dato
e con la collaborazione tecnica di
Fabiana Laggetto
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Ringraziamento di Tullio De Mauro
Cara Licia Fierro, La ringrazio del bel volume Umanesimo e Scienza. Ma più ancora vorrei
ringraziare Lei e quanti con Lei hanno lavorato perché il fatto stesso della costruzione di un
volume simile accende una luce di speranza nell'orizzonte altrimenti buio in cui è costretta a
muoversi al momento la nostra scuola -e non solo la scuola. Un saluto grato e cordiale,
Tullio De Mauro
Tutto il materiale pubblicato è consultabile
sul sito del Liceo Orazio:
www.liceo-orazio.it
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Sommario
Introduzione
Parteprima
Le riflessioni degli studiosi
Il linguaggio e le scienze
T. DE MAURO – conferenza del 14 gennaio 2009
Il linguaggio della realtà
C. BERNARDINI – conferenza del 17 febbraio 2009
Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione
A. RAMPINO – conferenza del 19 marzo 2009
Il linguaggio della scienza e quello della poesia
C. AUGIAS - conferenza del 21 aprile 2009
Parteseconda
Le relazioni degli studenti
Relazioni sulla conferenza del prof. T. De Mauro
Alessia COLETTA
Giacomo FRANCHI
Adriano MASCI
Francesca MUSCI
Maria PALERMO
Flavia PARISI
Relazioni sulla conferenza del prof. C. Bernardini
Rosa CALABRESE
Maristella CECINATO
Ilaria GRAVINA
Arianna MASSIMI
Andrea MINIAGIO
Marta SANTANIELLO
Aurora VOLPINI
Relazioni sulla conferenza della dott.ssa A. Rampino
Laura ARISTA
Valentina BOMBARDIERI
Giulia GIANNINI e Francesca VERNILE
Silvia STAFFA
Relazioni sulla conferenza del dott. C. Augias
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Marina AMADORI
Rosa CALABRESE
Alessia COLETTA
Giulia COSSU e Ilaria FERRARA
Elisabetta ORLANDO SENATORE
Arianna SORRENTINO
Mario Carini
Gli usi moderni del latino
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INTRODUZIONE
La cultura, la formazione completa dell’individuo che i Greci chiamavano paidéia e i latini con
Cicerone e Varrone humanitas, si è nel tempo arricchita e nutrita di sempre nuovi elementi non
più semplicemente racchiudibili nel possesso delle arti liberali proprie della tradizione classica.
Si può dire, con buon margine di certezza, che a partire dall’illuminismo entrarono a far parte
integrante della formazione umana oltre alle discipline storiche e filosofiche, anche la
matematica, la fisica, le scienze naturali. Si affermò di seguito l’ideale enciclopedistico, ovvero
la fiducia che gli uomini ben guidati potessero raggiungere una conoscenza generale, per quanto
sommaria di tutte le branche del sapere.
Di contro allo scientismo positivista e al permanere della moltiplicazione dei campi di ricerca,
Benedetto Croce lanciò la sua aspra critica considerando quel tipo d’uomo “che ha conoscenze
non poche” come uno che in realtà non possiede la conoscenza, anzi dissipa, per così dire, se
stesso , si preclude un orientamento o, come si dice, una fede.
Croce si rivolgeva in particolare contro il primato riconosciuto dal positivismo alle scienze
naturali e alla matematica. E per ovviare a tali principi trasformatisi in vera e propria moda
intellettuale, egli proponeva come rimedio una cultura che fosse “armonica cooperazione della
filosofia e della storia, intese l’una e l’altra nel loro vero e larghissimo significato”.
Sicuramente l’influenza dell’idealismo sul piano filosofico e la Riforma Gentiliana della scuola
superiore sul piano politico (peraltro anch’essa improntata ad una rilettura pragmatica e
pedagogica della dialettica hegeliana), hanno contribuito a mantenere quella distinzione che
ancora oggi alcuni leggono in termini di opposizione tra classico e scientifico, tra “umanesimo e
scienza”.
Nella società postindustriale avanzata in cui ci troviamo a vivere si richiedono saperi
specialistici, competenze tecniche, rendimento massiccio nei compiti e nelle funzioni affidate a
ciascuno. Dunque se per un verso la formazione disinteressata della persona secondo l’ideale
aristocratico classico sembra orientare alla scelta di una improbabile e solitaria vita
contemplativa, per l’altro aspetto la chiusura nella dimensione specialistica dei saperi crea
problemi che non possono essere affrontati e risolti da ciascuna disciplina in modo autonomo.
Paradossalmente quanto più si radicalizza la specializzazione, tanto più risulta necessario
l’incontro, lo scambio, la collaborazione fra i diversi saperi .
Ci siamo chiesti, nell’affrontare la vexata questio del rapporto tra umanesimo e scienza, quale
fosse una chiave di lettura didatticamente produttiva e metodologicamente corretta.
L’ispirazione l’abbiamo trovata in un libro scritto da Tullio De Mauro e Carlo Bernardini:
“Contare e raccontare”.
E’ nella parola che il pensiero si esprime, esce da sé, perciò è necessario recuperare la virtù di
“un linguaggio fatto bene”, adatto a rappresentare, per dirla con i fisici, anche ciò che va al di
là dei nostri limiti sensoriali, ma capace al tempo stesso “di mettere in contatto le generazioni e
i loro saperi”, come sostengono i letterati.
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Einstein era convinto che “senza la lingua, la nostra capacità di pensare sarebbe assai meschina
e paragonabile a quella di altri animali superiori”. In tal senso Tullio De Mauro riconosce la
valenza cognitiva e operativa di ogni lingua e Karl Popper individua come caratteristica della
specie umana la descrittività e flessibilità del liguaggio. La lingua è , secondo lui il prodotto
dell’inventività della mente umana, e la mente è, a sua volta, il prodotto dei suoi stessi
prodotti: un effetto di retroazione.” E con lo sviluppo della nostra lingua e della nostra mente
siamo in grado di vedere una parte sempre maggiore del nostro mondo. La lingua funziona come
un riflettore che pone nel centro del cono di luce i fatti che descrive”. Pertanto la lingua non
solo interagisce con la mente, ma ci rende possibile la visione di cose che senza di essa ci
resterebbero oscure o del tutto sconosciute.
Nelle nostre lezioni, qualunque ne sia l’oggetto, noi cerchiamo di accendere spiragli di luce,
esercitiamo la nostra analisi traducendo la complessità in modo adatto ai giovani interlocutori e
spesso avvertiamo insicurezza, abbiamo necessità di confrontare le esperienze, di fare un lavoro
interdisciplinare per collegare pensieri, logiche, invenzioni, accadimenti che altrimenti
resterebbero confinati e chiusi in singole ore di lezione.
Oggi, più che mai, non si tratta di far valere come patrimonio del liceo classico una sorta di
cultura generale in cui un gruppo di discipline specifiche o di “indirizzo” siano proposte e
studiate in modo separato o peggio antitetico rispetto alle altre.
Un confronto tra umanesimo e scienza nella chiave del linguaggio vuole essere un piccolo
contributo per favorire,nel percorso formativo degli studenti, l’incontro fra la considerazione
storico-umanistica del passato e lo spirito critico e sperimentale della ricerca scientifica.
Il ciclo di conferenze-dibattito in cui si è articolata l’esecuzione del progetto ha visto impegnati
quattro relatori da gennaio ad aprile.
La prima lezione dal titolo “il linguaggio e la scienza” è stata tenuta dal professore Tullio De
Mauro, il quale partendo dal linguaggio verbale ha spaziato nell’analisi delle elaborazioni
complesse. Egli ha spiegato la genesi e le modalità con cui si costruiscono i linguaggi tecnici e
scientifici sulla base della determinazione semantica delle parole correnti, addentrandosi, poi,
nei temi complessi dell’espansibilità del significato e della formalizzazione fino a sostenere che
in linea di principio non esiste discontinuità fra studi umanistici e studi scientifici.
Il professore Carlo Bernardini nella seconda conferenza dal titolo “il linguaggio della realtà” ha
sostenuto la necessità, nell’anno di Galilei, di porsi il problema dell’integrazione delle scienze
nel linguaggio comune. Partendo dalla fisica ingenua egli ne ha spiegato il superamento proprio
con la scoperta del grande Pisano dei concetti di forza e di accelerazione. Il professore ha
espresso il convincimento che bisogna rendere attuale l’auspicio di Galilei, ovvero il dovere di
costruire un linguaggio sui fatti, su ciò che è più semplice e misurabile; egli ha ribadito che il
linguaggio della filosofia induttiva ha permesso alla filosofia naturale di diventare fisica teorica.
La terza conferenza dal titolo “il linguaggio nella formazione della pubblica opinione” è stata
tenuta dalla dottoressa Antonella Rampino che ha saputo individuare con particolare incisività i
nodi problematici della comunicazione anche attraverso esempi concreti dei modi e delle forme
con cui le notizie vengono presentate e diffuse attraverso i giornali, internet e gli altri mezzi di
informazione. Il suo discorso ha investito i temi scottanti dell’attualità, compreso quello della
democrazia.
In ultimo Corrado Augias si è impegnato in una relazione dal titolo”il linguaggio della scienza e
quello della poesia”.Attraverso una serie di riferimenti, da Lucrezio, a Dante, a Goethe, il
relatore ha voluto dimostrare come la scienza sia stata fonte di ispirazione poetica e al tempo
stesso matematici e poeti siano comunque e sempre partiti da intuizioni che hanno poi
consolidato in una forma. Agli enunciati teorici il dottor Augias ha fatto seguire esempi con
letture e commenti di testi soffermandosi con particolare attenzione sull’uso delle metafore.
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La partecipazione degli studenti al dibattito è stata molto vivace in tutti gli incontri con
domande e riflessioni in un contraddittorio che ha spesso impegnato i relatori in risposte
articolate e complesse.
Questo Saggio è frutto di un lavoro comune e contiene la rielaborazione di tutto il materiale
delle conferenze comprese le migliori relazioni degli studenti che ne costituiscono la seconda
parte. L’auspicio è che esso si trasformi in utile quaderno di lavoro per chiunque voglia
accostarsi alla tematica affrontata favorendone la ricaduta positiva nella didattica.
La Coordinatrice
Prof.ssa Licia Fierro
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Parte prima
Le riflessioni degli studiosi
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Il linguaggio e le Scienze
Tullio De Mauro
Conferenza del 14 gennaio 2009
Dirigente Scolastico Prof. Franza: Questo è il terzo incontro, durante la mia
dirigenza, per il tema di approfondimento culturale del Liceo. Gli altri temi sono stati,
quello di due anni fa, Religioni e convivenza civile e quello dello scorso anno, Quale
Europa?; quest’anno abbiamo Umanesimo e Scienza. È destinato a tutti, ma in particolar
modo agli studenti della penultima e dell’ultima classe.
Ho il piacere di avere con noi il Prof. Tullio De Mauro. È stato Ministro della Pubblica
Istruzione, è un linguista di fama internazionale, un intellettuale che fa onore al nostro
Paese. Per noi è un privilegio averlo qui, al nostro Liceo, in questa serie di conferenze
che ha organizzato la Prof.ssa Fierro. È un lavoro durissimo, impegnativo. È stata aiutata
dal Prof. Carini e dalla Prof.ssa Dedato. E poi chiaramente le nostre pubblicazioni
raccolgono tutti gli interventi degli studenti, interventi bellissimi, devo dire, che vi
fanno onore e ci fanno onore.
Per quanto mi riguarda, adesso vorrei che ci fosse la massima concentrazione,
perché il tema è impegnativo e i nostri ospiti sono veramente così come ve li ho
presentati. Allora, se non riuscite a sentire bene, ci organizzeremo meglio un’altra
volta. Per adesso lasciamo il campo a quelli che si sono piazzati nelle prime file o
comunque sono comodi e sono disponibili all’ascolto. Adesso lascio la parola di
presentazione alla Prof.ssa Fierro (applausi).
Prof.ssa Fierro: Grazie ragazzi, grazie tante, innanzitutto benvenuti. Siete voi i
soggetti più importanti per noi, quello che facciamo è veramente solo per voi, con
tantissima dedizione, con molti limiti e però con tanta buona volontà. Quindi, benvenuti
a questo primo incontro sul tema di approfondimento culturale di quest’anno, che, come
il Preside vi ha ricordato, riguarda il rapporto tra Umanesimo e Scienza. Per prepararci,
abbiamo acquistato e messo a vostra disposizione in biblioteca due libri importanti,
Contare e raccontare, dialogo sulle due culture, scritto a due mani dal fisico Carlo
Bernardini e dal Prof. Tullio De Mauro, e Prima lezione di fisica, un libro un po’ difficile,
un po’ ostico, scritto dal Prof. Bernardini.
Spero che molti di voi ne abbiano usufruito, proprio per prepararsi a questo
incontro. Certo, l’argomento è complesso, è un argomento affascinante, era già da
molto tempo che desideravamo affrontarlo in una chiave che fosse anche coerente con
le ragioni della didattica. Abbiamo scelto la strada del linguaggio, anche sulla base
dell’ispirazione tratta dai libri che ho testé citato.
E dunque è con particolare gratitudine, ragazzi, che accogliamo oggi come primo
relatore il Prof. Tullio De Mauro, che è uno dei più insigni studiosi italiani di linguistica,
materia che egli ha insegnato a lungo nell’Università “La Sapienza” di Roma, dove ha
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diretto, tra l’altro, il Dipartimento di Scienze del Linguaggio. Il Professore ha presieduto
inoltre la Società di Linguistica Italiana e la Società di Filosofia del Linguaggio, ha
preparato le voci semiotiche dell’Enciclopedia Treccani, ha curato e diretto il Grande
Dizionario Italiano dell’Uso. A partire dalla monumentale Storia linguistica dell’Italia
unita, nella sua attività di studioso ha toccato i temi della semantica, le questioni di
semiologia e i problemi dell’educazione linguistica, in una molteplicità di scritti di cui
chiaramente è impossibile esaurire l’elenco e che, a diverso titolo, però, costituiscono
punti di riferimento ineludibili nell’attuale dibattito sulla lingua e sui nuovi linguaggi. Il
Prof. De Mauro è, poi, un intellettuale militante – e questa, è anche la bellezza della sua
personalità –, non è stato e non è solo uno studioso a tavolino ma è anche un
intellettuale militante, capace di accettare le sfide che vengono dalla società civile, dai
suoi bisogni, perché, come egli stesso scrive in Contare e raccontare, “non si danno
linguaggi senza soggetto, senza radice nella prassi e nei bisogni degli utenti, nelle scelte
e determinazioni degli utenti”. Anche per questo lui è qui, oggi, per rispondere a un
nostro bisogno, per essere coerente con quello che scrive. Di qui anche l’impegno attivo
come direttore della rivista “Riforma della Scuola” e come Ministro della Pubblica
Istruzione, come ricordava il nostro Preside, nel Governo Amato, nel 2001.
Lasciatemelo dire, in questo tempo di grande mortificazione della scuola pubblica
italiana – bisogna ancora chiamarla scuola pubblica italiana –, travolta da provvedimenti
improvvidi, che ne snaturano la funzione, discutere seriamente di studia humanitatis e
di scienza, vuole anche essere testimonianza di vitalità e di resistenza ad ogni forma di
oscurantismo. Perciò Le siamo doppiamente grati, caro Professore, e ascoltiamo con
gioia, siamo veramente contenti di ascoltare la Sua lezione cui Ella ha dato il titolo “Il
linguaggio e le Scienze”. Grazie, grazie tante.
Prof. De Mauro: Vi ringrazio moltissimo, non abbiamo molto tempo, non ringrazio
perciò nei dettagli il Preside, la Professoressa e voi. “Il linguaggio e le scienze” è il
titolo che abbiamo concordato qualche mese fa con la vostra Professoressa e al centro
delle considerazioni che cerchiamo di fare stamattina c’è quello che chiamiamo
linguaggio verbale.
L’aggettivo “verbale” ormai è utile tirarlo fuori, perché negli ultimi trenta,
quarant’anni abbiamo imparato a conoscere molti linguaggi non verbali. Linguaggi
gestuali, per esempio, linguaggi che gli esseri umani adoperano, linguaggi gestuali,
linguaggi simbolici, linguaggi delle segnaletiche, e poi l’orizzonte si è allargato a partire
dal ’45-’50 in poi. Si è allargato alla conoscenza del mondo degli altri animali, diversi
dagli umani, e abbiamo imparato a conoscere molti linguaggi di altre specie animali.
Addirittura, sembra quasi di potere e di dovere dire, ormai, che non c’è specie
vivente che non abbia un suo sistema di comunicazione e un suo linguaggio. Di qui
l’opportunità di chiarire dall’inizio che vogliamo parlare del linguaggio verbale, cioè del
linguaggio fatto di verba, come si diceva in latino – voi lo sapete bene –, cioè fatto di
parole, il linguaggio che consiste nell’adoperare una lingua storico-naturale, una delle
tante lingue del mondo. Sapete che sono tantissime le lingue del mondo. Avete un’idea?
Posso provare a chiacchierare con gli studenti? (Si rivolge alla platea) Lei ha un’idea di
quante saranno le lingue del mondo? Dieci, cento, mille, un miliardo? Quante? Trecento?
No, molto di più. Un po’ di più di duemila, parecchio di più. Chi ha detto settemila?
Bravo, ha vinto! Bene, all’incirca oggi ne contiamo circa settemila – qualcuno glielo ha
detto, a lui, e quindi ha indovinato.
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Adoperare una delle settemila lingue del mondo, questo significa adoperare il
linguaggio verbale. La tesi che volevo esporvi – e sentirete invece poi il Prof. Bernardini
che ha qualche dubbio su questa tesi –, lo dico subito, la tesi che volevo esporvi è che il
linguaggio verbale è un complemento necessario delle elaborazioni umane complesse,
delle elaborazioni di cui il nostro cervello, la nostra mente è capace quando queste
siano di una qualche complessità. Parlo di elaborazioni sia cognitive, che riguardano la
conoscenza, la sistemazione della conoscenza, la ricerca di nuove conoscenze, sia
operative, come quelle che facciamo quando progettiamo la realizzazione di qualche
cosa, operativamente.
Allora, quando siamo impegnati in queste elaborazioni, il linguaggio verbale è
qualcosa a cui ci è difficile rinunciare. Dietro le parole che sto adoperando forse
scorgete anche l’idea che il linguaggio verbale non è, a mio avviso, una totalità che
abbracci tutto. Ci sono delle cose importanti che noi esseri umani facciamo e
realizziamo al di qua del possesso e dell’uso attivo del linguaggio verbale. C’è un famoso
esempio, fatto da un filosofo italiano di cinquant’anni fa, cent’anni fa, che si chiamava
Guido Calogero, il quale osservava che, se in automobile vedo un ostacolo e decido di
frenare, faccio una serie di operazioni molto complesse. Non è semplice percepire,
vedere, decidere di frenare in un certo modo, deviare. Bene, tutto questo avviene nello
spazio di poche frazioni di secondo, se siamo dei bravi guidatori. E avviene senza che noi
verbalizziamo, senza che traduciamo in parole tutto ciò che decidiamo di fare e
facciamo. E si potrebbero moltiplicare, questi esempi.
In tanti ambiti ci muoviamo, almeno nell’immediatezza, senza un intervento
specifico e necessario delle parole. Però quando l’elaborazione e la progettazione si fa
complessa, alle parole è difficile rinunciare. La tesi, le due idee che volevo sottoporvi
sono appunto che la presenza del nostro linguaggio verbale nelle nostre attività
complesse è qualcosa che non dobbiamo sottovalutare o ignorare ma non dobbiamo
neanche, come ho già accennato, sopravvalutare.
Diciamoci di nuovo bene perché, almeno a mio avviso, non va sopravvalutata la
presenza del linguaggio verbale. Sia per quei casi che ho evocato con il vecchio esempio
di Calogero, e altri se ne potrebbero evocare, quei casi in cui noi facciamo qualche cosa
al di qua del verbalizzare ciò che stiamo facendo. E questo è un aspetto.
Ma poi non va sopravvalutata la presenza del linguaggio verbale perché esso stesso,
il linguaggio verbale o, diciamo più concretamente, le parole che noi adoperiamo, non è
che vivano da sole. Vivono, significano, ci servono e servono per capire, per capirci tra
di noi e per capire le cose, ci servono in quanto si incastrano in una serie di attività, di
pratiche. Impariamo le parole in parte attraverso altre parole, ma soprattutto le
impariamo nell’uso che facciamo noi, che ne viene fatto da altri, l’uso in situazioni
concrete. Pensate a parole come dentro e fuori. Dove, quando le abbiamo imparate?
Beh, non è che le abbiamo imparate guardando il vocabolario e le definizioni che ne
vengono date con altre parole in un vocabolario. Le abbiamo imparate, anche se da
adulti non ce ne ricordiamo più, le abbiamo imparate da piccolissimi. Quando abbiamo
vissuto esperienze come lo stare nella gabbietta a rete o fuori della gabbietta a rete,
chissà come, chissà quando, oppure in una stanza o fuori della stanza, quando ci è stato
detto “Vai fuori”, quando ci è stato detto “Stai dentro”, in un contesto di pratiche, di
sollecitazioni perfino fisiche che ci hanno costretto a uscire o entrare in uno spazio
circoscritto. .
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E così sopra, sotto, e così anche le parole andare, restare, stare fermi, sono tutte
parole che costituiscono il nucleo da cui partiamo per imparare altre parole che
impariamo in situazione. Che vuol dire questo? Che lo stesso linguaggio verbale non è
autosufficiente, ha bisogno delle pratiche, degli usi, ha bisogno di un addestramento.
Ricordo, chi fa le terze lo ha già trovato, questo grande filosofo molto bizzarro,
austriaco di origine, poi vissuto in Inghilterra, si chiamava Ludwig Wittgenstein. Non lo
avete ancora incontrato? Era una persona un po’ bizzarra. Ha fatto il maestro nelle
scuole elementari, era di una famiglia molto ricca, ha scritto la sua prima opera
giovanissimo in un campo di concentramento qui in Italia. Lui era un soldato austriaco,
era stato mandato nel campo di concentramento a Monte Cassino e lì ha scritto la sua
prima opera, che si chiamava, con un titolo latino, ma era scritta in tedesco, Tractatus
logico-philosophicus, un tentativo di dedurre da premesse, da principi primi,
l’architettura fondamentale dei saperi. Poi è tornato a Vienna, e nella sua stravaganza
ha rinunciato ai beni della sua ricca famiglia e si è messo a fare il maestro di scuola in
un paesino delle montagne austriache. Poi si è stufato anche di questo, ma intanto era
diventato molto celebre, è andato in Inghilterra e lì Bertrand Russell, che era un grande
logico, un grande accademico inglese, lo ha fatto entrare all’università dove ha
insegnato, e poi ha scritto delle cose, raccolte in un’opera che si chiama Ricerche
filosofiche, in cui smentisce, critica la sua prima opera. Insomma, questo è un
personaggio abbastanza bizzarro e dobbiamo a lui una grande insistenza su quello che
sto cercando di dirvi, che le parole le impariamo e funzionano in quanto sono immerse e
immesse in una serie di pratiche, di training, di Dressung, dice in tedesco, se voi sapete
il tedesco, Wittgenstein, training è stato tradotto in inglese, “addestramento”. A patto
che noi le adoperiamo appropriatamente, in vista di fini particolari, in vista di parlare a
persone determinate in situazioni particolari, le parole funzionano bene, ma, quindi,
funzionano in quanto sono correlate a qualcosa che è al di là delle parole stesse: cose,
situazioni, interlocutori.
Ecco perché a me parrebbe che non dobbiamo sopravvalutare il linguaggio. Ma
questo non deve portarci a un estremo opposto, cioè a una sottovalutazione del ruolo
del linguaggio nelle costruzioni di cui la mente umana è capace, quando operiamo,
quando facciamo qualcosa, progettiamo qualche cosa e la realizziamo, e quando
elaboriamo conoscenze in forma complessa. Perché non dobbiamo sottovalutarlo? Che
cosa ci dà il linguaggio, in che cosa ci aiuta nelle nostre costruzioni più complesse? Ci
sono due caratteristiche, tra le molte che caratterizzano il linguaggio verbale rispetto ai
linguaggi di altre specie, o rispetto ai linguaggi simbolici di cui parleremo anche, tra un
pochino, di cui la specie umana è capace, ci sono due caratteristiche su cui vi chiederei
di fermare un attimo la vostra attenzione. La prima è una caratteristica che ha a che
fare col significato delle parole e delle frasi, è una caratteristica che ha a che fare col
significato e che quindi diciamo semantica. Semantica oggi è il nome di una scienza, è
una parola di origine greca, σημαντικός́ voleva dire in greco “indicativo” e così è
adoperato questo aggettivo da Aristotele. E da quell’aggettivo abbiamo tratto il
sostantivo semantica per indicare lo studio scientifico del significato. È una parola
relativamente giovane rispetto a tutto il vocabolario intellettuale perché è stata
adoperata per la prima volta in questo senso nel 1884 da uno studioso francese che si
chiamava Michel Bréal. Bréal adopera sémantique , in italiano semantica, abbiamo
detto, alla fine dell’Ottocento. La semantica è lo studio scientifico del significato e
semantico vuole dire “relativo al significato”.
Allora, c’è una caratteristica semantica del linguaggio verbale su cui dobbiamo
fermare l’attenzione, una caratteristica che ha attratto a più riprese l’attenzione dei
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grandi filosofi e dei grandi studiosi che nei secoli si sono occupati di linguaggio ed è la
flessibilità, la dilatabilità o restringibilità del significato delle parole. Se volete, anche
la equivocità che le parole hanno. Se voi ricordate quel che avete incontrato in prima
liceale, presumo, studiando Socrate, studiando Platone, ecco, avete incontrato un
momento in cui nelle città greche, nella città greca più colta dell’epoca, nel V secolo
a.C., si comincia a percepire il fatto che le parole hanno dei significati slabbrati, che
vanno in tante direzioni diverse, e quindi bisogna – era la grande idea di Socrate, del
Socrate storico, sembrerebbe, quello più autentico – bisogna dialogare, discutere per
cercare di determinare in che senso tu stai adoperando una parola. Parole alte, come
virtù, o parole della vita quotidiana, come camminare o scarpa, calzare.
E quest’idea, poi, è ripresa dai grandi continuatori di Socrate, da Platone e,
soprattutto, è ripresa sistematicamente da Aristotele. Aristotele è il primo che non solo
riconosce che è fisiologico, che è naturale che ciascuna parola possa avere tanti
significati diversi, lo dice ripetutamente con una formula greca, ciascuna parola
πολλαχω̃ς λέγεται, ciascuna parola “si dice πολλαχω̃ς”, che vuol dire “in tanti modi
diversi”. Questo è naturale agli occhi di Aristotele, che cerca anche di lavorare su
questa nozione di vaghezza del significato, dei confini di significato di una parola, in due
direzioni: nella prima, elaborando una teoria dei trasferimenti di senso. Trasferimento
di senso, in greco antico, ma anche in neogreco, trasferimento, trasporto, se si siete
stati ad Atene – qualcuno è stato ad Atene? Eh, tutti! – avete visto i tram – ci sono
ancora, per fortuna, alcuni tram ad Atene – avete visto cosa c’è scritto sopra,
μεταφοραί ηλεκτρικαί, “metafore elettriche” alla lettera. I trasporti pubblici si chiamano
tuttora in neogreco “metafore”, e metafora vuole dire questo, voleva dire questo per
Aristotele, “trasporto”, trasporto di una parola da un senso ad altri sensi.
Aristotele è il primo, per quello che ne sappiamo, a delineare una teoria complessiva
dei modi in cui una parola cambia di senso e passa ad altro significato. E questa è una
delle direzioni della sua riflessione su questo punto della flessibilità dei significati di una
parola. L’altra direzione, per lui molto importante, è una direzione politica, politica nel
senso più proprio, più alto del termine, forse dobbiamo dire civile. Nella vita civile,
nell’amministrazione della πόλις, là soprattutto, prima ancora che nelle scienze, è
importante che tu, se adoperi una parola, la adoperi in un modo determinato, e cioè in
un contesto determinato, e questo è possibile. Ad Aristotele la cosa interessa per
battere lo scetticismo dei sofisti, che vuole battere perché in una città bene ordinata se
tu dici una cosa, devi riferirti a un senso dei tanti sensi possibili della parola, altrimenti
non ci si capisce più. Ma anche tu, scettico, questo è l’argomento che Aristotele adopera
nella Metafisica, anche tu scettico, se vuoi sostenere la tua tesi secondo la quale è
possibile dire tutto e il contrario di tutto, giocare con le parole, anche tu puoi sostenere
che il bianco può essere nero e il nero può essere bianco, a patto che nel momento in
cui tu usi “bianco” ti riferisci a una cosa effettivamente bianca, altrimenti cade la
possibilità stessa della tua argomentazione. In tanto tu puoi dire che due vuole dire
trentatré o sessantaquattro oppure due, in quanto in questo momento per te “due” è
quella determinata parola. Se non c’è questa condizione di determinatezza semantica
almeno in un dato contesto, cade il senso, cade la possibilità della dimostrazione
scettica.
Bene, quindi Aristotele era molto interessato al tema, all’aspetto che qui ci
interessa. E così tante volte nei secoli è riaffiorato questo interesse accanto a un
interesse in chiave negativa, perché questo fatto che le parole siano così, di significato
sfuggente e flessibile, ad alcuni, nei secoli, non è piaciuto. Non sarebbe meglio avere
delle parole tutte con un significato determinato e sempre e solo determinato? Lascio
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per il momento senza risposta questa domanda e però comincio a chiedervi di osservare
che è proprio grazie a questa pluralità di determinazioni, proprio al fatto che i sensi
della parola che noi abbiamo conosciuto e adoperiamo possono allargarsi o restringersi,
noi possiamo dare continuamente alle parole i, beh, i sensi nuovi con cui costruiamo i
rapporti tra di noi prima ancora che con i saperi nuovi.
Se restassimo chiusi nei confini di significato che già conosciamo di una parola, non
riusciremmo a costruire con quella parola nuovi saperi. Mille esempi dalla storia della
scienza, ma mille esempi anche dalla nostra vita quotidiana. Dalla storia della scienza:
se noi non avessimo potuto prendere la parola atomo, per venire a un ovvio esempio dei
colleghi fisici, se noi non avessimo potuto prendere questa parola, atomo, che è nata
per indicare qualcosa di indivisibile – questa, come voi sapete, è l’etimologia di atomo,
era il limite estremo della divisibilità nella visione della fisica antica – ebbene,
lavorando su ciò che questa parola indicava, abbiamo scoperto, voi sapete, che è
possibile spezzare questo indivisibile, in realtà dividerlo. E atomo nel linguaggio della
fisica, ma ormai anche nell’uso corrente oggi indica qualcosa di diverso, indica non un
elemento ultimo, ma indica un elemento in cui riconosciamo la presenza di particelle
elementari di varia natura, dagli elettroni ai protoni in giù.
L’espansibilità del significato ha garantito la possibilità di lavorare sulla nozione di
atomo e cambiarla radicalmente. E questo avviene anche nella nostra vita quotidiana: è
nel rapporto con altre persone che noi scopriamo la possibilità di ampliare il significato
delle parole a cui eravamo abituati. Senza la possibilità di far variare il significato delle
parole e delle frasi non andremmo probabilmente lontani nella nostra vita sia quotidiana
sia intellettuale.
L’altra caratteristica su cui dobbiamo fermare l’attenzione è quella che ha un nome
un po’ astruso, la chiamiamo metalinguisticità riflessiva. Che cos’è un metalinguaggio
riflessivo? Prima ancora, chiediamoci che cos’è un metalinguaggio. Un metalinguaggio è
un linguaggio A che è in grado di descrivere un altro linguaggio più semplice, un
linguaggio B, che chiamiamo linguaggio oggetto. Un’algebra, le formule dell’algebra, le
formule apparentemente denumerate, senza numeri, dell’algebra, ci danno conto del
funzionamento delle operazioni aritmetiche. L’algebra è un primo esempio di un
linguaggio più potente, di un metalinguaggio che descrive e dà conto del funzionamento
del linguaggio aritmetico, che è il linguaggio oggetto. Nozione anche questa che ha tutta
una sua storia, in parte divertente, perché quello che mi accingo a dire, cioè che le
lingue sono fatte in modo da poter funzionare da metalinguaggio di se stesse, questo
fatto è stato colto anzitutto in chiave negativa, come fonte di paradossi, dai logici
antichi, dai grandi logici e matematici che il mondo greco ospitava accanto ai grandi
poeti, ai grandi filosofi, a cui siamo abituati a prestare reverenza. I logici stoici, della
scuola stoica, si erano accorti che gli usi metalinguistici riflessivi delle parole, cioè usare
le parole per significare le parole stesse, usare gli enunciati per descrivere lo stesso
enunciato, questo può creare dei paradossi. E uno dei più celebri paradossi su cui
riflettevano, era il paradosso detto “del mentitore”. 1 Chi dice “io mento” dice il vero o
mente? Come stanno le cose? Se io dico “io mento”, ancora meglio, in italiano “io sto
mentendo”, descrivo me stesso, adopero le parole della lingua italiana per descrivere le
parole che sto dicendo nella lingua italiana, adopero “io sto mentendo”
1
È il celebre “paradosso del mentitore”, formulato da Eubulide di Mileto (IV sec. a Cr.), della scuola di Euclide.
Diogene Laerzio riporta i sette paradossi, quali affermazioni contraddittorie e indimostrabili, di Eubulide (Diog. II 108),
tra cui altrettanto celebre è quello del “sorite” (il mucchio). Sulla storia del paradosso di Eubulide e sulle soluzioni date
dai filosofi vd. il breve testo di Piergiorgio Odifreddi, Storia apocrifa di un mentitore, accessibile sul sito vialattea.net.
all’indirizzo www.vialattea.net/odifreddi/paradossi/paradossi2.htm
14
metalinguisticamente in modo riflessivo, per descrivere ciò che sto facendo. Bene,
domanda (si rivolge alla platea): se io dico “io sto mentendo”, dico il vero o dico il
falso? Che dici? Perché è irrisolvibile? Qualcuno dice che è irrisolvibile. Perché? Proviamo
a ragionare un momentino. Io dico “io sto mentendo” per descrivere quello che sto
facendo. Se dico il vero, cioè se è vero che sto mentendo mentre dico “sto mentendo”,
allora non sto mentendo, sto dicendo il vero. Ma se sto dicendo il vero, dicendo che sto
mentendo, allora è vero che sto mentendo. Ma se è vero che sto mentendo, allora sto
mentendo, cioè non sto dicendo il vero. Cioè, entro in un circolo vizioso irresolubile, da
qualunque parte abbordi la cosa. Lo vedete? Non tanto? Fidatevi, sappiate che un
signore di cui in questo momento non mi ricordo il nome, un grande logico alessandrino
dell’età di Alessandro Magno, cominciò, come la vostra collega e come ho fatto io, ma
con più scrupolo e più tenacia, a cercare di risolvere questo paradosso. E fu tanto preso
da questo lavoro, che smise di mangiare, smise di bere, smise di dormire e, poveretto,
morì di inedia, senza risolvere peraltro il paradosso. 2 Questo fu un modo, vedendone i
difetti possibili, di percepire questo fenomeno caratteristico delle lingue, per cui
possiamo adoperare le parole di una lingua per parlare delle parole di una lingua.
La cosa è andata avanti, anche nel Medioevo c’erano grandi studiosi di logica, di
filosofia, i quali avevano riflettuto sul fatto che gli usi metalinguistici non segnalati in
modo appropriato creano paradossi, e avevano inventato, come esempio, l’esempio del
topo, il famoso sillogismo, famoso per loro e anche per noi linguisti, che diceva, in un
latino abbastanza semplice, Mus est syllaba, “mus è una sillaba della lingua latina”,
syllaba non rodit caseum, “la sillaba non mangia il formaggio”, ergo, “dunque”, mus non
rodit caseum, “il topo non mangia il formaggio”. Chiaro: mus in latino voleva dire anche
“topo”. Quindi, tradotto in italiano, potremmo dire: “topo è un bisillabo, i bisillabi non
mangiano formaggio, dunque topo non mangia formaggio”, giocando sul fatto che
adopero in due modi diversi “topo”, una volta per indicare metalinguisticamente e
riflessivamente il significante della parola “topo” e una volta per indicare i topolini. Da
qui la conclusione fallace.
C’è voluto molto tempo per capire che questa fallacia, come dicono i logici, questo
punto debole della metalinguisticità riflessiva è anche la sua forza. E per capire che,
lasciamo perdere i paradossi dei logici, dei matematici, dei filosofi scolastici, che non
sapremmo come vivere tra di noi, senza ricorrere continuamente a questa cosa dal nome
astruso ma dalla realtà quanto mai quotidiana e banale, senza ricorrere all’uso
metalinguistica riflessivo. Come quando continuamente diciamo: “Che stai dicendo? Che
vuoi dire? Ma che hai detto? Ma che significa per te questa parola?” Oppure ci
spieghiamo. Come vedete, cerco di parlare in italiano corretto, ma spesso lo diciamo in
dialetto: “Ma che vuoi dire?” Traducetelo in romanesco: “Ma che stai a di’?”, per essere
gentili, è vero, perché è possibile andare avanti su questa strada. La prossima volta che
sentite un’espressione un po’ forte per dire “Che cosa stai dicendo?”, potete dire alla
persona che adopera l’espressione forte: “Non mi piace il tuo metalinguaggio riflessivo”
(risate della platea), così, tanto per stabilire un rapporto. È una cosa assolutamente
umana, è una cosa continua che noi facciamo per cercare di interrogare gli altri o per
spiegare quello che noi stiamo cercando di dire. Questa proprietà è molto importante.
Io ho cercato di parlarne con amici scienziati e non sono sicuro di essermi spiegato
bene, per l’appunto, di aver avuto un buon metalinguaggio riflessivo per spiegarmi. Per
spiegare che questa proprietà è quella che ci garantisce, insieme alla flessibilità dei
significati, la costruzione dei linguaggi tecnici e dei linguaggi scientifici. Che cosa è,
2
È il logico Filita di Coo (340-285 a.C.).
15
come nasce, come si forma un linguaggio scientifico? Ma prima di arrivare al linguaggio
scientifico partiamo terra terra, come piaceva fare a Socrate, partiamo terra terra, dai
calzolai, dai muratori, dagli scalpellini, dai pescatori, partiamo dai linguaggi che negli
ambiti tecnici si creano per capire le operazioni che in un ambito tecnico – vedete, di
nuovo il training, l’addestramento a una pratica – per capire le operazioni che in un
training, in una pratica determinata si fanno.
Pensate a una parola come “punta”, quante cose può voler dire. Per chi fabbrica
scarpe, per chi ripara scarpe, per quello che un tempo – oramai quasi non ne esistono
più – per quello che un tempo si chiamava il ciabattino, lo scarparo a Roma – oramai
sono pochissimi, bisogna andarli a cercare e pregarli in ginocchio che riparino, chi di noi
ha scarpe di cuoio, insomma, che meritano di essere salvate attraverso le stagioni,
quindi è un’esperienza ormai rara per la generazione più giovane – bene, per uno
scarparo “punta” è una parola che nel suo ambito indica un rinforzo. Quanti significati
ha! Queste parole si determinano nel loro ambito tecnico in modo molto preciso, che
consente di capirsi tra ciabattini, ma anche tra cliente e ciabattino, in ordine a
determinate operazioni tecniche. E pensate agli altri sensi che “punta” può avere in uno
spolettificio, in una squadra di calcio, per chi studia un iceberg eccetera.
Nell’ambito delle tecniche anche più elementari comincia ad affiorare questo
aspetto che non contraddice la equivocità, la pluralità di sensi che una parola può
avere, ma è proprio correlato a quello. In un ambito tecnico una parola acquista un
significato specifico e determinato. E questo è prezioso per il funzionamento della
tecnica e di quella parola in quella tecnica. Questo primo passo è quello che possiamo
chiamare il primo passo di un processo di determinazione semantica delle parole
correnti di una lingua ed è il primo passo di ciò che chiamiamo formalizzazione. Se fate
un simposio con il vostro insegnante di filosofia e con l’insegnante di matematica,
cercate un po’ di mettere insieme ciò che essi ci insegnano e vi insegnano sulla
formalizzazione, il cui primo passo è proprio questo: mettersi d’accordo sul fatto che
una parola, che nella lingua, nell’uso generale di una lingua, ha tanti significati, in un
ambito particolare vorrà dire questo e soltanto questo. Una parola? Non basta una
parola.
Il secondo passo della formalizzazione è determinare quali sono le parole necessarie
a costruire i discorsi in un campo specifico delle tecniche o dei saperi. Questo lavoro di
determinazione delle parole, non solo del significato di una, ma di più parole coordinate
tra di loro in vista della costruzione dei discorsi corretti in un campo del sapere, porta
come passo successivo alla chiusura delle parole di base di un campo del sapere. Questa
chiusura è un momento decisivo. Da quel momento in poi non è che una scienza non può
più adoperare altre parole oltre quelle, ma può adoperare parole nuove solo a patto che
ne costruisca il significato a partire dalle parole di base.
Bene, andiamo avanti, all’ombra, come diceva… Chi diceva “Combatteremo
all’ombra”? Leonida, benissimo, alle Termopili! Continueremo un attimo, se avete
pazienza, all’ombra. Io mi avvio quasi a concludere, il discorso può andare avanti ore.
Ma come ho cercato di dirvi un po’ alla buona, si può dire anche più nobilmente,
eventualmente nel testo scritto nobiliteremo questo parlar disadorno a cui sto
ricorrendo, come vedete c’è una cosa, che chiamiamo oramai in latino, un continuum o,
in italiano, c’è una continuità tra la determinazione del senso di una parola occasionale
per incastrare il sofista a cui pensa Aristotele nella Metafisica, alla determinazione dei
sensi di una parola in un ambito tecnico, al dire “Beh, adesso metto insieme tutte le
parole che mi servono in quest’ambito” e al dire “Ora chiudo le parole che fanno da
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primitivo” – ricordatevi questa parola –, fanno da parola primitiva, in base a cui io
introdurrò nuove parole se mi servono, definite con i primitivi, con la lista chiusa dei
termini primitivi.
Su questa strada, che è quindi un continuum, si procede sulla via della
formalizzazione fino ai livelli più alti, che sono quelli in cui si decide in base ai primitivi,
che sono, attenzione!, parole di una lingua storico-naturale di cui determiniamo il
significato grazie a una convenzione metalinguistica riflessiva. La parola “punto” o la
parola “retta” o la parola “piano” da ora in poi significheranno solo questo: un’entità
indivisibile geometrica, senza dimensioni, un’entità con una sola dimensione, un’entità
con due dimensioni. Va bene? Con le parole del greco, o di un’altra lingua, introduco i
primitivi della geometria euclidea e a partire da questi primitivi introduco, poi, un
numero sterminato di altre parole: tutti i nomi di tutti i poligoni oppure proprietà dei
poligoni, etc., ma sempre partendo dai primitivi. Che quindi hanno la funzione in una
formalizzazione spinta, di assiomi, di principi fondamentali. Le parole di una lingua
storico-naturale, il cui significato è definito, grazie all’uso metalinguistico riflessivo,
funzionano da postulati, da assiomi, su cui si costruisce un campo del sapere. Come
Euclide ha fatto con la geometria.
Ma il livello più alto di formalizzazione è quello in cui, grazie ai primitivi e all’uso
metalinguistico riflessivo, decido di abbandonare le parole di una lingua e di servirmi di
simboli che scavalcano le singole lingue e valgono per qualsiasi lingua. Questa strada,
che tante volte è piaciuta nel corso dei secoli, a chi si è occupato della cosa, ha un
precedente assolutamente ovvio, come la nozione di metalinguaggio riflesivo, è un po’
la stessa cosa. Noi lavoriamo a estrarre il significato, la valenza intellettuale e
scientifica da cose che abbiamo sperimentato terra terra, senza sapere prima che
avevano questa straordinaria valenza. Cosa voglio dire? Che l’idea di arrivare a delle
simbologie che superano la diversità delle settemila lingue del mondo e che valgono per
tutte le lingue – simbologia, insieme di simboli con un significato determinato –
quest’idea ha una radice antichissima, assolutamente banale, intellettualmente non
consapevole all’inizio, che è quella dei numeri. I numeri, con buona pace di tutti quelli
che considerano scissi i campi del sapere, prima di essere e per essere numeri sono
parole. Uno, due, tre, cento, mille, sono parole. Il nucleo di queste parole è un nucleo
certamente molto antico nella storia delle popolazioni che parlano e hanno parlato
anche altre lingue, ma che hanno parlato le lingue indoeuropee, a cui appartengono
l’italiano, il latino, il greco, il tedesco, l’inglese. Ce ne accorgiamo perché le parole da
uno a dodici, e poi i nomi delle decine, i nomi delle centinaia, hanno una radice comune
in tutte le lingue indoeuropee.
Dunque, già intorno al 4000-5000 a.C. dovevano esistere queste parole-numero, per
dire uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, cento. Questo è stato un passo
importante. Chi ha cominciato a dire, non avrà detto “cinque”, avrà detto quinque, avrà
detto πέντε, non lo sappiamo bene cosa avrà pronunciato. Chi ha detto una parola per
indicare un insieme di cinque elementi, ha compiuto il primo passo sulla via della
formalizzazione. Cioè ha detto: “Questa parola da ora in poi vorrà indicare solo un
insieme di cinque elementi, e quest’altra solo un insieme di sei elementi, e la parola che
vuol dire sei elementi non può essere adoperata per dire cinque elementi, e la parola
che vuol dire cinque non può essere adoperata per dire sei”. Questo è quello che
abbiamo descritto, come primo passo della formalizzazione, che comincia con la
scoperta della possibilità di determinare delle parole in funzione di significati molto
precisi e determinati.
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Il secondo passo, più faticoso del primo, lo vediamo compiersi nella storia dei
popoli, nel Tibet, nell’Asia Centrale, in Mesopotamia, in Grecia, quando si comincia a
cercare di trovare un equivalente scritto alle parole della lingua o delle lingue che si
parlavano, e cammina cammina – la storia è affascinante ma non abbiamo tempo di
raccontarla –, cammina cammina si arriva a delle popolazioni tra Tibet e India che si
inventano un certo sistema, che poi arriva in Egitto e viene popolarizzato dai grandi
studiosi arabi, si inventano un sistema per indicare con delle cifre, eguali per tutte le
lingue, e al di là delle lingue, le parole-numero e i significati delle parole numero. A un
certo punto si inventa una cifra per indicare il valore d’insieme di un solo elemento, per
indicare l’insieme di due elementi, l’insieme di tre elementi ecc. Queste cifre, che noi
chiamiamo arabe, e che in realtà sono sino-indiane, sono il primo esempio mirabile,
bisogna dire, di un linguaggio nato sul terreno dell’uso metalinguistico e
semanticamente determinato delle lingue storico-naturali, che scavalca la pluralità e
l’indeterminatezza delle lingue storico-naturali. Ed è il linguaggio di cui poi si serve
l’aritmetica e di cui si servono tutte le scienze. Prima di capirne la straordinaria valenza
lo abbiamo inventato e lo abbiamo usato. E anche da bambinetti adoperiamo i numeri,
prima ancora di capire quale straordinaria cosa stiamo facendo e quali orizzonti stiamo
aprendo. Io, per non tediarvi troppo, aduggiarvi troppo, annoiarvi troppo, tenderei a
fermarmi qui, perché credo di avervi dato abbastanza spunti, se non altro, su quel che
mi pare di dover pensare: 1) che senza l’aiuto delle parole nella loro indeterminatezza
non le determineremmo neppure e non riusciremmo a costruire né i numeri né i sistemi
assiomatici delle altre scienze e di tutte le scienze; 2) implicito in questo, è che vi è una
unitarietà radicale, in radice, di tutti i campi tecnici – con buona pace dell’amico
Bernardini che considera le tecniche una cosa vile – e di tutti i campi scientifici.
Cioè, io credo che vi sia una sostanziale continuità tra i diversi campi di studio. Mi fa
piacere ricordare in conclusione che non sono il solo a pensare questo, siamo in tanti.
Volevo ricordare alcuni casi illustri, perché sono gli scienziati delle scienze dure i più
restii a dire: “Ma sì, tra gli studi storici o letterari e gli studi della fisica teorica c’è – è
chiaro che sono diversi –, c’è un continuum”, che è costituito dal fatto che ugualmente
ricorriamo a processi di determinazione dei significati delle parole, e di
assiomatizzazione del loro uso. Dunque, sono loro e quindi permettetemi di scegliere
due esempi tra i molti che credono nella continuità, nella non divaricabilità tra i campi
del sapere, due nomi: uno è quello di Albert Einstein, a voi ben noto, il quale ha insistito
molto nella sua autobiografia scientifica, nella sua autobiografia intellettuale, nel dire:
“Attenzione, gran parte di tutto quello che noi sappiamo, in sintesi noi lo dobbiamo alle
lingue che abbiamo imparato a parlare da bambinetti, e questo ci consente di costruire
nuovi saperi determinati”. L’altro, molto esplicito sul punto della contiguità e continuità
dei campi di sapere umanistici e scientifici, è un grande ingegnere e fisico degli anni
Trenta e Quaranta, che si chiamava Richard von Mises, che ha scritto un bel libretto,
piccolo, Manuale di scienze positive, in cui sostiene proprio questa tesi, che in linea di
principio, non c’è nessuna discontinuità radicale tra gli studi umanistici – purché non
siano fatti a chiacchiere, ovviamente, questo va da sé – e gli studi delle scienze dure,
matematiche, fisiche e naturali. Questa continuità è garantita dal fatto che tutte
devono ricorrere alla determinazione delle parole delle lingue storico-naturali in sé, nel
loro intrinseco, indeterminate, tutte devono ricorrere al linguaggio riflessivo per
costruire i loro linguaggi più determinati, tutte infine, dal più al meno, anche le più
astratte, devono fare riferimento alle pratiche che ordinano, per verificare, o anche
come alcuni dicono meglio, per falsificare le loro affermazioni. E quindi c’è una
intelaiatura comune ai diversi campi di sapere, intelaiatura in cui il linguaggio ha una
18
funzione fondamentale, intelaiatura che noi possiamo costruire solo col e grazie al
linguaggio. Vi ringrazio dell’attenzione (applausi).
Prof.ssa Fierro: Ragazzi, come siamo abituati voi sapete che l’intervallo lo facciamo
alla fine di questo nostro momento di riflessione comune. Scusate per i nostri mezzi
tecnici sempre poco adeguati alle circostanze, questo microfono ogni tanto fa i capricci.
Dunque, dopo questa prima parte frontale, così ricca anche su alcuni piani – dovete
convenire con me –, anche difficile, no?, perché entriamo anche all’interno di una
pratica del linguaggio che ci è solo in parte conosciuta – poi, il professore per quanto
possa aver costruito un discorso accessibile a noialtri, a me per prima otre che a voi, è
chiaro che gli aspetti più tecnici ci incutono da una parte soggezione, dall’altra però ci
spingono a riflettere per capire, credo che questo avvenga in me che sono un’adulta
come in voi, forse a maggior ragione in voi e con strumenti maggiori.
Allora come sapete la seconda parte della mattinata, proprio voi come soggetti
interagite con il relatore. Quindi io adesso aspetto le vostre domande, le vostre
curiosità. Ci comportiamo così, facciamo prima quattro o cinque domande alle quali il
professore risponde, e poi un secondo turno di domande. Se ce ne sono già, noi
cominciamo subito. Non faccio la mia, poi la farò, prima voi. Naturalmente tutti sono
invitati a fare domande, anche gli adulti presenti, non i vogliamo escludere a priori.
Anche se naturalmente voi siete i primi in senso assoluto.
Silvia: Salve, buongiorno, sono Silvia. Lei attribuisce giustamente grande importanza
al linguaggio, che è fondamentale, lo penso anch’io, nella storia dello sviluppo umano.
Le volevo domandare: il linguaggio, a meno che non si parli da soli, è prevalentemente
dialogo, quindi interrelazione con gli altri. Guardandomi intorno, in particolare nel
panorama politico attuale, diciamo, non per essere qualunquista, però vedo tutto
fuorché dialogo fra le parti. Quindi, le volevo domandare se, secondo lei, la mancanza di
dialogo, quindi l’impossibilità di arrivare a un compromesso è strutturale della politica
oppure è un vizio italiano oppure è una qualità, comunque, della politica che si va
abbassando. Grazie.
Flaminia: Salve, sono Flaminia. Le volevo chiedere innanzitutto una
puntualizzazione, perché non avendolo studiato non vorrei fare un errore. Allora, per
significante s’intende il termine con cui si dà il significato, giusto?
Prof. De Mauro: È l’involucro, la parte esterna.
Silvia: Perfetto. E quindi, inerente a questo, volevo chiederLe: secondo Lei, quanto
c’è nel dialogo di significante e quanto di significato, ovvero paradossalmente si
potrebbe ridurre il significante al massimo e conservare comunque il significato? Ad
esempio, se io voglio spiegare a una mia amica, raccontarle che ho fatto un incidente
con la macchina, posso definirlo paradossalmente con un’onomatopea, ad esempio
crash!, cioè riducendo totalmente il significante se posso conservare il significato?
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Maya: Sono Maya. Volevo chiedere se poteva essere considerato parte della
formalizzazione del linguaggio, per esempio, il trasformare la parola “stop” in un
simbolo come il cartello stradale, e poi se il fatto di utilizzare parole straniere in tutte
le lingue, come per esempio “computer”, è una specie di formalizzazione o rientra in
qualche definizione.
Adriano: Lei nel libro Contare e raccontare afferma che anche l’italiano è adatto
alla divulgazione a livello internazionale. Allora come si può spiegare il predominio
dell’inglese o la recente ascesa dello spagnolo. Questo è dovuto a una maggiore
semplicità o ad altri motivi?
Prof. De Mauro: Cerco di rispondere il più telegraficamente possibile per potere
parlare anche di altro. Silvia, dialogo necessario al funzionamento del linguaggio, ma poi
guardiamo intorno, apparentemente poco dialogo, specie nella vita politica. È un vizio
italiano? È un vizio della vita politica? Comincerei col dire che non è necessariamente un
vizio della vita politica, perché in qualche modo l’attività politica deve costruirsi il
consenso, e quindi deve tenere conto, comunque sia orientata – anche se è un po’
sgradevole ammetterlo –, di quello che pensano e di come parlano gli altri. Cioè c’è una
eticità, una moralità radicale, dialogica, del linguaggio politico, anche nelle dittature. Il
dittatore, più ancora di un uomo politico nel contesto democratico, liberale, civile, ha
bisogno di sedurre, costringere, minacciare, farsi capire, farsi obbedire. Deve tenere
conto per forza di quello che c’è nella testa delle persone, magari per violentarlo.
Scelgo questo come caso limite, naturalmente. Quindi non vorrei avere l’aria di uno
che cita sempre Aristotele, oppure sì, insomma, non è colpa mia, è colpa di Aristotele,
caso mai. Proprio Aristotele insegnava che per le necessità della πο λις, per la
necessità della convivenza civile, per la necessità di poter stabilire insieme che cos’è
utile e che cos’è dannoso, che cos’è giusto e che cosa non è giusto, e che cosa fare in
futuro, proprio per questo nasce il linguaggio verbale e gi esseri umani sono dotati di
́ . Quando noi vediamo delle lacerazioni nel tessuto della comunicazione tra le parti
politiche, anzitutto dobbiamo stare attenti a non scambiare l’esagerazione polemica
della lacerazione per lacerazione effettiva. Non è detto che chi risponde malamente a
una profferta di dialogo, in realtà non stia capendo e non stia cercando di farsi capire,
non stia cercando a modo suo l’arte del dialogo. E poi questi fenomeni, io credo che,
anche se sono fastidiosi, sono limitati rispetto alla massa di cose che ci uniscono.
Insomma, più di quanto non ci piacerebbe in certi momenti ammettere, siamo fatti
abbastanza allo stesso modo tutti quanti, dentro una comunità nazionale. Forse, tanto
per non fare nomi, all’on. Bossi può non piacere l’idea di essere fatto in modo molto
simile a me, napoletano romanizzato, o a un siciliano. Però di fatto è così, e non per
caso parliamo la stessa lingua, più o meno bene. Quindi, direi che dobbiamo puntare
sempre sul dialogo esplicito, ordinato, e non rassegnarci a chi si atteggia a volerne fare
a meno, perché non ne può fare a meno. E non ne fa in realtà a meno.
È possibile dire “crash” invece di incidente automobilistico? Certo, perché no?
Naturalmente anche questo non sfugge, anche la sostituzione di un’abbreviazione,
splash, pluff, non sfugge alla esigenza di essere inserita in un contesto pratico, di
20
pratiche e di esplicitazioni metalinguistico-riflessive che chiariscano che cosa vuole dire
quel termine. Non so se Flaminia è soddisfatta di questo tentativo di risposta.
Maya: sì, è vero che una parte importante dei processi di formalizzazione è quella
della sostituzione. Ho cercato di ricordare che si sostituiscono simboli convenzionali alle
parole d’uso corrente. E questo processo, è giusto ciò che Maya osserva, non ha a che
fare solo con le grandi e nobili scienze dell’accademia, ma anche con la vita di tutti noi,
in qualsiasi contesto anche quotidiano. Le segnaletiche stradali sono proprio una forma
di adozione di simboli, che hanno, come corrispondente, parole delle lingue storiconaturali, diverse da una lingua all’altra, ma che nella loro diversità sono messe da parte
e sostituite, per esempio nel contesto del traffico autostradale, da simboli abbastanza
comuni per tutti. C’è un segnale di stop che gira da un capo all’altro dell’Europa, ci
sono segnali semaforici che girano da un capo all’altro d’Europa: sono forme di
linguaggio simbolico molto semplice, rispetto all’algebra o alle formalizzazioni più
spinte, ma sono già questo.
Il bisogno di avere dei riferimenti comuni è certamente una delle ragioni per cui
termini legati a una tecnica particolare, in un ambito molto particolare, navigano al di
là della lingua d’origine. Il fenomeno è generale. Pensate a quanti grecismi adottarono i
latini per potere abbandonare la loro rozzezza di contadini e diventare popolazioni
civilizzate capaci di cultura, un po’ lentamente ma ce la fecero. Oppure, pensate a
quanta terminologia della pasta dall’italiano si è diffusa nel mondo. Spaghetti,
maccheroni, tortellini, sono parole che voi trovate dal giapponese all’inglese d’America,
perché la tecnologia della fabbricazione della pasta si è raffinata in Italia e dall’Italia si
diffonde. Vengo naturalmente al computer e a tutto ciò che noi dobbiamo alla capacità
della cultura anglosassone di assorbire il meglio delle culture scientifiche e tecniche
europee, anche con l’aiuto di Hitler, e poi di ridiffonderle in giro per il mondo. Questo
vale specialmente per l’informatica, ma per tanti altri settori. E certamente, questo è
indizio di un bisogno di formalità maggiore, che porta alla diffusione di molti anglismi o
parole ricalcate sull’inglese.
Adriano: sì, come voi sapete, e se non lo sapete ve lo ridico io, voi sapete che
duecento anni fa, all’inizio dell’Ottocento, ma ancora a metà dell’Ottocento, fuori della
Toscana l’italiano era una lingua praticamente sconosciuta. La gente parlava dialetto e
anche chi avrebbe potuto parlare italiano e sapeva teoricamente parlare italiano perché
lo sapeva scrivere, poi nel comune parlare parlava dialetto oppure, se era una persona
colta, parlava francese. Insomma, Manzoni o Cavour, i padri della patria, parlavano il
loro dialetto, cioè milanese o piemontese, poi se incontravano italiani di altre regioni
parlavano in francese e, se dovevano scrivere, potevano scrivere e sapevano scrivere in
italiano. Ma Manzoni molto spiritosamente racconta con quante difficoltà scriveva in
italiano rispetto allo scrivere in francese. Raccontava che quando lui doveva scrivere
qualcosa in francese prendeva carta, penna e calamaio e scriveva. Le cose venivano
pubblicate e poi venivano discusse per il loro contenuto, più o meno accettato, mentre
se scriveva una pagina in italiano doveva prendere dieci vocabolari, due grammatiche e
consultarli, decidere come dire, perché era una lingua estranea all’uso comune, anche
suo.
Allora, questa era la condizione dell’italiano, e questo si rifletteva nel fatto che era
una lingua di un mondo contadino, nobilmente chiuso in se stesso, com’era il mondo
toscano. Il bisogno di cominciare ad aprire questa lingua alle terminologie tecniche si è
avvertito precocemente. Nella seconda metà dell’Ottocento Tommaseo cerca di
realizzare il primo, grande dizionario in lingua italiana, aperto a raccogliere i tecnicismi
21
che fino ad allora erano rimasti ai margini dell’uso linguistico scritto e codificato.
Questa tendenza è andata avanti, per nostra fortuna, anche perché è cambiata la base
sociale italiana. Paese contadino ancora negli anni Cinquanta del Novecento, ha
conosciuto una espansione industriale molto importante, ha conosciuto le tecniche della
vita urbana. E questo per voi è tutto alle vostre spalle. Voi siete nati parlando italiano.
Ma siete la prima generazione, credo quasi tutti, che parla italiano. A casa vostra che
parlavate, da piccoli? A casa sua lei da bambino che parlava? (Si rivolge alla platea)
Italiano? Ecco, naturalmente questo è vero al Liceo Orazio o in qualsiasi liceo italiano,
non è vero in qualsiasi scuola italiana, ma il 40, il 45% dei bambini nati dal 1960-1970 in
poi è nato, per così dire, in italiano. Questo si è riflesso nel fatto che abbiamo bisogno e
abbiamo la possibilità di avere una lingua buona a tutt’uso. E quindi abbiamo un
vocabolario oramai ricchissimo anche nei settori tecnici e scientifici.
Perché, se ho capito bene la domanda, perché l’inglese è più diffuso dell’italiano?
Beh, per tanti fattori. Esterni, anzitutto: di concentrazione delle conoscenze e delle
capacità di innovazione tecnica e scientifica negli Stati Uniti, grazie all’ospitalità che gli
Stati Uniti sanno offrire a studiosi e tecnici di ogni parte del mondo. Qui è la grande
svolta, l’ho detto prima e forse non era chiaro. Dobbiamo essere molto grati ad Adolf
Hitler e alla persecuzione antiebraica, perché grazie alla persecuzione antiebraica –
devo dire che sto scherzando, però vorrei farvi riflettere su questo curioso fatto –, grazie
alla persecuzione antiebraica e antidemocratica fior fiore di studiosi, scienziati
tedeschi, austriaci,
cecoslovacchi, polacchi, hanno dovuto abbandonare le loro
università e i loro Paesi e rifugiarsi, trovando ospitalità e rifugio, dopo passaggi dalla
Svezia o dalla Turchia, negli Stati Uniti. E negli Stati Uniti si crea una grande comunità
di studiosi di tutto il mondo, soprattutto nelle università della costa atlantica, dove
nasce proprio un progetto di cui avrei voluto parlarvi, ne approfitto ora per ricordarvi
che esiste, il progetto di una enciclopedia della scienza unificata, così la chiamarono
questi studiosi, che doveva cercare un linguaggio unitario per trattare tutte le possibili
conoscenze scientifiche, dagli studi umanistici agli studi fisici, matematici, etc. E i
lavori preparatori di questa enciclopedia furono scritti naturalmente in inglese, perché
era la lingua del paese ospite, piuttosto che in tedesco. E di là è nato un grande
impulso, di cui due episodi sono significativi. Il primo è la realizzazione della scissione
dell’atomo, che viene progettata e realizzata da questo gruppo di studiosi tedeschi,
francesi e italiani, a cominciare da Fermi che ha, come ricordate, un ruolo di leader
negli studi per arrivare alla scissione dell’atomo e quindi all’utilizzazione dell’energia
atomica a scopi pacifici o a scopi militari. L’altro episodio saliente è la costruzione, che
dobbiamo a degli studiosi tedeschi e americani, del progetto di computer, di calcolatori
automatici capaci di eseguire automaticamente operazioni di calcolo complesse, che
nasce proprio in questo stesso contesto.
Da quel momento in poi il mondo anglofono ha avuto la funzione di leadership, lo
dico in inglese, di guida dell’espansione scientifica e tecnologica di tutto il mondo. È
vero un aspetto più interno a cui giustamente Adriano ha accennato, e cioè il fatto che,
rispetto a italiano, tedesco, francese, russo, l’inglese è una lingua di struttura sintattica
– sintattica, non altro – relativamente semplice. Cioè una frase inglese, anche per come
tradizionalmente l’inglese è stato usato dal ’600-’700 in poi, è una frase molto lineare e
molto elementare, mentre certamente una frase nelle altre grandi lingue moderne che
ho citato è molto più complessa, come struttura. Naturalmente, questo non significa che
l’inglese è una specie di neutro esperanto, perché certamente il vocabolario inglese è
ricco e sfuggente quanto quello di qualsiasi altra lingua del mondo. Però, certamente, la
struttura lineare della frase, la morfologia, la grammatica abbastanza semplice
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favoriscono la circolazione internazionale dell’inglese, una circolazione a cui non
potrebbero ugualmente, facilmente aspirare altre lingue. Vedremo. Se è vero che ormai
la potenza principale dei Paesi anglofoni, gli Stati Uniti, hanno imboccato la via di un
lento declino, come qualcuno sostiene – probabilmente è falso –, e tra cent’anni
dominerà il mondo la Cina, vedremo il cinese come se la caverà come lingua egemone.
Prof.ssa Fierro: Grazie. Allora, ci sono altre domande da parte vostra? Venite,
venite, uno alla volta. Ragazzi, scusate, io vi chiedo pazienza, perché capisco la
difficoltà di ascoltare quando la voce arriva poco, in fondo. Un po’ è colpa proprio della
nostra Aula Magna che non ha, diciamo, un audio proprio meraviglioso, e poi abbiamo
questo microfono che funziona a intermittenza, oggi, Quindi vi chiedo veramente
pazienza, perché se voi state zitti potete anche sentire. Se questo non accade, è chiaro
che diventa molto difficile. Sfruttiamo questo momento nella maniera migliore,
mettiamoci un po’ di buona volontà. Do la parola, a chi? Ad Agnese.
Agnese: Salve, volevo fare due domande. Una, se nasce prima l’enciclopedia o il
dizionario. Perché prima aveva parlato di termini primitivi e quindi mi chiedevo se,
appunto, questo comunque è legato all’enciclopedia che potrebbe essere definita più
una scienza. E un’altra domanda è, per quanto riguarda la grammatica, se nasce prima
la grammatica o nasce prima la lingua, e comunque come la grammatica si viene a
creare.
Alessia: Buongiorno. Data la lettura consigliataci dalla Prof.ssa Fierro del libro
Contare e raccontare, vista la critica compiuta da Bernardini nei confronti di una
pretesa superiorità delle cosiddette due culture, è possibile, secondo Lei, un rapporto
non conflittuale tra materie scientifiche e umanistiche? E tale rapporto può portare a
conoscenze più complete? Grazie.
Luca 1: Mi chiamo Luca e volevo porgerLe questa domanda. In un mondo in cui
esistono settemila lingue cosa significa, a livello intellettuale e divulgativo, un
esperimento come l’esperanto, cioè il tentativo di creare una sorta di koiné moderna? E
soprattutto, un’altra mia curiosità. Siamo pronti a rinunciare, alla fine, a un nostro
dialetto regionale,in favore di una lingua universale?
Luca 2: Allora, sono Luca anch’io. La mia domanda fa riferimento al famoso libro
1984 (di George Orwell), in cui tra le tante cose emerge l’importanza della lingua in uno
stato civile. Non si potrebbe sfruttare un metodo simile a quello esposto nel libro, per
creare una lingua alternativa, aggiuntiva però, più semplice, che non porti alla
distruzione della lingua stessa ma che abbia come scopo l’unione linguistica di diversi
popoli?
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Valentina: A me è capitato più volte di sentirmi dire, magari, “Tu sai i concetti, ma
non riesci a esprimerli”. C’è invece chi, anche non sapendo, riesce a dire qualcosa.
Questo, per quale ragione? C’è qualche tecnica, per chi ha delle difficoltà, per avere
maggior fluidità?
Sofia: Io sono Sofia e volevo fare una domanda sulla filosofia. A partire dallo studio
di questa, ritiene di inserirla nell’ambito scientifico o nell’ambito umanistico?
Maya: Una domanda che volevo fare era uguale a quella che ha fatto Luca, quindi
non la ripeto. Un’altra domanda era più che altro un’opinione. Volevo chiederLe,
rispetto a quello che aveva detto Flaminia, sul “crash” dell’incidente. Secondo me, la
bellezza di una lingua è anche quella di poter avere diversi termini per esprimere la
stessa cosa, e quindi di avere delle sfumature diverse e se c’è un rischio reale, come già
sta succedendo, quanto possa essere veloce questo processo di minimalizzazione di una
lingua, di riduzione dei termini, quindi di perdita del significato, nell’utilizzare una
stessa parola per esprimere cento concetti.
Prof. Carini: Da ultimo, vorrei permettermi una domanda che nasce da una
esperienza personale. Quest’estate ero ad Arsago Seprio e ho visto il cartello con la
doppia indicazione toponomastica, Arsago e, mi sembra, Arsag, in dialetto. Ho visto che
nella provincia di Varese ormai c’è la doppia toponomastica, quella in italiano e quella
nel dialetto locale, per tutti i luoghi, praticamente. E allora mi chiedevo questo: come
giudicare questo provvedimento, diciamo, linguistico? Si tratta di puro folklore oppure di
valorizzazione di una cultura regionale oppure ancora di qualcos’altro? Cioè di un
provvedimento che potrebbe preludere ad altri provvedimenti di tipo politicoamministrativo, tesi forse a mettere in posizione subalterna o in secondo piano o
emarginare o allontanare chi non è residente o chi non si riconosce in quei valori portati
da quella cultura? Ecco, mi sembra che avremmo il caso dell’uso di un dialetto come
fattore disgregante rispetto all’uso della lingua come potente fattore di unificazione
culturale e nazionale. Le chiedo, se possibile, una riflessione su questo e un confronto
anche con il bilinguismo altoatesino, sudtirolese, che non mi sembra ponga in gioco i
valori dell’identità nazionale. Si tratta di due comunità alloglotte completamente
distinte che convivono, mi sembra, bene. È una mia preoccupazione anche perché, non
voglio fare polemiche politiche, ma mi sembra che questo governo, in materie molto
delicate, proceda con decreti legge e con il voto di fiducia, saltando il lavoro delle
commissioni parlamentari, laddove dovrebbe avvenire il dialogo e la mediazione tra le
parti.
Prof.ssa Fierro: In ultimo, se posso permettermi almeno un intervento brevissimo,
questa curiosità vorrei che Lei me la togliesse, Professore, perché ha detto durante la
relazione che il fatto che le parole abbiano, un significato certe volte vago, certe volte
sfuggente, certe volte anche equivoco, non è piaciuto in alcuni secoli, in cui qualcuno ha
detto: “Non sarebbe meglio costruire un significato definitivo, un significato
determinato, per uscire dalla babele?” Ma quali sono questi secoli e quali sono stati i
tentativi fatti in questo senso? Grazie. Dopodiché adesso ha una miriade di domande alle
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quali rispondere, forse sono anche tante, Lei sarà bravo a fare una sintesi. Intanto io Le
tengo il microfono e voi cercate di stare proprio zitti, senza nemmeno respirare, perché
altrimenti non sentirete nulla e questo vi porterà alla distrazione. È un dato. Okay?
Facciamo la prova.
Prof. De Mauro: Sono nate prima le enciclopedie o prima i dizionari? Beh, per quello
che sappiamo, sono nati anzitutto i dizionari. Dizionari bilingui. Nel 3000-2500 a.C. in
un’area molto civile del mondo, com’era all’epoca il Medio Oriente, coesistevano molte
lingue e culture diverse, e c’era l’esigenza di scambi commerciali o anche di scambi di
trattati, e quindi furono costruite queste liste di corrispondenza tra parole sumeriche,
babilonesi, cioè semitiche, egiziane, hittite, cioè indoeuropee. Queste liste avevano un
nome, si chiamavano in accadico, cioè in semitico, mit-hurtu, che voleva dire
corrispondenza, ed erano liste di corrispondenza di vocaboli di queste lingue, messi uno
accanto all’altro. Questi scribi ritenevano molto difficile il loro lavoro, loro traducevano
continuamente da una lingua all’altra, avevano bisogno di questo sostegno, quindi. Poi
invocavano all’inizio del loro lavoro un dio, che si chiamava Nabu – che dovrebbe essere
il dio dei linguisti, se i linguisti lo sapessero – e che era il sorvegliante delle
corrispondenze. Le enciclopedie nascono molto più tardi, per quel che ne sappiamo, nel
mondo greco avanzato. In qualche modo si può considerare l’opera di Aristotele, per
quel che ci rimane, una prima colossale enciclopedia che abbraccia tutti i campi del
sapere che il Liceo – e anche l’Accademia platonica, ma soprattutto il Liceo – aveva
sviluppato. E poi si fanno enciclopedie sistematiche, etc.
Grammatica o lingua. Grammatica vuole dire due cose: vuole dire struttura
grammaticale implicita, intrinseca, di una lingua, e vuole dire descrizione esplicita della
lingua. Allora, a seconda del senso, la domanda “viene prima l’uovo o la gallina?” ha
risposte diverse. La grammatica come struttura implicita è una necessità dell’uso
linguistico, dell’uso di una qualunque lingua. Anche quella frase che chiamiamo
“sgrammaticata”, ha in realtà una sua grammaticalità intrinseca, e quindi la grammatica
nasce, in questo senso, in un parto solo con la lingua. La grammatica come studio
riflesso della lingua, complesso di norme, specie di norme regolative, beh, questo viene
molto dopo. La grammatica come descrizione esplicita nasce soltanto in alcuni ambiti,
nelle scuole di tradizione greca e latina nel mondo antico, nelle scuole medievali e poi si
continua anche nelle scuole moderne. È qualcosa che viene dopo la lingua e delle volte
ha perfino poco a che fare con la realtà dell’uso delle lingue.
Alessia. È possibile un rapporto non conflittuale tra le due culture? Sì, tutto
sommato credo di sì, se era questa la domanda. Io credo che siano molto utili gli scambi
reciproci. Quel signore, Richard von Mises, che citavo prima, autore di questo piccolo
Manuale di scienze positive, ha mostrato in modo molto convincente che le grandi
innovazioni del sapere, nei settori umanistici come nei settori delle scienze naturali ed
esatte, nascono spesso all’intersezione, lui diceva al confine, tra campi di sapere
diversi, che si fecondano, per così dire, nella loro diversità. Quindi credo che il rapporto
non conflittuale sia possibile. Del resto, ho accennato prima a qualche elemento di
dissenso con un fisico illustre come Carlo Bernardini, però insomma, abbiamo scritto
insieme un libro e ne abbiamo fatte di cotte e di crude insieme, attraverso i decenni. Lo
sentirete tra poco.
Rispetto alle settemila lingue, che funzione può avere una lingua universale, un
esperanto? Siamo pronti a questo? Due diverse persone all’inizio del Novecento, due
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grandi studiosi, un logico, Rudolf Carnap, e un grande linguista, che si chiamava
Ferdinand de Saussure, senza conoscersi tra di loro, formularono la stessa profezia.
L’esperanto attrae come lingua immobile a cui possiamo tutti riferirci ma, tutti e due
hanno detto, se mai l’esperanto dovesse avere successo e essere adoperato nella vita
quotidiana reale, conoscerebbe una differenziazione come qualsiasi altra lingua, e
quindi oscillazioni, etc. Oggi siamo in grado di dire che avevano proprio ragione, perché
alcuni esperantisti più acharnés, più fanatici, si dice a Roma, hanno educato i loro
bambini in esperanto. Cioè ci sono piccoli nuclei in cui l’esperanto è anche una lingua
familiare, nativa, si è nativizzata, come si dice, e secondo qualche bravo esperantista,
come il Prof. Pennacchietti, che insegna Filologia semitica ma anche esperanto a Torino,
si vedono i principi della differenziazione degli esperanti locali, come effetto di questa
nativizzazione, qua e là nel pianeta, dell’esperanto. Quindi può essere utile, proprio se
lo si protegge per così dire, dall’uso vivo, parlato, quotidiano, può essere utile
l’esperanto, per esempio, se si vogliono trovare dei testi neutri linguisticamente per la
normativa e la legislazione. La proposta è stata fatta nell’Unione Europea, non è andata
avanti, potrebbe forse andare avanti. Ma se i sei miliardi di esseri umani di oggi
abbandonassero di colpo le settemila lingue e si mettessero a parlare esperanto,
l’esperanto si differenzierebbe come è successo al latino quando si è sparso in tutta
Europa, come sta succedendo all’inglese. Noi continuiamo a dire l’inglese, ma un conto
è l’inglese britannico, un conto è l’inglese d’America, un conto è di nuovo l’inglese
indiano, che è qualcosa di notevolmente diverso, dalla pronuncia alla grammatica al
lessico, etc. Quindi abbiamo gli inglesi.
1984, una lingua alternativa? Sì, bisogna dire che Orwell aveva molto riflettuto su
alcune delle questioni che Maya, Flaminia, Silvia e voialtri avete posto stamattina.
Aveva scritto nel 1946 un bel saggio, che si chiama, se vi capita leggetevelo, La politica
e la lingua inglese. Sosteneva, Orwell, in questo saggio, che molto uso linguistico
dell’inglese, nella vita politica, era viziato dall’eccesso di formule, di parole di poca
chiarezza e poca comprensibilità, e che bisognava, ai fini della vita democratica,
adoperare un linguaggio più pulito, più sobrio, più preciso per il possibile. Queste
riflessioni si traducono poi, in 1984, nella direzione in cui un altro scrittore inglese, in
questo caso Aldous Huxley, era andato nello scrivere un bellissimo romanzo, alla fine
degli anni Venti, che si chiamava Il mondo nuovo. “O mirabile mondo nuovo…”, vi
ricordate? Nella Tempesta di Shakespeare ci sono questi versi, e Huxley immagina, prima
di Orwell, questo mondo in cui c’è un unico governo mondiale, dittatoriale
sostanzialmente, che impone una sua unica lingua a tutto il mondo, con i suoi significati
fissi a cui bisogna adeguarsi. Quindi è una lingua alternativa, ma in negativo, lo dico a
Luca 2. Non è il frutto di un convergere verso un’unica lingua, ma di un’imposizione di
una lingua tagliata in modo tale da lasciare fuori tutti i significati emotivi più spontanei
e più diversificati tra le aree culturali.
Valentina, “tu sai i concetti, ma non riesci a esprimerli”. È una frase tipica,
diciamo, delle tradizioni scolastiche, non solo italiana, bisogna dire, ma un po’ tutte le
scuole sono costruite in modo – io faccio di mestiere l’insegnante, non è che me ne
chiami fuori – da privilegiare malamente, dopo aver parlato dell’importanza delle
parole, quelle che si chiamano pratiche verbalistiche. E cioè, per capire, anche nei test
che ora cominciamo finalmente ad adoperare anche noi, ma anche nei test, come nelle
interrogazioni, nei temi più tradizionali, a che cosa l’insegnante trova facile guardare?
Perché questo poi è il punto. Alla capacità di “parlare di” una cosa come prova della
conoscenza e dell’abilità in quel campo. Fino alle cose ridicole, fino all’educazione
artistica fatta su libri senza mai guardare un quadro, una chiesa. Anche se magari
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facendo cento metri fuori di scuola si trovano. O all’educazione tecnica o alle scienze
naturali – io mi auguro che voi abbiate straordinari laboratori scientifici, benissimo, mi
fa molto piacere, ai miei tempi non c’erano, io non ne ho trovati. La capacità in materia
di scienze naturali consisteva nel ripetere tassonomie, classificazioni intollerabili,
inutili, che ottundevano il cervello, senza servire a niente. Cioè, saper “parlare di”
come prova di abilità. Cerchiamo, ogni tanto di correggere questa abitudine.
Naturalmente il verbalismo mette in difficoltà, può mettere in difficoltà chi le cose le sa
davvero, perché le sa fare, ma non sa “parlare di” o ha difficoltà a “parlare di”. Va
bene, spesso è anche una scusa, però è così. Bisogna quindi spostare un po’ alla volta, è
faticoso, l’attenzione di noi che insegniamo verso l’apprendimento fattivo, operativo
delle cose, diretto, cacciare via i manuali di letteratura, per esempio, e leggere i testi,
greci, latini, italiani, inglesi, riducendo i manuali al Bignami, al massimo, per avere un
repertorio di date e di nomi.
Prof.ssa Fierro: Pure a me piacerebbe leggere la Metafisica di Aristotele e tradurla.
Prof. De Mauro: Beh, c’è chi sostiene, da Francesco De Sanctis a Guido Calogero che
vale più, per imparare tutto il resto, partire da un testo circoscritto.
Prof.ssa Fierro: Non lo possiamo fare con i programmi, poi li interrogano su tutto il
resto agli esami.
Prof. De Mauro: È quello che dobbiamo fare. Va bene, insomma, la discussione
sarebbe lunga.
Prof.ssa Fierro: Sareste felici se, per esempio, in filosofia fosse letta solo la
Metafisica di Aristotele per tutto il primo liceo? A me piacerebbe da morire, però poi,
quando andate agli esami, tutto il resto del programma…
Prof. De Mauro: È una grande questione, ne parliamo un’altra volta. La domanda di
Sofia. Io sono d’accordo con quei filosofi che pensano che la filosofia sia al di qua, per
così dire, delle partizioni del sapere accademico, diciamo al di qua o al di sopra,
comunque, che la riflessione filosofica attraversi tutti i campi del sapere sia delle
scienze naturali ed esatte sia del sapere umanistico. Credo che abbiano ragione. Poi, la
collocazione universitaria degli insegnamenti di filosofia in Italia è stata prevaentemente
una collocazione nei settori e nelle facoltà umanistiche, ma questo è un fatto di puro
comodo. Sentirete parlare, o forse già avete sentito parlare, in modo deprecativo della
tradizione filosofica dell’idealismo italiano. Voglio ricordare che un tipico
rappresentante significativo di questa, che si chiama Giovanni Gentile, è anche la
persona che ha organizzato un’impresa grandiosa, che è quella dell’Enciclopedia
Italiana, di fusione e di convergenza di tutti i campi del sapere umanistico e scientifico
in una compagine unitaria.
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Allora, Prof. Carini. No, c’è prima Maya bis. Sono d’accordo, certo, è una ricchezza
poter disporre di una pluralità di registri e quindi di elementi, di parole per dire
approssimativamente la stessa cosa, ma con sfumature che possono essere
profondamente diverse e opportunamente diverse. Credo che, per quanto riguarda le
scritte bilingui in aree leghiste – perché di questo poi si tratta – o a prevalenza leghiste,
come nel Varesotto o in alcune aree venete, ci sia un po’, appunto, questa ingenua
convinzione, che, se invece di scrivere solo Pordenone, io scrivo Pordenòn, con la
pronuncia locale, questo abbia una grande valenza politica. Il che è un po’ una
caricatura di un fatto reale, che è quello del ritrovarsi nella capacità di convergere
intorno a una lingua, come fattore importante di coesione nazionale e anche di
indipendenza. Ma in questo caso non si va molto in là, mi pare, perché poi parlano
italiano, male, più o meno, e non sono neanche in grado di parlare i loro dialetti. Non mi
chieda valutazioni politiche, le mie non sono positive.
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Il linguaggio della realtà
Carlo Bernardini
Conferenza del 17 febbraio 2009
Preside: Si svolgerà oggi il secondo incontro del nostro ciclo di conferenze.
Due anni fa abbiamo trattato il tema “Religioni e Convivenza civile”, l’anno scorso
“Quale Europa?” e quest’anno “Umanesimo e Scienza”.
Per il primo incontro di quest’anno abbiamo avuto gradito ospite il professor Tullio De
Mauro, che ha tenuto un’interessantissima conferenza .
Oggi abbiamo uno scienziato, il professor Carlo Bernardini. Il professore insegna “Metodi
matematici della fisica” all’Università La Sapienza ed è autore di diverse pubblicazioni.
Lascio alla professoressa Fierro il compito di presentarlo adeguatamente. Sono fiero e
orgoglioso di avere il professor Bernardini qui con noi e vi posso assicurare che sarà per
tutti un’esperienza molto interessante e formativa.
Mi raccomando di seguire con attenzione, perché è difficile concentrarsi quando si è così
in tanti.
Vi ringrazio.
Prof.ssa Fierro: Innanzitutto mi compiaccio di vedervi tutti seduti e vi do il benvenuto
giacché questo ciclo di conferenze è rivolto soprattutto a voi. Siete i soggetti più
importanti e dovete essere messi nelle condizioni di poterne godere. Naturalmente
aspetto le vostre relazioni, sia quelle sulla conferenza del professor De Mauro, sia quelle
che spero voi possiate stendere dopo avere ascoltato la lezione di oggi.
Perché di questo si tratta: di lezioni-dibattito.
Io ho il compito di fare una breve presentazione e farvi conoscere la persona che oggi ci
onora della sua presenza, come già vi ha detto il Preside.
In questo ideale confronto tra Umanesimo e Scienza, sono sicuramente coinvolti molti
intellettuali. Noi, seguendo il percorso delineato nel libro “Contare e Raccontare”, ma
anche in “Prima lezione di fisica”, testi che, come sapete, sono stati comprati e messi a
vostra disposizione, incontriamo oggi il professor Carlo Bernardini, a cui rinnoviamo
ancora una volta il ringraziamento per avere aderito al nostro invito.
Egli, da fisico, tratterà le tematiche già affrontate da Tullio De Mauro secondo le ragioni
del linguista.
Non si tratta, ragazzi, di un dialogo a distanza, né di uno scontro tra maestri di diverse
discipline, è piuttosto il resoconto di un cammino che di continuo si arricchisce e che
pure oggi noi, nel nostro piccolo, continuiamo ad alimentare.
Il professore Bernardini è ordinario di “Modelli e metodi matematici della fisica” presso
l’Università “La Sapienza” di Roma.
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Nella sua vita accademica ha ricoperto incarichi di grande prestigio, compreso quello di
Preside della Facoltà. Ha lavorato presso il laboratorio dell’Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare di Frascati, nel famoso gruppo del sincrotrone, cui si deve la realizzazione
dell’anello di accumulazione ed in seguito l’acceleratore di particelle ADONE.
Oltre alle opere specialistiche, che evidentemente non è qui il caso di enumerare, il
professore ha, per così dire, integrato la sua attività di studioso con quella di opinionista
e anche di uomo politico. E’ stato infatti senatore della Repubblica, e continua a
partecipare con passione al dibattito culturale sui temi più scottanti in ambito sociale e
scientifico.
In questo contesto, ha appoggiato la battaglia per il disarmo atomico.
Si spende, oserei dire, come un giovane ribelle per la laicità della cultura, incorrendo
spesso in vivaci polemiche ed accesi confronti.
E’ stato convinto sostenitore della produzione di energia nucleare fino alla sconfitta poi
delle sue tesi, con il referendum del 1988, che portò, come alcuni di voi già sanno,
all’abbandono dell’energia nucleare da parte del nostro paese.
Il professore dirige Sapere, un’importante rivista scientifica e di divulgazione.
Sicuramente, considerato quello che vi sto dicendo, la vastità delle sue conoscenze
incute soggezione, ma egli saprà andare al di là delle nostre paure, saprà adattare alle
vostre giovani menti e anche alle nostre ignoranze, alla mia in modo particolare, un
discorso su quelle forme razionali di pensiero che consentono, come egli afferma in
molti testi, di risolvere problemi sempre più generali della conoscenza del mondo, il
grande sogno dei fisici, quello appunto di trovare finalmente i principi generali di
spiegazione della realtà.
Poesia delle formule, inadeguatezza dei linguaggi, formalizzazione, complessità: questi,
credo, saranno i temi della lezione di oggi, cui il professore ha dato il titolo: “Il
linguaggio della realtà”.
Ci apprestiamo ad ascoltare con attenzione, siamo sicuri che cresceremo un po’ di più.
La ringrazio, professore, e le do la parola.
Professor Bernardini: Grazie al Preside, grazie alla professoressa Fierro, che è una
“militante tosta” e fa benissimo ad essere così, perché nel mondo di oggi i buchi
culturali sono diventate voragini. Vi dico molto apertamente che mi farebbe piacere
convincere alcuni di voi a cacciare il naso nelle attività scientifiche, di ricerca in
particolare, e che la mia battaglia in questo momento è quella di far capire, a chi ha
responsabilità di governo, che la ricerca scientifica non è una spesa ma un investimento,
dunque è una cosa completamente diversa. Essa inoltre deve essere pubblica, perché è
un’ attività di interesse pubblico, non soltanto di piccoli gruppi privati.
Mi rendo conto però che esiste un problema di integrazione del pensiero scientifico nel
pensiero comune, che è resa particolarmente difficile dal linguaggio, in quanto il
linguaggio scientifico non è mai stato efficacemente integrato nel linguaggio comune.
Il problema “teorico” più importante è presto detto: che ci fosse un principio di
causalità, lo pensavano anche gli antichi filosofi, Aristotele compreso. Se un “agente” fa
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qualcosa ad un corpo pesante, ne consegue un “effetto”. L’agente sarà una “forza”, ma
l’effetto visibile è, per gli “ingenui”, la velocità del corpo: forza = causa, velocità =
effetto. Questa è la base persistente (ahimé, ancora oggi) della cosiddetta “fisica
ingenua”. La nozione di accelerazione, nella fisica ingenua, non c’è: i livelli della
percezione sono troppo primitivi perché un umano distratto si accorga della variazione
della velocità piuttosto che della velocità. Per maneggiare nozioni come la “dipendenza
della velocità dal tempo” – e non solo la posizione del corpo, ben visibile – occorre
un’idea almeno intuitiva di funzione di una variabile e della sua possibile variazione (e
non parliamo di una notazione simbolica adeguata).
Ma la notazione f(x) per indicare una “funzione della variabile x” fu introdotta da
Leonard Euler solo negli anni 1734-35, sui Commentarii Accademiae scientiarum
imperialis Petropoli; e, per giunta, la nozione attuale di funzione di una o più variabili
risale al 1837 ed è di J. Lejeune-Dirichlet (Repert. Phys. Berlin, 1, pg 152). E’ difficile
immaginare come facessero i matematici e i fisici del ‘600 ad avere rappresentazioni
mentali formalizzate in un linguaggio operativo efficiente; del resto, dell’importanza
delle notazioni anche al livello più elementare dell’analisi testimonia la diatriba
Newton-Leibniz: è innegabile che le notazioni di Leibniz, simili a quelle ancora in uso,
fossero assai più accettabili delle “flussioni” di Newton. Ma Galilei fa, a modo suo,
dell’eccellente fisica teorica, almeno cento anni prima di queste acquisizioni:
evidentemente, con altri mezzi. Ma allora, su che cosa si basano le rappresentazioni
mentali di Galilei? Egli stesso dice, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche attorno a
due nuove scienze attinenti alla meccanica e i movimenti locali: “ [ il libro della natura]
è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure
geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza
questi è un aggirarsi vanamente in un oscuro laberinto”. Dunque, Galilei conosce quella
parte della matematica che oggi chiamiamo “Geometria Euclidea”, indubbiamente già
molto sviluppata. Ma conosce anche la parola accelerazione e perfino la composizione
vettoriale di moti ortogonali, come dice nella quarta giornata dei Discorsi: “…il mobile,
che immagino dotato di gravità, giunto all’estremo del piano [inclinato] aggiungerà al
primo moto uniforme ed indelebile, l’inclinazione verso il basso acquistata dalla
propria gravità e ne sorgerà un moto composto di un moto orizzontale uniforme e di un
moto verticale naturalmente accelerato”.
Questo modo di vedere le cose, i fatti naturali, già nella propria mente, scomposti e
ricomposti secondo regole che danno un significato alla rappresentazione è già un
elemento di teoria nel senso più moderno del termine.
Ma Galilei mostra tutta la sua straordinaria grandezza in un’altra capacità che
condivide solo con i massimi fisici contemporanei: Einstein, primo fra tutti, Bohr,
Schroedinger e pochissimi altri. E’ capace di argomentare con “esperimenti pensati”,
Gedankenexperimenten nella letteratura che usiamo che usiamo oggi. Il suo celebre
passo che annulla il significato “assoluto” della parola “velocità” e ne fa un concetto
relativo da cui nasceranno gli sviluppi più stupefacenti della fisica del ‘900, è un
esempio che tutti conoscono ma non è mai abbastanza ripetuto. Si trova nel Dialogo
sopra i due Massimi Sistemi del Mondo ed è sobriamente intitolato: In mare, sotto
coverta. Ecco cosa dice Salviati, nelle sue parti essenziali:
“Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran
naviglio e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un
gran vaso d’acqua e dentrovi de’ pascetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello,
che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che
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sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli
animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si
vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno
tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più
gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le
lontananze siano eguali […]. Osservate che avrete tutte queste cose, benché niun
dubbio vi sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muovere
la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante
in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti,
né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o sta ferma […]. E di
tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione ‘essere il moto della nave comune a
tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora, che perciò dissi io che si stesse sotto
coverta […].
Interviene a questo punto Sagredo, con una perspicua osservazione che fa ben capire la
genialità dell’argomento che trasforma osservazioni comunissime in una conclusione
sbalorditiva:
Queste osservazioni, ancorché navigando non mi sia caduto in mente di farle a posta,
tuttavia son più che sicuro che succederanno nella maniera raccontata: in
confermazione di che mi ricordo essermi cento volte trovato, essendo nella mia camera,
a domandar se la nave camminava o stava ferma e talvolta, essendo sopra fantasia, ho
creduto che ella andasse per un verso, mentre il moto era al contrario[…].
Uno dei motivi per i quali penso che Galilei debba ancor oggi essere studiato nelle scuole
con estrema attenzione e soprattutto nei corsi di filosofia e letteratura è che non è
difficile constatare che molta gente fa ancora fatica a capire questa nozione di relatività
e il suo stretto legame con il principio di inerzia, con la nozione di forza, con
l’importanza dell’accelerazione. La “fisica ingenua” non è mai salita sul naviglio di
Galilei. Ma, sia per la chiarezza del discorso (all’epoca, una vera e propria rivalsa del
“volgare” sull’oscurità del latino) sia per la forza del ragionamento induttivo che
prelude a tutte le fenomenologie moderne (dopo gli innumerevoli sterili tentativi di
assiomatizzazione delle meccaniche razionali e delle fisiche matematiche, particolare
vanto dell’accademia italiana dell’800, dominata da ossessioni deduttive), io credo che
Galilei sia ancora oggi ricco di insegnamenti illuminanti.
E però, proprio prendendo lo spunto dai rapporti tra matematica e fisica, spesso
deformati dalle estremizzazioni delle pregiudiziali ideologiche di cui queste scienze non
si liberano facilmente (e mi basterà citare fenomeni come il bourbakismo per la
matematica e come il realismo classico positivista per la fisica) vorrei tentare di
spiegare che proprio Galilei ci ha mostrato che la fisica teorica è un modo di pensare la
realtà non guidato da tecnicismi formali quanto da immaginazione e intuizione che
riescono a superare in modo del tutto nuovo lo stadio delle congetture derivanti da “ciò
che appare a prima vista”. Ciò che appare a prima vista è oberato da ridondanze e da
informazioni estranee derivanti da altri elementi culturali ( è un aggirarsi vanamente in
un oscuro laberinto; così aveva detto nei Discorsi). Galilei parla con gente che vede il
Sole che gira nel cielo e deve discutere con religiosi che leggono sacre scritture in cui a
quel Sole è ingiunto di fermarsi. Come potrebbe il popolino del suo tempo accettare un
sistema copernicano in cui, per giunta, l’uomo non è più il centro di rotazione
dell’universo? E che dire della constatazione che corpi pesanti e corpi leggeri cadono,
nel vuoto, in tempi uguali partendo fermi dalla stessa altezza? Ancora oggi, molta gente
pensa che la caduta sia più celere per oggetti pesanti che per oggetti leggeri; e
comunque non saprebbe arrivare con mezzi propri alla conclusione che questo è vero
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“nel vuoto”, in assenza di quell’aria in cui siamo nati e che rallenta le piume rispetto ai
sassi.
Insomma, tutto ciò che accade in natura è come una “macchina” semplice che
nasconde l’essenziale sotto incrostazioni di elementi irrilevanti al fine di comprenderne
il funzionamento; e l’operazione di liberarsi da ciò che è di troppo e, addirittura,
intralcia la comprensione dell’essenziale è uno dei più importanti atti della
rappresentazione teorica in fisica. In qualche modo, ciò che a sua volta si scopre è
perfino una “inessenzialità imprevista”, da cui scaturiranno leggi di significato superiore
alla banalità delle evidenze immediate: pensate, Galilei scopre che il peso di un grave
non ha rilevanza nell’accelerazione della sua caduta nel vuoto. Egli non lo sa, ma questa
sua scoperta frutterà molti decenni dopo, rivisitata come “Principio di equivalenza”, la
relatività generale di Albert Einstein. Ma anche l’isocronismo delle piccole oscillazioni
dei pendoli, cioè l’indipendenza del periodo dall’ampiezza delle oscillazioni stesse, che
fa del pendolo il primo oscillatore armonico e quindi il primo orologio, è una grande
scoperta teorica.
Forse non tutte le intuizioni di Galilei sono corrette: la sua immaginazione corre
molto, soprattutto nel superare i filtri retorici attraverso i quali fanno passare le
osservazioni persone anche colte, pensatori accreditati. La cultura umana è soverchiata
da una abilità, considerata con molte buone ragioni la più importante: la parola, il
linguaggio proposizionale. Ciò che si può dire a parole acquista un carico di “verità” che
persino i fatti sembrano non avere. E’ Galilei a interrompere questa gerarchia di valori
avanzando l’idea che la comprensione dei fatti richieda un linguaggio che su quei fatti è
costruito-concepito, ma piuttosto su ciò che di più semplice c’è e sia pur misurabile: i
triangoli, i circoli, e tutto l’apparato euclideo. Sicché si può ben dire che la grandezza
del Nostro includa anche la previsione di un linguaggio da sviluppare per poter fare la
fisica teorica. E come, e con che tempi rapidi, di lì a poco si svilupperà! Sopravvivendo
alle controversie, alle esagerazioni rigoriste, alle pretese di assiomatizzazione: sarà il
linguaggio della maltrattata filosofia induttiva, sarà il linguaggio che permetterà alla
filosofia naturale di diventare fisica teorica, al di là sia delle colonne d’Ercole della
retorica che dei gorghi involutivi delle matematiche astratte. Oggi ancora, questa
straordinaria premonizione di Galilei appare ostica persino alle persone istruite: che ci
possa essere un “linguaggio dei fatti” che produce rappresentazioni mentali ripulite
dalle incrostazioni di ogni tipo (ridondanze e pregiudizi) e su cui è possibile lavorare per
scoprire che cosa regola l’evoluzione del mondo. Il problema, a mio parere, è forse
rintracciabile nella triplice storia evolutiva di questo linguaggio, che ha dovuto occuparsi
del “dimostrare” (come “fabbrica di teoremi”, matematica pura) asserzioni astratte
relative al significato di strutture simboliche; del “calcolare” (come “procedura
affidabile”) risultati a partire da una proposizione formalizzata; del “formalizzare”
(come linguaggio sintetico ed efficiente oltre che calcolabile), cioè produrre modelli
equivalenti, simulacri simbolici attendibili dei sistemi fisici. Quest’ultima specialità è la
più tipicamente ribattezzabile “fisica teorica” e avrà la sua apoteosi molto dopo Galilei,
con Hamilton e Lagrange, le loro funzioni speciali e l’adozione di principi variazionali;
Galilei non poteva averne idea, ma ne sarebbe stato entusiasta. Ma non è facile spiegare
che un fisico teorico di oggi – giusto per fare un esempio – alla parola “cristallo”,
reagisce “pensando” non certo ad uno scintillante zaffiro o un trasparente bicchiere per
champagne, bensì a una rete estesa tridimensionale di oscillatori incolori, inodori,
insapori ma accoppiati tra loro, attraversati dai loro “modi normali”, i fononi- con
elegante neologismo coltamene grecizzante – che esprimono l’equivalenza di quel
cristallo a un “gas di eccitazioni che si propagano”, eccetera eccetera… Questo
linguaggio della fisica teorica ha un che di prodigioso: è un vero dispiacere che sia solo
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un dialetto internazionale di una comunità così piccola di epigoni galileiani, ancora
sopraffatti da lingue morte.
A mio parere, il pensiero galileiano non è stato ancora studiato con sufficiente
profondità per estrarne la radice tutta particolare che lo distingue dalle costruzioni
mentali non scientifiche. Purtroppo, chiunque viva e assorba il modo di pensare della
fisica teorica contemporanea, specie nella sua versione detta “fenomenologia”, non
sembra più rendersi conto della eccezionalità e della differenza dagli altri modi, della
filosofia, della politica, delle arti: trova quel modo naturale e spontaneo, non bisognoso
di valutazioni epistemologiche su base linguistica. Si insiste, a buon diritto, sull’unità
della cultura, ma confondendola con una pretesa e velleitaria identità delle culture:
ciascuna delle quali non è “buona per tutti gli usi”. In nome di Galilei, sarà bene
riconoscere a ciascuna specialità culturale la sua specificità. Forse, ci risparmieremmo
inutili diatribe e prevaricazioni, incomprensioni o contrapposizioni dottrinali.
Professoressa Fierro: Dopo la prima parte, sicuramente anche un po’ difficile, avremo
tutti bisogno di chiarimenti e sicuramente moltissime curiosità. Nel ringraziare il
professore per queste grandi sollecitazioni a riflettere, vi invito a partecipare alla
seconda parte, che è poi quella più vivace perché voi siete i protagonisti, con le vostre
domande e i vostri interrogativi. Tutti possono fare domande, non solo gli studenti ma
anche gli adulti in sala. I ragazzi di solito all’inizio sono un po’ presi, e non hanno
immediate reazioni. Poi, professore, come succede di solito, non la faranno andar via.
Allora, io sono qui, pronta. Facciamo, come sempre, tre o quattro domande alle quali il
professore risponderà, e poi il seguito. Chi rompe il ghiaccio?
Giulio: Salve, sono Giulio Lobello del terzo C. Vorrei rivolgerle una domanda che
riguarda la sua sfera personale. Perché ha fatto questa scelta professionale? Ha mai
avuto dubbi a riguardo? Grazie.
Professoressa Fierro: Ragazzi, su. Anch’io ho una curiosità, che deriva dalla lettura di
alcuni suoi scritti, professore, e anche dall’ascolto dell’ultima parte della sua relazione,
ossia il discorso sulla storia della fisica. Chi deve scrivere la storia della fisica? Lei ha
scritto tante volte che molto spesso coloro che divulgano non sono in grado di farlo:
nella maggior parte dei casi addirittura travisano. Allora, i fisici devono diventare bravi
anche nello scrivere la storia di quello che fanno e di come lo fanno? Questo riguarda il
discorso sul rigore. E poi, sul processo di formalizzazione, lei ha scritto che quello che
non riusciamo a cogliere e che va al di là dei limiti dei nostri sensi è reale tanto quanto
quello che riusciamo a vedere con l’occhio fisico. Allora, come si fa a proporre, a
entrare nel vivo di un linguaggio formalizzato con maggiore agilità? Io penso che questo
sia il problema non solo di noi che insegniamo la filosofia, ma anche, e a maggior
ragione, di coloro che insegnano la fisica.
Eleonora: Io sono Eleonora e lei è Marianna. Vorremmo porle tre domande.
La prima è questa: cosa può offrire questo paese a coloro che scelgono di studiare
materie scientifiche?
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Marianna: Rivolgo io la seconda domanda: l’universalità del linguaggio matematico
rende i popoli tutti uguali, ma il linguaggio umanistico, che si differenzia da luogo a
luogo e da popolo a popolo, che caratterizza quindi ogni cultura in modo diverso, pensa
che possa costituire una barriera fra i vari popoli o anche fra gli scienziati stessi?
Eleonora: Ecco la terza domanda: la ricerca scientifica ha bisogno di un’etica che la
regoli o l’etica e la scienza sono due ambiti completamente differenti?
Sofia: Vorrei fare una domanda semplice ma difficile allo stesso tempo. E’ possibile
rendere le formule matematiche piacevoli attraverso il dialogo?
Daniele: Salve, sono Daniele Costanzo. Non c’è il rischio che la rigidità e il rigore del
linguaggio matematico e della fisica, di cui lei parlava, allontanino le giovani menti dallo
studio di queste materie, cosa che probabilmente avviene in Italia? Grazie.
Professor Bernardini: Bene. Partirò dalla prima domanda, ossia da come ho cominciato.
Io vengo da Lecce, una delle più belle città del sud, che è una città di giuristi. Se una
persona va in piazza Sant’Oronzo e grida: “Avvocato!” si voltano tutti. Quando dissi a
mio padre che avevo intenzione di studiare matematica, all’inizio quasi svenne, perché
faceva il notaio e avrebbe voluto lasciarmi lo studio. Io, però, avevo già cominciato a
studiare matematica per conto mio.
Questo è un punto importante: essere curiosi e studiare da autodidatta.
Mio padre fu molto generoso, perché mi portò in casa un libro, che oggi non si trova più
se non in qualche vecchia biblioteca, che si intitolava “La fisica di Carlson”, un fisico
tedesco che aveva svolto dei bei lavori con Oppenheimer. Quello fu il primo testo di
divulgazione che mi fosse capitato per le mani. Era stupendo!
Letto il libro e confrontatolo con quanto avevo imparato dal manuale scolastico, mi dissi
: “Questa è la vera fisica, non quella che sto studiando a scuola!” E mi buttai. Da allora
presi a studiare come un pazzo, tanto che una mia zia, sorella di mia madre, cercando
di distogliermi, mi diceva: “Non ti stancare, vai a ballare!”
Non mi sono fatto convincere e così ho incominciato, con una sfrenata curiosità per
questo mondo di cui nel mio paese non c’era traccia.
Passando alla seconda domanda, la professoressa Fierro ha insistito sull’importanza del
problema della formalizzazione.
La formalizzazione della fenomenologia naturale è una questione alquanto difficile dato
che la matematica della formalizzazione è più semplice di quella che studiano i
matematici. E’ una matematica, per così dire, di servizio.
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La matematica in generale è una grande governante delle scienze, però quella che rende
il vero grosso servizio a una scienza naturale come la fisica è la matematica della
formalizzazione.
Io sono stato il primo fisico a Roma a tenere un corso di metodi matematici della fisica.
Prima questi corsi erano tenuti dai matematici che facevano fisica matematica, cosa
completamente diversa dalla fisica teorica, la cui applicazione pratica era quasi
completamente sconosciuta.
Vi suggerirei pertanto di non giudicare, e ciò forse vale pure per l’ultima domanda che
mi è stata posta riguardo al fatto che il rigore può essere repellente: è vero, il rigore dei
matematici molto spesso dà fastidio anche a me, lo dico onestamente, perché, per così
dire, si preoccupano della macchiolina sull’abito scuro; invece di preoccuparsi
dell’abito, si preoccupano di un dettaglio.
Nei metodi matematici della fisica, ci si interroga invece sulle ragioni d’uso di quella
matematica.
Pensate che molta di questa matematica è nata da persone straordinarie, di cui vale la
pena di studiare la storia.
Per esempio, la persona che amo di più è George Green, un mugnaio inglese;
quest’uomo di giorno faceva la farina e di notte si alzava e studiava. Ha inventato quello
che ancora oggi chiamiamo “la funzione di Green”, che è una delle chiavi di volta della
rappresentazione di tutti i problemi in cui compaiono onde. Era un mugnaio, eppure ha
inventato una cosa straordinaria, in cui non contano i teoremi, ma i motivi d’uso.
Un’altra domanda riguardava la possibilità di conciliare la matematica con il linguaggio
umanistico: è un problema molto difficile. Io racconto sempre lo stesso aneddoto, che
mi sembra fortemente magistrale.
Una matematica francese molto nota, Stella Baruk, che ha pubblicato anche un
bellissimo dizionario di matematica elementare con Zanichelli in italiano, molti anni fa
pubblicò un libro che si intitolava “L’Age du Capitain”, l’età del Capitano. Si trattava di
una sorta di esperimento sadico che lei aveva fatto nelle scuole elementari per
dimostrare come la matematica, nell’insegnamento impartito ai bambini, fosse
decontestualizzata. Ai bambini veniva presentato il seguente problema: “Una nave
trasporta 32 pecore e18 montoni. Qual è l’età del capitano?” Su un campione di mille e
ottocento bambini francesi nella zona parigina, l’80 % rispose:“50”. I bambini dunque
non leggevano il testo, ma solo i numeri. Interrogati, risposero: “Ci avete insegnato a
fare la somma, ci avete dato due numeri, 32 più 18 fa 50.” Il 20% che non aveva risposto
era terribilmente frustrato, perché non aveva saputo rispondere: in realtà erano i soli
che avevano letto il testo.
Questo esperimento mi entusiasmò, presi il problema della Baruk e lo portai in una
scuola elementare italiana, in una seconda classe, avendo io un amico direttore
didattico che mi diede il permesso di somministrare il problema ai bambini.
Da questo episodio vedrete come viene fuori il genio italiano e quanto sia potente la
parola.
Tutti e cento i bambini risposero “Cinquanta”. Allora ne ho chiamato uno e gli ho chiesto
il motivo della sua risposta. La cosa assurda sta nel fatto che il bambino ha pure
inventato un motivo. Ha detto: “Ho immaginato che quel capitano venisse da una
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famiglia di pastori in cui per ogni compleanno usassero regalargli una pecora o un
montone”.
Vi rendete conto? Una stupidaggine con giustificazione ad hoc! Del resto molto di quello
che si sente in giro, in particolare in questo periodo, è un insieme di giustificazioni a
posteriori di “cavolate” a priori.
Devo aggiungere un piccolo commento che vi interesserà, anche se non è basato su una
statistica molto precisa: io nella mia vita attiva di professore ho “processato” attraverso
gli esami del corso di metodi matematici qualcosa come cinquemila studenti, maschi e
femmine, e ho notato, specialmente durante gli esami orali, che le studentesse sono di
una onestà esemplare, sono capaci di rispondere “non lo so”. E’ fantastico, lo trovo
incantevole. Sono convinto che “non lo so” è una risposta che automaticamente implica
“ma provvederò a riparare a questa mancanza” . A quel punto di solito cambiavo
domanda e non tenevo conto di quel “non lo so”.
Che cosa succede invece con uno studente maschio che non sa una cosa? Finisce che mi
racconta l’età del capitano, inventa una giustificazione del perché non lo sa, magari
dicendo sciocchezze, pur di non ammettere la sua lacuna. Questo è grave, è di una
disonestà profonda che bisogna vincere. Le persone più oneste sono quelle capaci di
ammettere i loro limiti.
L’ultima domanda di questa tornata riguardava il problema dei rapporti tra la scienza e
l’etica.
In parole semplici, il problema per me è questo: se tutti capiamo qual è il significato di
un risultato scientifico importante, ad esempio la clonazione, gli ogm, i pericoli
dell’energia nucleare, e così via, se ne può ragionare alla pari e l’etica di uno scienziato
vale esattamente quanto quella di chiunque altro. Lo scienziato ha ovviamente un
vantaggio, capisce di che cosa si sta parlando. La disgrazia è il numero sconfinato di
persone che non capiscono ciò di cui parlano, cosa che io trovo immorale: la gente
spesso ama mettere becco su cose di cui non sa e non capisce nulla.
La professoressa Fierro ha fatto riferimento al famoso referendum che abolì il nucleare
in Italia. Mi dispiace smentirla, però quel referendum non prevedeva affatto la
cancellazione dell’uso dell’energia nucleare, ma piuttosto la possibilità di concludere
certi accordi con la Francia; riguardava anche il problema dei rimborsi per i paesi in cui
si sarebbero costruite le centrali nucleari e soprattutto prevedeva una moratoria di
cinque anni prima di poter mettere in cantiere nuove centrali.
Questo è successo anche in altri paesi, ad esempio in Svezia, dove hanno costruito dieci
centrali, le hanno fatte funzionare, sono andate come orologi, e hanno messo una
moratoria. Adesso hanno emanato una legge che abolisce la moratoria e ne stanno
costruendo altre due.
I francesi ne hanno cinquantanove e ogni anno l’ “Electricité de France” manda in giro
per tutta la Francia un comunicato in cui dice: “Quest’anno non abbiamo immesso
nell’atmosfera sei milioni di tonnellate di sulfuri, cinquantamila milioni di tonnellate di
anidride carbonica , ecc.”.
In effetti le emissioni da una centrale nucleare, a parte il vapor d’acqua, sono zero.
Naturalmente c’è l’annoso problema delle scorie. Comunque, è ben curioso che gli
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svedesi, gli spagnoli, i finlandesi e gli inglesi l’abbiano risolto e noi no. Come se non
esistessero soluzioni.
Sapete perché in Italia è difficile risolverlo? Perché se uno va in un qualsiasi paesino
italiano, trova subito uno di quegli assurdi cartelli che dicono: “Questo paese è
denuclearizzato e opera per la pace”. La gente poi, nel momento in cui tende a dire che
la centrale è necessaria, aggiunge anche che, però, la devono fare venti chilometri più
in là. Capito? Questo è lo straordinario altruismo dei nostri connazionali.
Professoressa Fierro: Allora, seconda tornata di domande. Effettivamente adesso ho
imparato un po’ di più: avevo citato in maniera imprecisa, ma noi ci manteniamo tutti
socraticamente ignoranti, con la consapevolezza di aver bisogno anche più di una vita
per imparare. Allora, seconda tornata di domande, chi comincia?
Professor Castellan: Parlo come insegnante di matematica e fisica, e già in questa
denominazione viene fuori il problema: come lei ben sa, nell’ordinamento scolastico
italiano la cattedra di matematica e fisica è tenuta da un insegnante che è laureato o in
matematica o in fisica. Questo, a mio parere, continua ad essere una cosa inopportuna.
Vorrei sapere la sua opinione in merito, anche perché il discorso era già venuto fuori
prima.
La forma mentis di un matematico e di un fisico non sono esattamente la stessa cosa. Lei
ha già espresso questo concetto in maniera molto chiara.
Ho l’impressione che, alla fine, facciamo più danni alla fisica noi matematici che i nostri
colleghi di fisica che sono molto bravi invece a insegnare matematica.
I docenti universitari che formano laureati in matematica e laureati in fisica, sono
sicuramente consapevoli di questo problema. Che cosa si può fare? La ringrazio molto.
Tra l’altro, adesso, come conseguenza delle sue affermazioni, immagino che avremo un
tasso altissimo di risposte “Non lo so” nelle nostre interrogazioni, ma noi insegnanti
siamo contenti di questo. La ringrazio ancora.
Professoressa Fierro:
Grazie. Maurizio. Prego, ragazzi.
Luca: Mi chiamo Luca e avrei una serie di curiosità che vorrei che lei mi soddisfacesse.
La prima: in questo momento di grande crisi economica, che sta affliggendo l’intero
globo terrestre, è indispensabile investire ancora di più sulla ricerca oppure si tratta di
una velleità che non ci si può permettere? E, la seconda domanda: perché è così
difficoltoso fare ricerca qua in Italia mentre in altri paesi, se non è più facile, è
comunque incentivata?
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Germana: Salve, sono Germana. Vorrei fare questa domanda: se il ragionamento
induttivo è il presupposto per la filosofia come per la fisica, che ruolo svolge il
ragionamento deduttivo nello studio della particolarità dei fenomeni?
Maria: Salve, sono Maria. Vorrei porle una domanda facendo riferimento al libro
“Contare e raccontare”, nel quale lei afferma che l’inglese è la lingua più adatta alla
divulgazione scientifica. Ma per quale motivo l’italiano è meno adatto proprio alla
divulgazione, nonostante il fatto che questa lingua derivi dal latino, che fin
dall’antichità è stato utilizzato per la divulgazione scientifica?
Jacopo: Buongiorno. Sono Jacopo del II D. Lei ha detto che la fisica moderna ha dato un
taglio netto e quasi brutale a quella del passato. Quali elementi, sia riguardo alle idee
che riguardo al metodo, possiamo conservare oggi della fisica del passato?
Silvia: Salve, sono Silvia del III B. Lei prima ha parlato del nucleare e dell’ ostilità che
spesso si incontra in loco per iniziative che lo riguardano. In questo paese è molto
diffusa la tendenza ad appoggiare delle proposte ma poi, di fatto, quando riguardano la
sfera privata, a voltare le spalle. E’ come la sindrome di Nimby (not in my back yard).
Vorrei sapere come si può combattere questo localismo che da sempre caratterizza la
storia italiana. Grazie.
Laura: Buongiorno, sono Laura. Volevo chiederle per quale motivo sono sempre gli
umanisti a promuovere un collegamento tra il linguaggio verbale e il linguaggio
scientifico mentre gli scienziati si astengono sempre dal trovare un collegamento.
Grazie.
Professor Bernardini: Anzitutto vi dico che sentir fare delle domande è miele per le mie
orecchie, che io poi sia capace di rispondere è un altro paio di maniche.
Rispondo subito al collega, il professor Castellan, che insegna matematica e fisica.
Negli ultimi tempi, la matematica ha avuto qualche problema nel settore didattico.
Riguardo agli sviluppi della didattica della matematica, io mi appoggio molto a quel
gruppo della Bocconi che pubblica la bellissima rivista “Lettera Pristem” in cui, per dire
la verità, raccontano come stanno le cose con molta onestà.
Al contrario, il nucleo classico dei matematici mi procura spesso qualche difficoltà,
soprattutto per via del legame, che trovo insopportabile, con una disciplina che
continuano a mantenere anche nell’insegnamento della fisica, pur essendo
assolutamente obsoleta: la meccanica razionale. Francamente, che ancora si studi la
meccanica razionale senza nessun cenno alla relatività è una cosa assurda.
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Pertanto, credo che il problema dell’insegnamento della matematica in Italia abbia
bisogno di un ammodernamento, bisogna rifiutare certi rigorismi alla Bourbaki che hanno
già rovinato l’insegnamento in Francia.
Mi trovavo proprio in Francia quando un collega, Andrè Lagarrigue, un fisico, mi propose
di entrare a far parte di una commissione ministeriale per l’eliminazione della “nouvelle
matematique”, ossia il bourbakismo di Gerard Dieudonnée: gli scontri con Dieudonnèe
erano mostruosi, tra me e lui non c’era nessuna affinità.
D’altra parte, però, penso che in Italia ci siano buone prospettive; il gruppo di Angelo
Guerreggio e della “Lettera Pristem”, ad esempio, è molto razionale ed elegante. Si è
tenuto, poco tempo fa, il convegno di Belgirate, del quale ho avuto notizie
incoraggianti. Potrebbe scrivere ad Angelo Guerreggio, professore, certamente ne
sarebbe contento.
Passiamo al problema della crisi finanziaria e la ricerca. La crisi finanziaria ha un’
origine molto evidente: il sistema bancario non ha tenuto, ha mostrato difetti di
impianto; addirittura un americano, il signor Madoff, considerato il più grande truffatore
di tutti i tempi, ha fatto una truffa da cinquanta miliardi di dollari utilizzando maneggi
di tipo bancario e mettendo a terra un numero enorme di persone. Ed è stato scoperto
non perché i controlli fossero efficienti, ma perché è stato denunciato dal fratello, che
si è vendicato perché Madoff si è rifiutato di renderlo partecipe della truffa.
E’ questo un problema estremamente preoccupante, che tra l’altro immobilizza una
grande quantità di denaro che potrebbe essere impiegato in vario modo, ma soprattutto
per scelte importanti nel settore dell’innovazione produttiva.
Il problema è che i soldi andrebbero messi in moto nel modo giusto, non solo per far
guadagnare i supermanager, ma anche per finanziare le attività, specialmente quelle
nascenti
E per poter svolgere attività innovative ci vuole la ricerca, quella a fondo perduto, volta
ad inventare delle tecnologie fortemente innovative.
Ci sono i soldi in Italia? In Italia le fondazioni bancarie, che costituiscono il loro capitale
con i fondi versati dai vostri genitori e forse pure da qualcuno di voi, se è un buon
economista, in questo momento tengono chiusi nelle casseforti duecentottanta miliardi
di euro: son lì, fermi. Potrebbero essere investiti nella ricerca, in cui finora non si è
investito quasi nulla; certo, se i soldi vengono investiti con l’idea di produrre delle
innovazioni che diano immediatamente dei profitti, è inutile. Bisogna che la ricerca
frutti con i suoi tempi. Le ricerche importanti hanno avuto tempi tipici di quindici- venti
anni prima di cominciare a rendere.
Una figura che oggi manca in Italia, ma che esisteva in un passato non lontano, è quella
del sistemista: dovrebbe costituire uno sbocco per la facoltà di ingegneria. Che cos’è un
sistemista? E’ una persona che conosce bene la letteratura scientifica, la capisce, la sa
leggere e mette insieme cose diverse per produrre una cosa unica di grande utilità. Un
esempio straordinario di sistemista italiano nel passato è rappresentato da Guglielmo
Marconi.
Marconi era uno studioso autodidatta, sapeva leggere i libri di fisica, di matematica e di
ingegneria. In realtà l’antenna è stata scoperta da un russo che si chiamava Popov, il
quale aveva capito che era possibile rivelare, attraverso i segnali elettromagnetici
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prodotti dai fulmini, l’avvicinarsi di un temporale e aveva venduto a tutti i contadini
russi dei sistemi con un’antenna ricevente che ogni tanto rilasciavano delle scariche che
preannunciavano un temporale in avvicinamento.
Poi, un professore di fisica marchigiano, Temistocle Calzecchi Onesti, ha scoperto il
coherer, la galena, un cristallo che aveva delle particolari proprietà dielettriche. Tanti
anni fa, si producevano le radio a galena, ricevitori ideali in cui i segnali potevano
passare da un’antenna ad un’altra.
Augusto Righi aveva lavorato a Bologna, sulla scia del grande scienziato tedesco Hertz,
per produrre i dipoli che emettevano onde elettromagnetiche. Quindi il trasmettitore di
segnali elettromagnetici esisteva già.
C’era però la seguente obiezione: se i segnali viaggiano in linea retta come la luce,
come si fa a superare la curvatura terrestre?
Marconi aveva letto i lavori di Heaviside, che aveva scoperto che l’ultravioletto solare
ionizzava gli strati alti dell’atmosfera e produceva elettroni liberi i quali si
comportavano come uno specchio di onde elettromagnetiche: le onde
elettromagnetiche, cioè, vengono assorbite dagli elettroni che le riemettono verso il
basso.
Marconi mette insieme tutte queste cose e, pur senza inventare nulla, ha costruito la
radio.
Vi rendete conto, in un periodo in cui la maggior parte dei viaggi era per mare e le navi
naufragavano, Marconi dimostra di poter trasmettere fino alla stazione di Poldhu, in
Cornovaglia, un segnale di SOS.
Questo tipo di figure oggi non ce l’abbiamo più, soprattutto per colpa del mercato; una
persona che prende una laurea in ingegneria oggi difficilmente fa ricerca: impara a fare
il progetto di una casa, di un impianto idraulico, fa la tesi su un’applicazione pratica,
che non è un’invenzione.
Noi invece abbiamo bisogno di invenzioni tecnologiche che nascano da questo paese.
Non è impossibile, però per evitare che gli inventori nascano come le orchidee nel
deserto, bisogna fare un programma e finanziare la ricerca. Spero che la risposta sia
stata esauriente.
Germana mi chiedeva riguardo al ruolo del ragionamento deduttivo contrapposto a
quello induttivo.
Se una persona chiede: “Perché piove?”, e un altro risponde: “Perché Dio ha voluto
così”, la risposta è inconfutabile, non ci sono argomenti da poter contrapporre; se
qualcuno invece tenta di dare una spiegazione, può sbagliare, ma il suo ragionamento
sarà confutabile, ed è importante che sia così.
Il linguaggio induttivo, quindi, si usa per cercare di superare dei dubbi, ma deve essere
confutabile con argomenti presi dalla fenomenologia corrente. Il dubbio è l’anima di
tutto quello che si può fare o non fare, ed esso si può affrontare solo con un linguaggio
di tipo induttivo.
Quando si dice che la posizione degli astri al momento della nascita influenzerà il
mestiere di chi è nato in quel giorno particolare, si usa un linguaggio di tipo deduttivo
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ed è quello che cercano di dare a bere, persino nella televisione di stato, i vari
astrologi, ma è battaglia persa.
Riguardo all’inglese, sappiamo che è una lingua molto facile e molto efficiente.
L’italiano è traboccante di sinonimie, parole ambigue, l’inglese è molto più essenziale.
Oltretutto, il grosso della letteratura mondiale nel settore scientifico è inglese; le
parole inventate, come ad esempio “spin”, “angular momentum”, sono parole che gli
inglesi hanno assorbito già nel loro linguaggio comune. E’ ovvio che si può fare fisica
tranquillamente anche in italiano, però c’è qualche difficoltà linguistica in più.
E’ stato poi sollevato il problema della fisica moderna. Vi cito un motto volgarissimo, ma
che è il mio preferito: da Galileo in poi, della fisica, come per il maiale, non si butta
niente. Il trionfo della fisica ottocentesca è stata la “meccanica analitica”, attenti a non
confonderla con la meccanica razionale, che è una scappatoia tutta italiana.
Il linguaggio usato nello sviluppo della fisica del ‘900 è stato totalmente preso in prestito
dalla meccanica analitica, la conoscenza della quale ha semplificato enormemente lo
studio della fisica stessa.
Alcune teorie, come la nozione di stato fisico di un sistema, di spazio delle fasi, di
trasformazione, di mapping, e così via, sono nate con la meccanica analitica. Nella fisica
moderna, dunque, il linguaggio subisce un salto gigantesco, che però si potrà
comprendere solo conoscendo ciò che è successo prima.
L’americano McCormack, in un bellissimo libro che si intitola: “Gli incubi notturni di un
fisico classico”, racconta la storia quasi puntuale di un fisico tedesco, Drude, che non si
rassegnava ad abbandonare l’etere perché l’idea che qualcosa si potesse trasmettere nel
vuoto, come all’epoca di Aristotele, gli appariva ripugnante e quindi lui e i suoi
collaboratori avevano inventato questa sostanza incredibile, una quintessenza, che
doveva essere talmente rigida da poter propagare dei segnali a trecentomila chilometri
al secondo, ma, allo stesso tempo, doveva essere trasparente e si doveva poter
attraversare.
Nell’800 hanno speso una quantità di energia e soldi in esperimenti volti a scoprire il
trascinamento dell’etere. Perché, se la terra viaggiava nello spazio, si portava dietro
l’etere? Come funzionava? Tutto questo, alla fine, per scoprire che non c’era alcun
segnale di trascinamento. La fisica moderna ha buttato via questo tipo di cose, ma ha
salvato la meccanica analitica, in quanto essa, con la teoria di Maxwell del campo
elettromagnetico, produce delle nozioni molto importanti.
In più, nella fisica nasce un apparato di notazioni molto più accessibili di quelle che
usano i matematici. Per esempio, un grande matematico tedesco, Minkowski, costruì
tutte le notazioni utili sia per la teoria della relatività che per la teoria dei campi: la sua
è una storia esemplare, che dovreste leggere nei libri di storia della fisica. E’ una figura
veramente straordinaria, persino Einstein andava a lezione da lui.
Affrontiamo ora il discorso del nucleare. Vorrei parlarne in termini piuttosto forti: tra
tutti coloro che hanno capito che per ottenere il consenso basta sventolare una qualsiasi
paura, ce n’è uno in particolare, un uomo che, tanti anni fa, faceva addirittura le
esercitazioni per me, che ha scoperto che la gente aveva paura del nucleare perché non
sapeva di cosa si trattasse. Pertanto, durante le sue varie campagne, andava dicendo:
“Morirete tutti, la radioattività…” e così via.
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Costui ha fatto una carriera politica folgorante: si tratta del professor Mattioli, che
adesso per fortuna sta buono e zitto, ma ha eccitato i vari Pecoraro Scanio, Bordon, e
altri, i quali, pur essendo del tutto incompetenti, ne hanno fatte di tutti i colori, hanno
inventato la parola “elettrosmog” e non vi dico che cosa è stata la storia delle famose
onde che producevano la leucemia emesse dalla radio Vaticana.
Sono entrato a far parte, insieme con Giorgio Servini, di una commissione per l’analisi
degli effetti epidemiologici delle radiazioni elettromagnetiche di bassa frequenza. Ci
hanno mandato i dati da tutt’Italia, è stato un lavoraccio analizzarli, ma non si vedeva
traccia di incremento di danni di alcun tipo, tranne il caso di un paesino delle Marche,
che si chiama Potenza Picena, nel quale è presente un radar dell’aeronautica che ha una
potenza di emissione di un megawatt. Quindi un radar molto robusto, di quelli che
mandano segnali anche ai satelliti.
Guarda caso, in questo paese la quantità delle malattie mentali era significativamente
più alta che altrove.
Ovviamente tutti incriminavano il radar, e anche noi ci dovemmo rassegnare al fatto che
c’era una prova evidente.
Sennonchè, mi venne una delle rare idee geniali della mia vita, ed ho telefonato al
segretario comunale di Potenza Picena, chiedendogli se avessero mai discusso del motivo
di quell’eccesso di malattie mentali. Mi rispose che il loro paese ospitava l’unico
ospedale in tutta Italia di lunga degenza di malati mentali per poter accedere al quale,
però, bisognava essere residenti a Potenza Picena.
Questo aneddoto può darvi un’idea di come nascono le leggende urbane.
Per rispondere all’ultima domanda, vorrei l’aiuto di un umanista.
Non è vero che gli umanisti si interessano, più degli scienziati, al problema dei linguaggi
scientifici. All’Università ho avuto, in particolare, due docenti indimenticabili, Enrico
Persico, compagno di scuola di Fermi, che è il più straordinario docente che io abbia mai
incontrato e con cui ho collaborato fino a quando non è morto, nel ’69, ed un austriaco,
Bruno Touschek, un grande disegnatore, tra poco dovrebbe uscire un libro delle sue
vignette, che si possono confrontare con quelle di Groz, o di Kokoschka. Conosceva a
memoria tutti gli aforismi di Karl Kraus, aveva una cultura straordinaria, leggeva Omero
in greco antico.
Abbiamo scritto insieme degli articoli che hanno sempre un aforisma scritto in greco.
Devo dire che nell’ambiente in cui son vissuto, nell’ambiente dei fisici in particolare, ma
anche dei matematici, ho incontrato delle persone con una cultura molto vasta. Lucio
Lombardo Radice era chiamato addirittura “l’onnigrafo” perché era in grado di scrivere
su qualsiasi cosa, era un politico, un filosofo, si intendeva di teologia ed era un ottimo
matematico. Edoardo Amaldi era una persona molto colta, Persico non ne parliamo
neanche.
Quello che è difficile è agganciare gli umanisti, perché sono assolutamente convinti che
ognuno di noi, quando interviene, voglia dimostrare che gli scienziati sono migliori.
Ora è vero che alcuni dei miei colleghi sono assolutamente convinti di essere migliori,
però generalizzare mi sembra troppo banale. Non ho mai detto che noi siamo migliori.
Forse lo penso, però.
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Professoressa Fierro: Allora ragazzi, vogliamo ringraziare il professore per tutto questo
tempo che ci ha regalato. La sua relazione, oltre che bella e interessante, è stata anche
divertente, ed ha trasmesso la gioia di studiare, di capire che lo studio è veramente
un’avventura, ed è qualcosa che può diventare divertente e veramente appagante.
Adesso noi, per ringraziarlo di averci dedicato tutto questo tempo, gli regaliamo due
libricini, sperando prima di tutto che non li abbia: il primo si intitola “Il tempo non
suona mai due volte” e l’altro è l’ultimo romanzo di Simenon. A nome anche dei ragazzi.
Professore, grazie, grazie ancora, cercheremo di far frutto di quello che abbiamo sentito
oggi.
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Il linguaggio nella formazione
della pubblica opinione
Antonella Rampino
Conferenza del 19 marzo 2009
Preside: Buongiorno. Questo di oggi è il terzo incontro del ciclo di conferenze dal titolo
“Umanesimo e Scienza”. Abbiamo già avuto ospite il professor Tullio De Mauro, che ci ha
parlato delle lingue europee, del linguaggio, della comunicazione. Un po’ più complesso,
forse, il secondo incontro, quello con il professor Carlo Bernardini; il tema era
veramente difficile, o almeno io l’ho percepito come tale: “Il linguaggio scientifico può
essere povero o deve invece essere rigoroso?” Per la fisica il discorso è relativamente
semplice, ma per quanto riguarda la matematica è certamente diverso.
Anche il tema di oggi è di grande interesse: abbiamo con noi la dottoressa Antonella
Rampino, giornalista inviata del quotidiano La Stampa di Torino, che ci parlerà della
comunicazione giornalistica e televisiva. E’ un tema interessante perché noi tutti ne
siamo coinvolti ogni giorno leggendo i giornali, seguendo i telegiornali: abbiamo bisogno
di un confronto, di capire in che modo passa la comunicazione. La dottoressa Rampino,
come al solito, vi sarà presentata dalla organizzatrice dei nostri cicli di conferenze, la
professoressa Fierro.
Professoressa Fierro: Grazie, Preside. Dunque, cari ragazzi, siamo di nuovo insieme, ad
ascoltare ed a confrontarci. Siamo qui per la terza conferenza, come vi ha appena detto
il Preside, sul tema di quest’anno: “Umanesimo e Scienza”. E’ con noi, e la ringraziamo
ancora, la dottoressa Rampino, un’ accreditata giornalista inviata del quotidiano La
Stampa, per il quale si è impegnata in lunghi reportages, in giro per il mondo. Ha
intervistato personaggi di spicco sulla scena politica internazionale come Valere Giscard
d’Estaing e Tarek Aziz, che, come molti di voi sanno, è stato il primo ministro di Saddam
Hussein; ha intervistato intellettuali come Balthus, Denis Mack Smith, Borges e
Fellini,solo per citare qualche nome.
E’ una donna combattiva, ricca di interessi che l’hanno portata ad occuparsi anche delle
nuove espressività nel teatro, nelle arti visive, nella musica, nella letteratura.
Ha condotto trasmissioni radiofoniche, e continua, a vario titolo e in molti ambiti, la sua
collaborazione con la radio; partecipa spesso, inoltre, a trasmissioni televisive.
Oltre che per il suo giornale, ha scritto anche per varie altre testate giornalistiche, da
Repubblica al Corriere della Sera, all’Europeo.
Ha progettato e diretto “Aspenia”, la rivista di politica internazionale dell’Aspen Insitute
Italia, di cui è membro.
La dottoressa Rampino parte dalla convinzione che l’informazione sia un modo di
comunicare che comporta molte responsabilità. Giacché per il nostro tema di
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approfondimento, come già vi diceva il Preside, abbiamo scelto come chiave di lettura
privilegiata il linguaggio, la nostra ospite ne tratterà proprio riguardo all’uso di esso
nella formazione della pubblica opinione. Pensate quanto sia difficile questo tema: “Il
linguaggio come strumento rigoroso o non, scientifico o non, per la formazione della
pubblica opinione?”
Ci siamo interrogati, già attraverso le relazioni del professor De Mauro e del professor
Bernardini, sul rigore e la complessità delle forme linguistiche e dunque, proprio nella
continuità del discorso, rientra pienamente la riflessione di oggi, con implicazioni che
sicuramente troveremo legate alla nostra esigenza concreta di capire come ci vengono
proposte, e certe volte addirittura, secondo me, imposte, le informazioni.
Alcuni di voi sono già arrivati alla fine del triennio, altri fanno il secondo liceo, perciò
tutti sapete che nello studio della storia le prime questioni di metodo riguardano la
soggettività e l’oggettività, il fatto e la sua collocazione, la scelta dei moduli
interpretativi, le priorità nella selezione documentale. Questi sono i grandi problemi di
metodo, che vi vengono proposti nel momento in cui, all’inizio del triennio, vi trovate di
fronte ad un nuovo approccio allo studio della storia. Qualcuno di voi dirà: ma il rigore
non appartiene al giornalista, perché il giornalista deve fare cronaca, non storia. E se
anche così fosse, quando racconta un fatto, da dove parte il giornalista? Come ce lo
racconta? Quando possiamo essere sicuri di aver ricevuto un’ informazione corretta?
Questi sono alcuni dei grandi temi della nostra attualità.
Dottoressa, da lei ci aspettiamo indicazioni e possibili vie d’uscita dall’oscuro labirinto,
per citare nuovamente i fisici. Grazie. La ascoltiamo.
Dottoressa Rampino: Buongiorno, grazie di questo invito e grazie soprattutto alla
professoressa Fierro. Credo che il tema del rigore riguardi tutti, dal ciabattino al
giornalista, dal benzinaio al Presidente della Repubblica. Il rigore è un valore sociale
estremamente importante: nelle società anglosassoni c’è un principio cardine della
democrazia che si chiama “accountability”, una parola che non ha un corrispettivo in
italiano, e già questo la dice lunga.
Si potrebbe tradurre con l’espressione “render conto”, dover dar conto agli altri di
quello che si fa; e questo a qualsiasi livello, dal livello più basso della società sino a
quello più alto.
La professoressa ha sollevato subito un altro punto molto importante, quello del
linguaggio. Quando ci siamo parlate, abbiamo pensato che un titolo per questo incontro
avrebbe potuto essere “Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione”. E’ un
tema che può apparire astratto, ma come vedremo non è lo affatto.
Nel definire il programma, la professoressa
Fierro ha posto il linguaggio in
contrapposizione alla scienza, ed anche il titolo di questa serie di incontri contiene
un’antinomia: “Umanesimo e Scienza”. Si pensa sempre che la scienza sia esatta,
mentre sappiamo che tutta la storia della scienza è segnata da evoluzioni e innovazioni
che spesso contraddicono, superandoli, i risultati che sino a quel momento si erano
raggiunti.
A maggior ragione l’attività del giornalista, o piuttosto il suo linguaggio, non solo è
fallibile ma è più vicino all’Umanesimo, ovviamente, che non alla Scienza.
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La professoressa diceva anche che “la cronaca non è Storia”. E tuttavia la Storia è
l’insieme delle cronache, è la concatenazione degli eventi, è la loro lettura, nel senso di
“intelligere”. La Storia, si potrebbe dire, consiste nell’”intelligere” la sequenza degli
avvenimenti ed è questo il motivo per cui è estremamente importante essere informati,
conoscere quel che accade nel momento stesso in cui accade.
La Storia è anche flusso del tempo, ossia l’insieme di giorni, possiamo dire così, oltre
che di minuti, di secondi, di ore. Ed in un giorno accadono moltissime cose.
Adesso comincerò la mia relazione, che sarà un po’ come se aveste inserito la funzione
“random” dell’I-Pod, e vi sembrerà che il mio discorso salti da un tema all’altro, ma gli
argomenti che tratterò sono invece tutti interconnessi.
Partiamo proprio da cos’è un giornale. Hans Magnus Enzensberger, circa trent’anni fa,
disse che ogni giorno i quotidiani “danno” la realtà, che disegnano la realtà come un
universo compiuto e raccontato, che contiene l’insieme di tutte le notizie, dalle più
importanti alle più futili, dalle cronache alle analisi, dalla prima pagina fino ai piccoli
annunci. Disse di più: che la realtà di quel giorno è solo quello che c’era scritto nel
giornale di quel giorno. E poiché ogni giornale ha una sua identità e una sua anima, quel
che ne consegue è che abbiamo molte realtà conchiuse a disposizione. Alcune sono più
semplici da percepire, perché l’identità –che erroneamente qualche volta si chiama
“linea”- del giornale è meglio espressa, e risulta più nitida e compiuta, e altre sono
meno percepibili, più sfumate.
Di che cosa ci parla un giornale? Ci parla di quello che accade, e così viceversa ciò di cui
non si parla non esiste, è un fatto che non è accaduto. Pensate alla parola “omertà”,
quand’è che la usiamo? Quando vogliamo indicare che qualcosa ci viene nascosto, che
c’è qualcosa di cui non si può parlare, e la usiamo in genere riferita a fatti legati alla
criminalità, la parola omertà ci fa subito pensare alla mafia o alla camorra.
Non parlare di un fatto non è positivo, e questo lo capiamo da soli. Un filosofo tedesco,
che non so se avete fatto in tempo a studiare, Wittgenstein, chiude il suo libro più
famoso con una frase molto semplice: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
E’ evidente che questo filosofo non ci parla dell’omertà, ma piuttosto della necessità di
una zona d’ombra dentro ognuno di noi, anche nella nostra psiche. Le interpretazioni più
recenti di questa famosissima frase, e penso alla lettura che ne ha data Alberto Siani,
arrivano alla conclusione che ciò che non si può dire può essere scritto.
E questo riguarda anche il mestiere del giornalista: non tacere nulla, nulla di quello che
vede, nulla di quello che apprende, nulla di quello che ha verificato essere realmente
accaduto.
E’ evidente che il giornalista lavora operando una selezione, e allineando
gerarchicamente i fatti: un quotidiano non è un rullo di notizie, non è il loro flusso
indistinto.
Che cos’è, cosa fa un giornalista? Delle tante definizioni che sono state date, la mia
preferita è quella data, in un bellissimo libro, da Honoré de Balzac, il quale, a sua volta,
è stato anche uno “scrittore di giornali”, tant’è che i suoi romanzi nascono come
“fogliettoni”, come “feuilletons”. Balzac, che pure ha fustigato i giornalisti
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descrivendoli come una congrega di avidi e cinici manipolatori, diceva che “il
giornalismo è pensiero che cammina”. Balzac aveva l’idea della funzione di
attraversamento cognitivo del giornalismo. Il giornalista attraversa la realtà, e riflette
su di essa, non dà semplicemente delle notizie, ma le filtra secondo il suo “intelligere”,
e anche secondo il proprio modo di pensare. Anche per questo, quello del giornalista è
un mestiere che prevede la responsabilità e il “render conto”, infatti chi scrive appone
la propria firma sotto l’articolo, il giornalista è identificabile, chiunque può interloquire
e anche protestare, a volte giustamente. Questo è uno dei rischi, e insieme uno dei
privilegi del mestiere.
Naturalmente, il giornalista si esprime attraverso un linguaggio, il proprio linguaggio e
quello del giornale, che è composto da titoli, didascalie, fotografie: anche quello della
fotografia è un linguaggio, e che linguaggio!
Facciamo un esempio per capire quanto sia fondamentale il linguaggio nell’orientamento
della pubblica opinione: sapete che in questi giorni il Papa si trova in Africa, e da quel
continente ha condannato l’uso dei preservativi. Questa notizia è stamattina sulle prime
pagine di tutti i quotidiani italiani.
Guardiamone insieme tre, i più importanti. Il Corriere della Sera titola: “AIDS- dure
critiche al Papa”; La Stampa apre con: “AIDS- l’Europa contro il Papa”; Repubblica fa
una controapertura, cioè il titolo più importante ma posto quasi a metà pagina, in un
corpo molto più grande del titolo vero e proprio d’apertura: “AIDS – l’Europa contro il
Papa”, esattamente come La Stampa.
Qual è la differenza fra queste scelte? E’ vero, il Papa è stato duramente criticato, come
dice il Corriere della Sera, ma il riferimento all’uso dei preservativi nella titolazione di
quel quotidiano non è chiaro, c’è solo nel sottotitolo. Scrivere che il Papa “ha avuto
dure critiche” è molto meno forte che non sostenere che l’Europa sia contro il Papa.
Ecco dunque quale e quanta possa essere la differenza nell’uso del linguaggio: sono vere
entrambe le cose, ma sono espresse in modi completamente diversi. Ed è lampante
quanto sia forte ed incisivo il titolo “L’Europa è contro il Papa”, proprio l’Europa che è
la culla, il cuore del Cristianesimo e del Cattolicesimo, specie se paragonato a “Dure
critiche al Papa”, un titolo generico, perfino vago, perché non si dice da che parte
provengano quelle critiche, e potrebbero venire, cessò, anche dagli Anabattisti, essere
insomma molto meno pesanti e rilevanti.
Ed ecco allora quale e quanta importanza rivesta l’uso del linguaggio: è l’unico
strumento che abbiamo per dire fino in fondo quello che vogliamo dire. E davvero le
parole sono pietre, sono i mattoni di quella cattedrale dell’uomo moderno, secondo la
definizione che Hegel dava dei giornali.
L’informazione, perché è di questo che stiamo parlando, è un diritto costituzionale dei
cittadini; la libertà di stampa esiste in tutte le democrazie, manca nelle dittature e nei
paesi che qualcuno chiama “democrature”, ossia paesi in transizione tra la dittatura e la
democrazia: un esempio è rappresentato dalla Russia di Putin, dove la libertà di stampa
di fatto non esiste.
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Partendo dal presupposto che la libera informazione è una vera e propria funzione della
democrazia, quello che distingue un giornale stampato dagli altri mezzi di
comunicazione di massa, che trovate spesso nominati come media, è che il giornale
scritto, e vedremo poi perché, forma il cittadino consapevole: la democrazia è proprio
l’insieme dei cittadini consapevoli di sé, delle proprie opinioni e della società in cui
vivono. La democrazia è la pubblica opinione nella sua massima espressione.
E’ ovvio che i diritti politici sono garantiti ai cittadini anche qualora non fossero
informati, ma dato che il diritto è un esercizio, per esercitarlo è bene sapere, occorre
bene conoscere.
Nell’epoca in cui viviamo, ci si può informare in diversi modi: siamo nell’era dell’
“information technology”, abbiamo una quantità immensa di possibilità di accesso alle
informazioni e una di queste, lo sapete meglio di me, è Internet. Su Internet, le
informazioni sono un flusso indefinito senza tempo, scorrono indistinte senza soluzione
di continuità: quando fate una ricerca a scuola su Internet, dovete stare attenti e
controllare molto bene la fonte che vi fornisce quella informazione, quella ricostruzione
storica se si tratta di ricerche storiche, quell’obiezione scientifica se si tratta di ricerche
scientifiche. Quando vi informate attraverso Internet, dovete fare i giornalisti, dovete
verificare le fonti. La verificabilità delle fonti è una delle cose più importanti per il
giornalista, che deve informare, ma anche per il cittadino che si informa, ed è
importantissimo tenerlo presente. Che la rete sia un mezzo aperto è una bellissima cosa,
ma Internet si può paragonare al mare aperto: bisogna guardarsi dalle meduse, dagli
squali, pur apprezzando l’acqua limpida, accessibile a tutti.
Internet, dunque, ha reso tutto contemporaneo, globale, ubiquo; abbiamo detto che è
un flusso indistinto di informazioni e un oceano nel quale bisogna avere delle bussole per
muoversi. Un giornale non sta fuori da questo flusso informativo, anzi ci sta dentro
molto di più di chi va su Internet per fare una ricerca. Però un giornale fa un’operazione
che è insieme molto delicata e sofisticata, perché un giornale va alla ricerca del senso.
All’inizio abbiamo definito il giornale come il racconto di una giornata nella vita del
mondo. Ma il giornale, quando mette in pagina questa giornata, ne deve cercare il
senso, raccontando, spiegando, prendendo ogni fatto e smontandolo, illustrandone i
protagonisti, valutandone le componenti, prendendosi la responsabilità di analizzarli, di
dire da dove derivino, e anche a che cosa preludano. Quindi si tratta di prendere la
notizia di oggi , inserirla in un contesto all’indietro e proiettarla in avanti, prendendosi
anche un’altra responsabilità: quella di dare un’opinione, di dire al lettore:”Stai
attento, sta accadendo questo, potrebbe succedere quest’altro, io la penso così”.
Naturalmente, il lettore, nel leggere quell’”Io la penso così”, si porrà il problema di
come la pensi egli stesso, e dunque, leggendo quell’opinione, si misurerà con i suoi
stessi giudizi, se ha già preso una posizione, se ha già fatto una valutazione, e li
arricchirà, li confronterà con quello che legge sul giornale. Normalmente i giornali
offrono più di un’opinione, sia nello stesso giorno su un fatto importante e poi, a
distanza di uno o più giorni, possono riprendere un’idea precedente e approfondirla, o
approfondirne un aspetto…Insomma, un giornale può essere usato come uno strumento
di consapevolezza e di vero e proprio sapere
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Lo strumento attraverso il quale tutto questo accade, come abbiamo detto, è il
linguaggio. Qualche volta è possibile che quello dei giornali sembri troppo oscuro, e
penso che uno dei motivi dei grandi successi dei siti on line dei quotidiani sia proprio la
differenza di linguaggio. Ognuno di noi fa l’uso che vuole del proprio tempo, ma
confrontarsi con un modo di esprimersi più complesso è comunque positivo. Ma un
linguaggio non è mai veramente complesso se chi scrive, come dice Benedetto Croce, ha
veramente capito fino in fondo l’argomento che ha per le mani. Pertanto misuratevi con
la complessità, ma diffidate di chi scrive oscuro, di quello che è veramente ostico, di chi
non si fa capire, di chi si rifugia nel linguaggio cosiddetto “specialistico”. Normalmente
un buon giornalista, come forse anche un buon professore, per quanto complessa sia la
materia che tratta si fa sempre capire, ma arriva alla semplicità del linguaggio dopo
aver attraversato la complessità dei significati.
Io mi fermerei qui, con soltanto due ultime, brevi considerazioni.
Una riguarda l’uso delle parole; i giornali sono anche una grande fucina, un laboratorio
in cui si inventano neologismi, cioè parole nuove, che diventano poi parole d’ordine, un
po’ come gli slogan dei cortei, solo un po’ più creative, un po’ più dense di significati,
perché un giornale è una cosa un po’ più complessa di una protesta, per quanto giusta
possa essere. Sono tante le parole inventate dai giornalisti: la “lottizzazione”, coniata
negli anni settanta da Alberto Ronchey per parlare della spartizione dei partiti politici
fatta dentro la RAI, il “ribaltone”, che fu usata dai giornalisti nel caso di Lamberto Dini
e dell’uscita di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi nel 1994 e, pensate, questa parola non
fu rispolverata dai tempi in cui era stata inventata, nell’Ottocento, da Niccolò
Tommaseo.
Potrei fare altri esempi: pensate alla parola “casta”. La casta è stato un libro di
grandissimo successo perchè parlava di quello che dell’Italia tutti, se non sapevamo,
sospettavamo, quello che numerose inchieste hanno sempre raccontato, ma ha avuto
questa grande fortuna anche perché ha cristallizzato una classe dirigente politica, e non
solo, con una denominazione folgorante. Come la casta indiana, qualcosa di inamovibile,
come quella che in Russia si chiama “la classe eterna”, la classe politica eterna.
O pensate ancora al successo di una parola come “tangentopoli”, trasformazione di un
termine tratto dai fumetti, Paperopoli, e applicato all’inchiesta “Mani pulite”, chiamata
a sua volta così dal pool di investigatori e di magistrati inquirenti e giudicanti che
avevano quell’indagine per le mani. Vedete dunque quale possa essere la forza del
linguaggio.
La seconda cosa riguarda ciò che abbiamo detto all’inizio sul rapporto tra la pubblica
opinione e la democrazia, ossia l’insieme di tutti i cittadini consapevoli. Vorrei
aggiungere che le notizie e la qualità dell’informazione non sono un bene in sé, non
vivono fuori dalla società nella quale si trovano. L’informazione, che è una funzione
della democrazia, dipende anche dalla qualità dell’organizzazione della società e della
democrazia stessa. Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente sono
rappresentati gli interessi di tutti gli attori sociali che operano nella società, e tanto più
sono trasparenti i criteri adottati tanto migliore sarà l’informazione. Nell’accezione
migliore, infatti,
la stampa è servitrice e guardiana delle istituzioni, non un loro
sostituto. La stampa è come un fascio di luce che le illumina, e che illumina la vita di
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una società, anche se la pubblica stampa, esattamente come la democrazia, ricordatelo
sempre, è imperfetta. Ecco, io ho finito.
Professoressa Fierro: Abbiamo ascoltato con interesse un discorso così incisivo e al
tempo stesso così pieno di contenuti, sui quali adesso abbiamo il tempo di riflettere,
perché la dottoressa, abituata al dibattito, vuole dare proprio più spazio alla discussione
sul tema.
Noi ne approfittiamo subito rivolgendole le domande che ci sono venute in mente
durante la sua relazione e anche quelle che magari avevamo già pensato di fare prima
ancora di sentirla.
Io naturalmente do subito la parola ai ragazzi, o anche agli adulti, i colleghi possono
naturalmente intervenire quando lo riterranno opportuno.
Comincerei a sentire le domande degli studenti ma, per rompere il ghiaccio, ne faccio
subito io una: in che senso un giornale contribuisce, come lei ha giustamente detto, a
creare nuove parole? Da dove prende i neologismi? E’ il giornalista a inventarli oppure in
realtà queste parole già circolano e acquistano uno “statuto” a livello linguistico
attraverso il giornale? Il giornale si prende anche la responsabilità di usare nuove parole
e di “imporne” l’uso al punto che poi esse vengono inserite nel nuovo vocabolario della
lingua italiana? E questo è sempre positivo o a volte invece svilisce quella che è la
“purezza”, per chi crede nel rigore e nella purezza della lingua?
Adesso i ragazzi.
Giovanni:Volevo chiedere un’informazione e fare una piccola critica, ovviamente
generale. Non pensa che qui in Italia la qualità dell’informazione stia un po’ scemando
e quello che si debba o non si debba dire provenga dall’alto?
Giulia: Nel riportare una notizia, è inevitabile, anzi auspicabile, che il giornalista adotti
un linguaggio che renda chiara la sua opinione sul fatto. Ma qual è il confine tra il dare
la propria opinione e distorcere la realtà effettiva?
Luca: Vorrei porgerle una domanda in riferimento anche a quella precedente. Che
rapporto ci deve essere tra stampa e potere? E si può considerare giusta e tollerabile
l’anomalia italiana in cui il nostro Presidente del Consiglio, di fatto, controlla un buon
70-80% dell’informazione nazionale?
Sofia: Secondo lei quanti elettori rimangono influenzati dall’opinione data dal
giornalista?
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Dottoressa Rampino: Allora, provando ad andare in ordine, rispondo innanzitutto alla
professoressa Fierro.
Le parole nuove possono nascere in redazione, un caso felice, si inventa una parola
magari semplicemente perché lo spazio per il titolo è ridotto. Possono esserci
espressioni fortunate che vengono usate dai politici: penso al “tesoretto”, inventato da
Tommaso Padoa Schioppa e che in Tremonti è già diventato “gruzzoletto”. Comprendo
l’obiezione della professoressa, a volte alcune di queste parole sono brutte, sono
assolutamente parolacce anche dal punto di vista del suono, ma questo è un rischio che
corriamo tutti, anche quando parliamo.
Le altre quattro domande pongono il problema del rapporto tra giornalismo e potere.
Questo è un tema antico: fino a che punto, nel riportare le notizie, un giornalista puo’
dare la propria opinione? Un pezzo di cronaca non è un fondo di giornale, nel quale viene
illustrata essenzialmente soltanto l’opinione: in un pezzo di cronaca viene, innanzitutto,
riportato l’accaduto, e di lì si scappa poco. Ma anche nello scrivere un pezzo di cronaca,
il giornalista esprime un punto di vista. Diffidate da chi vi dice che è perfettamente
obiettivo, l’obiettività non esiste. Può esistere un criterio di equanimità, ma
l’obiettività di per sé non è umana.
Fino a che punto poi i lettori restino influenzati da quello che noi scriviamo, in generale
mi viene da dire pochissimo, ma dipende in parte anche dal lettore. Più il lettore si
fabbrica i suoi strumenti leggendo, naturalmente non solo giornali, ma anche libri,
meno sarà influenzato dall’opinione del giornalista.
Continuate a leggere molto anche quando uscirete dalla scuola, perché l’informazione,
la conoscenza, la cultura sono le maniglie con le quali si afferra la realtà, e anche la vita
di tutti i giorni, molto più di quanto non pensiate.
Giulia, Luca e Giovanni hanno posto il problema dell’informazione che hanno definito
“calata dall’alto”. Diciamo subito che l’anomalia italiana di cui parla Luca, ossia un
Presidente del Consiglio che controlla buona parte dell’informazione, anche se non
credo che si tratti del 70-80%, è, se chiedete la mia opinione, assolutamente
inaccettabile, fuori da qualsiasi parametro di democrazia occidentale. Però Berlusconi è
stato votato dagli italiani, e direi di più, non solo è stato votato dagli italiani, ma è stato
anche precedentemente legittimato da quella che adesso in Parlamento è l’opposizione.
La distribuzione delle concessioni governative per le reti Mediaset, la
costituzionalizzazione di Berlusconi che ha fatto il presidente della Bicamerale Massimo
D’Alema nel 1996, la legge sul conflitto d’interessi, tolta dall’agenda del Senato
nell’ultima settimana di legislatura del primo governo Prodi per far posto alla riforma sul
Titolo Quinto della Costituzione, ossia il federalismo, fatto dal centro-sinistra per
strizzare l’occhio alla Lega, che passò con una maggioranza di soli quattro voti…. Quindi,
se c’è stato e c’è un forte peso da una parte, sono mancati i contrappesi dall’altra. E
del resto, l’elettorato italiano ha punito pesantemente il centro-sinistra.
In che modo la stampa segue tutto questo? Ci sono giornali che lo raccontano molto dal
di dentro, ossia con uno sguardo benevolo nei confronti del Presidente del Consiglio,
magari perché sono giornali di sua proprietà.
Questo punto è fondamentale. Abbiamo detto che l’obiettività non esiste, né nella
nostra vita di tutti i giorni né nei giornali, ma è importante sapere, quando si legge un
giornale, a chi esso appartenga, chi è l’editore,
perché questo permette di
comprendere meglio quanto vi è scritto, di cogliere anche le sfumature di quel punto di
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vista, di capire qual è la legittima rappresentanza. Per esempio, il Sole 24ore, che è un
ottimo grande giornale, non un giornale di nicchia economica, è il quotidiano della
Confindustria. Possiamo aspettarci che gli articoli sulla politica industriale pubblicati
dal Sole24ore siano contrari alla politica di Confindustria? Basta semplicemente sapere
questo per leggere con consapevolezza quello che, secondo me, è uno dei migliori
giornali italiani, e che eccelle soprattutto negli articoli di politica estera. Cosa che si
spiega con il fatto che, essendo le imprese italiane sempre di più internazionalizzate,
lavorando sempre di più in tutti i mercati del mondo, gli imprenditori, dai piccolissimi ai
grandi, hanno bisogno di sapere che cosa accade in ogni parte del mondo.
Si parla molto dei cosiddetti “editori puri”, che ormai esistono soltanto negli Stati Uniti,
degli imprenditori che hanno come attività principale l’informazione. L’editore puro è
certo una gran cosa, ma in Italia il più grande editore puro, Rizzoli, è stato infiltrato da
quella cosa che chiamiamo P2 e che in realtà ancora non si sa bene che cosa fosse, ma
certo non un’associazione benefica.
Naturalmente i rapporti tra stampa e potere sono molto complessi, caro Luca: non
esiste soltanto il caso di Berlusconi. I rapporti tra la stampa e il potere devono essere di
estrema correttezza reciproca, come del resto è o sarebbe auspicabile per tutte le
relazioni umane.
Quello che mi sento di poter dire è che le cose marciano sulle gambe degli uomini e che
in ogni giornale il perno delle garanzie poggia sul direttore: un giornalista deve riportare
tutte le notizie che ha nel momento in cui le ha, se sono verificate e certe e da fonte
attendibile; un direttore però deve pubblicarle. Naturalmente i direttori responsabili
sono esseri umani e ognuno è fatto a proprio modo,ma per un giornalista è
estremamente importante avere un direttore che sia a sua volta un giornalista serio,
affidabile e che abbia operato sul campo, perché è molto diverso stare sul campo o stare
in ufficio.
Professoressa Fierro: Continuiamo con le domande. Vorrei intanto sottolineare la
difficoltà, non solo dei ragazzi, ma anche degli adulti, nel leggere la pagina economica
di un giornale, di qualunque giornale, non parlo solamente del Sole 24 Ore, che
indubbiamente ha una maggiore specificità in quel campo. Bisognerebbe probabilmente
possedere determinate competenze per poter capire certi meccanismi. Come affrontate
il problema dell’informazione anche in materie difficili, in modo che tutti possano
capire? Venite, venite, ragazzi.
Francesca: Vorrei sapere qual è stato il ruolo del giornalista in questo periodo di grande
crisi. Fino a che punto i giornali hanno influito sulla società, è stata forse in parte
gonfiata questa situazione?
Dottoressa Rampino: Capisco cosa vuol dire Francesca. Personalmente non penso che i
giornali abbiano influito sull’umore della società, e neanche la televisione, anche se,
essendo un mezzo ben più potente e invasivo della carta stampata, ci permette meno di
riflettere su quello che accade.
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Viceversa, penso, come dicevo stamattina a un collega molto più autorevole di me, che
noi non abbiamo vissuto un duplicato della grande depressione del ’29, ma piuttosto
stiamo vivendo un crack del modello capitalistico. Non è Bertinotti, ma Tremonti a
sostenere che serve più etica nel mondo della finanza. Tremonti di formazione è un
commercialista, un esperto dei bilanci di grandi imprese, ed è considerato uno dei
massimi conoscitori del bilancio dello Stato italiano. Ma è anche un uomo di notevole
acutezza, a suo modo un grande comunicatore e un intellettuale, e sa bene di che cosa
parla.
Il ministro dell’Economia ha accusato i giornali di aver descritto la crisi a tinte fosche,
personalmente credo invece che i giornali non abbiano raccontato fino in fondo il punto
di rottura nel modello capitalistico, che semplificando di molto potremmo definire la
forma economica della democrazia. E credo che non lo abbiano fatto perché siamo in un
momento di passaggio estremamente difficile, sono troppo scarsi e anche incerti,
ancora, i dati di cui disponiamo, per potere interpretare e analizzare correttamente il
quadro. Berlusconi, in conferenza stampa e dunque pubblicamente, pochi giorni fa ha
sostenuto che il totale del crack nelle banche è pari al PIL di tutto il mondo, cioè al
prodotto interno lordo di tutto il mondo….Naturalmente forse ha fatto un po’ di
confusione, ha mescolato cose diverse, ma quello che probabilmente Berlusconi
intendeva dire è che ancora non conosciamo l’entità della crisi, che può essere anche
più drammatica del solo crack finanziario. Si tratta di elementi estremamente complessi
e delicati, e quindi i giornali usano, al contrario di quanto sostengono il ministro
dell’Ecpnomia e il Presidente del Consiglio, un’estremo senso di responsabilità. Di solito
in casi come questi si trattano le notizie in modo “freddo”, non interpretandole fino in
fondo, soprattutto perché come dicevo prima in questo caso mancano ancora dati certi.
Tutto il mondo occidentale ha un sentiero stretto da percorrere, e deve cercare di
muoversi in sintonia, in maniera più uniforme possibile; per esempio, l’Europa dovrebbe
essere più unita e invece non ci riesce, ogni Paese sta prendendo delle misure per
conto proprio, misure diverse e qualche volta contraddittorie con quelle degli altri.
Non penso che i giornali influiscano sul cattivo umore dei cittadini; d’altra parte che la
crisi esiste si vede facilmente: basta andare in una strada che si frequenta abitualmente
e vedere quanti negozi hanno chiuso per fallimento.
Professoressa Fierro: Venite, ragazzi. Il dibattito è molto dinamico questa mattina.
Valentina: Lei ha detto che il giornale è una realtà raccontata, però spesso vi è un boom
della notizia: perché alcuni temi sono trattati in modo continuo per un determinato
periodo e poi vengono dimenticati?
Dottoressa Rampino: Questa è una critica assolutamente condivisibile, è come se i
giornali si innamorassero di certi fatti. Sulla cronaca nera, poi, a volte si arriva al
delirio, alcuni giornalisti si invaghiscono di alcuni crimini: prendiamo in giro Bruno
Vespa per il suo plastico di Cogne, però poi sui giornali tutti i giorni si vedono le stesse
cose…
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Io sono d’accordo con Valentina, e, se volete sapere la verità, non so assolutamente
cosa rispondere. E’ come quando ci si invaghisce di qualcuno, e poi la cotta passa.
Valentina forse sottintende che questo potrebbe nascondere una manipolazione: in
effetti l’attenzione rivolta in modo eccessivo alla cronaca nera potrebbe servire a
distogliere la pubblica opinione da altri accadimenti, politici ad esempio. E’ vero però
anche che il delitto ci racconta la società in cui viviamo, rappresenta quella parte di
follia che esiste dentro ognuno di noi.
Arianna: Considerando l’enorme influenza che i giornalisti esercitano sull’opinione
pubblica, nel senso proprio che a volte la plasmano, non potrebbero diventare quasi lo
strumento per appagare il voyeurismo della gente comune, magari usando anche un
linguaggio ambiguo nel trattare quegli aspetti della vita privata delle persone che
dovrebbero interessare di meno?
Dottoressa Rampino: Arianna, ma che tipo di giornali leggi?
Arianna: Mi riferivo sia ai giornalisti sia a quelli che in televisione fanno gli opinionisti;
comunque lo vedo spesso sui giornali, soprattutto quando si tratta di avvenimenti di
cronaca nera, ad esempio ultimamente con il fatto delle ragazze stuprate. A volte
mettono in piazza aspetti della vita privata delle persone che non dovrebbero
interessare e non dovrebbero essere portati sulla scena pubblica, alla portata di tutti.
Dottoressa Rampino: E’ così. Arianna ha voluto farci vedere come la notizia di uno
stupro può diventare lo stupro di una notizia, con quella morbosità che spesso si
nasconde dietro una facciata di moralismo. Sono assolutamente d’accordo, però quando
incappate in ciò che ha così ben descritto Arianna, potete subito rendervi
concretamente conto che vi trovate di fronte a un organo di informazione, a una
trasmissione televisiva, a un giornalista senza qualità.
In Italia non c’è mai stato quello che si chiama “il giornalismo popolare”, in Inghilterra
invece esistono dei giornali chiamati “tabloid” per via del formato (anche se in realtà
ormai i giornali son tutti in quel formato), che parlano soltanto di omicidi, di cronaca
nera, di sesso e di pettegolezzi: sono un po’ come quei rotocalchi che in Italia si trovano
dal parrucchiere. E da noi quel genere di informazione si trova solo in quel tipo di
settimanali. I quotidiani normalmente non trattano quegli argomenti nel modo in cui
diceva Arianna.
Rosa: Partendo dalla considerazione che il linguaggio ha da sempre avuto un grande
potere anche nella formazione dell’opinione pubblica, è un dato di fatto però che spesso
è stato manipolato ed è stato anche uno strumento eversivo. Che tipo di rapporto
sussiste tra il linguaggio e l’atteggiamento disilluso dei giovani nei confronti della vita
politica ? Sempre che esista un rapporto tra i due elementi….
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Dottoressa Rampino: Non credo che il problema della disillusione nei confronti della
politica sia responsabilità del linguaggio: il problema è che la politica non è più capace
di trasmettere alcun messaggio. Pensate alla campagna elettorale di Obama e alla sua
vittoria. Obama ha usato lo slogan “Yes, we can”, sì, noi possiamo, ce la possiamo fare.
Fondamentalmente, è la richiesta di un impegno: ce la possiamo fare, noi, insieme,
un’unità, quindi vi dovete impegnare, altrimenti noi, non io solo, non ce la faremo. La
forza di questo messaggio ha portato Obama alla vittoria, ma il linguaggio da solo,
naturalmente, non sarebbe bastato: c’era anche la reazione agli otto anni di Bush, a
quello che è stato Bush in un paese come gli Stati Uniti, e a quello che ha fatto nel
mondo, e inoltre c’è stata una straordinaria partecipazione di segmenti della società
americana che in precedenza non avevano mai votato.
La politica italiana non mi sembra che abbia un problema di linguaggio, mi sembra che
abbia un problema di contenuti, che poi si esprimeranno anche attraverso un linguaggio.
Lorenzo: Prima lei ha parlato di Internet: ci si può collegare alla campagna di Obama,
che ha usato Internet come mezzo di diffusione. Internet potrebbe essere un sostituto
per quel tipo di informazione che, mandando messaggi isolati sui quali non si può
indagare, rende la popolazione passiva, come sostiene Beppe Grillo. La connessione
pubblica potrebbe offrire una soluzione all’estremo potere che hanno i mezzi di
informazione unitari, quindi privi di varie sfaccettature?
Dottoressa Rampino: Lorenzo, grazie della domanda. Tu mi chiedi sostanzialmente se
Internet può essere portatore di democrazia e ovviamente la risposta è sì, perché
appunto è uno strumento di comunicazione. Internet tra l’altro ci riporta a scrivere. Voi
scrivete tutti i giorni perché siete a scuola, ma ci sono persone che non scrivevano più
da una vita.
Riguardo a Beppe Grillo, il discorso è un po’ complicato: Beppe Grillo ha per primo
denunciato lo scandalo di Parmalat e in questi giorni sta ancora facendo un’operazione
di informazione sul colpo di stato attualmente in corso in Madagascar: egli ha rivelato
che il Presidente del Madagascar ha venduto mezza isola a delle imprese coreane. E
questo non è scritto su nessun giornale: è un torto dei giornali che tendono sempre di
più, soprattutto quelli italiani, a guardare l’orto di casa e meno quello che succede nel
mondo. Questo è un errore perché, soprattutto in epoca di globalizzazione, quello che
succede nel mondo arriverà da noi rapidamente.
Quindi, certo, Internet può essere portatore di democrazia e Beppe Grillo fa delle
rivelazioni che sono importanti. Ma Beppe Grillo è un grande manipolatore, perché fa
tutto questo minacciando di lanciarsi in politica, vendendo i suoi cd-rom, facendo i suoi
spettacoli, insomma bisogna essere molto cauti, anche perché comunque Grillo ha la
mentalità e usa gli strumenti di un comico, e, attenzione, per far passare i messaggi usa
la sollecitazione del divertimento, fa leva sulla risata, il che non è tanto corretto,
perché prevede che noi siamo spettatori, non cittadini consapevoli.
Tornando ad Obama, è vero che lui, a differenza di Hillary Clinton, per le primarie e per
la campagna elettorale ha usato Internet e i “social networks”, ma quando la settimana
scorsa, in un’intervista in televisione, gli hanno chiesto cosa pensasse di Internet, ha
risposto: “Non lo uso mai, non so come funziona, credo sia perfettamente inutile alla
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società”. Quindi bisogna stare attenti: probabilmente Obama, come capisco da questa
dichiarazione, adesso prende le distanze, ma il suo staff, i suoi collaboratori
indubbiamente hanno usato Internet.
Lorenzo: Questa cosa di Obama non la sapevo; per quanto riguarda Beppe Grillo, è vero
che può avere un certo effetto, c’è chi addirittura lo ha paragonato a Mussolini, che
prima ha conquistato la folla e poi l’ha utilizzata per i suoi comodi. In realtà lui ha avuto
molte occasioni per entrare in politica ma ha detto che è contrario alla formazione di
più partiti. E’ un comico che però ha un valore politico, esprime delle battute, anche
forti, sicuramente c’è a chi può non piacere la sua modalità di linguaggio, però ha
comunque delle basi di conoscenza e si informa proprio attraverso Internet. Quello che
volevo dire è che non ha un secondo fine, se lo avesse avuto, lo avrebbe già raggiunto, o
no?
Dottoressa Rampino: Se Beppe Grillo si candidasse, farebbe un’operazione di chiarezza,
e chi glielo impedirebbe? Siamo in democrazia.
E’ proprio questo modo, però, di usare degli argomenti molto importanti in chiave
comica e in chiave di destrutturazione della società, che non va bene. Perché Beppe
Grillo non ha denunciato la Parmalat, invece che in piazza, da un magistrato?
A me va benissimo che Grillo ne faccia uno spettacolo, è anche più accessibile alla
gente; pure gli spettacoli di Dario Fo hanno un contenuto di denuncia politica, no?
Beppe Grillo tratta argomenti estremamente più complessi e delicati, che toccano la
gente da vicino, addirittura sin nel portafoglio. Ma sono argomenti, quelli degli scandali
finanziari, in cui è troppo facile fare uno spettacolo in piazza e dire “io l’avevo detto”.
A me va benissimo il suo spettacolo, mi va benissimo andare sul suo blog, mi va
benissimo se si candida, ma diffiderei e non voterei chi si rivolge anzitutto alla piazza, e
come se la piazza fosse il “suo” popolo.
Flaminia: Mi vorrei riallacciare a quello che lei ha detto prima riguardo al fatto che le
notizie su Internet vincono su quelle cartacee. Forse questo è dovuto anche
all’impaginato, che risulta più immediato. Un ammodernamento del giornale, dato che
la sua struttura è così da tantissimo tempo, potrebbe aiutare i giovani ad avvicinarsi? Ad
esempio, il formato nuovo dell’Unità, che credo sia stato fatto da Concita De Gregorio,
è così compatto, e magari potrebbe aiutare i giovani ad avvicinarsi all’uso del giornale.
Dottoressa Rampino: Secondo me è un formato troppo piccolo, ed è usato ancora come
se fosse un vecchio giornale: un formato di quel tipo richiederebbe tante piccole
notizie, e articoli brevissimi, e però forse ci annoierebbe a morte. Naturalmente
muoversi nell’habitat di un giornale di carta, per chi è abituato a frequentare un
giornale on line, è più complesso, è completamente diverso, ma i giornali stanno
cambiando, tendono tutti a rimpicciolirsi rispetto al formato tabloid, è così La Stampa,
diventerà così Repubblica e in futuro probabilmente il Corriere della Sera.
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Tutto questo, però, non ha niente a che vedere con il gradimento dei lettori:
semplicemente il prezzo del petrolio ha fatto aumentare enormemente il prezzo della
carta, poi è arrivata la crisi economica e quindi i formati tendono a ridursi con una
motivazione essenziale, quella di ridurre i costi risparmiando sulla carta. In realtà è più
facile lanciare sul mercato un prodotto completamente nuovo che non modificare una
testata vecchia con un modello grafico nuovo. Perché se contenuti e grafica non
marciano insieme, se la cornice non è adeguata ai contenuti difficilmente si azzecca la
formula e infatti mi pare che per l’Unità non stanno esattamente funzionando.
Alessandra: Secondo una recente stima americana, fra una decina d’anni è possibile che
i giornali cartacei scompaiano del tutto e le informazioni vengano divulgate solo su
Internet. Vorrei sapere se, secondo lei, è un evento possibile e in che modo cambieranno
lo spirito e il linguaggio dell’informazione.
Dottoressa Rampino: Dunque, Alessandra, anche se certamente alcuni giornali, anche in
Italia, chiuderanno, di una cosa sono sicurissima: la carta stampata non morirà di fronte
a Internet e uno dei motivi è che il lettore, il cittadino informato e consapevole,
sentendo sempre di più il bisogno di sapere e di conoscere, si accorgerà che
l’informazione da Internet da sola non basta. Naturalmente può accadere, ed è già
successo per esempio ad un giornale molto bello di New York, il “New York Post”, che
scompaia l’edizione cartacea e resti solo l’edizione on line. Questa trasformazione è
stata annunciata come possibile in futuro anche dal “New York Times”, e vedremo se
sarà realizzata o meno. Il problema è che la televisione drena gran parte degli introiti
pubblicitari e quindi i costi di produzione di un giornale su carta sono troppo alti da
sostenere, per gli editori. E’ chiaro che il New York Times on line è come se fosse di
carta, non è un sito internet qualsiasi, ci lavora una delle migliori squadre di giornalisti
del mondo, come è noto: l’unica differenza è che forse, in futuro, non sarà più su carta.
Anche se la fruizione di un giornale su carta è molto diversa. Leggere un giornale è un
piacere, è completamente un’altra cosa.
Professoressa Fierro: La lezione di oggi sta diventando una discussione molto
intrigante, credo che abbiamo battuto tutti i record degli interventi dei ragazzi, che oggi
sono veramente protagonisti del dibattito. Vi invito a continuare per un po’, abbiamo
poco tempo ancora e poi la dottoressa ci dovrà lasciare.
Sofia: Vorrei fare una domanda un po’ aggressiva, non so se mi può dare la risposta.
Secondo lei, dietro la volontà da parte del governo di ridimensionare in un certo qual
modo la libertà di stampa, che lei ha detto essere funzione della democrazia, è
nascosta anche la volontà di limitare l’informazione a ciò che fa comodo che il lettore
sappia?
Dottoressa Rampino: Capisco la preoccupazione, che naturalmente è presente anche
nelle redazioni dei giornali, e immagino che questa idea di ridimensionare la libertà di
stampa, alla quale tu, Sofia, fai riferimento, stia all’interno del provvedimento sulle
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intercettazioni. Su questo provvedimento c’è una trattativa in corso perché gli “animal
spirits”, direbbe qualcuno, le pulsioni “istintive”, chiamiamole così, di questo governo,
sono molto forti.
Avrete saputo che ieri c’è stata addirittura la ribellione di cento deputati del PDL a
causa del fatto che, secondo la legge Maroni, i medici, anche quelli del Pronto Soccorso,
sarebbero tenuti a denunciare gli immigrati clandestini che vanno a curarsi; ciò
metterebbe a repentaglio la salute degli italiani, oltre a quella degli immigrati
clandestini, ai quali evidentemente non si riconoscono i diritti fondamentali. Dobbiamo
però dire che da una parte si sta cercando di far ragionare il governo su questo punto, e
dall’altra a me sembra che possa trattarsi di un altro dei tanti provvedimenti dei quali
piovono annunci per testare le reazioni, ma nulla è ancora definitivo.
Se però quel provvedimento sulle intercettazioni passasse, la libertà di stampa sarebbe
messa a rischio perché la responsabilità penale verrebbe spostata dal direttore
responsabile all’editore, e quindi, a fronte di sanzioni pesantissime, anche se solo
amministrative, sarebbero gli editori a decidere cosa si scrive e cosa non si scrive
giornale: ciò limiterebbe moltissimo la libertà di informazione proprio perché è il
direttore il volano, il cuscinetto, l’asse decisionale di un giornale e sta nella redazione
da primus inter pares.
Daniele: La mia è una curiosità: qual è il rapporto tra i giornalisti della carta stampata e
i giornalisti della TV? Grazie.
Dottoressa Rampino: Quelli della TV sono tutti più carini! Scherzo, naturalmente, ma
certo in video anche il corpo è uno strumento di comunicazione. Per il resto sono
colleghi normali, alcuni sono più bravi e altri meno, alcuni più simpatici, altri meno e
così via. E’ molto diverso il modo di lavorare, questo sì, perché la comunicazione
televisiva è rapida, molto sintetizzata. Dal punto di vista delle opinioni può essere più
esposta, l’opinione può essere più netta perché due minuti e mezzo in televisione
costituiscono un servizio lunghissimo, mentre in un giornale è un piccolo pezzo, appena
una cartella di mille e ottocento battute. Alcuni colleghi sono dei bravissimi
comunicatori , ma il loro è comunque un lavoro diverso da quello che si svolge nella
redazione di un quotidiano.
Edoardo: Ricollegandomi alla domanda fatta prima sul rapporto tra giornalisti della
carta stampata e giornalisti televisivi, vorrei porre l’attenzione sull’informazione
televisiva e quella stampata. Che cosa cambia tra questi due tipi di informazione, le
notizie sono più incisive se vengono trasmesse attraverso il giornale o attraverso il
telegiornale?
Dottoressa Rampino: Normalmente, quando la mattina una persona va in edicola a
comprare un giornale quotidiano, sa già che cosa è successo, perché magari ha visto il
TG della sera prima, o ha sentito la radio, o ha ricevuto notizie sul telefonino. Quindi chi
compra il giornale compie una scelta, chiede un giornale in particolare o ne chiede due,
specie se quel giorno è successo un fatto importante e vuole coglierne le varie
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sfumature. Il quotidiano vi riporta l’informazione che avete già appreso dal telegiornale,
ma vi racconta i retroscena, vi offre delle analisi, vi spiega tutto sui protagonisti , vi
dice qual è il vero scopo di quel tale provvedimento. L’informazione che un quotidiniano
vi offre è perfettamente incastonata nella realtà. Un genere di impostazione
dell’informazione che non si ritrova nemmeno nel telegiornale o il radiogiornale del
giorno dopo, proprio perché i linguaggi di questi media sono completamente diversi
rispetto a quello di un quotidiano.
Professoressa Fierro: Se c’è qualcuno che vuole ancora fare domande può avvicinarsi.
Io intanto volevo farne ancora un’altra alla dottoressa Rampino: quali studi universitari
consiglia a chi tra i nostri ragazzi, che sono studenti del liceo classico, volesse
intraprendere oggi la carriera del giornalista e quali possibilità effettive ci sono per i
giovani di aspirare a fare questo lavoro che io trovo particolarmente bello?
Dottoressa Rampino: Nell’editoria oggi c’è una crisi terribile, e voi siete fortunati
perché siete molto giovani e potete aspettare. Ci sono molte scuole di giornalismo, ma è
importante fare l’università, ad esempio scienze politiche o lettere o economia o
giurisprudenza, dato che il giornalismo va sempre più verso la specializzazione.
Naturalmente bisogna saper scrivere, occorre un’attitudine che una volta Eugenio
Scalfari ha descritto in una maniera efficacissima: una connessione diretta tra il
cervello e la penna. Che sia la penna o la tastiera, insomma, ci vuole una grande
facilità di esprimersi. Inoltre, serve moltissimo leggere, solo leggendo molto e bene si
apprende a saper scrivere.. Anche se esiste la tendenza alla specializzazione, non si può
pensare che il proprio sapere riguardi solo l’argomento di cui ci si occupa. Un giornalista
di economia non può sapere solo di economia, un giornalista di politica interna non può
sapere solo di politica interna, un giornalista che fa le pagine di cultura non può sapere
solo di cultura. Tutto è interconnesso, bisogna prepararsi, essere poliformi.
Marco: Vorrei sapere cosa pensa dell’abbandono da parte di Enrico Mentana della
conduzione della trasmissione Matrix.
Dottoressa Rampino: Io penso che Mentana abbia fatto il giornalista, nel senso che non
gli hanno permesso di fare una certa cosa e si è dimesso. Credo che abbia fatto bene,
anche se non direi che ne sia contento. Non amo i programmi di approfondimento
televisivo come Matrix perché, secondo me, sono delle rappresentazioni nelle quali
ognuno, partecipanti e intervistati, hanno un ruolo, proprio come in una piéce teatrale.
E quindi di approfondimento, in realtà, c’è pochissimo. Mi piacciono le inchieste
giornalistiche, e in particolare Riccardo Iacona, perché ha un suo personale linguaggio,
un suo personale stile di narrazione televisiva, perché è capace di portare lo spettatore
dentro gli eventi, e poi è anche simpatico, ha un modo buffo di analizzare i fatti. Certo
la sostituzione di Mentana, fatemelo dire, con un “eroe” del giornalismo americano,
perché così ci è stato presentato, al suo debutto a Canale5 il collega della CNN, non mi
è sembrata una buona scelta. Alessio Vinci era il corrispondente della CNN dall’Italia, e
in Italia i corrispondenti americani e degli altri grandi paesi seguono essenzialmente il
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Vaticano, la politica italiana è proprio una minuzia per loro. Mentana era molto meglio,
anche se non amavo Matrix.
Silvia: Le volevo chiedere due cose. La prima è un suo giudizio sulla progressiva
inglesizzazione del linguaggio giornalistico, con l’ uso sempre più vasto e a volte anche
esagerato dell’inglese. La seconda domanda è più impegnativa: perché, soprattutto tra i
giovani, va diminuendo l’interesse per la realtà che hanno attorno mentre aumenta
quello quasi morboso per realtà alternative, come possono essere i reality in televisione?
E perché è lo stesso anche per la stampa e la società in generale? Grazie.
Dottoressa Rampino: Sì, è vero, Silvia. Bisognerebbe sempre scrivere in italiano le
parole che si possono scrivere in italiano, però sfido chiunque a scrivere “locale
notturno” invece di “night”, senza che sembri che si sta stilando una denuncia di polizia.
E’ vero che l’inglese si usa molto, io stessa ho cominciato questa conversazione con voi
proprio citando una parola straniera, l’ “accountability”, che è intraducibile.
E’importante cercare di usare l’italiano il più possibile, perché è una lingua molto ricca,
che bisogna conoscere bene, perché si può dire che non esistono sinonimi, le parole
hanno ognuna un leggero slittamento rispetto all’altra, non esiste una parola che
significhi esattamente quel che significa un’altra.
Ci sono dei colleghi che si divertono a scrivere molte parole in inglese, ma possiamo
scusarli, e poi anche tu, giustamente, parli del Grande Fratello e lo chiami “reality”. E’
così. In realtà molti programmi sono di modulo straniero, anche il Grande Fratello non so
se sia nato in Svezia, in America o non so dove.
I reality a me non piacciono, non per snobismo, ma perché mi annoiano; ho provato a
guardarli, ma è come guardare delle persone rinchiuse in un acquario. Il Grande Fratello
è un universo concentrazionario, che è l’espressione che usiamo per Auschwitz,
Birkenau, per i campi di concentramento, per i Gulag e i Lager. Sono mondi chiusi e
sfido chiunque, anche dei premi Nobel o delle persone simpaticissime, dovendo stare
chiuse dentro un modulo definito, senza nessuna percezione della realtà, a comportarsi
meglio di come si comportano quei poveretti. Anche se, però, mi pare che ci stiano
benissimo, vincono, sono pagati, vanno a fare altre cose in TV: se sono contenti così,
peggio o meglio per loro.
Professoressa Fierro: Adesso c’è la domanda del professor Carini, poi facciamo i saluti e
vi darò appuntamento per l’ultima conferenza, quella del 21 di aprile, in cui ospiteremo
Corrado Augias, il quale verrà un po’ a sparigliare le carte e a fare un discorso sul
linguaggio della scienza e quello della poesia. Adesso sentiamo il professor Carini, la
dottoressa Rampino che gli risponderà e concludiamo così come abbiamo cominciato e
poi proseguito questo lavoro, con attenzione, disponibilità e silenzio.
Professor Carini: Grazie, spero di non essere noioso, ma volevo fare una domanda che
riguarda un istituto che credo sia ancora esistente, cioè il segreto di Stato, che si
traduce negli omissis apposti ai documenti pubblicati. I giovani forse non lo sanno, però
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la storia della nostra repubblica è costellata di pagine bianche, di segreti, cioè di fatti
che non si conoscono ancora bene, di inchieste non completate, retroscena ancora
ignoti, perché è una storia piena di misteri, fin dagli anni cinquanta, anzi ancora prima:
penso alla banda Giuliano, al separatismo in Sicilia, alla strage di Portella delle
Ginestre, e poi ancora, negli anni ’60-’64 allo scandalo Sifar, il Piano Solo,
quell’inchiesta dei giornalisti Tino Iannuzzi e Eugenio Scalfari, che rivelò come, negli alti
ambienti, addirittura nel Quirinale, si architettasse un piano per arrestare e deportare i
leaders politici e sindacalisti di sinistra. E, per quel caso, ci fu un tempestoso colloquio
tra Saragat e il presidente Segni. E poi ancora, la strage di piazza Fontana, tutte le
inchieste sull’eversione e sul terrorismo, la strategia della tensione: ancora ignoriamo
chi fossero i veri colpevoli della strage di piazza Fontana nel ’69, si parlò di Freda e
Ventura e ultimamente è venuto fuori il nome di Delfo Zorzi, rifugiato in Giappone; e poi
ancora i grandi scandali di finanzieri, Michele Sindona avvelenato in carcere, il caso del
Banco Ambrosiano, il banchiere Calvi trovato morto sotto il ponte di Londra, lo scandalo
Lockheed, ancora non conosciamo il nome di Antilope Cobler, cioè quel politico italiano
che avrebbe preso le tangenti dall’industria Lockheed per agevolare una commissione
per l’esercito, uno scandalo molto grave per il quale furono incriminati i ministri Gui e
Tanassi; e ancora, il caso Moro, e i memoriali, cioè quello che aveva scritto Aldo Moro,
che si pensò li avesse il generale Dalla Chiesa; come fu scoperto realmente il covo di via
Gradoli, e tanti altri casi. Ora, le chiedo questo: molte di queste inchieste approdano a
prospettive di eversione e cioè a sospettare intrecci tra apparati dello Stato, e potrei
citare per esempio i nomi dei generali Belmonte, Santovito, il colonnello Giovannone, il
colonnello Spiazzi, Francesco Pazienza e Guido Giannettini, l’agente Zeta: ora, per
coprire questi rapporti, si appone il segreto di Stato, gli omissis sui documenti; siccome
siamo ormai nell’Europa Unita, il comunismo è caduto, non c’è più l’Unione Sovietica,
non sarebbe il caso forse di eliminare il segreto di Stato anche per approdare finalmente
a quella verità che ci sfugge da tanti anni per la crescita civile del nostro paese? Grazie.
Dottoressa Rampino: Ringrazio il professor Carini, anche perché mi tratta come un
Presidente del Consiglio, che è poi l’istituzione deputata a mettere o a togliere gli
omissis. Credo che Prodi abbia tolto degli omissis su alcuni di questi misteri di Stato,
anche se non penso che sia servito a molto. Devo sottolineare che le inchieste di cui lei
parlava sono anzitutto inchieste della magistratura, in molte di esse ci sono stati
depistaggi ad opera dei servizi segreti italiani che venivano definiti deviati, e sono
cominciate daccapo. Speriamo che tolgano gli omissis, potremmo sapere moltissime
cose, anche se credo che la verità storica la conosciamo già: è una verità che prescinde
in qualche modo dagli omissis e credo che sia un percorso di democrazia molto grave e
doloroso. Pensate a che cosa è stato per gli Stati Uniti l’ assassinio di John Fitzgerald
Kennedy, e le decine di interpretazioni che ancora circolano. Vorrei dire che non ho
nessuna fiducia nel fatto che, tolti gli omissis, sapremmo qualcosa di simile alla verità, e
che quello che ci interessa davvero è la verità storica. E credo che quella per fortuna ce
l’abbiamo già.
Professoressa Fierro: Ringraziando la dottoressa, voglio fare pubblicamente un elogio ai
ragazzi che hanno partecipato con attenzione e hanno posto domande tutte belle,
interessanti e pertinenti: questa è la riprova che i nostri incontri sono lezioni, fatte in un
altro modo, ma tanto ricche, belle e anche divertenti. Grazie a voi.
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Noi, come al solito, regaliamo alla nostra relatrice dei libri: giacché la scuola è povera,
l’unica cosa che possiamo offrire ai relatori che ci regalano il loro tempo e certo non si
fanno pagare per le loro conferenze, sono libri. Spero che lei non li abbia, uno è di
Luciano Canfora, uno dei più grandi filologi viventi che abbiamo avuto l’onore di
ospitare qualche anno fa: è l’inizio di una nuova collana della Laterza che si chiama
Anticorpi, bellissimo il titolo, e si intitola La natura del potere; l’altro è Aspettando la
cometa, di Franco Cordero, un grande giurista, che usa un linguaggio veramente
particolare, tagliente, sottile, bellissimo. Spero che le piacciano. Grazie.
Dottoressa Rampino: Grazie a voi tutti e grazie anche dei libri, professoressa.
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Il linguaggio della scienza
e quelo della poesia
Corrado Augias
Conferenza del 21 aprile 2009
Dirigente Scolastico prof. Franza: Con oggi concludiamo il tema di approfondimento
culturale del Liceo Orazio grazie all’impegno della professoressa Fierro che ne ha curato
l’organizzazione e l’esecuzione. E’ con noi il dottor Augias che ringraziamo di aver
aderito all’iniziativa pur essendo fagocitato dagli impegni. Perciò senza perdere tempo
do la parola alla professoressa Fierro per la consueta presentazione.
Prof.ssa Fierro: L’ultima riflessione sul tema “Umanesimo e Scienza” è affidata, oggi, a
Corrado Augias, un personaggio talmente noto da renderne per certi aspetti superflua e
forse proprio per questo più difficile la presentazione. La sua personalità è complessa,
molteplici gli interessi che lo animano, le vie che egli ha percorso, dalla stesura di testi
teatrali, alla letteratura, al giornalismo. In ognuno di questi settori, mi pare che si
avvicini alla dimensione esistenziale come chi indaga e al tempo stesso lascia una porta
socchiusa sul mistero. Nei suoi romanzi, penso alla trilogia narrativa “quel treno da
Vienna”, “il fazzoletto azzurro”, “l’ultima primavera”, si compongono trame dentro un
tessuto concreto dove gli eventi incalzano e vengono descritti e tradotti nel linguaggio
letterario senza alcuna contaminazione. La grande passione e conoscenza della storia
sorregge l’autore nel racconto intricato come avviene in “giornali e spie” dove egli
ricostruisce con assoluta veridicità la vicenda spionistica ordita dai servizi segreti del
Kaiser nel 1919 per favorire l’uscita dell’Italia dalla guerra; la medesima passione lo
spinge a sempre più ardite incursioni nell’avventurosa scoperta di luoghi, persone storie
, segreti di Londra, Parigi, New York. E che dire della sua attività di giallista con libri
come “una ragazza per la notte” o “quella mattina di luglio”. Forse è qui il segreto della
convivenza tra l’anima sua di scrittore e quella di giornalista: raccontare, sempre e
comunque raccontare.
Augias è stato inviato speciale per L’Espresso, Panorama , La Repubblica, quotidiano con
cui attualmente collabora; ha ideato e condotto programmi di significativo spessore
culturale come Telefono Giallo, Babele e adesso su Rai tre Le Storie. Ma non è una star
televisiva, secondo l’accezione comune del termine. E’ un intellettuale a tutto campo
che difende i valori di una cultura libera e laica; esprime un’ansia sottile e contagiosa di
verità non senza provocare a più riprese polemiche di scuola come è avvenuto per la sua
“Inchiesta su Gesù”. Da noi, oggi, viene a sparigliare le carte: ci farà entrare in quella
prospettiva in cui il linguaggio in quanto espressione diventa, per dirla con Croce,
creazione estetica, nella sua forma compiuta, poesia.
Il linguaggio della scienza e quello della poesia è il titolo di questa sua relazione che
siamo pronti ad ascoltare. Grazie. A lei la parola.
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Dott. Augias: Bene, molto bene. Guardate, vi devo dire come stanno le cose: sono le
nove e cinque e io purtroppo ho un guaio in redazione, sto qui soltanto per il grande
amore che ho per la scuola, per poter dire qualcosa sperabilmente utile a dei giovani,
perché in realtà non dovrei stare qui ma dovrei stare là a cercare di rimediare. C’è
saltato un ospite per il programma di oggi, è stato investito, quindi, non sappiamo bene
che fare. Quindi vi prego, ecco, a cominciare da quel giovanotto con la maglia (rivolto a
uno studente), con la giubba, con il giubbetto rosso, là con quella scritta, con quei bei
capelli, vi prego di stare attenti possibilmente o se proprio non riuscite a stare attenti di
allontanarvi in punta di piedi, perché io cercherò di essere molto conciso e perché se mi
fate perdere il filo diventa un macello. In compenso, io quello cercherò di fare in
cambio della vostra attenzione, che spero meritata, è darvi il senso di una lunga
discussione, perché questa Prof.ssa Fierro mi ha affidato un compito immane, parlare
del linguaggio della scienza e della poesia è una cosa da far tremare, perché voi sapete
che su questo si è discusso e si continua a discutere da sempre.
Dante, per dire…, no, prima ancora Lucrezio, è poeta o è scienziato. Quando scrive
La natura delle cose, De rerum natura, che cosa fa? Fa opera di poesia o opera di
scienza? Fa tutt’e due le cose: mette la scienza dentro il linguaggio della poesia e anche
la filosofia dentro il linguaggio della poesia, perché Lucrezio ci offre una visione
completa del mondo, tra l’altro una visione laica e quindi tendenzialmente, come
diciamo noi oggi, a partire dal XVIII secolo, scientifica. Dissipa i fumi di troppi dei che
affollavano il cielo di quegli anni. Dante che cosa fa? Poesia, scienza, teologia? Fa tutt’e
tre le cose, Dante fa tutt’e tre le cose, è un altro di quegli uomini… Lo stesso possiamo
dire di Goethe. Goethe fa tutt’e tre le cose, analizza lo spettro, analizza le rifrazioni dei
colori e scrive il Faust. Cioè sono quegli uomini che… ovviamente mi vengono in mente
un sacco di altri nomi, perché lo stesso si può dire di Leonardo, sono quegli uomini che
veramente incarnano il motto di Terenzio, ve lo ricordate? Lo avrete tutti studiato:
homo sum, nihil humani a me alienum puto.
L’humanitas: voi fate un Liceo Classico. Perché fate un Liceo Classico? Che ragione
c’è di fare un Liceo Classico? La ragione è l’humanitas, che in questi casi che ho
esemplificato (ovviamente molti altri se ne potrebbero fare) è un tutt’uno. Poi, invece,
in base ad una certa concezione, di cui oggi non possiamo parlare, che è quella di Croce
e di Gentile, i quali credevano che le attività intellettuali e conoscitive debbono essere
divise per grandi branche, questo ha prodotto una sorta di cristallizzazione per cui il
sistema scolastico del nostro Paese si divide in un Liceo Classico e in un Liceo
Scientifico, al livello vostro.
Voi siete dei privilegiati, perché ci sono anche quelli che alla vostra età battono le
lamiere o mettono i mattoni l’uno sull’altro perché devono cominciare a lavorare. Voi
potete concedervi il lusso di passare alcune ore della giornata chini sui testi, cosa per la
quale, vi dico la verità, vi invidio profondamente. Ma questa divisione Liceo Classico e
Liceo Scientifico è valida soltanto nei paesi di vecchia tradizione, come il nostro. La
Francia pure ha un sistema scolastico di questo tipo, ma per esempio, negli Stati Uniti
già non esiste perché lì il sistema è tutto diverso.
Adesso senza approfondire perché se no ci perdiamo, anche perché vi voglio dire
qual è il mio schema e sono già le nove e dieci; io voglio parlare fino alle dieci meno un
quarto e poi abbiamo mezz’ora per discutere dopo di che scappo come un ladro.
Leopardi, ecco un altro nome che avevo appuntato, anche Leopardi scrive una Storia
dell’astronomia. Leopardi, che è uno dei nostri sommi dell’Ottocento… giovanotto
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(rivolto a uno studente), e stai attento, maledetto!, sì tu, quella ragazza la corteggi
dopo… Leopardi, dicevo, uno dei nostri pochi sommi dell’Ottocento. Qui apro una
parentesi, non vorrei confondervi con troppe nozioni, voi sapete che c’è una tesi
storiografica molto importante e abbastanza consolidata la quale dice che se questa
penisola, che si chiama Italia fosse riuscita a raggiungere un’unità politica, per esempio
nel XV secolo, quando l’Italia dominava il Mediterraneo, attraverso l’intraprendenza dei
mercanti e la sagacia dei banchieri, il nostro destino, e quindi anche il vostro, sarebbe
stato molto diverso. Invece noi abbiamo raggiunto un’unità politica solo nell’Ottocento,
nella seconda metà dell’Ottocento che è stato per noi un secolo fiacco. Per l’Italia è un
secolo fiacco l’Ottocento. Mi viene in mente questa breve considerazione proprio perché
Leopardi, invece, è l’eccezione. Leopardi è un poeta e filosofo, ultimamente si tende
addirittura a valutarlo come filosofo, quasi alla stessa stregua del poeta di importanza e
di livello mondiale.
Dicevo Leopardi, perché, per esempio, c’è anche un’altra cosa che possiamo
prendere come uno scherzetto, poi entro nel vivo della questione, questa piccola
chiacchierata è solo un preambolo. Voi avrete probabilmente fatto o visto o scorso
l’abate Zanella, no? Eh, niente? L’abate Zanella era un abate e una persona rispettabile
che scriveva poesie e ha scritto una poesia, fra le altre, che si chiama Sopra una
conchiglia fossile: Sul chiuso quaderno / di vati famosi / dal musco materno / lontana
riposi, / riposi marmorea, / dell’onde già figlia, / ritorta conchiglia. Qui fa tutta
un’analisi. Chi sono questi che arrivano?
Prof.ssa Fierro: Sono sempre alunni.
Dott. Augias: I ritardatari?
Dirigente Scolastico Prof. Franza: Vengono dalle altre sedi.
Dott. Augias: Mi dispiace, non è che devo ricominciare da capo? Ecco, dicevo, l’abate
Zanella è il relativo minore di Leopardi. Anche l’abate Zanella fa poesia scientifica
perché racconta tutta la storia di una conchiglia fossile, però, tra Leopardi che scrive la
Storia dell’astronomia e l’abate Zanella corrono alcuni piani di differenza.
Allora, avviciniamoci adesso di più al tema che la diabolica Prof.ssa Fierro ci ha
assegnato. Ve lo illustro ricorrendo a Giambattista Vico. Vico suscita immediatamente,
suscita, suscita… va bene. Giambattista Vico dice: partiamo da questo… Tu, tu (rivolto a
una studentessa), per esempio, signorina con il golf nero e la matita blu, tu guardi un
quadro o ascolti una sonata per pianoforte di Beethoven. Io ti chiedo, che cosa pensi di
quel quadro? Che impressioni ti ha suscitato quella sonata? E tu, come farei io del resto,
balbetti delle cose: ma, veramente quella sonata mi è sembrata come un mare in
tempesta, quel quadro, quei colori, mi hanno ricordato una volta un tramonto alle isole
Galapagos. Cerchi di rendermi quello che tu hai provato ascoltando quella sonata o
guardando quel dipinto con delle metafore. Perché me lo rendi con delle metafore?
Perché la sensazione, l’emozione estetica, o anche intellettuale, anche concettuale, che
tu sicuramente hai provato guardando o ascoltando, non la puoi rendere con il
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linguaggio diretto. Difatti per questo i testi critici, i testi dei critici sono così, diciamo
pure, noiosi, perché dovendo diventare tecnici, allora, nel caso della sonata, quelli ti
dicono perché la successione delle quinte in Beethoven, proibita dalla teoria armonica
ma da lui applicata così genialmente… Lui deve scendere nella descrizione di dettagli
tecnici che con l’emozione che tu hai provato ascoltando, non hanno nessuna parentela,
non la rendono, anzi, la gelano e lo stesso critico d’arte… alle volte i critici d’arte si
inventano non si sa che!
Insomma la verità è che le emozioni estetiche sono difficilmente restituibili con il
linguaggio proprio della logica, questa è la prima osservazione che bisogna fare. La
seconda osservazione è proprio quella di Vico, perché io ho detto le metafore, va bene?
Allora la metafora “bianco come la neve” è una metafora che chi la dice meriterebbe di
essere schiaffeggiato come faceva Nanni Moretti in quel film, Bianca. Bianco come la
neve, alto come un soldo di cacio, sono tutte metafore logore, cadono a pezzi ma sono
metafore. Il primo che ha detto “bianco come la neve” era un poeta, il secondo che l’ha
ripetuto era già uno normale, chi lo dice oggi andrebbe schiaffeggiato, perché è una
cosa che non si può più sentire. “Pesante come un macigno”, lo leggete continuamente
sui giornali: altra metafora logora, ridicola, però appartiene alla figura letteraria della
metafora. Sono espressioni linguistiche che usano parole associate alle esperienze
quotidiane per evocare un’altra esperienza, per renderla più comprensibile. Per
esempio, qui avevo appunto questo esempio che è già più complesso di “bianco come la
neve”. Insieme al mio amico Roberto sono andato a Milano e abbiamo volato sulla sua
Ferrari. Ora siccome noi sappiamo che da Roma a Milano con la Ferrari bisogna fare
l’autostrada e che se anche le Ferrari ora vanno malissimo, insomma, anche se sono
delle macchine da corsa poderose, non volano, allora, dov’è lì la metafora? Che io
trasferisco l’idea della velocità applicando all’oggetto automobile, ancorché Ferrari, il
concetto di volare che appartiene ad un altro oggetto che si chiama aeroplano. Questa è
una metafora immediatamente comprensibile perché chi ascolta questo, subito capisce
che io sto esagerando. Del resto nel vostro linguaggio giovanile queste esagerazioni sono
continue.
Adesso, ogni tanto io ho dei nipoti appena un po’ più piccoli di voi che mi fanno
sentire delle cose che si rizzano i capelli sulla testa, ma è il continuo gioco metaforico
che viene rinnovato proprio grazie a quello che voi vi dite: la maggior parte sono delle
cose triviali, nel senso che poi cadono, però ogni tanto rimane qualche perla. Se uno di
voi, mentre io continuo a parlare, si prepara per dopo una metafora giovanile da
proporre la possiamo prendere in considerazione. C’è un altro tipo di metafora. Allora
questa è una metafora di primo tipo, dice Vico, dove tutti i termini, sia quelli propri che
quelli traslati, sono immediatamente comprensibili.
C’è un altro tipo di metafora, secondoVico, che esemplifico con un verso di un
poeta. Sentite: Se prendo le ali del mattino / e dimoro nelle zone più estreme del
mare… 3 Se prendo le ali del mattino? Ma che vuol dire? …le ali del mattino? Il mattino
ha le ali? Se prendo le ali del mattino / e dimoro nelle zone più estreme del mare:
queste parole non possono essere interpretate come un’esperienza realmente vissuta.
Tra le ali, sia quelle degli uccelli sia quelle degli aeroplani sia quelle degli aquiloni,
insomma ogni tipo di ali, e il mattino non c’è nessuna relazione possibile: tra la Ferrari e
il volare la relazione, per traslato, facendo un piccolo salto logico, si poteva indovinare,
ma tra le ali e il mattino la relazione non c’è. Allora che succede in questo caso?
Succede in questo caso che fra le ali e il mattino, voi ci dovete mettere qualcosa dentro,
perché questo verso, che non è brutto, risuoni. Se prendo le ali del mattino / e dimoro
3
Salmi 139, 9-10.
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nelle zone più estreme del mare: anche le zone più estreme del mare, io non so bene
dove siano, probabilmente nessuno di voi neanche lo sa. Ecco questo buco che c’è tra un
termine e l’altro, costituisce sì una metafora ma costituisce una metafora del tipo
poetico, nel senso che lo iato, il gap, come direste voi che studiate l’inglese, tra una
parola e un’altra può essere riempito solo con qualcosa di sconosciuto che va al di là
dell’esperienza e attribuisce a una cosa conosciuta, le ali e il mattino, mettendole
insieme, una proprietà misteriosa.
Questa è la poesia. E qui possiamo andare ad analizzare, stai attento (rivolto a uno
studente), qui è il punto cruciale, lascia quella mano per un attimo, vai così, questo è il
punto centrale, non vi distraete maledetti!, non vi distraete… Che cosa distingue la
metafora del primo tipo da quella del secondo? La metafora del primo tipo è da me
associabile, con facilità, a un’esperienza quotidiana, devo fare un saltino alto così per
arrivare a capire il paragone. La metafora del secondo tipo richiede un intervento
emotivo, prelogico considerevole, ma anche inesprimibile: provate a dire le ali del
mattino e le zone estreme del mare. Hanno per chi le sente, ovviamente… Ma potremmo
fare, anzi preparatevi qualche altro verso dove c’è il valore metaforico. Anche tra i
poeti, certo non versi dell’abate Zanella, tra i poeti dell’Ottocento ne trovate a iosa. Se
fossi la Prof.ssa Fierro vi darei un esercizio di questo tipo. L’insegnante di Italiano,
giustamente, ognuno ha il suo specifico. La professoressa di italiano vi dà un esercizio :
fate degli esempi di metafore nelle quali il salto tra le parole consenta l’inserimento di
un intervento poetico.
Adesso mi dispiace, questa parte non l’ho preparata. Vi viene, al volo, qualcosa in
mente a qualcuno di voi? Per esempio sono sicuro che… beh, va bene, dopo la
cerchiamo, questo è un buco. Guardate, avevo messo da parte dei versi di Blake. Come
voi sapete, Blake è un poeta del XVIII secolo inglese. William Blake è importante, merita
un attimo di silenzio. Sentite questi versi di Blake, (rivolto a uno studente) giovanotto
con la barba, per Dio, senti questi versi di Blake! Sorridi sui nostri amori, e, mentre apri
il / blu sipario del cielo, spargi la tua rugiada d’argento / su ogni fiore che chiude / i
suoi dolci occhi / in un sonno senza tempo. 4
Ora va tutto bene, queste metafore sono tutte comprensibili, è afflato poetico che
accompagna un certo tipo di discorso ma diventano molto più misteriose se pensate che
il sipario blu, il cielo, la rugiada, i fiori e gli occhi, che son tutte cose familiari,
nell’immaginazione poetica di Blake, le loro azioni, sorridere, aprire, spargere, sono
attribuite alla stella della sera. E’ la stella della sera il soggetto che ispira tutte queste
azioni. Allora voi capite che è la classica fantasia poetica del XVIII secolo. Ci spiazza
improvvisamente il poeta, facendo soggetto di tutte queste azioni una stella lassù nel
cielo.
Questo linguaggio della poesia, attenzione, confina con il linguaggio della mistica, la
mistica. I grandi mistici, gli estatici: oggi ce ne sono di meno, ma nei secoli passati le
figure dei grandi mistici che avevano le estasi, le visioni erano piuttosto frequenti. Ora
non c’è dubbio che il visionario, colui che ha le visioni, le estasi arrivano fino a suscitare
nel soggetto delle reazioni fisiche: il mistico veramente sa di vedere e di udire, ci sono
dei casi di ciarlatani. Ma non parliamo di quelli, parliamo dei veri mistici. Voi andate,
una mattina che avete un’ora, nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria e guardate, date
un’occhiata alla statua famosa, la potete guardare pure su internet, insomma, la statua
4
William Blake, La stella del mattino (ca. 1770).
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famosa di Santa Teresa del Bernini. Lì vedrete l’estasi mistica gelata da quel geniale
artista in una posa di rapimento anche fisico.
George Bernard Shaw nel suo Santa Giovanna, per Santa Giovanna s’intende
Giovanna d’Arco, fa fare questo dialogo fra Giovanna e l’inquisitore. Giovanna: “…non
dovete parlarmi.” (rivolto agli studenti) Voi sapete di che sto parlando, vero? Giovanna
d’Arco? XV secolo, Inglesi, Francia, Orléans. Giovanna: “…non dovete parlarmi delle mie
voci.” Inquisitore: “Che cosa volete dire con voci? Giovanna: “Sento delle voci che mi
dicono cosa fare. Vengono da Dio.” Inquisitore: “Vengono dalla vostra immaginazione.”
Giovanna: “Certo, questo è il modo in cui i messaggi di Dio arrivano a noi.” 5 Vedete,
l’inquisitore cerca di coglierla in fallo, dicendo: ma le tue visioni, le parole che tu ripeti
e che tu dici arrivare da Dio, te le sei inventate tu? E Giovanna dice: certo, me le sono
inventate io, ma chi me le ha messe nella testa? Qui il linguaggio della poesia e il
linguaggio della mistica si confondono, diventano un tutt’uno e tutt’e due stingono, sia
la mistica sia la poesia, verso quell’irrazionale che sfugge ad una piena comprensione
logica di quello che si sta dicendo.
Del resto, e qui chiudo questa parte, chiudo, forse, anche tutto, del resto, voi
sapete che i grandi matematici… intanto si diventa grandi matematici, come grandi
poeti, in età giovanissima. Un matematico che a quarantacinque anni non abbia ancora
lasciato un piccolo segno sulla storia della matematica, può continuare a fare il suo
mestiere tranquillamente ma è quasi impossibile che lasci un suo segno. Ci si rivela
grandi matematici, come grandi poeti, fra i venticinque e i trentacinque anni. Anche
grandi musicisti ci si rivela a quell’età, poi, dopo, si diventa dignitosi professionisti della
musica e della matematica. I grandi matematici che sembrerebbero i padroni assoluti
del linguaggio unicamente razionale, spesso partono da un’intuizione che non
saprebbero spiegare in termini razionali, scientifici. Il grande matematico parte da
un’intuizione e poi, dopo, lavorandoci, elaborandola, riesce anche ad esprimerla in una
formula, consolidarla, dargli un andamento che appartiene al linguaggio della scienza.
Ma la prima scintilla è un’intuizione. Allora, in questa fase embrionale nulla distingue
l’intuizione del matematico dalla scintilla del poeta.
Vedete come il discorso è complesso. Poi, dopo, i cammini si dividono e torniamo a
quella cosa che dicevamo poc’anzi, cioè al fatto, e qui voglio chiudere, così magari
parliamo un po’ insieme e torniamo al problema che il linguaggio della scienza è il
linguaggio verificabile, (rivolto a una studentessa) prenda nota di questo signorina, il
linguaggio verificabile per eccellenza. Il linguaggio della scienza, deve essere, attenta!
(rivolto a una studentessa), verificabile, falsificabile, ripetibile. Perché dico queste tre
cose? Verificabile, nel senso che deve essere espresso in termini talmente precisi che
chiunque sia all’altezza di capirlo, ovviamente, deve poter vedere la correttezza del
ragionamento che ha portato da A a B. Falsificabile: il linguaggio della scienza deve
essere espresso in termini così precisi che chiunque possa dire no, questo non è vero,
perché il mio esperimento ha dimostrato un’altra cosa. Ripetibile: il linguaggio della
scienza che vuol dire anche le equazioni, sia chiaro, deve essere tale da poter essere
ripetuto tutte le volte che serve, nelle condizioni date. Io faccio questo esperimento con
tanta temperatura, in un tale ambiente, tanta umidità, tanti ingredienti e viene. Se
riprendo temperatura, umidità, ingredienti, e invece di stare al Liceo Orazio sto a Los
Angeles, deve venire lo stesso. Qui il linguaggio della scienza si divide radicalmente da
quello della poesia. La poesia appartiene a tutt’altro ordine di cose, appartiene alle
intuizioni, alle emozioni interne, a quelle che all’inizio, non mi ricordo più con chi
5
George Bernard Shaw, Santa Giovanna, scena 1 (1923).
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dicevamo di poter essere ripetute, descritte addirittura con una certa esitazione,
difficoltà o ricorrendo a delle metafore.
Non fate l’applauso, per carità, perché mi viene il mal di testa, invece fate qualche
domanda, cominciando, per esempio da te (rivolto a uno studente), hai l’aria di chi può
fare una buona domanda. Dai, dai, veloce. La Fierro prende le tue difese.
Prof.ssa Fierro: Io non prendo le difese di nessuno. Allora, il dottor Augias non vuole
applausi, quindi noi ubbidiamo e non applaudiamo. Quindi, senza porre indugi,
cominciamo con le vostre domande, quelle che immediatamente vi sentite di fare, dopo
aver ascoltato. Le prime suggestioni, diciamo che avete ricevuto da questa riflessione,
una riflessione fatta ad ampio raggio. Quindi, secondo me, fin da subito potete
cimentarvi nel domandare, nel cominciare questo dibattito.
Dott. Augias: Ci penso io, guardi, è il mio mestiere. Cominci lei, e non… ma, scusi, non è
possibile. Guardate, vi dico una cosa. Vi dico una cosa generale per il seguito della
vostra vita: ogni volta che in pubblico qualcuno vi invita ad alzarvi e prendere la parola,
alzatevi e prendete la parola. Questa è una regola di base del comportamento pubblico,
voi avete il diritto ma anche il dovere di dire la vostra, anche se è un pensiero appena
accennato, anche se è un’intuizione, anche se è per dire “non ho capito bene”, anche se
è per dire “quel punto non mi è piaciuto, lei non è stato abbastanza chiaro”. Si alzi e
prenda la parola (rivolto a una studentessa), dai! Forza, giovanotta! Si alzi, faccia una
considerazione, dica un verso, dica un verso! Beh, niente, non sono abituati! Abituatevi!
Prof.ssa Fierro: Sono abituati ad intervenire, ma liberamente.
Dott. Augias: Sei pronto?
Prof.ssa Fierro: Con il microfono.
Dott. Augias: Fierro, per favore, ci penso io, ci penso io. Abbiate pazienza, se parla
quello laggiù (rivolto a uno studente) come facciamo?
Prof.ssa Fierro: Vengono qui a parlare.
Dott. Augias: Perdiamo un sacco di tempo se vengono qui a parlare.
Prof.ssa Fierro: No, non perdiamo tempo, non si sentono e non si può registrare.
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Studente: Perché il linguaggio della scienza deve essere falsificabile?
Dott. Augias: Ottima domanda, bravo. Ha chiesto: “Perché il linguaggio della scienza
deve essere falsificabile?” Si è molto applicato a questo concetto un filosofo
dell’Ottocento che si chiama Karl Raimond Popper. Lui diceva, per esempio… Come ti
chiami?
Studente: Flavio.
Dott. Augias: Flavio, nome romano, benissimo, fra l’altro c’è una dinastia. Dunque
Flavio ha fatto una domanda fondamentale, ha chiesto un tempo di riflessione, ma… Che
cosa diceva Popper con “falsificabile”? Parto al contrario, lui diceva che né la
psicoanalisi né la religione possono mai essere linguaggi scientifici. Non per tutte le
ragioni che si possono dire e che sono state dette, ma per questa semplice
considerazione, che sia la psicoanalisi sia la religione sia le dottrine politiche… Lui ci
metteva anche il comunismo. Allora, voi forse non lo sapete, il comunismo si chiamava
anche socialismo scientifico e Popper lo contestava perché diceva che tutte queste
teorie e queste dottrine, al mutare delle condizioni politiche o sociali dalle quali sono
nate, mutano, cambiano, si adattano, deviano dalla loro originaria concezione e si
plasmano, si adagiano sulle rinnovate condizioni politiche, proprio perché sono tutte
queste cose espresse con un linguaggio che si presta ad una successiva adattabilità. Mi
segui? (rivolto a uno studente) La scienza deve avere un linguaggio molto più rigido e
molto più vischioso. Se io dico, adesso un esempio qualunque, dico due più due fa
quattro, dico una cosa molto precisa. Se tu arrivi un anno dopo e dici: “Guardi, il famoso
teorema Augias che due più due fa quattro non è più vero, perché io posso dimostrarvi
che due più due fa cinque”( non sono in grado di fare un esempio più pregante); se tu
dimostri che due più due fa cinque, due più due fa quattro viene buttato via e da quel
momento due più due fa cinque. Questo significa la falsificabilità della scienza. La
scienza, i principi scientifici, meglio, devono essere espressi in maniera così precisa da
poter essere dimostrati falsi, (rivolto a uno studente) mi segui? Se io dico, adesso non
vorrei fare un esempio politico anche se mi viene in mente, perché poi, in una scuola, lo
posso fare?
Prof.ssa Fierro: Certo.
Dott. Augias: Se io dico, guardate, faccio una premessa, (rivolto a una studentessa)
signorina, stia attenta, che sto per pronunciare un nome importante. Io considero Carlo
Marx, per alcuni aspetti, uno dei geni dell’umanità e per altri aspetti un uomo
crudelmente smentito dalla storia. Se io dico, all’inizio c’era la società schiavistica, poi
è arrivata la società nobiliare, il feudalesimo, i principi, i servi della gleba, poi dopo è
arrivata con le grandi rivoluzioni del XVIII secolo la società borghese, la prossima società
sarà l’avvento del proletariato. Io dico una cosa che certo, poi, è stata falsificata dalla
71
storia, ma dico una cosa che può essere vista in mille modi: le avanguardie della società
borghese non sono possibilmente delle avanguardie assimilabili a quelle del proletariato?
Mi posso divincolare in maniera molto abile fra queste maglie, laddove, se dico due più
due fa quattro, sono inchiodato a quello che ho detto, mi sono spiegato?
Una volta che è stato dimostrato il contrario, chiede Flavio, il linguaggio della
scienza come può essere ripetibile? Una volta che è stato dimostrato il contrario, sarà
ripetibile quello, il contrario. Se io dico due più fa quattro, adesso l’esempio che ho
fatto io si presta male. Tu comunque sei un abile dialettico e ti esorto ad andare avanti.
Io prendo due fagioli e prendo altri due fagioli e poi conto, uno, due, tre, quattro. Poi
vado a Torino e faccio uno, due, tre, poi vado in capo al mondo e faccio uno,due, tre,
quattro. Ripeto sempre, tu sai, se io dimostro e tu sai che la matematica può dimostrare
molte cose. Se io dimostro che due più due fa tre, e ripeto la formula ogni volta, io mi
sono fatto falsificare da un matematico più ingegnoso. Ovviamente su due più fa quattro
è difficile, ma io non sono in grado di fare un esempio più pregnante. Prendi uno dei
teoremi più difficili e credo risolto solo da pochi mesi o anni: il teorema di Fermat. Lì,
un teorema che per decenni nessun matematico al mondo è stato capace di dimostrare
falso, poi è stato verificato e dimostrato falso. Il linguaggio della scienza è questo:
ripetibile. Quando dico ripetibile, parlo soprattutto non tanto della matematica ma degli
esperimenti: se io prendo due parti di idrogeno e una parte di ossigeno, tò!, mi è venuta
l’acqua! Poi vado da un’altra parte e dico: volete vedere come faccio l’acqua? Prendo
due parti di idrogeno e una parte di ossigeno e faccio l’acqua. Questo è un esempio
ripetibile, perché è vero. Non sei convinto?
Studente: No.
Dott. Augias: Ho paura che sono stato poco chiaro, se vuoi, poi ne parliamo, perché se
no non finisce più.
Prof.ssa Fierro: Allora, innanzitutto voglio dare la parola a chiunque. Non può essere
solo una persona, altrimenti non è un dibattito. C’è la collega che vuol fare una
domanda fin da subito? Gli adulti, i ragazzi, chiunque, appunto, può partecipare..
Prof.ssa Arcuri: In realtà io credo che la questione della ripetibilità deve essere posta in
altri termini, come la questione della ripercorribilità delle procedure. Le procedure
della scienza sono procedure pubbliche. Per esempio, un farmaco contro il cancro può
non funzionare, ma è comunque un farmaco di cui si conosce o almeno si dovrebbero
conoscere, in genere, gli ingredienti, le quantità, i dosaggi, i modi di funzionamento.
Può non funzionare, anzi, purtroppo, spesso non funziona. Invece, succede che, per
esempio, una pratica da magliari, da strapazzo funzioni. Resta il fatto che non è
scientifico, non è riproducibile la procedura con cui lo si è fatto. Quindi, magari il siero
di Bonifacio per qualche misterioso, enigmatico, motivo pazzesco, assolutamente
dissennato, antiscientifico, funziona, ma la distinzione fra ciò che è scienza e ciò che
non è scienza peraltro rimane, anzi deve essere tenuta molto presente a proposito della
verificabilità. Per esempio, pensiamo all’astrologia. Molto in breve: se dico che stamane
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un capricorno incontrerà l’amore, questo non è che non sia confermabile, è
confermabile. Al contrario, non è falsificabile per un capricorno. Nel mondo, magari
l’amore questa mattina lo trova.
Prof.ssa Fierro: Questa esemplificazione è bellissima.
Dott. Augias: Ecco che cosa vuol dire, andiamo avanti.
Prof.ssa Fierro: Andiamo avanti, ragazzi.
Dott. Augias: Scusi, Fierro, per piacere. Volevo quel giovanotto con la maglia bianca.
(rivolto a uno studente) Tu biondo, dai, fatti vivo, alzati, alzati e cammina.
Prof.ssa Fierro: Viene qua con il microfono.
Dott. Augias: Ma non può camminare...
Prof.ssa Fierro: Sì, tutti sono abituati ad avvicinarsi per fare interventi ordinati.Vieni.
Dott. Augias: Guarda il tempo che perdiamo.
Prof.ssa Fierro: Non perdiamo tempo.
Dott. Augias: Come no?
Prof.ssa Fierro: Ragazzi, preparatevi qua come sempre. Si preparano in fila, non si
perde tempo.
Luca Storchi II D: Lei ha parlato di questi buchi di comprensione che ci sono nei testi
poetici, mi ha molto incuriosito. Volevo sentire da lei, con questi testi poetici che lei ha
citato è comunque abbastanza semplice ricostruire questo buco, ma quando abbiamo un
testo poetico, tipo Pindaro o Tristram Shandy di Sterne, come può il lettore accostarsi
senza un testo critico? Deve fare un patto con il poeta per credergli?
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Dott. Augias: Ottime domande. Dunque se tu mi fai un esempio così, io ti potrei, ognuno
di noi potrebbe fare una quantità di esempi, perché se vai sulla poesia antica ci
sfuggono non solo il significato logico di tante cose come sulla poesia contemporanea,
diciamo a partire da Settecento in poi, ma ci sfuggono proprio i riferimenti che quel
poeta aveva in testa quando scriveva quei versi. Ci sfugge il suo mondo, lì c’è bisogno di
un intervento. Anche se leggi Dante, Dante è il grande inventore della nostra lingua, ma
ci sono delle parole che in sette secoli sono state cancellate, sono diventate desuete, si
sono trasformate, hanno cambiato di significato. Lì hai bisogno dell’interpretazione
dello storico che ti dica: guarda che questa parola nel Trecento voleva dire un’altra
cosa, non quello che vuol dire oggi. Quello va bene, ma io mi riferivo ad un’altra cosa.
Mentre tu parlavi mi sono venuti in mente questi tre versi: Ognuno sta solo sul cuor
della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. 6 Ora voi capite bene che
dare un cuore alla terra, è già una cosa… quando mai? Sì e no ce l’abbiamo noi un cuore,
quanto meno in senso metaforico. Che la terra abbia un cuore, è una cosa che ci
lascia… Eppure quella cosa, ognuno è solo sul cuore della terra, è misteriosamente
evocativa di qualcosa, che sarebbe difficile esprimere in altro modo. La nostra signorina
che abbiamo preso… Per esempio, se le dicessi perché ognuno è solo sul cuore della
terra evoca qualche cosa, suscita, ci fa vibrare qualche cosa, lei avrebbe delle
difficoltà, io pure, a dirlo. Però, sappiamo che è così, no? Qui non c’è nessun bisogno di
un critico, di un interprete. Ognuno che legga o dica questi versi ne è interprete. Lo
storico sparisce perché questo appartiene alla nostra sensibilità totalmente, alla nostra
sensibilità contemporanea. Sei contento?
Prof.ssa Fierro: Posso io fare una considerazione? Dunque la poesia, per lei è ancora,
come è nella tradizione idealistica, creatrice di senso, cioè lingua primitiva che crea il
senso. L’interpretazione diventa, soggettiva, quindi non c’è bisogno di mediazioni.
Dott. Augias: Io, come lei, mi par di capire, sono per la concezione romantica della
poesia, cioè che la poesia è un linguaggio metalogico che va al di là della logica, ma che
proprio per questo è fortemente evocatore. Perché per il linguaggio della logica che è
fortemente comunicativo al livello logico, alle ore 9 del 21 aprile, Natale di Roma,
nell’Aula Magna del Liceo Orazio, si è tenuto un incontro. Io faccio la cronaca di quello
che si è tenuto qua, guai se non c’è una sola parola che non sia immediatamente
comprensibile. Questa è la funzione del linguaggio cronistico che deve comunicare delle
notizie. Qui si potrebbe aprire la dolorosa parentesi delle notizie che vengono date con
un linguaggio tale da poter esser decifrate solo da chi la sa lunga. Il linguaggio della
poesia è il contrario, il linguaggio della poesia deve richiamare, deve far risuonare delle
corde segrete, deve far vibrare in ognuno di noi la cosa che solo lui sa perché. Che poi,
guardate, in una dimensione meno potente è quello che si applica ad ogni opera della
letteratura.
Qualche giorno fa io ho segnalato con grande favore un libro, un romanzo appena
uscito di un autore vivente italiano, che mi aveva veramente turbato, un romanzo, una
storia che mi ha veramente turbato e ne ho parlato in termini di sincero turbamento. Mi
ha scritto un signore, io ho una posta pubblica, mi ha scritto: “Ma, caro Augias, ma che
6
Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera.
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mi ha fatto leggere? Ma perché mi ha segnalato quel libro che è una zozzeria, che non
mi ha interessato per niente?” Lui era sicuramente sincero, ma lo ero anch’io. Lo stesso
libro ha risuonato in maniera completamente diversa nella testa, e se posso dire, usare
una parola abusata, nel cuore di quel signore e nel mio, perché ognuno di noi legge la
letteratura, ecco qui la cosa, Flavio. Ognuno di noi legge la letteratura, non la cronaca,
certo, della partita Roma-Juventus, ognuno di noi legge la letteratura filtrandola dentro
la sua testa. Ti dirò di più: ogni filosofo legge e interpreta il mondo filtrandolo
attraverso la sua testa e la sua biografia. E che cosa distingue il filosofo dal grande
filosofo? Il fatto che, pur filtrando ciò che vede e descrive attraverso la sua testa e la
sua biografia, lui riesce a superare, a superarsi, a saltare fuori dalla sua pelle e a far sì
che noi oggi leggiamo Kant con la stessa passione con la quale si è letto alla fine del
Settecento. Ma per quanto riguarda la letteratura narrativa e la poesia, non c’è dubbio
che ognuno di noi legge un libro in maniera diversa dall’altro, tanto è vero che negli
anni Sessanta si è a lungo discusso su quella che si chiama la teoria dell’ “opera aperta”.
Uno dei suoi propugnatori in Italia più forti, è stato Umberto Eco, il quale diceva
proprio, vedeva il lettore come co-creatore del testo. Il lettore diventa co-autore,
perché l’autore scrive quello che deve scrivere, il lettore, leggendolo, prende quel testo
e lo fa suo, lo trasforma, lo plasma, lo fa aderire alla sua biografia. Quindi, cara Prof.ssa
Fierro, su una cosa siamo d’accordo.
Prof.ssa Fierro: Ragazzi!
Dott. Augias: Quella bionda lì?
Prof.ssa Fierro: Ma così li mette a disagio.
Dott. Augias: Ma non li metto a disagio, sono ragazzi grandi, hanno la vita dalla loro.
Angelo: Salve, io sono Angelo e le volevo chiedere se per lei, a questo punto, il
linguaggio poetico e il linguaggio scientifico sono inconciliabili. A me viene un esempio
come Spinoza. Spinoza che parla fa una grande trattazione metafisica, utilizzando un
linguaggio che è geometrico, scientifico tramite dimostrazioni, corollari, scolii. Di
conseguenza io volevo sapere se, secondo lei, la trattazione poetica può essere
suscettibile anche di un linguaggio scientifico.
Dott. Augias: Ripeti l’ultima parte.
Angelo: Volevo sapere se la trattazione poetica, metafisica, può essere suscettibile
anche di un linguaggio scientifico, quindi di portare i propri ragionamenti metafisici,
perché, come lei ha detto prima, anche i più grandi ragionamenti possono essere
interpretati in maniera diversa da ciascuno di noi. Come si è visto, molti filosofi sono
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stati interpretati in un modo o in un altro, possono comunque parlare secondo la
chiarezza, la verificabilità del linguaggio geometrico tipico del linguaggio scientifico.
Dott. Augias: Come ti chiami tu?
Prof.ssa Fierro: Angelo.
Dott. Augias: Grazie, Angelo. Dunque, qui questi ragazzi fanno delle domande micidiali,
sono terribili, pensa a doverci combattere tutti i giorni. Dunque, mi fa piacere che tu
richiami a Spinoza, perché mi incuriosisce anche, perché è un filosofo di cui si parla
poco, invece è uno dei grandi. Non ti dimenticare mai, quando parli di Spinosa, che lui
era ebreo e cacciato dalla sinagoga, poi che i suoi libri sono stati messi all’indice dalla
Chiesa cattolica. Quindi era un doppio reietto, dalla sua originaria famiglia ebraica e
reietto dalla chiesa cattolica, e buon per lui che viveva in Olanda, perché se stava in
Italia gli andava anche peggio. Non ti dimenticare nemmeno che Spinoza era un tecnico,
non dico uno scienziato, ma un quasi scienziato. Era un tecnico, faceva le lenti, era un
occhialaio. Se tu andavi da Spinosa, lui ti poteva spiegare la natura naturans e ti poteva
anche fare le lenti nuove per questi occhiali. Quindi vedi la sua visione del mondo, che è
una delle cose che più mi affascinano. Hai citato uno dei miei filosofi preferiti, anche in
questo siamo d’accordo con la Prof.ssa Fierro.( Fierro, e già son due! ) La sua visione di
Dio, della natura, di Dio come natura, è una visione allo stesso tempo fortemente
scientifica e fortemente poetica, non c’è nessun dubbio. Che ti posso dire? Per esempio,
la sua visione di Dio come entità inconoscibile perché siccome noi abbiamo esperienza
diretta solo delle cose che possiamo misurare, se noi andiamo verso un’entità che è
incommensurabile perché infinita, eterna, come facciamo a misurare una cosa di cui non
abbiamo la minima consapevolezza, come facciamo a conoscerla? Vedi bene che questa
non è una cosa che possa essere dimostrata in nessun modo, è solo un’intuizione
scientifica che quasi sconfina nella poesia. Quando leggevo, purtroppo in anni lontani,
Spinoza, che tanto mi ha appassionato, leggevo la sua confutazione della teoria dei
miracoli. Lui diceva: come si fa a chiedere un miracolo alla divinità? Significa volerla
forzare fuori dal disegno che è ab aeterno, che quella ha prestabilito. Allora, chiedere
un miracolo, come si fa in tutte le religioni paganeggianti, è una forma di superstizione
infantile, che non ha senso rispetto all’infinità del dio a cui ci si rivolge, non ha senso,
anzi può essere vista come una forma quasi di blasfemia. Vi esorto alla lettura di
Spinoza, soprattutto delle sue lettere, etc. Grazie.
Prof.ssa Fierro: Vediamo, chi altri ha da fare domande? Forza, anche l’immagine
bellissima della circonferenza per dire l’ordine immanente dell’universo in Spinoza, la
circonferenza infinita che tutto ha dentro di sé, è suggestiva. Ragazzi, ancora le
domande che possono arricchire questo confronto, su.
Studente: Ho preparato dei versi.
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Prof.ssa Fierro: Va benissimo.
Dott. Augias: Cacio sui maccheroni.
Prof.ssa Fierro: Vieni, leggili tu. Come, non sai leggere? Sai scrivere e non sai leggerli?
Vuole leggerli lei, dottore?
Dott. Augias: Scusate, il vostro collega Francesco ha scritto: Resto immobile con le
mani in lacrime / sorseggiando frammenti di vite sconosciute / con gli occhi di un
bambino / che ha appena scoperto come ridere. Non è male (applausi).
Prof.ssa Fierro: Bravo.
Dott. Augias: Tu sai che c’era una teoria crociana, una teoria di Croce, che è un filosofo
del primo Novecento italiano, che si chiama poesia e non poesia. Il Croce andava
cercando nelle poesie, questo verso è poetico, questo sì, questo no, che è una cosa un
po’… Adesso io, non per fare il piccolo Croce del Liceo Orazio, siccome gli ultimi due
versi sono bellissimi, ti devo dire la verità. Con gli occhi di un bambino / che ha appena
scoperto come ridere, se li leggessi in un’antologia poetica non mi sorprenderebbero,
starebbero benissimo al posto loro. Le mani in lacrime è una metafora troppo forte, è
troppo forte. Insomma, attribuire alle mani le lacrime non è solo incomprensibile, nella
poesia, ma che vuol dir? Va bene, invece qua si capisce e anche frammenti di vite
sconosciute va benissimo, sorseggiando è troppo lungo, sono quattro sillabe, troppo
pesante perché toglie valore a frammenti. Ma adesso basta, perché se no… Va bene così,
vai avanti. L’ultima domanda.
Prof.ssa Fierro: Avanti.
Dott. Augias: La penultima.
Prof.ssa Fierro: La penultima, mi angoscia, mi angoscia, allora.
Dott. Augias: Vedi laggiù, in piedi, quelle quattro persone?
Prof.ssa Fierro: Sì.
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Dott. Augias: Quelle sono della mia redazione e stanno qua per dirmi…
Prof.ssa Fierro: E noi non le guardiamo. Noi facciamo finta che non ci siano. Questo è
un momento nostro, suo, per noi.
Francesco: Buongiorno, sono Francesco. All’inizio trattavamo di poeti che riportano il
linguaggio scientifico in quello poetico, quindi abbiamo incontrato Lucrezio, il De rerum
natura, Dante. Secondo lei, che tuttora è uno scrittore che lavora con degli scrittori, c’è
ancora questa usanza di riportare il linguaggio scientifico in quello poetico?
Dott. Augias: Una bella domanda, grazie, Francesco. La cosa non si fa più o si fa
raramente, almeno io non lo so, perché il linguaggio scientifico è diventato molto
complicato. Questa cosa si poteva fare quando le cognizioni scientifiche erano
abbastanza rudimentali e dunque non era difficile far sconfinare il linguaggio della
scienza nel linguaggio poetico. Pensate una cosa: quando si riteneva che il lampo, il
tuono non era scontro di elettricità statica, ma era l’ira di Giove che si scaricava o il
fragore del suo carro che correva sulle nubi, tu capisci bene che qua siamo in una
concezione scientifica che non ci vuole niente a far trasformare in una concezione
poetica. Invece oggi la scienza ha preso delle strade così specializzate che è molto più
complicata questa operazione di trasferimento. La mia idea è che tra i due linguaggi, è
più facile questo per la filosofia. Tu sai che, della filosofia contemporanea, della quale
so pochissimo, però questo so, che spesso le intuizioni filosofiche e le intuizioni poetiche
si assomigliano molto, è più facile nel momento iniziale, come dicevamo prima.
Un’intuizione matematica può assomigliare ad un’intuizione poetica, come del resto
un’intuizione economica. Guardate l’economia di cui tanto si parla in questi giorni per le
tristi ragioni che sappiamo. Gli economisti sono persone che hanno un’intuizione e che
poi alle volte riescono ad esprimere in una formula, o a verificare nella realtà della
borsa. Ma è un’intuizione dalla quale, quindi, per rispondere definitivamente e in poche
parole alla tua domanda, direi, questa coincidenza la posso vedere possibile nel
momento iniziale dell’intuizione e nel momento più alto, cioè, della filosofia che
sconfina nella scienza e della scienza che sconfina nella filosofia. L’ultima domanda,
veramente, perché se non mi menano.
Prof.ssa Fierro: Allora lei ci crede alla poesia delle formule, come dice Bernardini? Che
le formule sono poetiche?
Emanuela: Mi chiedevo, a questo punto, se non è più poetica un’interpretazione come
quella di Leibniz piuttosto che di Spinosa, che preferisce la possibilità piuttosto che il
necessario. E quindi, in questo senso può essere riferito al discorso che lei faceva sulle
metafore, che giungono quindi alla sensibilità di ciascuno di noi? Dicevo, Lebniz
preferisce il possibile al necessario e quindi concepisce un mondo di infinite possibilità.
Giusto, se lei faceva il discorso sulle metafore delle quali una metafora del secondo tipo
ha un vuoto all’interno e perciò tutti noi abbiamo un’infinta possibilità di metterci
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dentro qualcosa, a questo punto non è più poetico Leibniz piuttosto che Spinoza, che
invece ha un concetto totalmente diverso?
Dott. Augias: Grazie, questa bella domanda di Emanuela mi dà modo di chiudere questa
conversazione della quale vi ringrazio per due ragioni: la prima ragione è che siete stati
attenti e questa è una grande consolazione. Ma perché dico questo? Manuela, poi
rispondo anche a te. Fatemi fare questo piccolo discorso generale: passare alcune ore
della propria vita e della propria giornata a scuola può dare e in molti spesso dà un senso
di insufficienza, di inutilità: ma che sto a fare qui dentro, mentre là fuori corre la vita?
Questo è sbagliato, come vi renderete conto più tardi, perché stare qua dentro significa
preparare i materiali, in chi lo sa fare, perché purtroppo non tutti lo sanno fare,
significa preparare i materiali per poter utilizzare, godere più largamente di quello che
c’è là fuori. Aspetta, c’era una frase bellissima che avevo messo da parte, vediamo se la
trovo al volo. Purtroppo non la trovo. Beh, va bene, era una frase molto bella sul senso
di sazietà che alle volte può prendere a scuola. Guardate, vi voglio raccontare un mio
aneddoto personale, proprio del Liceo. Io ero un ragazzo, un giovanotto così, mediocre,
e una mattina il professore d’italiano ci cominciò a leggere I sepolcri del Foscolo e per
una ragione che non vi saprei dire, al sentire quei versi io ho avvertito improvvisamente
che mi riguardavano. Riguardavano un po’ la mia vita, ma soprattutto la mia sensibilità.
In quei versi io mi riconoscevo, cioè in quella descrizione così accesamente romantica
che Foscolo fa, io sentivo di stare dentro quei versi e che quei versi stavano dentro di
me. Adesso magari mitizzo un po’, ma da quel momento il mio atteggiamento nei
confronti di quello che lì, dentro quell’aula, si raccontava è cambiato, dopo. Tanto è
vero che poi ho fatto studi di quel tipo all’università e poi ho fatto quello che ho fatto.
Vedete che se uno sta dentro, in quella situazione, e quella mattina era anche
abbastanza noiosa, una mattina di primavera come questa più calda e dunque c’era
anche quel po’ di sopore che viene verso la seconda e terza ora che voi ben conoscete,
in cui uno si abbiocca un po’, quando poi quel Professor Duranti, me lo ricordo ancora,
disse: All’ombra dei cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno /
della morte men duro?, mi sentii risvegliato all’interesse per un carme, per un poema
che cominciava in maniera così traumatica. 7 Va bene, allora questa era la cosa per dirvi
che nella scuola c’è sempre quel momento della scintilla, in cui chi è pronto… Voi
sapete che c’è un’altra legge statistica implacabile, secondo la quale in ogni collettività
umana, venti persone o seicento persone come al parlamento, il dieci per cento sono il
meglio, il dieci per cento sono il peggio, il resto è la media. Ogni collettività umana ha
questa enorme pancia della media, e queste due piccole alette, una di qua e una di là,
dell’eccellenza e del pessimo. Ecco, quindi voi cercate di stare come minimo nella
pancia e possibilmente nell’aletta, quella di qua, falsando la statistica che fino adesso si
è quasi sempre rivelata esatta.
Torniamo alla nostra Manuela. Manuela, Leibniz è uno scientista e va benissimo,
Leibniz è un filosofo scienziato ottimista, tu sai bene. Vi voglio raccontare un episodio
che riguarda Leibniz. Nel 1755, (mi integra la Prof.ssa Fierro fresca di studi) nel
diciottesimo secolo, Lisbona, la capitale del Portogallo, venne colpita da un maremoto e
terremoto orribile, veramente orribile. Pensate che le conseguenze di quel maremoto
investirono le coste dell’africa del Nord e le coste dell’Europa, golfo del Leone, golfo di
Biscaglia, le coste della Bretagna. Lisbona ne venne quasi integralmente distrutta, e lì
successe anche una cosa atroce, perché molte persone andarono a rifugiarsi nella
7
Vd. Corrado Augias, Leggere, Mondadori, Milano 2008, rist., pp.17-19.
79
cattedrale perché appariva costruzione solida, massiccia, andarono per così dire a
mettersi sotto la protezione divina. Dalla parete si staccò un enorme crocefisso, per le
scosse, che schiacciò alcuni bambini che si erano rifugiati lì. Questo episodio scatenò
una discussione filosofica in Europa alla quale partecipò anche Leibniz, il quale non vide
incrinato il suo ottimismo, ma lo trasformò in una formula che chiamò teodicea. Tu studi
il greco? Non ti sarà difficile ricostruire le due radici di questa parola, Theos e Dike. In
che modo Dio e la Giustizia sono in relazione? Perché dei bambini che si erano rifugiati
sotto un crocefisso dovevano morire schiacciati? E questa fu la ragione per la quale un
altro grande filosofo, Voltaire, scrisse il Candide o dell’ottimismo, le avventure di un
povero disgraziato a cui gliene succedono di tutti i colori, ma siccome crede in Leibniz
non perde la sua fiducia nell’ottimismo della storia e delle vicende umane. Leibniz è un
grande filosofo,un grande scienziato, ma, vedi, Spinosa, indipendentemente dalla
distinzione corretta che tu hai fatto, Spinoza ci dà una dimensione, una visione
completa del nostro stare su questa terra e del rapporto che si può avere con la divinità,
un rapporto corretto, adulto, laico, sereno, con la divinità, con una divinità non a caso
disapprovata dalle due confessioni, quella ebraica e quella cattolica, ma proprio per
questo agli occhi della modernità, proprio per questo credo che Spinoza sia un filosofo
molto moderno, molto adatto ai nostri tempi, vero? È il terzo punto sul quale siamo
d’accordo e su questo possiamo chiudere.
Prof.ssa Fierro: Un applauso (applausi).
Dott. Augias: Grazie, Preside.
Prof.ssa Fierro: Un attimo, la devo salutare e darle questo dono. Ragazzi, un attimo,
state tutti fermi, seduti. Ringraziamo il dottor Augias e come al solito, gli rubiamo un
altro minuto per regalargli dei libri. Li aprirà davanti a noi e il bigliettino se lo legge poi,
in separata sede. Ecco, vediamo. Ecco Gregorio (applausi). Adesso ci mettiamo un po’ di
tempo. Non è facile regalare un libro a lei, gliel’ho scritto pure nel bigliettino. Vediamo
un po’, non è facile obiettivamente: questo libro è con il testo latino, greco e copto.
Com’è?
Dott. Augias: Dunque il Corpus Hermeticum, a cura di Ilaria Ramelli, doppio testo a
fronte.
Prof. Fierro: Ce lo aveva?
Dott. Augias: No, invece questo (si riferisce al saggio di Luciano Canfora, La natura del
potere, Laterza, Roma-Bari 2009) non solo ce l’ho, ma lo abbiamo presentato in
televisione qualche giorno fa. Pensate, pensate che cos’è questo Paese, questo Paese di
scarsa lettura apparente, di gente ignava, fiacca. Un libro come questo, bellissimo,
80
perché Canfora, professore di Filologia Classica a Bari, ha acquistato… lo avete avuto
anche qui?
Prof.ssa Fierro: Certo, cinque anni fa.
Dott. Augias: Pensate che ha acquistato una disinvoltura di linguaggio, insieme a – e
fatevi dire un’ultima cosa, Santo Dio! – a una profondità di riferimenti che rende la
lettura gradevole. Bene, questo libro, presentato in televisione, ha messo davanti allo
schermo un milione e duecentomila persone, quindi valeva la pena. Grazie (applausi).
81
Parte seconda
Le riflessioni degli studenti
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
Il 14 gennaio ’09 si è svolta presso l’Aula Magna del nostro Liceo un’ interessante
conferenza dal titolo “Il linguaggio e le scienze” tenuta dal professore Tullio De Mauro.
Il preside del nostro Istituto, il professore Franza, insieme all’insegnante di storia e
filosofia, la professoressa Fierro, hanno introdotto il discorso dell’esimio linguista di
fama internazionale che fa onore al nostro Paese, affermando che il rapporto tra
umanesimo e scienza è un argomento affascinante ma anche molto complesso. De
Mauro, uno dei più insigni studiosi di linguistica ed intellettuale militante, capace di
accettare le sfide del nostro tempo, ha iniziato la sua conferenza elogiando il linguaggio
verbale, sottolineando il fatto che le lingue del mondo sono circa settemila, nonostante
negli ultimi trenta – quaranta anni si siano sviluppate altre forme di linguaggio non
verbale, quali ad esempio quello gestuale. Il linguaggio verbale ha costituito, costituisce
e costituirà sempre un complemento necessario delle elaborazioni umane, sia cognitive,
cioè relative alla conoscenza, che operative.
Non sempre nella vita quotidiana sentiamo la necessità di utilizzare un linguaggio che sia
verbale, tesi sostenuta anche dal filosofo Guido Calogero, del quale De Mauro ci ha
fornito un esempio: “se mentre guido la macchina vedo un ostacolo davanti a me, cerco
di evitarlo con determinati movimenti, tutto ciò avviene nel giro di pochi secondi e non
viene verbalizzato”. Ma quando la situazione si fa più complessa è difficile rinunciare
alla parola. Tuttavia, nonostante la grande importanza del linguaggio verbale, la parola
non va sopravvalutata, principalmente per due motivi: il primo relativo all’esempio di
Calogero, sopra citato, ed il secondo relativo al fatto che le parole non possono vivere
da sole, ma ci servono per capire le cose in quanto si incastrano in una serie di pratiche.
Importante è anche notare il fatto che ognuno apprende le parole, non sfogliando il
vocabolario, ma semplicemente vivendole nella quotidianità. Ad esempio la parola
“dentro” l’abbiamo compresa in situazioni come:”Mi trovo dentro l’aula di scienze”.
Così il linguaggio ha bisogno delle pratiche, degli usi, di un addestramento. Il linguista
ha proseguito il suo discorso asserendo che le parole sono correlate a qualcosa che è al
di là di loro stesse, ma ciò non vuol dire comunque che esse vadano sottovalutate;
infatti il linguaggio verbale ci aiuta moltissimo in ogni situazione. Correlata alle parole vi
è la flessibilità, l’equivocità delle stesse, caratteristica che ritroviamo anche in Grecia,
ai tempi di Socrate e Platone.
Anche Aristotele, che De Mauro cita spesso per enunciare le sue tesi, afferma
ripetutamente che ogni cosa si può dire in tanti modi diversi: “πολλακοσ λεγεται”.
Accade spesso inoltre che avvenga un vero e proprio trasferimento di senso, un trasporto
della parola da un senso all’altro (procedimento che prende il nome di metafora). A
questo punto sorge spontanea una domanda: “Non sarebbe meglio avere parole con un
unico linguaggio determinato?”. Anche se apparentemente potrebbe sembrare di sì, la
risposta e sicuramente negativa, infatti noi costruiamo i rapporti interdisciplinari proprio
perché non restiamo chiusi nei confini delle definizioni di ogni parola. L’espansibilità del
significato, infatti, amplia la definizione di una cosa e la trasforma. Senza la possibilità
di far variare i significati non si potrebbe andare avanti. Il metalinguaggio, prosegue De
83
Mauro, è un linguaggio alto, attraverso il quale si riesce a spiegarne un altro che viene
chiamato linguaggio oggetto; tale situazione può generare paradossi; uno dei più famosi
è quello del mentitore: “Se io mento e dico che questo è vero, mento o dico il vero?” Il
linguista ha toccato anche altri punti quali ad esempio il fatto che la parola nell’ambito
tecnico assume un significato specifico e determinato e indica questo e soltanto questo.
Il livello più alto di formalizzazione è la creazione di simboli che scavalcano le
definizioni delle parole. I numeri stessi per essere numeri sono parole (uno, due, tre,
cento, mille…), il cui nucleo è molto antico. Il primo passo verso la formalizzazione è
affermare, ad esempio, che cinque è indicato per un insieme di cinque cose; si cerca poi
di trovare un equivalente scritto delle parole, un sistema che le indichi con delle cifre
uguali per tutte le lingue. Tale linguaggio è quello di cui poi si serve l’aritmetica.
Si giunge quindi a due conclusioni: la prima è che senza l’aiuto dell’indeterminatezza
delle parole non riusciremmo a costruire nulla – la seconda è che vi è una contiguità e
una continuità tra i diversi campi del sapere; la pensano così anche Albert Einstein e
Richard Mises che scrive: “Manuale di scienze positive” nel quale discute e parla di tale
rapporto. Si è svolto a questo punto un dibattito tra noi studenti e De Mauro, chiunque
riteneva utile qualche chiarimento poteva avvicinarsi alla cattedra per presentare la
propria domanda. Sono state esposti numerosi quesiti quali ad esempio:” Per parlare di
un incidente stradale si può usare la parola crak?” o “Il latino, come lei afferma, è molto
importante, allora come pensa si possa spiegare la recente ascesa di altre lingue?” o
ancora:”Non sarebbe utile avere una lingua comune come ad esempio l’esperanto?” Il
linguista è stato così gentile da rispondere ad ogni nostro dubbio o interrogativo. Alla
fine abbiamo ringraziato De Mauro per la sua disponibilità nel parlarci di un argomento
molto affascinante ed interessante.
Alessia Coletta
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
“Il linguaggio e le scienze “è l’intitolazione della conferenza tenutasi mercoledì 14
gennaio 2009 nel Liceo Ginnasio Orazio di cui è stato relatore il prof. De Mauro, docente
di Linguistica generale nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’ università “La
Sapienza” di Roma ed ex ministro dell’istruzione. La conferenza si è aperta con
l’introduzione del prof. Franza e della prof.essa Fierro, organizzatrice dell’evento.
Materia della conferenza è il ruolo del linguaggio tra il cosiddetto mondo delle materie
umanistiche e quello delle materie scientifiche. La lezione si è aperta con l’analisi, da
parte del professor De Mauro, del linguaggio verbale, cioè fatto di verba e quindi di
parole, del quale è stato sottolineato il valore semantico al confronto di linguaggi
“nuovi” come quelli gestuali, simbolici e delle segnaletiche. Il linguaggio verbale, però,
non è autosufficiente ed ha bisogno di pratiche, di usi, in quanto le parole che
impariamo, che appunto sono “immerse” in questa serie di pratiche dette training o
addestramento, acquistano significato solo se correlate a ciò che è al di la delle parole
stesse. A causa della “dipendenza” delle parole, secondo il professor De Mauro, non si
deve sopravvalutare il linguaggio e cioè la facoltà di esprimere e comunicare concetti
mediante suoni organizzati in parole. Naturalmente questo non deve portarci al
procedimento opposto ovvero a sottovalutare il linguaggio e quindi il suo ruolo
indispensabile nelle costruzioni che avvengono nella mente umana. Il linguaggio ci
aiuta, infatti, nelle nostre elaborazioni mentali più complesse.
Inoltre non deve essere sottovalutato per due principali motivazioni rintracciabili la
prima, nella caratteristica che ha a che fare con il significato delle parole e delle frasi
ovvero la semantica , e la seconda nella metalinguisticità riflessiva.
La caratteristica semantica è un tema che ha attratto da sempre gli studiosi ed in
particolar modo sono state oggetto di riflessione e di analisi la dilatabilità del linguaggio
e il significato delle parole e in modo specifico la loro equivocità. Aristotele è il primo a
riconoscere la molteplicità dei significati delle parole e a coniare l’espressione pollakos
leghetai “si dice in modi diversi” come loro definizione, dando luce alla teoria dei
trasferimenti di senso e spiegando il modo del cambiamento del significato in un
termine. Soprattutto Aristotele indirizza la sua ricerca del significato nel campo politico
in cui la molteplicità di significati è accettabile solo ed esclusivamente nel caso in cui la
parola e il suo significato si riferiscono al concetto pensato ( posso dire nero riferendomi
al bianco a patto che nel momento in cui io uso il bianco mi riferisco ad un oggetto
realmente bianco). La domanda che spesso ci si è posti nel tempo è se fosse stato
possibile avere uno specifico ed univoco significato delle parole per evitare soprattutto
nell’ambito politico lo sfruttamento dell’ambiguità per scopi privati. La risposta è
lasciata in sospeso perché se restassimo chiusi nell’ambito dei confini di significato che
conosciamo, di una parola non potremmo costruire nuovi saperi legati sia alla scienza,
sia ad elementi della vita quotidiana (ad esempio basti pensare alla parola atomo che in
passato indicava l’indivisibile adesso indica un insieme di particelle di varia natura come
protoni e neutroni…). In conclusione senza la variabilità del significato non potremmo
“avanzare” né nella vita quotidiana né in quella intellettuale.
L’altra caratteristica su cui è necessario soffermarsi è quella della metalinguisticità
riflessiva . La metalinguistica permette che un linguaggio A descriva un secondo
linguaggio B. La metalinguisticità riflessiva consiste nell’usare le parole per significare le
parole stesse, descrivere un enunciato per mezzo dello stesso enunciato, da qui il
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problema della nascita di paradossi (come ad esempio quello del mentitore che è rimasto
irrisolto). Questa proprietà è quella che ci permette la costruzione dei linguaggi tecnici e
scientifici.
C’è una continuità tra la determinazione del senso di una parola occasionale e la
formalizzazione fino a livelli in cui si decide in base ai primitivi, che sono le parole base
di una lingua. Infine il livello più alto raggiungibile di formalizzazione è quello di
abbandonare la parola per l’utilizzo di simbologie che valgono per tutte le lingue ed
hanno un significato determinato. Questa idea ha radici antichissime rintracciabili
nell’inconsapevole invenzione dei numeri che per essere sono prima di tutto parole: uno,
due , tre.... Chi ha utilizzato la parola “tre” per indicare un insieme di tre elementi ha
compiuto il primo passo per la formalizzazione e ha stabilito perciò un termine, che è
uguale per tutti, per indicare quella quantità di tre elementi e la parola che ne indica
due non può essere usata per quella che ne indica uno. I numeri sono il primo esempio
che scavalca la pluralità e l’indeterminatezza del significato dei termini.
Infine il professore riassume i punti principali toccati durante la lezione:
1. Senza l’aiuto delle parole nella loro indeterminatezza non le determineremmo
neppure e non riusciremmo a costruire né i numeri né tutte le altre scienze in
tutti i campi.
2. Vi è una unitarietà radicale alla radice di tutti i campi tecnici e scientifici e una
continuità tra i diversi indirizzi di studio sia quelli delle così dette scienze “dure”
sia di quelle astratte, dovendo tutte queste discipline fare riferimento alle loro
pratiche per quantificare il significato delle loro affermazioni .
La seconda parte della conferenza è stata dedicata al confronto diretto tra il professor
De Mauro e gli studenti che hanno posto le loro domande. Tra le innumerevoli ho
ritenuto di riportarne alcune delle più rilevanti:1) se l’impossibilità di giungere ad un
compromesso per mezzo del dialogo sia strutturale della politica, sia un vizio italiano o è
sintomo della diminuzione della qualità politica attuale. 2) E’ possibile annullare il
significante e conservare il significato utilizzando un termine onomatopeico come ad
esempio CRASCH, e, ancora , è considerabile formalizzazione del linguaggio utilizzare la
parola “STOP” in un simbolo come quello del cartello stradale?, in ultimo se il fatto di
utilizzare parole straniere come computer in tutto il mondo con lo stesso significato sia
una formalizzazione o rientri in qualche altro campo. A tali domande, il professor De
Mauro risponde che oggi si tende sempre più ad utilizzare la parola, in politica, non per
giungere a compromessi per il bene della comunità rappresentata dalle varie parti ma
per il proprio interesse e perciò bisogna ostacolare chi vuole fare a meno del dialogo per
poterlo raggiungere (data la sua attuale inesistenza). In realtà noi abbiamo la più totale
libertà d’espressione, a rischio però di non essere capiti, e dunque possiamo utilizzare il
termine CRASCH per indicare “schianto” perché l’utilizzo di alcune parole rispetto ad
altre è solo una formalizzazione . L’utilizzo di parole comuni a tutti è frutto della
formalizzazione ma è anche pragmatismo dovuto al bisogno di avere elementi comuni
per tutti e chiari, ed è il bisogno di formalità che porta alla nascita di parole nuove o
ricalcate.
La possibilità di realizzare un evento di così rilevante valore esprime la necessità
d’apertura culturale delle nostre scuole e di ricerca di vie alternative alla didattica
tradizionale. La partecipazione a queste forme di dialogo trovo che sia molto fruttuosa
come occasione di crescita e riflessione in uno scambio costruttivo di opinioni.
Giacomo Franchi
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
Il 14 gennaio (2009), in occasione della prima conferenza del progetto “Umanesimo e
scienza”, promosso come negli anni precedenti dalla Prof.ssa Fierro, il liceo classico
Orazio ha avuto la gioia di ospitare l’onorevole Tullio De Mauro. Gioia perché avere la
possibilità di un confronto , anche per una sola mattinata, con persone del calibro di
De Mauro, non può che stimolare ed arricchire la voglia e l’interesse di sapere. Tullio De
Mauro, ex ministro dell’istruzione, è infatti un linguista di fama altissima..
L’argomento approfondito e discusso durante la conferenza è stato quello riguardante il
confronto tra il linguaggio e le scienze. Tale confronto risulta senza dubbio complesso,
affascinante ed allo stesso tempo inesauribile..
Entrando nel vivo della sua esposizione, ha iniziato col distinguere il linguaggio verbale
dal linguaggio generico. Il linguaggio in generale consta infatti di numerosi generi, come
quello gestuale o simbolico. Quello verbale invece, consiste nell’uso di una lingua
storico-naturale costituita da verba (parole). Fatta questa precisazione, De Mauro ci ha
poi invitato a riflettere sul numero e la varietà di linguaggi verbali, o lingue, esistenti in
tutto il mondo, che sono circa 7000. Ci ha quindi esposto la tesi centrale del suo
discorso, secondo la quale il linguaggio verbale è un complemento necessario delle
elaborazioni umane sia cognitive che operative. Con ciò tuttavia, ha anche affermato
che sarebbe sbagliato pensare il linguaggio verbale come un qualcosa capace di
abbracciare tutto il campo della espressione e della comunicazione. Esempio immediato
sono tutte le circostanze nelle quali il linguaggio verbale viene istintivamente sostituito
da quello gestuale o simbolico, nello stesso modo, ad esempio, in cui si effettua
improvvisamente una brusca frenata con la propria autovettura. Quindi il linguaggio
verbale non deve essere ignorato, né però sopravvalutato. Nel non sottovalutarlo, ha
aggiunto De Mauro, bisogna anche tener conto del fatto che il linguaggio non è
autosufficiente, ed ha continuamente bisogno di essere addestrato ed esercitato.
“Impariamo parole attraverso altre parole, ma soprattutto attraverso l’uso di esse in
situazioni concrete”. Nel linguaggio verbale inoltre, ci sono da distinguere ed analizzare
due diverse caratteristiche. La prima, ha spiegato il nostro ospite, è quella che riguarda
squisitamente il significato delle parole e delle frasi. Ed è studiata dalla semantica. La
prima esperienza di questo studio fu quella del linguista francese Breal, e risale al 1884.
Ma prima di arrivare al 1884, De Mauro ci ha invitato a fare un passo indietro,
avvalendoci anche delle discipline che ci propone il nostro corso di studi liceali, per
tornare ai tempi di Socrate e Platone. Già nei due filosofi greci infatti, si poteva notare
la consapevolezza della grande flessibilità del significato delle parole. Di qui, la grande
idea del maestro Socrate, dell’incessante dialogo, dell’incessante ricerca, nello scambio
di battute, del senso delle parole stesse. “Ciascuna parola infatti“, ci ha ricordato Tullio
De Mauro ancora attraverso Socrate, “si dice in tanti modi diversi“. Ma oltre allo scopo
di chiarire il senso delle parole, nell’incessante ricerca propostaci da Socrate, vi è anche
un obiettivo politico-civile. Nell’amministrare la polis infatti, prima ancora delle scienze
era importante capire le parole usate, il loro peso, ciò che volevano intendere.
Emblematico a tal riguardo l’esempio proposto dal linguista italiano, “anche uno
scettico, può definire che una cosa bianca può essere nera, a patto che usi la parola
“bianca” riferendosi a qualcosa di effettivamente bianco”. E’ quasi istintivo e naturale,
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davanti ad esempi del genere, rimanere dubbiosi e perplessi, e ciò a conferma
dell’estrema flessibilità del significato, che spesso può risultare ambiguo e sfuggente.
Questo aspetto ha ovviamente causato notevoli difficoltà all’uomo dei secoli trascorsi, e
ancora ne causa. Ma le stesse difficoltà dovute alla pluralità di sensi e determinazioni,
costituiscono anche la spinta che ci permette di costruire le basi dei nostri rapporti. Se
infatti si restasse chiusi nei confini di significato di una sola parola, sarebbe impossibile
con la stessa accedere anche a saperi di tipo scientifico.
La seconda caratteristica del linguaggio verbale presa in analisi da De Mauro, è quella
riguardante il metalinguaggio. Che cos’è? Quando subentra? Ancora molto chiaramente,
l’ex ministro dell’istruzione ha definito il metalinguaggio la descrizione di un altro
linguaggio, che prende il nome di linguaggio oggetto. Non poteva trovare esempio più
esplicativo dell’algebra, che se si riflette, altro non è che un metalinguaggio del
linguaggio (oggetto) aritmetico. Ed è così che le lingue sono metalinguaggi di se stesse.
Anche in questo caso De Mauro è tornato agli albori della cultura greca, dove
frequentissimo era l’uso di enunciati diversi per descrivere la stessa cosa, e di qui
ovviamente, l’ambiguità dei paradossi. Impossibile non riportare, quello più celebre sul
“mentire”. Partiamo allora dall’affermazione “io sto mentendo”. Se la persona che
afferma ciò dice il vero, allora è vero che sta mentendo. Tuttavia anche se la persona
che afferma ciò dice il falso, allora è vero, egualmente, che sta mentendo. Emblematica
e stupefacente la facilità di una lingua nell’originare paradossi. Questo, ha proseguito il
professor De Mauro, potrebbe farci rendere conto della frequente fallacità di una lingua,
ma tale fallacità è al tempo stesso la sua forza. E’ proprio dalla fallacità che si è giunti
infatti al bisogno, all’esigenza di costruire linguaggi tecnici e scientifici, dove le parole
acquistano un significato specifico e determinato. Il Professore ha così voluto farci
rendere conto, della forte dipendenza reciproca che persiste tra linguaggio e scienze.
Senza fallacità non si sarebbe mai giunti ad un processo di specificazione, senza un
processo di specificazione non si sarebbe mai giunti ad una formalizzazione, senza una
formalizzazione infine, non si sarebbe mai giunti, tramite le parole primitive, alla
costruzione di quegli assiomi, postulati e principi che sono alla base di determinati
campi del sapere. Un ulteriore prova del profondo nesso tra linguaggio e scienze ci è
data dall’esperienza comune dei numeri. Questi infatti, per essere numeri, prima ancora
sono parole, sono simbologie. Il 5 prima ancora del numero 5, è una parola che indica un
insieme di cinque elementi. Quello dei numeri, insieme all’esigenza di trovare un
equivalente scritto al “parlato”, costituisce uno dei primi grandi passi dell’uomo verso la
formalizzazione. Con questo ultimo esempio De Mauro ha concluso il suo discorso, con il
quale ha voluto, riuscendo pienamente nell’intento, dimostrare la sostanziale continuità
tra diversi campi di studio, di sapere, i quali hanno in comune un’intelaiatura che è
possibile costruire solo grazie al linguaggio.
E’ toccato quindi alla curiosità e all’interesse di noi ragazzi, alimentare un variopinto
dibattito sul tema trattato, ponendo molte domande, sollevando dubbi e chiedendo
chiarimenti all’egregio professore. Con le prime domande è stato chiesto all’ex ministro
se la mancanza di dialogo tra i politici in Italia fosse da attribuire alla natura stessa della
politica o ad un “vizio” propriamente italiano, come si spiegasse la predominanza della
lingua inglese a livello internazionale , e se fosse possibile un rapporto non conflittuale
tra saperi umanistici e scientifici. De Mauro ha risposto alla prima domanda spiegando
che il mancato dialogo in politica non è da attribuire a nessun vizio, giacché anche in
quelle che sembrano risposte dure o poco adeguate vi è un’esercitazione del linguaggio.
Bisogna insistere piuttosto sulla chiarezza espositiva, cercando di arrendersi sempre
meno ai tautologismi frequenti nel linguaggio politico. Ha poi precisato, rispetto alla
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seconda domanda, che la lingua inglese ha trovato maggiore diffusione per molteplici
fattori. Tra i quali ha contato molto la creazione negli Stati Uniti di una ampia comunità
di studiosi, i quali generarono il progetto di un’enciclopedia della scienza unificata, tesa
alla ricerca di un linguaggio unitario per la trattazione di tutte le materie possibili. E il
fatto che l’enciclopedia fu scritta inizialmente in lingua inglese rappresentò un notevole
impulso per la diffusione dell’inglese internazionalmente. Alla terza domanda, il
linguista ha risposto che un rapporto non conflittuale tra saperi umanistici e scientifici è
possibilissimo, e anzi necessario, affermando che le più grandi scoperte nascono spesso
al confine tra i campi diversi del sapere.
Nella successiva serie di domande è stato anche chiesto al linguista cosa pensasse
dell’esperimento della lingua universale “esperanto” e se fosse possibile la creazione di
una lingua alternativa più semplice. Alla domanda riguardante il progetto “esperanto”,
De Mauro ha risposto che, se mai dovesse andare in porto, tale esperimento
conoscerebbe un’inevitabile differenziazione come qualsiasi altra lingua. Nel “parlato”
quotidiano infatti, come già accadde al latino, si disperderebbe e muterebbe in
pochissimo tempo. Il linguista ne ha conseguentemente riconosciuto una sua maggiore
utilità nello studio di testi scritti internazionali. Alla domanda su una lingua alternativa
di maggior comprensibilità, ha infine risposto con la citazione di un saggio sulla politica
e la lingua inglese per evidenziare che, a suo avviso, potrebbe si essere possibile la
formulazione di un linguaggio più comprensibile ma solo guardandosi da una sua
imposizione, che finirebbe col limitare fortemente le libertà.
Si è conclusa così la mattinata di Tullio De Mauro al liceo classico Orazio, con piacevole
soddisfazione del linguista per il vivo dibattito alimentato dai quesiti dei ragazzi, e
notevole interesse di questi e dei docenti per le pronte risposte e la dotta eloquenza
dell’ospite d’eccezione.
Adriano Masci
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
Il tema di approfondimento culturale del nostro liceo riguarda quest’anno “Umanesimo e
Scienza”. Il ciclo di conferenze è iniziato il 14 gennaio, con l’intervento di uno dei più
grandi linguisti italiani del nostro secolo: il Professore Tullio De Mauro, “un intellettuale
militante”, come lo ha definito la Professoressa Fierro nell’introdurre il relatore, il
quale ci ha presentato una lezione interessante dal titolo “Il Linguaggio e le Scienze”. Il
nodo centrale delle considerazioni fatte dallo studioso nella conferenza ha riguardato il
linguaggio verbale. Nell’ ultimo trentennio si sono sviluppate altre forme di linguaggio
non verbale, basti pensare al linguaggio utilizzato nella segnaletica o a quello gestuale.
A partire dagli anni ’50, il linguaggio non si è sviluppato soltanto verso una direzione
prettamente verbale in quanto oggi, quasi con certezza, possiamo affermare che ogni
specie vivente possiede un suo linguaggio specifico e un suo sistema di comunicazione.
Ma cos’ è precisamente questo linguaggio verbale? Come afferma il professore, esso è
quel sistema che si serve dei cosiddetti “verba”, cioè quel linguaggio fatto di parole,
che utilizza una delle tante lingue storico naturali (se ne calcolano circa settemila). Il
linguaggio verbale è un complemento necessario delle elaborazioni umane del nostro
cervello, quando queste siano di una certa complessità; elaborazioni sia di tipo
cognitivo, consistenti nel sistemare o nel ricercare la conoscenza, sia operative, quelle
che utilizziamo nel progettare qualsiasi cosa. In entrambi i casi il linguaggio verbale si
dimostra uno strumento indispensabile. Questo tuttavia non vuol dire che il linguaggio
abbracci la totalità dei mezzi di comunicazione, in quanto esistono cose che realizziamo
al di là dell’utilizzo del linguaggio, senza tradurre in parole ciò che dobbiamo fare.
Quando l’elaborazione si fa più complessa il linguaggio risulta uno strumento
indispensabile, ma questa valutazione, secondo De Mauro, non deve portare ad una
sopravvalutazione del linguaggio verbale, sia in quanto le parole adoperate non vivono in
maniera autonoma ma significano e ci permettono la comprensione, poichè si
incastrano in una serie di pratiche, nelle quali impariamo l’uso delle parole in situazione
reali, sia in quanto esistono casi in cui il verbalizzare non si presenta come necessario.
Tuttavia non si deve neanche giungere ad una sottovalutazione del linguaggio. Perché
non dobbiamo sottovalutare il linguaggio?, il relatore risponde mettendo in luce due
caratteristiche: la prima caratteristica è di tipo semantico, relativa al significato delle
parole e delle frasi; la seconda è la duttilità, la flessibilità, e quindi l’equivocità che le
parole possono assumere. Il problema relativo alla flessibilità di una parola viene
percepito sin dall’antichità: Socrate riteneva che fosse necessario discutere per giungere
alla definizione di una determinata parola, per comprendere quale significato le si
volesse attribuire. In questa direzione non si mossero solamente Socrate o Platone ma
anche Aristotele, il quale considerava naturale che ogni parola potesse avere più
significati. Aristotele per far fronte a ciò che noi oggi chiamiamo “vaghezza”,ci spinge
ad alcune riflessioni. In primo luogo elabora una teoria del trasferimento di senso con
l’uso della metafora; in secondo luogo sceglie una direzione di tipo civile, volta a
combattere lo scetticismo sofistico e a dar maggior chiarezza ai cittadini. Grazie a
questa pluralità e all’espansibilità di significati che possiamo attribuire ad una
determinata parola, possiamo costruire rapporti interpersonali e “nuovi saperi”, in
particolare i saperi scientifici (basti pensare alla parola atomo che nell’antichità voleva
dire “non-divisibile” e col passare dei secoli ha assunto il significato di un elemento
scindibile). Altro punto fondamentale affrontato da De Mauro nella conferenza, è quello
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relativo alla metalinguisticità riflessiva. Ma andiamo con ordine, e chiediamoci prima
cosa sia il metalinguaggio. Il metalinguaggio è un linguaggio più alto in grado di
descrivere un linguaggio più semplice, chiamato “oggetto”. Il fatto che ogni lingua possa
funzionare come metalinguaggio di sé è stato colto nell’antichità come un paradosso e in
accezione del tutto negativa ( un celebre esempio è quello del mentitore “chi dice: io
mento, dice il vero o il falso?”). Col passare dei secoli però, lasciando stare i fantasiosi
paradossi dei diversi matematici e filosofi, è maturata nell’uomo una concezione
sempre più positiva del metalinguaggio riflessivo, tanto che oggi si è giunti alla
conclusione, secondo De Mauro, che esso è necessario per vivere ed interagire
chiaramente con gli altri. Questa proprietà, insieme alla flessibilità dei significati ci
permette di creare i linguaggi scientifici e tecnici. Il primo passo per produrre tali
linguaggi consiste nello stabilire a quale dei molteplici significati ci si rivolge in un
determinato contesto tecnico,che è strettamente collegato con l’ equivocità e la
pluralità dei significati di una parola. Questa operazione, step iniziale
per la
determinazione semantica di una determinata parola,è il primo passo verso la
formalizzazione,che, in primis,consiste nello stabilire all’interno di un contesto specifico
a quale fra i molteplici significati di una parola vogliamo riferirci. Il secondo passo
prevede di determinare quali parole siano veramente necessarie per costruire un sapere
tecnico o scientifico. Questi procedimenti di determinazione di una serie di parole in
relazione fra loro hanno come conseguenza la chiusura dei vocaboli di base di un campo
determinato,che da questo momento in poi sarà
necessario per creare nuovi
linguaggi,partendo proprio da tale base. Ciò che il professore ha sottolineato e messo in
rilievo in conclusione ,è che vi è un “continuum” fra la determinazione del senso di una
parola occasionale e la chiusura delle parole “primitive”,che sono parole di una lingua
storico-naturale,grazie alle quali possiamo introdurre nuove parole . Su questa base
si procede verso la formalizzazione all’interno della quale il livello massimo è quello in
cui,grazie ai primitivi e al loro metalinguismo riflessivo, si decide di abbandonare le
parole della lingua a favore di simboli che vadano oltre lo stesso metalinguaggio . L’idea
di giungere ad una simbologia che sia universale,ovvero la creazione di simboli con un
significato determinato ha una radice molto antica da ricercare nei numeri. I numeri
,infatti ,per essere tali sono parole nelle quali il nucleo ha un’ origine molto antica ed
ha una radice comune in tutte le lingue indoeuropee (per quanto riguarda i numeri fino
al dodici all’incirca).Questo passo è di grande importanza perché dà l’avvio alla
formalizzazione,nata dalla scoperta della possibilità di stabilire delle parole in base a
determinati significati. Il secondo passo si ha fra le differenti popolazioni,nella loro
storia,quando gli uomini cercano di trovare un corrispondente scritto alle parolenumero di cui si è precedentemente parlato. In seguito, questa ricerca,con il trascorrere
dei secoli, ha portato gli uomini ad inventare un sistema che,valido per qualsiasi
lingua,utilizza una serie di cifre per indicare le parole-numero e i loro relativi significati
(quelle che noi oggi chiamiamo “cifre arabe”).In conclusione, i punti che al professore
sono stati più a cuore e si è impegnato a farci comprendere per darci spunti di
riflessione sono principalmente due:senza l’indeterminatezza delle parole non sarebbe
possibile determinarle,e quindi non sarebbe possibile creare linguaggi scientifici ;e di
conseguenza,secondo De Mauro e altri autorevoli studiosi ,fra cui Einstein, esiste una
continuità fra i diversi campi tecnici e scientifici,e dunque fra Umanesimo e Scienza.
Tali convinzioni appartengono ormai ad una gran parte di intellettuali cominciando
dall’autorevolezza di A.Einstein e di tanti altri che si ispirano a lui come lo stesso
professore De Mauro. A mio giudizio la discussione è stata molto ricca ed articolata e
mi ha fornito molti spunti per la riflessione,che sarebbe troppo lungo esaurire
qui,giacché ho scelto di trattare soltanto l’aspetto formale della conferenza.
Francesca Musci
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
Il 14 gennaio il professor Tullio De Mauro è stato ospite nel nostro liceo ed ha tenuto una
conferenza sul rapporto tra Umanesimo e Scienza. Due culture che per troppo tempo
sono state considerate talmente diverse da essere poste in “conflitto” . E’ opportuno
riuscire a superare tale opposizione andando oltre quello che viene definito “onnivoro
integralismo umanista”, ovvero la pretesa del primato assoluto delle humanae litterae, e
lo “scientismo trionfalista” secondo cui, invece, la matematica è in grado di risolvere
qualsiasi problema. Posta tale premessa, il professore inizia la sua riflessione
soffermandosi in primo luogo sulle differenti tipologie di linguaggio, che generalizzando
è possibile ricondurre a linguaggio verbale e linguaggio non verbale. Negli ultimi trenta,
quarant’anni si è condotto uno studio circa i linguaggi simbolici della segnaletica, e
addirittura dal ’45 in poi si è giunti a conoscere linguaggi appartenenti ad altri animali
diversi dall’uomo. L’essere umano,dunque,non comunica solamente tramite la parola,
ma anche tramite gesti e simboli. La comunicazione può assumere innumerevoli forme.
Fare un confronto tra quello che viene definito linguaggio verbale e quello non verbale,
permette di comprendere appieno l’importanza del primo. Difatti il linguaggio verbale
risulta indispensabile nelle elaborazioni umane complesse, ovvero, le elaborazioni
operative e quelle cognitive. Per le prime esso è utile per la progettazione di un
qualcosa, per le seconde invece, per la ricerca di nuove conoscenze. Il linguaggio
verbale è oltretutto necessario nel momento in cui ci si accinge a compiere la
rielaborazione di un concetto. Tuttavia non bisogna sopravvalutare le potenzialità del
linguaggio verbale, in quanto le parole “vivono” e significano giacché esse vengono
inserite in un preciso contesto, e in quanto correlate ad una serie di operazioni. Quindi il
linguaggio da solo non è autosufficiente, ma ha per così dire, bisogno di un
“addestramento”. Molto spesso si apprende il significato di una parola tramite
l’esperienza, basti pensare alle parole “dentro”, “fuori”, “là”, “uffa” e così via; “anche
la più umile interiezione spezza il continuo dell’esperienza, ne isola e tipizza un
frammento in modo che altri possano accedere alla sua comprensione” (Contare e
Raccontare , editore Laterza 2005, pag. 128) .Non bisogna, tuttavia, cadere nemmeno
nell’opposto, ovvero sottovalutare le potenzialità del linguaggio verbale. Esso infatti si
differenzia dalle altre tipologie di linguaggio per due caratteristiche fondamentali: la
semantica e la metalinguisticità riflessiva. Il professore si è addentrato nella spiegazione
delle due proprietà del linguaggio verbale. Per quanto concerne la prima, per semantica
,(dal greco σημαντικη = significato, indicativo), si intende lo studio scientifico del
significato delle parole. Da tale studio è emerso il carattere duttile, flessibile ed
equivoco che la parola possiede. Lo stesso Socrate e dopo di lui Platone , Aristotele e
molti altri, capiscono che una parola abbraccia diversi significati. Per il filosofo il
dialogo chiarisce in che senso si adoperi una determinata parola. Aristotele riconosce
che sia naturale che le parole possano avere diversi significati. Da qui la sua teoria della
μεταφορα , secondo cui è possibile trasferire il significato di una parola ad un’altra.
Aristotele conduce anche uno studio circa le modalità di cambiamento del senso e del
significato delle parole, elaborando una teoria complessiva. Anche in ambito politico, o
meglio civile, è importante determinare il senso delle parole che si utilizzano. Tuttavia
la flessibilità delle parole permette di abbattere lo scetticismo dei sofisti che affermano
che la parola ha un unico significato. Lo stesso Aristotele riconosce , però , che essi sono
i maestri dell’arte retorica, tramite la quale si è in grado di dire che tutto è il contrario
92
di tutto. Molti studiosi non hanno letto in chiave positiva il carattere flessibile delle
parole, giacché troppo spesso si cade nell’equivoco. Dunque ci si chiede se non sia
meglio che le parole abbiano un unico significato. A tale interrogativo,tuttavia,non è
stata ancora data una risposta. Il professore procede specificando cosa si intenda per
metalinguisticità riflessiva. Con tale definizione ci si riferisce alla capacità del
linguaggio, in grado di descrivere un linguaggio più semplice, chiamato linguaggio
oggetto. Basti pensare alle formule algebriche che sottintendono il funzionamento del
linguaggio aritmetico. Dunque l’algebra è un esempio lampante di metalinguaggio
riflessivo. Le lingue sono in grado di spiegare tramite l’utilizzo di vocaboli le parole
stesse, o più sinteticamente, esse sono spiegazione di se stesse. Viene riportato
l’esempio del mentitore (Eubulide di Megara IV secolo a.C.), “Io sto mentendo”, che
spiega esaurientemente la proprietà metalinguistica delle parole; giacché tramite la
parola “mentire” si spiega l’azione che si compie, nel senso dunque, che “ciò che sto
dicendo è una menzogna”. Inoltre quotidianamente chiunque ricorre, anche
inconsapevolmente, alla metalinguisticità riflessiva, con la semplice espressione “Che
cosa stai dicendo?”. Dopo tale spiegazione il professore continua affermando che questa
caratteristica del linguaggio verbale permette di giungere alla formulazione dei linguaggi
tecnici e scientifici. Bisogna tuttavia compiere varie “operazioni” per ottenere la
realizzazione di tale linguaggio. Difatti in ambito tecnico la parola si spoglia del suo
carattere duttile, assumendo un significato ben preciso, questo è il processo di
determinazione della parola, o meglio il processo definito “formalizzazione”. Esso
costituisce dunque il primo passo verso la formulazione di un linguaggio scientifico. In
tal modo si giunge ad una sorta di “chiusura” del linguaggio in un determinato ambito
del sapere, il quale, tuttavia, può acquisire nuovi termini tenendo però conto delle
parole che già esistono. Gli stessi numeri prima di essere tali, erano delle parole. Vari
sono i processi che hanno condotto alla formulazione delle cifre numeriche. Si parte
infatti dall’uso di una parola che indica un certo numero di elementi, quindi l’utilizzo di
una parola che significhi una quantità specifica, passando poi alla creazione o scoperta
di un equivalente scritto. Si giunge a questo punto all’ultima parte della conferenza e
varie sono le conclusioni che si possono trarre da tale riflessione, e il professor De Mauro
si sofferma facendone due in particolare. Senza l’aiuto delle parole nella loro
completezza non si è in grado di giungere alla costituzione di alcun tipo di sistema,
persino un sistema assiale. In secondo luogo la continuità tra studi umanistici, scientifici
e naturali è garantita dalle proprietà del linguaggio verbale. Vengono a questo punto
citati due grandi studiosi Albert Einstein e Richard von Mises. Quest’ultimo ne “Il
manuale delle scienze positive” sostiene che non vi è alcuna discontinuità radicale tra
gli studi umanistici e gli studi delle scienze matematiche, fisiche e naturali. Dunque sia
gli studi umanistici sia gli studi scientifici devono ricorrere alla determinazione delle
parole e questo ne costituisce un ulteriore punto di contatto. Qui si conclude la
riflessione del Professor De Mauro, e la seconda parte della conferenza è dedicata alle
domande che gli studenti e i professori , che hanno assistito al dibattito, rivolgono. Il
primo quesito viene posto da Silvia, la quale chiede per quale motivo, sebbene il
linguaggio ricopra un ruolo fondamentale, sia assente nell’ambito politico, e
precisamente nella politica italiana. Questo difetto è proprio solo della nostra politica, o
è riscontrabile anche nella politica in generale? Il professore risponde asserendo che non
necessariamente l’assenza di dialogo è un vizio della politica in generale, ma anzi, esso
ne costituisce una prerogativa fondamentale; sin dai tempi di Aristotele si comprende
l’importanza dell’uso del dialogo nella sfera politica. Nelle stesse dittature risulta
indispensabile il dialogo; il dittatore deve infatti persuadere e sedurre e non può farlo se
non tramite il ricorso al l’arte del linguaggio. E’ dunque sempre necessario far uso del
dialogo esplicito. Flaminia rivolge la seconda domanda: posta la differenziazione tra
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significato e significante, per significante specifica De Mauro si intende la “parte
esterna”, il vero e proprio involucro della parola, chiede se sia possibile ridurre al
massimo il significante senza tuttavia annullare, allo stesso tempo, il significato. Il
professore risponde dicendo che è possibile conservare il significato anche se si riduce al
massimo il significante, ma ciò non toglie che tale processo debba poi essere inserito in
un contesto di esplicitazioni di metalinguisticità riflessiva, nel quale viene chiarito
ulteriormente ciò che si vuole dire. Un’altra domanda viene posta da Maya , la quale
chiede se faccia parte del processo di formalizzazione sia la trasformazione di un
termine in un simbolo, quale il cartello stradale, sia l’utilizzo di uno stesso termine ,
basti pensare alla parola computer, in tutte le lingue del mondo. De Mauro afferma che
una parte importante del processo di formalizzazione è senza dubbio, la sostituzione di
parole di uso corrente con simboli convenzionali, tuttavia questo non riguarda solo le
“nobili scienze dell’accademia” , ma anche la sfera della vita quotidiana. Le stesse
segnaletiche stradali sono una forma di adozione di simboli comuni a tutti, che hanno
dei corrispondenti nelle lingue storico naturali. In molti ambiti specifici è presente la
necessità di avere un riferimento a simboli che siano comuni a tutti; gli stessi romani
utilizzano , ad esempio grecismi per venir meno alla loro rozzezza, facendo uso di un
linguaggio maggiormente colto. Molti studiosi, infine, hanno sempre aspirato alla
realizzazione di un’enciclopedia universale dei simboli. Il primo è Leibniz, il quale
ambisce, tramite il processo di matematizzazione della logica, a ricercare i segni
universali comuni a tutti i concetti, facendo sì che si affrontassero i problemi logici
come se fossero problemi algebrici; egli tuttavia ne comprende anche il limite, in
quanto ciò sarebbe possibile, dice De Mauro, solo per gli studi scientifici , i quali non
possono fare a meno della determinazione del significato delle parole. Si è giunti dopo
ampia discussione al termine del dibattito nel quale si è a lungo riflettuto sulle
caratteristiche e proprietà specifiche del linguaggio, il quale ricopre un ruolo
preminente in qualsiasi ambito, partendo dalla dimensione quotidiana, sino a giungere ai
più alti campi del sapere. Esso costituisce un ulteriore elemento che avvicina gli studi
umanistici a quelli scientifici, i quali se posseggono numerose caratteristiche specifiche
non sono poi così distanti e divergenti come molti stentano a credere.
Maria Palermo
94
Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Tullio De Mauro
Il giorno 14 gennaio il professore Tullio De Mauro ha tenuto la prima conferenzadibattito sul tema “umanesimo e scienza”, intitolata “Il linguaggio e le scienze”.
“La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo ci è stata insegnata da altri per
mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra capacità di
pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori”.
Come afferma Albert Einstein nella sua opera “Come io vedo il mondo” e cita lo stesso
De Mauro nel suo libro “Contare e raccontare”, l'uomo senza il linguaggio non potrebbe
relazionarsi con altri uomini perchè non avrebbe la capacità di trasferire i suoi pensieri
in suoni o gesti che gli permettono la comunicazione. Infatti il linguaggio, in senso più
generale, è l'insieme di segnali e simboli per mezzo dei quali gli animali, compreso
l'uomo, si intendono tra loro. Il professore De Mauro nel suo libro sopra citato afferma
come “bisogno e capacità di comunicare si radicano negli strati più profondi della
costituzione degli organismi viventi”. Il linguaggio può essere verbale e non verbale:
quello verbale è costituito da parole espresse mediante suoni , mentre quello non
verbale è riferito ad un tipo di comunicazione diverso dall'utilizzo delle parole, come i
gesti, i linguaggi visivi e fonico-acustici. Il linguaggio verbale è utilizzato per esprimere
le complesse riflessioni umane, che sono sia cognitive, cioè riguardanti la conoscenza,
sia operative, quando si progetta la realizzazione di qualcosa. E' difficile rinunciare al
linguaggio verbale, infatti le parole servono agli uomini per comprendersi e relazionarsi
tra loro. Naturalmente le parole non sono acquisite sul vocabolario, ma fin dalla nascita
l'essere umano ne apprende sempre di nuove. Il filosofo Wittgenstein afferma che l'uomo
memorizza i termini sia attraverso il linguaggio descrittivo, sia per mezzo del linguaggio
prescrittivo, cioè il comando. Un discorso è formato da più parole correlate tra di loro,
ma per esprimersi al meglio bisogna allenarsi.
Il linguaggio presenta due caratteristiche:
la prima concerne la semantica, lo studio scientifico del significato delle parole e delle
frasi. Questo termine deriva dal greco e significa indicativo, aggettivo usato spesso da
Aristotele. Le parole, a volte, possiedono delle equivocità, cioè diversi significati
attribuiti ad un solo termine. Già dal V secolo a.C. vi era una estensione del significato,
perciò solo attraverso il dialogo si può addure un determinato significato alla parola.
Inoltre è possibile “giocare” con le parole, dando un preciso significato ai termini. Per
esempio la parola “atomo” dal greco significa indivisibile. Questo termine però può
essere inteso sia come un qualcosa di piccolo, sia come la parte infinitesimale che forma
la materia, ma anche come qualcosa che non si può spezzare, essendo indivisibile. Con
questo esempio il professore chiarisce che l'espansione del significato avviene anche nei
rapporti con altre persone, dove è modificabile il senso della frase.
La seconda caratteristica riguarda la metalinguisticità riflessiva; il metalinguaggio
corrisponde ad un linguaggio più “illustre”, utilizzato per descrivere un linguaggio più
semplice, come quello matematico. Infatti le formule dell'algebra apperentemente
denumerate, sono servite per il funzionamento delle operazioni. Il meta linguaggio è
utilizzato anche per i paradossi. Il professore De Mauro ha fatto un esempio con il
famoso paradosso del mentitore: “io sono un uomo e tutti gli uomini sono mentitori,
dico il vero o il falso?”, e così si entra in un circolo vizioso. Il processo di determinazione
semantica è quella che si verifica quando un termine inserito in un' argomentazione
precisa, risulta avere un determinato significato. Esistono delle parole di base che sono
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denominate parole primitive. Solo in base a tali parole si possono poi introdurre altri
termini nel discorso. Per mezzo delle parole di derivazione greca si inseriscono i
primitivi della geometria.
I numeri prima di essere considerati come tali, sono delle parole. La terminazione di
queste parole ha derivazione molto antica. Infatti nell'antichità quando si indicava per
esempio il numero cinque, esso era considerato come insieme di cinque elementi.
Successivamente si cercò di adoperare un equivalente scritto di quel numero. Esso è
molto importante perchè è utile a determinare un qualcosa, infatti senza numeri si
vivrebbe nella indeterminatezza. Il linguaggio scientifico e tecnico è strettamente
collegato a quello verbale, perchè di certo un discorso non può essere composto di soli
numeri, ma anche di parole, le quali aiutano ad interpretare meglio il linguaggio
matematico.
La conferenza si è conclusa con una serie di domande poste al professore da parte di noi
alunni. Sono state tutte domande interessanti ed alcune anche particolarmente brillanti
e simpatiche, ma una domanda che mi ha colpita alla fine della conferenza, è stata
quella di una ragazza, la quale aveva chiesto al professore se vi fosse un metodo
specifico per riuscire ad esprimersi nel migliore dei modi. Chiaramente non esiste un
vero e proprio metodo, ma secondo me il modo migliore per imparare ad esprorre
meglio un argomento è quello di leggere molto a voce alta e soprattutto imparare
sempre vocaboli nuovi. Utile inoltre, il dialogo senza l'utilizzo di termini dialettici che
rovinano un pò la nostra bellissima e articolatissima lingua italiana.
Flavia Parisi
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Il giorno 17 febbraio il liceo classico Orazio ha accolto nell'aula magna Carlo
Bernardini,noto fisico e matematico italiano e direttore della rivista scientifica
"Sapere",in occasione della seconda di quattro conferenze dibattito aventi come
tema"Umanesimo e scienza".In tale conferenza,dal titolo"Il linguaggio della realtà"il
rapporto umanesimo-scienza è stato affrontato da Bernardini in ambito scientifico,in
risposta alla precedente conferenza che aveva avuto come relatore un insigne linguista
italiano,Tullio De Mauro.In occasione della ricorrenza dell' "anno di Galilei"egli,in
omaggio al celebre scienziato italiano,ha esposto gli enormi risultati cui pervenne lo
studioso pisano. Un grande merito di Galilei è stato quello di essere riuscito ad usare la
lingua volgare,considerata allora poco adatta per la trattazione di argomenti tecnici,per
la divulgazione del sapere scientifico.Galileo è definito proprio per questo motivo,"il più
grande divulgatore di tutti i tempi" avendo dato la possibilità di capire una trattazione
scientifica ad un pubblico assai più vasto e vario di quello a cui questo tipo di testi erano
generalmente rivolti.E' necessario capire,continua Bernardini, la grande portata non solo
scientifica,ma anche,e soprattutto,ideologica,che ha costituito la divulgazione dei testi
scientifici promossa da Galileo.La fisica,infatti,secondo Bernardini,è diventata una
disciplina rivolta non solo ad un ristretto numero di specialisti,ma all'intera società al cui
progresso scientifico e tecnonologico
sono rivolti gli sforzi degli scienziati. Le
innovazioni ,poi, apportate da Galileo in ambito squisitamente scientifico,hanno
costituito una vera e propria svolta nella storia della fisica.E' nel "Dialogo sopra i massimi
sistemi"infatti,che Galileo dimostra il principio della relatività classica secondo la quale i
movimenti vanno sempre analizzati rispetto al sistema di cui fanno parte.Cita Bernardini
,allora,uno dei passi più noti del "Dialogo sopra i massimi sistemi"in cui, viene
esposto,appunto è dimostrato il principio della relatività attraverso un semplice e chiaro
esperimento:"Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di
alcun gran navilio , e quivi fate d' aver mosche , farfalle e simili animaletti volanti ; siavi
anco un gran vaso d' acqua , e dentrovi de' pescetti ; sospendasi anco in alto qualche
secchiello , che a goccia a goccia vadia versando dell' acqua in un altro vaso di angusta
bocca , che sia posto a basso : e stando ferma la nave , osservate diligentemente come
quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza ; i pesci
si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi ; le stille cadenti
entreranno tutte nel vaso sottoposto ; e voi , gettando all' amico alcuna cosa , non più
gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa , quando le
lontananze sieno eguali ; e saltando voi , come si dice , a piè giunti , eguali spazii
passerete verso tutte le parti . Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose ,
benchè niun dubbio ci sia che mentre il vasello sta fermo non debbano succeder così ,
fate muover la nave con quanta si voglia velocità ; ché ( pur che il moto sia uniforme e
non fluttuante in qua e in là ) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li
nominati effetti , nè da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o sta
ferma".Questa geniale soperta venne recuperata e utilizzata da Newton originando così
la forma matematica e fisica della meccanicaMa ,continua Bernardini,soprattutto
Einsten è stato il più grande debitore di Galileo,giacchè,è stato lui ad aver dimostrato
scientificamente il principio di relatività,che in Galileo era rimasto ,fondamentalmente
un'intuizione.(ricorda Bernardini a tal proposito, il 1905,il cosiddetto "annus mirabilis"
per lo sviluppo della meccanica quantistica e della relatività). Lo studio meticoloso e
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diretto che Galileo ha svolto nel decifrare quel libro della natura che" continuamente ci
sta aperto innanzi a gli occhi " e che "è scritto in lingua matematica, e i caratteri son
triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a
intenderne umanamente parola"è ,dunque,modello da seguire per le generazioni
successive.Nella seconda parte della conferenza,dedicata al dibattito con gli
studenti,Bernardini ha evidenziato quanto oggi ci sia la tendenza da parte degli
studiosi,ad avere un approccio indiretto con le fonti,mediato attraverso l'opera
inadeguata e,a volte del tutto deviante,intrapresa dagli storici della
scienza.Recuperare,invece ,i testi scientifici e studiarli con cura scrupolosa :questo è
l'invito rivolto da Bernardini ai giovani.Il linguaggio della fisica ,apparentemente astruso
e di difficile comprensione, "nasconde la rappresentazione di un universo".Una volta che
si sia deciso di intraprendere il cammino della fisica,che il relatore paragona ad un vero
e proprio viaggio in"Contare e raccontare ("testo scritto a due mani da Bernardini e De
Mauro),si scopre quanto le parole in realtà siano le "ruffiane dello spirito",mentre le
formule sono il "telescopio della mente".Evitando,dunque,di incorrere da una parte nello
"scientismo trionfalistico",dall'altra nell'"integralismo umanistico" è necessario un
approccio più motivato alle facoltà scientifiche che negli ultimi anni hanno subito un
rapido calo di interesse a favore delle discipline umanistiche.Agli studenti che hanno
posto molte domande anche riguardo gli studi scientifici in Italia ,Bernardini ha
evidenziato ,anche ricordando episodi della sua esperienza personale, quanta ignoranza
ci sia anche nei ranghi più elevati delle classi sociali: " buchi culturali nel nostro Paese
sono delle voragini".In questa ottica va l'invito alla classe politica italiana a non
considerare una spesa ma un vero investimento il finanziamento della ricerca.Si
conclude la conferenza con l'invito di Bernardini a studiare le facoltà scientifiche con la
felice consapevolezza che attraverso lo studio della"poesia delle formule"l'uomo ha
accesso all'unica strada che porta al progresso,prescindendo dalla quale,secondo la
citazione galileiana ci si aggirerebbe "in un oscuro laberinto" .
Rosa Calabrese
98
Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Il 17 febbraio la scuola ha avuto l’onore di ospitare il professore Carlo Bernardini, uno
dei più illustri fisici italiani; tema della conferenza è “il linguaggio della realtà”. Questa
è la seconda delle cinque conferenze sul tema del linguaggio.
La conferenza inizia con la presentazione del fisico da parte della professoressa Fierro.
Carlo Bernardini è professore all’università “La Sapienza” di Roma, dirige la rivista
“Sapere” ed è senatore della Repubblica.
Il professore apre il suo discorso dicendo che tutti gli anni sono dedicati a scienziati
illustri. In particolare l’anno 2009 è dedicato alla figura di Galilei.
Egli si è prodigato per far comprendere a tutti la scienza, pubblicando per la prima volta
testi scientifici in volgare. Fino ad allora erano scritti esclusivamente in latino e per
questo erano accessibili ad una ristretta cerchia di persone.
Oltre a pubblicare testi in volgare e a inventare molte altre cose Galilei inizia la Chimica
teorica (chiamata dai posteri chimica pratica), e si occupa di fisica (in particolare studia
l’accelerazione e la velocità anticipando quello che sarà poi sviluppato da Einstein).
Secondo Galilei i caratteri della fisica sono 3: i triangoli, i cerchi e altre figure
geometriche. Tutte le figure geometriche e tutti i poligoni derivano dalla somma di
triangoli e cerchi.
Per il professore Bernardini il linguaggio di Galilei è ancora poco studiato. Per tutti e
due (Galilei e il professore) ci deve essere uno scambio del linguaggio tra il linguaggio
fisico e quello della filosofia iduttiva.
Consiliare il linguaggio della matematica con il linguaggio linguistico non è facile. Ai
giorni nostri quasi tutti i testi scientifici e matematici internazionali sono scritti in
inglese. Il professore afferma che l’inglese è una lingua facile ed efficiente,
contrariamente all’italiano che ha molti sinonimi e parole antiche.
Dopo aver parlato del linguaggio fa una breve digressione su Aristotele. Egli adatta la
Filosofia alla fisica ed enuncia un principio di casualità:
se un oggetto compie un’azione su un corpo, ne consegue un effetto
L’agente è chiamato forza e la velocità effetto. Questa teoria sarà poi ripresa in futuro
da Eulero, fisico svizzero del 1700 che si occupò di balistica, meccanica e ottica.
La conferenza giunge al termine e, dopo il dibattito, si evince che la scienza si sta piano
piano sviluppando, cercando si rispondere ai grandi quesiti. Vero è che in Italia non
viene finanziata la ricerca e ormai si è ridotta ad laboratori privati.
Maristella Cecinato
99
Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Martedì 17 Febbraio si è tenuta la seconda delle conferenze sul tema di
approfondimento “ Umanesimo e scienza”, che ha visto come relatore il Prof. Carlo
Bernardini.
Questo è l’anno di Galilei! Così inizia la trattazione il professore, il quale mette in luce
come questa figura di spicco nel panorama italiano del XVII non sia ancora oggi studiata
attentamente soprattutto nelle scuole ma anche dagli addetti ai lavori. Galilei è stato
il primo, infatti, a porsi il problema dell’ integrazione del linguaggio scientifico in
quello comune e a capire che la scienza doveva avere una divulgazione a più ampio
raggio. A tal proposito è esemplificativo il suo “Dialogo sopra i due massimi sistemi” in
cui introduce tre interlocutori: Salviati, ovvero la copia di se stesso, portavoce delle
sue idee, Sagredo, personaggio perspicace e intelligente e infine Simplicio che incarna il
tipico uomo di cultura ottuso dei tempi della Controriforma. L’ innovazione geniale
contenuta in quest’opera è proprio il linguaggio; se infatti la lingua usata per la
divulgazione della cultura era il latino, conosciuto soprattutto da preti e intellettuali,
Galilei scrive in volgare per rendere il suo pensiero accessibile ad un pubblico di lettori
più vasto. Tuttavia, quali erano le idee dominanti nel suo tempo? Erano quelle della
cosiddetta “fisica ingenua”, cioè un insieme di rappresentazioni che spontaneamente si
formano nella nostra mente,alla base anche della fisica aristotelica, mai messa in
discussione fino a quel momento, la quale non era niente altro che una traslitterazione
nel linguaggio parlato di tali rappresentazioni al fine di dare loro una sistemazione
proposizionale. Il fulcro della concezione aristotelica della realtà è il principio di
causalità, per cui dato un agente che compie un’ azione nei confronti di un corpo
pesante ne consegue un effetto. L’agente viene chiamato “forza”, l’ effetto “velocità”.
In verità, l’ effetto di una forza su un corpo pesante non è la velocità, bensì l’
accelerazione che è la variazione della velocità in relazione al tempo. Il concetto di
accelerazione non era conosciuto nella fisica ingenua, anche perché per esprimerlo con
una notazione appropriata si sarebbe dovuto ricorrere al concetto di funzione ad una
variabile “f(x)”, che fu introdotto da Eulero solo nel 1734-1735. E’ ora possibile intuire
come fosse difficile all’ epoca avere rappresentazioni mentali formalizzate in un
linguaggio scientifico.
Nel seicento, però, erano ben noti i “Principia matematica” di Euclide, e a partire dalla
semplice geometria di quest’ ultimo Galilei riesce a fare dell’ eccellente fisica teorica.
Nel “Saggiatore”1 infatti, dice che “il libro della natura è scritto in lingua matematica
e i caratteri sono: triangoli, cerchi e altre figure geometriche.
Oltre che per il carattere del tutto innovativo del suo linguaggio scientifico, la sua
grandezza, condivisa con i più grandi fisici di tutti i tempi, stà nella capacità di
compiere esperimenti pensati. Il più importante fra questi è quello che gli ha permesso
di rendere relativo il concetto di velocità. A tal proposito si faccia riferimento al brano
del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” intitolato “il mare sotto coperta”2
:
100
"Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coperta di
alcun grande naviglio, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti
volanti; siavi anche un gran vaso d’ acqua, e dentrovi dei pescetti, sospendasi
anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’ acqua
in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso: e stando ferma la nave,
osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno
verso tutte le parti della stanza, e i pesci si vedranno andar notando
indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso
sottoposto; e voi, gettando all’ amico alcun cosa, non più gagliardamente la
dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno
uguali, e saltando voi, come si dice, a piè giunti, egual spazii passerete verso
tutte le parti.Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benchè
niuno dubbio vi sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succedere così;
fate muovere la nave con quanta si voglia velocità: ché (pur che il moto sia
uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima
mutazione in tutti li nominati effetti, nè da alcuno di quelli potrete
comprendere se la nave cammina oppur sta ferma..."
1. G.Galilei, Il Saggiatore, in Opere, vol VI, pag 302.
2. G.Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,Oscar mondatori, pag
196.
La conclusione che Galilei trae da queste comunissime osservazioni è che tutti questi
eventi si verificheranno in tal modo senza che noi ce ne accorgiamo, come quando
alla stazione ci troviamo sopra un treno e non riusciamo a capire se ci stiamo
movendo o è il treno accanto a noi.
Il professore conclude la conferenza ribadendo l’ importanza di uno scienziato come
Galilei, il quale ha mostrato la sua grandezza, oltre che per gli studi da lui effettuati
sulla velocità, sulla caduta dei gravi nel vuoto, sull’isocronismo delle oscillazione di
un pendolo, solo per citarne alcuni, soprattutto per l’impegno volto a costruire un
linguaggio libero da tecnicismi formali, basato su elementi semplici, libero da
incrostazioni retoriche e capace di dimostrare, calcolare e formalizzare.
Alla lezione del professore ha fatto seguito un ampio dibattito che ha visto la
partecipazione di molti alunni del nostro liceo. Nella mia rielaborazione della
conferenza, riporterò di seguito alcune tra le domande a mio avviso più interessanti
con le relative risposte. Al professore sono stati posti quesiti di diverso genere,
riguardanti la sua personale esperienza nello studio della fisica, problemi di attualità
o di competenza più specifica nell’ ambito delle discipline scientifiche. Ad aprire il
dibattito è stato un ragazzo il quale ha manifestato la sua particolare curiosità
chiedendo al professore come fossero iniziati i suoi studi nel campo della fisica; Carlo
Bernardini ha risposto dicendo che nella sua città natale, ovvero Lecce, la maggior
parte degli abitanti sono giuristi, per cui era molto comune parlare di diritto, di
grandi processi ma non certo di matematica o fisica. La sua passione per tali materie
fu inizialmente coltivata da lui personalmente, alla maniera di un autodidatta e,
successivamente, attraverso gli studi universitari. A questo punto il dibattito si è
spostato su due argomenti particolarmente attuali, cioè il rapporto tra scienza ed
etica e la scarsa propensione che si ha nel nostro Paese ad investire nella ricerca.
Riguardo la prima tematica, la relazione tra scienza ed etica è possibile nel caso in
cui si trovino a discutere persone competenti sull’ argomento scientifico in
questione, in tal caso, infatti, l’etica di entrambi
101
sarebbe la stessa; invece è un fatto veramente immorale, sostiene il nostro relatore,
che coloro che sono ignoranti in materia si permettano di mettere bocca senza
averne le facoltà. Per quel che riguarda il secondo la questione è più complessa.
Nonostante il momento di crisi generale che stiamo vivendo, non bisognerebbe
risparmiare sulla ricerca, anzi si dovrebbero utilizzare i milioni di euro tenuti al
sicuro dalle fondazioni bancarie per finanziare studi su progetti a lungo termine. Il
professore conclude la sua risposta sostenendo che in Italia da molti anni manca la
figura del “sistemista”, cioè colui che attraverso la lettura di testi di letteratura
scientifica è in grado di mettere insieme sottosistemi, che presi singolarmente non
produrrebbero valore aggiunto, per creare invece un sistema in grado di sfruttare al
meglio la sinergia delle singole apparecchiature. Esempio tipico di tale figura è stato
l’ italiano Guglielmo Marconi, il quale sfruttando gli studi del russo Popov sulle
antenne e quelli di Temistocle Calzecchi Onesti per quanto riguarda la parte radio,
riuscì a collegare l’ Europa con l’America attraverso onde elettromagnetiche.
Ilaria Gravina
102
Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Il professor Carlo Bernardini, insigne fisico, ordinario all’università di Roma La
Sapienza, propone un confronto ideale tra umanesimo e scienza nel volume “Contare e
Raccontare”, dove affronta il problema della difficile integrazione del pensiero
scientifico nel linguaggio comune.
Il 2009 è l’anno di Galileo Galilei che è stato il primo scienziato a comprendere il
problema linguistico dell’integrazione delle scienze.
Nel Dialogo sui massimi sistemi Galilei presenta la figura di Salviati, che è un
interlocutore intelligente, in rapporto a Sagredo che rappresenta l’uomo comune della
sua epoca. Nel 1600 infatti, la scienza veniva divulgata in latino che non era
comprensibile alla gente comune, Galilei pertanto è il più grande divulgatore delle
scoperte scientifiche poiché riesce a descrivere in volgare il pensiero del suo secolo. Nel
XVII secolo erano generalmente accolte le idee della cosiddetta “fisica ingenua” ovvero
quelle idee che sorgono intuitivamente e che sembrano dare una sistemazione razionale
alla fenomenologia della realtà. La filosofia aristotelica era in gran parte costituita
infatti da idee che corrispondevano a una traduzione in linguaggio comune delle idee
della fisica ingenua. Quest’ultima consentiva a tutti di comprendere i concetti di base
secondo cui un’agente(che può produrre un’azione) opera su un corpo pesante, ne
consegue un effetto, ovvero quel corpo subisce un effetto di tale causa. Chiamando
forza l’agente, ci si basava sull’idea della forza impressa al corpo tralasciando tuttavia
la capacità di tale corpo di acquisire velocità, perché il concetto di accelerazione non
esisteva nella fisica ingenua. Per comprendere nozioni come la dipendenza della velocità
dal tempo, era necessaria un’idea meno intuitiva di che cosa è la funzione di una
variabile.
Galilei riesce a elaborare una eccellente fisica teorica ben prima che Eulero, un
secolo dopo di lui,giungesse ad indicare la funzione (f) di una variabile x. Come afferma
nei suoi Discorsi attinenti alla meccanica, Galileo ritiene che le rappresentazioni mentali
derivino dalla natura dato che a suo avviso il libro della natura è scritto in lingua
matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche. Egli conosce
la geometria euclidea e utilizza sia i termini di “accelerazione” e perfino “la
composizione vettoriale di moti ortogonali”, giungendo così a rappresentare nella
propria mente i fenomeni naturali secondo regole che costituiscono già una teoria nel
senso più moderno del termine.
La straordinaria capacità di argomentare di Galilei viene ben rappresentata dai suoi
“esperimenti pensati” come nel caso della nozione di “relatività cinematica” che
ritrova nel Dialogo sopra i massimi sistemi: Galilei descrive la tipica situazione in cui ci
troviamo tutti quando alla stazione ferroviaria siamo sul treno in attesa di partire e
proviamo la sensazione di essere in movimento guardando il treno sul binario accanto. In
realtà è il treno vicino che si muove e non il nostro e le osservazioni comunissime che si
fanno in tali circostanze collegando causa ed effetto, dimostrano la legge fisica della
relatività della velocità.
103
La forza del ragionamento induttivo di Galilei è in grado di superare le cognizioni
intuitive della fisica ingenua e prelude a tutte le fenomenologie moderne. Grazie a
Galilei impariamo come la fisica teorica sia un modo di pensare la realtà e di
interpretarla correttamente attraverso un linguaggio appropriato corrispondente alla
complessità dei fenomeni. Infatti se per la fisica aristotelica la velocità di un corpo
derivava dal rapporto tra potenza e resistenza per cui il vuoto era impossibile, per
Galilei il peso di un grave non ha rilevanza nella sua velocità di caduta nel vuoto ma è
relativa,e questa sua scoperta molti decenni dopo condurrà al principio di equivalenza
che sarà successivamente sviluppato da Heinstein nella teoria della relatività.
È probabile che non tutte le intuizioni di Galilei siano corrette, ma il suo contributo
più rilevante concerne sicuramente la concezione e la costruzione di un linguaggio
specifico per riferire i fenomeni scientifici. La nozione galileiana che debba esistere un
linguaggio specifico che produce relazioni mentali favorisce la comprensione del
funzionamento della realtà. La fisica teorica attuale deve occuparsi in realtà di nozioni
assai più facili da formalizzare in un linguaggio rispetto ai fenomeni di base formalizzati
in maniera sintetica ed efficiente da Galilei. La specificità del linguaggio scientifico che
Galilei formalizza, consente contemporaneamente di riconoscere i linguaggi specifici
della cultura ma anche la necessità di un meccanismo di scambio delle specificità
linguistiche e culturali che devono dialogare ma non identificarsi. Un esempio di
interscambio tra linguaggio umanistico e linguaggio scientifico costituito dalla necessità
di conservare la storia della fisica che è certamente rappresentata dalle conquiste
intellettuali cui era pervenuto Galilei e che sono state successivamente superate da
rappresentazioni maggiormente evolute, se si studia la storia delle fisica nel XIX secolo
si scopre una straordinaria capacità di elaborare concezioni sempre più evolute fino ad
arrivare all’anno 1905 quando nacquero la relatività, la meccanica quantistica etc.
Il dibattito che è seguito alla lezione del professor Bernardini ha posto l’accento sulla
formalizzazione del linguaggio scientifico che nell’insegnamento necessita di essere
divulgato e sulla maggiore efficacia e semplicità della lingua inglese come veicolo della
letteratura mondiale nel settore scientifico; un altro tema affrontato ha riguardato la
necessità di mantenere viva la memoria storica delle scoperte scientifiche; i rapporti
che si instaurano tra ricerca scientifica ed etica, soprattutto in relazione all’energia
nucleare; ed infine il difficile rapporto che ancora oggi si instaura tra linguaggio
umanistico e linguaggio scientifico, talvolta ritenuto meno colto del primo. A questo
proposito ha suscitato particolare interesse il racconto di un questionario presentato
nelle scuole elementari da una nota matematica francese che ha dimostrato
l’incomunicabilità tra linguaggio verbale e il linguaggio scientifico: ad un problema che
chiedeva ai bambini di risolvere il seguente quesito “una nave trasporta 32 pecore e 18
montoni. Quale è l’età del capitano?”
L’80% degli alunni ha dato la risposta 50, mentre solo il 20% non ha risposto. Il
questionario somministrato in Italia ad un campione di bambini inferiore ha condotto ad
una percentuale del 100% della sommatoria di 32 pecore e 18 montoni in relazione
all’età del capitano. Nessun bambino italiano ha rilevato l’assurdità del problema e anzi
uno è riuscito persino a trovare delle giustificazioni. Giustificazioni a posteriori di
assurdità a priori.
Arianna Massimi
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Il giorno 17 febbraio 2009 il prof. Carlo Bernardini ha tenuto la conferenza dal titolo “il
linguaggio della realtà”, che, nell’ambito del tema di approfondimento culturale del
nostro liceo “Umanesimo e Scienza”, ha affrontato il problema del difficile rapporto tra
linguaggio scientifico e umanistico, dal punto di vista dell’uomo di scienza.
In risposta al discorso tenuto dal prof De Mauro circa le origini del linguaggio e le infinite
possibilità di applicazione di una lingua in qualsiasi disciplina, il fisico si è preoccupato
di analizzare le peripezie affrontate dal linguaggio scientifico nel suo cammino verso
l’integrazione con il linguaggio comune.
Il primo a porsi questo problema nel corso dell’evoluzione del pensiero scientifico è
stato Galileo Galilei, “il più grande divulgatore di tutti i tempi”. Egli infatti si rese conto
fin da subito della possibilità di tradurre in volgare le idee scientifiche fino a quel
momento espresse unicamente in latino, con l’obiettivo di coinvolgere un numero
sempre maggiore di persone nel discorso scientifico. La figura di Galileo riveste un ruolo
centrale nel superamento di quella che oggi è generalmente chiamata “fisica ingenua”:
si tratta infatti di dell’insieme di proposizioni nate spontaneamente dall’osservazione
della realtà che costituiva il fondamento della fisica di matrice aristotelica. Esempio
evidente dell’ “ingenuità” di tale fisica è la convinzione aristotelica che una forza,
intesa come causa, produca, agendo su un corpo pesante, un effetto che consiste nella
sua velocità: nell’ambito di queste teorie era del tutto assente il concetto di
accelerazione, che fu proprio Galileo a introdurre, affermando che sotto l’azione di una
forza il corpo non acquisisce solo velocità, bensì una variazione costante di essa,
definita appunto accelerazione. Uno dei grandi meriti di Galileo consiste quindi nell’aver
criticato l’immaginazione come fondamento del metodo di interpretazione della realtà
dei suoi contemporanei, e aver posto le basi per la nascita di una fisica teorica. Questo
metodo di analisi della realtà si nutre di un nuovo linguaggio, quello matematico: è
proprio lo scienziato a scrivere nel Saggiatore che “la filosofia è scritta in questo
grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo)
ma non si può intendere se prima non si impara a intenderne la lingua, a conoscere i
caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono
triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile
intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro
laberinto”. Si tratta quindi di un linguaggio che parte dai fatti per parlare dei fatti, una
lingua semplice e misurabile, quella della filosofia induttiva. Strettamente collegato al
linguaggio della fisica è quello della matematica, anche se il suo rigore ha costituito e
ancora costituisce un impedimento alla piena comprensione delle proposizioni della
scienza. Secondo Bernardini, dunque, risulta impossibile trasmettere al lettore non
scientificamente formato il patrimonio delle scoperte raggiunte nel corso della storia
della ricerca: è significativo quindi il tentativo attuato dalla cultura inglese di
trasformare in “modalità galileiane” quelle dottrine che sarebbero altrimenti
incomprensibili per i “non addetti ai lavori”
Il tentativo di integrazione tra il linguaggio scientifico e il linguaggio comune si
configurerebbe pertanto come fallimentare: lo stesso professore constata che, fatta
eccezione per Galileo, spesso assurto a simbolo dell’incontro tra Umanesimo e Scienza
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(molti sono infatti i critici che si sono adoperati ad una lettura meramente letteraria del
Dialogo sopra i due Massimi Sistemi, al di là del suo valore scientifico, tanto che Galileo
Galilei compare in tutti testi di letteratura italiana) i fisici teorici sono portati a dare
un'unica modalità di interpretazione della realtà che risulta inevitabilmente
inconciliabile con quella della filosofia, della politica e dell’arte. È sempre Bernardini,
tuttavia, a indicare come unica via per la realizzazione dell’unità della cultura
l’approfondimento e lo studio in ogni campo del sapere.
Nella seconda parte dell’incontro , il professore è stato coinvolto in alcune riflessioni
proposte dagli studenti e da alcuni insegnanti, che hanno manifestato grande interesse
verso una problematica cosi attuale.
Una delle questioni più scottanti dei nostri tempi che è stata posta all’attenzione del
fisico è la difficile dialettica tra scienza ed etica: spesso infatti il progresso scientifico
scatena un’aspra polemica sul valore etico delle scoperte a cui esso porta. Bernardini
rivendica la condivisibilità dei principi etici da parte di tutti, scienziati compresi; ma
allo stesso tempo polemizza sull’intervento nelle questioni di bioetica spesso
sconsiderato e inappropriato da parte di un gran numero di persone che il più delle volte
non ha ben chiaro neppure l’oggetto di discussione. Questo discorso si collega anche alla
propensione manifestata da Bernardini per la riabilitazione delle centrali nucleari in
Italia. Il fisico, infatti, ha ricordato come in occasione del referendum del 1987, che
all’atto pratico proponeva l’abrogazione di alcune disposizioni di legge concepite per
rendere più facili gli insediamenti del nucleare, la maggioranza degli italiani abbia
votato nella convinzione che fosse loro richiesto se abbandonare o meno il ricorso al
nucleare come fonte di approvvigionamento energetico.
Un altro problema richiamato all’attenzione del relatore è l’attuale organizzazione
dell’insegnamento della matematica e della fisica: prevedendo, infatti, un’unica
cattedra per entrambe le discipline , tale sistema mette in seria difficoltà i docenti,
perche, in accordo con quanto puntualizzato in precedenza, la forma mentis dei fisici si
differenzia notevolmente da quella dei matematici, impedendo a entrambi una
contemporaneo approfondimento delle due materie.
Il problema maggiore della lingua italiana è, secondo Bernardini, la sua inadeguatezza
ad esprimere concetti scientifici: contrastando, quindi, nettamente con quanto aveva
affermato nel suo precedente intervento il prof. Tullio De Mauro, il quale aveva
dimostrato come qualsiasi lingua, compreso il leccese, fosse utilizzabile in ogni campo
del sapere, il fisico ha invece professato la sua completa sfiducia nelle possibilità
dell’italiano. Ideale per la scienza è l’Inglese, lingua semplice e concisa, che manca
delle infinite sfumature e possibilità di interpretazione della nostra lingua.
Era inevitabile poi che venisse alla luce quello che è forse oggi il principale problema del
nostro paese: l’abbandono della Ricerca scientifica. Poche sono infatti le nazioni che
destinano cosi esigue risorse all’investimento nella ricerca: secondo Bernardini una
spiegazione plausibile alla nostra situazione si può individuare nella continua ricerca del
profitto immediato da parte del nostro stato che,richiedendo “scoperte lampo” alla
scienza, non è in grado di rispettare i tempi necessari perche il progresso in determinati
settori sia effettivamente rilevante.
A conclusione del suo intervento il nostro relatore ha individuato nell’incapacità dei
fisici di storicizzare le proprie scoperte e di prendere in considerazione il passato per
potersi proiettare nel futuro, il loro “errore memorabile”. Vivendo solo nel presente e
106
cancellando la storia hanno negato qualsiasi possibilità di incontro con il mondo
dell’umanesimo.
Andrea Miniagio
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Il giorno 17-02-09 si è tenuta nell’aula magna della nostra scuola una conferenza dal
titolo “Il linguaggio della realtà”. Il relatore, Carlo Bernardini, si è rivelato una persona
simpatica e frizzante, oltre che un uomo di grande spessore intellettuale. Egli, nato a
Lecce nel 1930, oltre ad essere un grande fisico incarna anche la figura dell’opinionista
e dell’uomo politico (è stato senatore negli anni ’70) ed è inoltre autore di numerose
opere di divulgazione scientifica, ma anche di saggi a sfondo politico e sociale, senza
dimenticare che dirige la rivista scientifica “Sapere”. Insomma, Bernardini è uno
scienziato a tutto tondo!
Per delineare meglio il difficile rapporto che intercorre tra pensiero scientifico e
pensiero comune viene preso ad esempio Galilei: egli fu il primo a capire il problema
linguistico dell’integrazione delle scienze nel pensiero comune. Infatti Galilei si prodigò
perché quanta più gente possibile potesse capire il contenuto delle scienze. Ai suoi
tempi infatti la scienza veniva comunicata in latino, mentre le sue opere più importanti,
come il “Dialogo sopra i due massimi sistemi”,sono scritte in volgare. Un’altra grande
innovazione apportata da Galileo è stata la distinzione della fisica vera e propria dalla
“fisica ingenua”: le idee della fisica ingenua sono quelle idee concepite spontaneamente
dall’osservazione istintiva e primitiva della fenomenologia e non fondate dunque su uno
studio scientifico e razionale della realtà. Galileo introduce per la prima volta il
concetto di accelerazione, che nella fisica ingenua non esiste. Per la chiarezza del
discorso, per l’importanza data al ragionamento induttivo, per quel modo di pensare la
realtà oltre l’apparenza, lo studio di Galilei è ancora oggi ricco di insegnamenti
nonostante non sia stato affatto capito ed apprezzato dai suoi contemporanei.
D’altronde come avrebbe potuto un uomo del ‘600 accettare un sistema copernicano
dove non più la terra nè l’uomo sono il centro dell’universo? E come minimamente
concepire che un corpo leggero e un corpo pesante nel vuoto impieghino lo stesso tempo
a cadere? Non potendosi spiegare con mezzi propri tutto ciò che accade in natura si
finisce col ritenere reali principi infondati, ed è proprio ciò che fa la fisica ingenua e che
Galileo ha in gran parte cancellato. E questo accade perché la cultura umana è
soverchiata dalla parola, dal linguaggio. Infatti ciò che si può dire a parole acquista un
carico di verità tale da poter addirittura vanificare i fatti. Ed è Galileo ad avanzare
l’idea che bisogna costruire un linguaggio concepito e costruito sui fatti, che permetta
alla filosofia naturale (la fisica ingenua), di diventare fisica teorica. Tale linguaggio è
quello della filosofia induttiva. La fisica teorica consiste dunque nel superamento della
fisica ingenua. Bernadini conclude la sua relazione con una constatazione: purtroppo un
fisico teorico assorbendo un suo modo spontaneo e naturale di rappresentare la realtà, a
causa delle specificità linguistiche, nega gli altri modi di pensare, come quello dalla
filosofia, della politica, dell’arte, cosa che non permette un’unità della cultura. Si pone
dunque il problema dell’integrazione di una cultura in un’altra e l’unico modo per
uscirne, non c’è scampo, è studiare!
Nel momento del dibattito, dai ragazzi provengono molte domande riguardo il linguaggio
matematico, il suo rigore e il modo di poterlo conciliare con quello umanistico.
Il nostro fisico in un discorso generale ci espone le sue tesi al riguardo. Innanzitutto
Bernardini ci dice che è molto difficile conciliare il linguaggio matematico con quello
108
umanistico e tale tentativo è reso ancor più difficile dal modo di insegnare la
matematica. Infatti l’insegnamento della matematica, che spesso si ferma all’interno di
una meccanica razionale senza aprirsi alla relatività, ha bisogno di continui
ammodernamenti. Inoltre il grande problema della matematica è la sua
decontestualizzazione a livello didattico: molto spesso, infatti, gli studenti si trovano ad
estrarre i numeri,gli elementi matematici, dal contesto proprio perché si tende a
distaccare il linguaggio matematico da quello umanistico. Ciò è dovuto secondo me
anche al rigore della matematica, che tende a chiudersi all’interno di uno schema da
seguire in modo preciso e coerente. Proprio per questo rigore che caratterizza la mente
dello scienziato, si tende a credere che siano gli umanisti e non i fisici o i matematici a
cercare un contatto tra le due realtà. Bernardini da parte sua sembra sfatare
quest’idea. Esistono molti uomini di scienza che hanno anche una grande cultura
umanistica e classica, ma il problema è arrivare agli umanisti, verso i quali gli scienziati
sono un tantino diffidenti. Da entrambe le parti c’è dunque il sentirsi migliori e il
ritenersi responsabili della ricerca di un rapporto con l’altro:ovviamente la ragione non
è di nessuno! Un altro problema affrontato è il rapporto della scienza con l’etica. L’etica
di uno scienziato è pari a quella di qualsiasi altro, ma dopo una scoperta scientifica lo
scienziato sa di cosa si parla e a cosa si va incontro, mentre molto spesso gli altri no.
Bernardini è stato infatti, si sa, sostenitore del nucleare. E questo perché lui, che è uno
scienziato, studiando di persona il fenomeno si è potuto rendere conto dei vantaggi e
degli svantaggi del nucleare. Quello che ci vuole far capire è che il problema etico della
scienza è valido solo dal momento in cui si conoscono veramente tutte le implicazioni di
una nuova scoperta e che quindi gli scienziati non hanno un’etica differente da quella
della gente comune, sono solo più informati di noi. Un’altra domanda solleva il problema
linguistico dell’italiano: è l’inglese la lingua maggiormente utilizzata per il linguaggio
scientifico, mentre l’italiano non viene ritenuto adatto per questo tipo di linguaggio.
Perché? In realtà questo è un problema piuttosto infondato secondo me: come ci
conferma Bernardini, l’italiano pone molte più difficoltà linguistiche dell’inglese in
quanto la nostra è una lingua ricca di sinonimie e parole ambigue mentre l’inglese,
essendo una lingua semplice ed essenziale, è più efficace per un linguaggio scientifico
che non permette equivoci. Molto interessante è anche il discorso riguardo al ruolo del
ragionamento induttivo e di quello deduttivo nell’ambito della fisica. Alla base di tutto
vi è il dubbio, e il solo metodo che permette il dubbio è quello induttivo. Infatti secondo
il ragionamento di tal genere dall’osservazione di un fenomeno arrivo a darne una
formulazione che mi permette di generalizzare, ma nel fare ciò devo ammettere la
possibilità di sbagliare e la spiegazione che do deve dunque poter essere confutabile!
Seguendo un metodo induttivo, dunque, tento di superare dei dubbi ma devo
mantenermi sempre nell’ambito del dubbio. Un ragionamento di tipo deduttivo invece è
inconfutabile perché contiene in sé già tutte le risposte: non è adatto alla fisica!
Certamente l’intervento di Bernardini in questo ciclo di conferenze sul dibattito tra
umanesimo e scienza è stato di primaria importanza. Infatti è stato l’incontro che più di
tutti ci ha permesso un contatto diretto con la realtà scientifica e senza dubbio un
grande stimolo per ognuno di noi ad allargare gli orizzonti del nostro sapere.
Marta Santaniello
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal prof. Carlo Bernardini
Martedì 17 febbraio 2009 al liceo classico “Orazio”,su invito della prof.ssa Fierro è
venuto a tenere la conferenza lo stimatissimo fisico e divulgatore del sapere
scientifico:Carlo Bernardini.Dopo il breve ringraziamento del Dirigente scolastico la
prof.ssa Fierro,coordinatrice del tema di approfondimento “ Umanesimo e Scienza”,ha
presentato l’ospite,ringraziandolo a sua volta per aver accettato l’invito.
Immediatamente Bernardini,con spiccata ironia,pur dichiarando di non essere del tutto
sicuro di poter esaurientemente sviluppare un tema così complesso, poiché il rapporto
Scienza-Umanesimo è un rapporto di continuità/frattura, ha presentato la sua
argomentazione attraverso un excursus filosofico scientifico dell’evoluzione del sapere
scientifico,a cominciare da Galilei. Infatti secondo l’opinione del fisico,Galilei che 100
anni prima di Leibniz e Newton portò a compimento risultati pratici su numerosi
fenomeni,in virtù dei quali esplicitò prove dimostrative,è ancora oggi pieno di
insegnamenti illuminanti. Partendo proprio da Galilei,che a buon diritto può essere
considerato il “faro” del linguaggio scientifico,che ha illuminato la strada alle successive
scoperte fisiche e astronomiche,è necessario ripercorrere l’iter che ha determinato la
profonda spaccatura fra il linguaggio scientifico e il linguaggio verbale. Infatti ai tempi
di Galilei la conoscenza scientifica era espressa attraverso il latino e già a partire dalla
seconda metà del’500 si è verificata la mancata integrazione del linguaggio scientifico
nel linguaggio verbale,provocando perciò nell’immaginario comune la “ famosa”antitesi
scienza-humanae litterae. Questa dicotomia,come ha puntualizzato il profesore è
derivata dal fatto che i rapporti tra la fisica o la matematica e la letteratura sono
deformati da “ estremizzazioni”pregiudiziali di natura ideologica. Pertanto
Bernardini,focalizzando
la
sua
attenzione
sull’importanza
del
metodo
galileiano,attraverso numerosi esempi,ha mostrato come Galilei sia stato il primo a
creare quel ponte di collegamento,tentando di diffondere in volgare le idee della fisica
ingenua. A tal fine,dal momento che era indispensabile sviluppare un linguaggio
matematico,che potesse corrispondere al linguaggio della natura,ancor prima dei
risultati degli altri filosofi-matematici,Galilei conosceva le parole accelerazione e
osservazione,in base alle quali sapeva il significato del termine relatività della velocità.
Quest’ultima che equivale,secondo il principio di causalità all’effetto che scaturisce
dalla causa dell’agente è la condicio sine qua non dell’esistenza del binomio potenzaresistenza .Riguardo ciò,già Aristotele si era soffermato sul problema,ritenendo che
poiché il rapporto potenza-resistenza è un rapporto uguale all’infinito,il vuoto non
esiste. Bernardini, dunque, è convinto che il metodo della moderna scienza,come già i
primi
tentativi
durante
l’età
galileiana,si
basino
su
due
strumenti
fondamentali:l’immaginazione e l’intuizione,mediante i quali è possibile razionalmente
spiegare i meccanismi della fisica teorica. Essa contiene un’equilibrata dose di “realismo
classico”,perché non guidata da tecnicismi virtuosistici,si basa proprio su
quell’immaginazione e su quell’intuizione che superano lo stadio delle congetture
apparenti. Tuttavia ritornando alla problematica iniziale,se esista effettivamente un
nesso tra il mondo scientifico e quello umanistico,il relatore,polemizzando con il
linguista De Mauro,crede che l’unità di cultura sia solo una velleitaria identità di
cultura,poiché la fisica- a differenza delle discipline umanistiche- vive nel presente
senza considerare il passato e cerca di superare incessantemente le rappresentazioni
110
ingenue. All’interessante argomentazione di Bernardini che ha lasciato intravedere la
sua sfrenata curiosità per la scienza,affermando all’inizio del suo discorso che la ricerca
scientifica non è una spesa ma un investimento,sono seguite numerose
domande,dubbi,perplessità degli alunni del liceo,che hanno soprattutto posto l’accento
sul problema della formalizzazione matematico-fisica. Il dibattito si è aperto con una
domanda relativa alla vita del relatore:
1)Riguardo la scelta che ha fatto ha avuto mai dubbi?
Lo scienziato ha risposto che certamente nessuno può prevedere il futuro ma con il
senno del poi ha effettivamente visto che il “rischio”corso da giovane si è rivelato
fortunatamente proficuo.
Successivamente è intervenuta anche la prof.ssa Fierro con una domanda dettagliata:
2)Dalla lettura di alcuni suoi testi,si evince la necessità di produrre una storia della
fisica, giacchè finora i tentativi in tal senso si sono rivelati discutibili,chi dovrebbe
scrivere dunque una storia della fisica?
All’argomentazione del relatore che ha ripercorso le tappe salienti del progresso
scientifico,è seguita un’interessante discussione in merito al problema della
formalizzazione. Bernardini,affermando che il problema esiste realmente tanto per la
matematica quanto per la fisica,spiegando inoltre che la fisica più della matematica ha
un apparato di notazioni semplice per gli scienziati,ma difficile effettivamente per i
contenuti,ha risposto che il problema non ha purtroppo soluzione.
Infine l’interlocutore ha affrontato il discorso sul nucleare,esprimendo la sua posizione e
riferendo all’uditorio anche un divertente episodio,in cui sottolineava la diffidenza e la
paura della gente nei confronti della costruzione di centrali nucleari. Infatti Bernardini
ha affermato che sarebbe necessario “sfatare” il mito del nucleare = pericolo = morte.
Secondo il suo pensiero il nucleare non è la causa delle numerose malattie mentali di cui
l’Italia soffre. Infatti ha riportato l’esempio di un piccolo paese delle marche:Potenza
Picena,in cui tutti gli abitanti credevano che i malati mentali così tanto numerosi
fossero tali a causa della presenza di un radar di un megawatt. Il professore,convinto
che il caso derivasse da un’altra motivazione,telefonò al sindaco del paese e chiese
informazioni a tal proposito. Il sindaco rispose che Potenza Picena aveva il più grande
ospedale di malati mentali di tutta Italia e che per accedere all’ospedale era necessario
possedere la cittadinanza di Potenza Picena.Era stato così svelato il mistero dell’eccesso
di malati mentali. Con questo breve racconto e con altri esempi concreti Bernardini
soddisfando tutti gli interrogativi ha saputo far sorridere e spesso far divertire i
ragazzi,insegnando anche qualche piccolo “trucco del mestiere”.
Aurora Volpini
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino
Per il ciclo di conferenze relative al tema “Umanesimo e scienza“ dopo aver ospitato i
professori Tullio De Mauro e Carlo Bernardini, il nostro liceo ha accolto il 19-03-09 la
dottoressa Antonella Rampino, attualmente giornalista del quotidiano “La Stampa”, per
parlarci più approfonditamente riguardo il linguaggio giornalistico e il tipo di
comunicazione che svolgono i quotidiani. La dottoressa Rampino ha intervistato
personaggi di importanza internazionale come Yasser Arafat, Tareq Aziz, Federico Fellini
e, donna ricca di interessi, attiva in partecipazioni radiofoniche oltre che giornalistiche
(ha scritto per “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera”), direttrice nel 2001 di una
rivista di politica internazionale, “Aspenia”, è una convinta assertrice del fatto che
l’informazione sia un mezzo di comunicazione fondamentale.
Le riflessioni nella prima parte della conferenza hanno riguardato principalmente l’uso
del linguaggio come strumento nella formazione dell’opinione pubblica, i problemi
metodologici di scelta delle fonti per il linguaggio giornalistico e la risposta ad alcuni
quesiti comuni riguardo il metodo giornalistico, come ad esempio il punto di partenza
nel raccontare un avvenimento di cronaca, o l’affidabilità delle notizie date in un
quotidiano.
Alla luce di queste premesse la dottoressa Rampino è entrata subito nel vivo della
lezione partendo da un punto di fondamentale importanza per il giornalismo, ovvero il
così detto tema del “rigore” nel dare una notizia, quella regola dell’ “account ability”,
intraducibile in italiano, ma che può essere identificata con il dovere da parte del
giornalista di “dare conto” al lettore di ciò che sta dicendo. Proprio per il fatto che il
giornalista si deve attenere a questa regola fondamentale del “dar conto” è più
affidabile la notizia trovata su un quotidiano rispetto ad una notizia appresa attraverso
internet. La dottoressa, infatti, spiega come internet, nell’era dell’information
technology, nonostante la sua enorme importanza e la sua immensa portata mediatica,
che permette a molte più persone di giungere contemporaneamente a conoscenza di un
determinato fatto, sia però più pericoloso a livello di affidabilità. Descrive la rete come
un immenso mare, un flusso indefinito e senza tempo di informazioni, ma pieno di
insidie e, proprio per questo, afferma essere vitale il controllo costante delle fonti da
cui il sito stesso ha ricevuto la notizia in questione.
Al contrario il giornale, non è un flusso informativo, bensì si trova all’interno di esso, è
una parte di esso, e si deve occupare di ricercare il “senso” dell’informazione stessa,
non deve semplicemente fornirla. Un giornale, afferma la dottoressa, “mette in
pubblicazione una giornata della vita del mondo”, scompone i fatti, li analizza, dà
apertamente un’opinione e proprio mediante quest’ultima il lettore è in grado di
formarsene una propria, scontrandosi o approvando ciò che legge. Inteso in tal senso il
giornale può essere considerato come uno strumento di vera e propria consapevolezza e
sapere, ma essendo uno strumento umano bisogna rendersi bene conto dell’uso che se
ne fa. Proseguendo nella definizione della funzione del giornale la dottoressa precisa
che esso decodifica “la realtà, dai piccoli annunci alle grandi notizie”; anche se
ultimamente i quotidiani hanno iniziato a prendere l’abitudine di preferire le così dette
notizie morbide alle “hard news”, cioè le notizie importanti che cambiano il corso della
storia degli eventi, poiché attraverso queste ultime ogni giornale acquista una sua
112
identità, una sua anima, che può essere più o meno nitida, percepibile e che alle volte
un giornale potrebbe voler celare. Ma allora, detto questo, ci si interroga su quale sia il
ruolo del giornalista. Per un tale quesito la Rampino fa riferimento ad una definizione
data da Honorè De Balzac che descrive il giornalista come “pensiero che cammina”, in
quanto questa frase specifica bene l’atto di attraversamento che compie il giornalista
che non analizza sterilmente la realtà, ma lo fa filtrandola attraverso il suo pensiero e
quindi la esprime attraverso il linguaggio che usa. Dunque il linguaggio si fa pensiero e
da qui deriva la sua immensa importanza.
Come esempio dell’uso più o meno forte del linguaggio è stata presa la notizia con cui il
19 Marzo stesso tutti i quotidiani hanno titolato in prima pagina. Confrontando
l’apertura de “Il Corriere della Sera” con quelle de “La Stampa” e “La Repubblica” si
vengono a trovare due titolazioni differenti. Il primo quotidiano scrive così: “AIDS: dure
critiche verso il Papa”, gli altri due invece optano per “AIDS: l’Europa contro il Papa”. Si
può immediatamente notare, sottolinea la dottoressa, come “l’Europa contro il Papa”
sia immensamente più forte e incisivo rispetto a “dure critiche verso il Papa”, ma
continua precisando che in nessuno dei due vi è omissione, è solo il linguaggio che
cambiando fa quasi cambiare il senso che si coglie della notizia. È bene dunque essere
accorti nella lettura delle notizie e confrontarsi con la difficoltà dei linguaggi, ma
diffidare dei linguaggi ostici, poco chiari, in quanto solitamente il bravo giornalista è
colui che riesce a rivolgersi al lettore con chiarezza espositiva anche se il tema trattato
è di difficile argomentazione.
In relazione al linguaggio è anche da sottolineare la coniazione di nuove parole da parte
dei giornali, che, per dare maggiore espressività a determinati eventi, ricorrono a
neologismi che racchiudono in modo ancora più incisivo quello che vogliono esprimere.
Esempi calzanti possono essere le parole come “lottizzazione” (usata per la divisione dei
partiti politici fatta all’interno della Rai), “ribaltone” (inerente ad un improvviso
ribaltamento di governo) e infine “Tangentopoli” (coniata per assonanza alla città di
Walt Disney “Paperopoli” e perciò di maggior immediatezza).
Per concludere questa prima parte della conferenza la dottoressa Rampino ha voluto
precisare solo un ultimo punto, ovvero che, essendo la libera informazione, che forma il
cittadino consapevole, essa ha una funzione democratica; la democrazia, infatti, è
l’insieme dei cittadini consapevoli che danno espressione all’opinione pubblica:
maggiore è la qualità delle istituzioni, e perciò della democrazia di un paese, maggiore
sarà la qualità dell’informazione pubblica stessa.
A questo punto la dottoressa ha lasciato ampio spazio ad un ricco dibattito in cui ha
risposto ad ogni curiosità, provocazione e quant’altro le sia stato richiesto. Molto del
dibattito si è incentrato su quale sia il rapporto che deve intercorrere tra il “potere” e
la stampa e quanto può questo rapporto influenzare la veridicità delle notizie riportate,
se ci sia un limite quindi tra l’ esposizione di un’ opinione e la manipolazione del fatto
stesso. A questo proposito è stato specificato innanzitutto il fatto che l’obiettività non
esiste da parte del giornalista, perché ,anche involontariamente, nel raccontare una
qualsiasi notizia implicitamente si trova ad esprimere un proprio giudizio e perciò, anzi,
bisogna diffidare di chi afferma di essere imparziale. A questo presupposto è stato
aggiunta la considerazione che è molto difficile trovare i cosiddetti “editori puri”,
ovvero imprenditori occupati solo nel campo editoriale ed è perciò altrettanto difficile
che la linea di un giornale sia priva di faziosità. La dottoressa a questo proposito ha
citato il proprietario e direttore del “New York Times” come uno dei pochi “editori
puri”, i quali in Italia sono del tutto assenti. Alla luce di questa considerazione appare
113
chiaro che se l’editore di un giornale è, ad esempio, anche il presidente di
Confindustria, come nel caso del “Sole 24 ore”, giornale economico tra i migliori a
livello europeo, è implicito che generalmente la linea editoriale non andrà contro
l’operato di Confindustria stessa; e questo è solo uno degli esempi citati.
Un altro argomento di grande interesse all’interno del dibattito ha riguardato la sfera
del linguaggio giornalistico e del ruolo giocato da internet nell’informazione. Per quanto
riguarda il linguaggio, l’inglesizzazione sempre più frequente nei quotidiani è stato il
centro della discussione. Se, infatti, da un punto di vista puramente linguistico è sempre
preferibile l’uso dei termini italiani al posto dei corrispettivi inglesi, data anche
l’ampiezza del lessico della nostra lingua, da un punto di vista puramente giornalistico,
di impatto, di espressività, è pur vero che determinati termini inglesi meglio si confanno
all’articolo di un quotidiano. Ed in questo è stato anche importante il ruolo giocato dalla
rete, che ha uniformato il linguaggio a tal punto da far diventare di uso comune, nella
lingua italiana, termini di matrice inglese. E, sempre la rete, con la sua vasta portata,
ha messo a serio rischio la vita del quotidiano, tanto che i risultati di una stima
americana parlano di una scomparsa entro 10 anni dei quotidiani che saranno sostituiti
completamente dalle loro rispettive versioni di internet. Su questo punto la dottoressa si
è detta certa del fatto che un tale avvenimento non potrà accadere, ribadendo il
concetto che solo il quotidiano, la carta stampata crea il cittadino consapevole, il quale
non si accontenta di una semplice news trovata su un sito, che per problemi di spazi
sarebbe ovviamente più sintetica e sbrigativa nell’analisi di ogni avvenimento.
Alla conclusione di questo momento di condivisione di dubbi, curiosità sorte dopo la
prima parte della conferenza, la professoressa Fierro, in seguito ad un lungo applauso di
noi studenti, si è occupata di congedare la dottoressa Rampino che con grande cordialità
ha tenuto un’interessante lezione sulla comunicazione giornalistica.
Laura Arista
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino
Il giorno 19 Marzo il Liceo Classico Orazio ha avuto l’onore di ospitare la dott.ssa
Antonella Rampino, giornalista de “La Stampa”. Il nostro liceo sta affrontando un tema
tanto complesso quanto interessante. Nelle precedenti conferenze il Prof. De Mauro e il
Prof. Bernardini hanno preso in considerazione alcuni aspetti della lingua, nel confronto
tra umanesimo e Scienza. Oggi una giornalista tratta questo tema con riferimento alla
formazione della pubblica opinione. Tutte le mattine la maggior parte di noi va in
edicola e compra il giornale. Dietro a quelle pagine che sanno di nuovo, c’è un lavoro
che molti di noi non possono immaginare. Se cominciamo a sfogliare il giornale,
possiamo leggere gli articoli di cronaca. Ma cos’è la cronaca? La cronaca sicuramente
non è storia ma la storia è l’insieme delle cronache. E il compito del giornale è di
raccontare, come dice Enzensberger l’universo, di dare la realtà al lettore, che con
spirito critico dovrà leggere le notizie e sviluppare una propria opinione. Ma il giornale
parla solo di cronaca? Assolutamente no. Wittgenstein dice che di ciò di cui non si può
parlare si deve tacere, quello che non si può dire va scritto. Infatti, come ci ha spiegato
la Dott.ssa Rampino, il compito del giornalista è di non tacere niente, Honoré de Balzac
afferma che il giornalismo è pensiero che cammina. Il giornalista deve informare e
controllare la veridicità delle fonti. Compito sicuramente importante dato che
l’informazione è un diritto dei cittadini. Basti pensare alla Russia di Putin dove non c’è
libertà di stampa e quindi manca la Democrazia. Ma da chi è formata la democrazia? Dai
cittadini consapevoli, tali sono quelli che leggono il giornale, cosi sostiene la giornalista.
Siamo nell’era dell’information tecnology e informarsi attraverso internet o leggere il
giornale su internet è sempre più di moda. Ma il giornale a differenza di internet mette
in evidenza il senso dell’evento, mette in prima pagina una giornata importante della
vita del mondo.
Quale linguaggio deve usare il giornalista? Benedetto Croce dice che il linguaggio non è
mai veramente complesso se chi scrive ha piena consapevolezza di ciò che scrive.
Esattamente come il professore che per spiegare un argomento a un suo alunno deve
essere chiaro ed incisivo. Ed è proprio per questa chiarezza ed incisività che nel giornale
nascono anche dei neologismi. Basti pensare alla parola “Onda” che oggi sta ad indicare
il movimento studentesco o la parola “Tangentopoli”; ma si potrebbe continuare
all’infinito.
Dopo la relazione molto interessante della giornalista è stato il momento di noi ragazzi,
che, curiosi come al solito, abbiamo iniziato a prendere timidamente il microfono.
Con lo spirito critico e a volte anche polemico che ci contraddistingue abbiamo puntato
subito alla politica. Qual è il rapporto tra la stampa e il potere? Chiede Luca. Non pensa
che la qualità dell’informazione provenga dall’alto? Chiede Giulia. Come i giornali
influenzano l’opinione pubblica? Chiede Sofia. Un altro ragazzo chiede: ” A cosa è
dovuta la disillusione dei giovani nei confronti della politica’?”
La Dott.ssa Rampino ha risposto con piacere e disponibilità a molte delle nostre
domande. Ci ha detto che l’articolo di cronaca non è un articolo di fondo e che
l’obiettività non esiste e non sarà mai possibile non far emergere la propria opinione.
115
La cosa che mi ha veramente colpito è stato il momento in cui Antonella Rampino ha
detto che l’anomalia italiana è inaccettabile. Sicuramente vedere il proprietario del
giornale aiuta a capire varie sfumature. Prendiamo il Sole 24 Ore, è il quotidiano della
Confindustria, potremmo definirlo un quotidiano di “Partito” eppure nella politica
estera è uno dei migliori giornali italiani. In Italia sicuramente manca il giornalismo
popolare (badate bene non sono i rotocalchi che si trovano dal parrucchiere).
La Dott.ssa Rampino ci ha poi detto che la disillusione nei confronti della politica non è
dovuta al linguaggio; nella politica italiana non c’è difficoltà ad esprimere i contenuti, il
problema di fondo è che questi contenuti mancano ai nostri politici. Basti pensare alla
politica di Obama; “yes we can”, questo slogan ha avuto un senso perché in esso si
riconosceva ogni americano consapevole di essere parte di un compito comune. Non
“io", ma “noi” ce la faremo!
È stata una conferenza veramente interessante. La Dott.ssa, con la sua chiarezza e
disponibilità ci ha chiarito le idee su un mondo del quale molti dopo il liceo vogliono
entrare a far parte in modo attivo e ci ha ridato un po’ di quella speranza che manca a
noi giovani al giorno d’oggi.
Valentina Bombardieri
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino
Nell’ambito del progetto culturale del liceo classico Orazio, curato anche quest’anno
dalla professoressa Fierro, si è affrontato il complesso tema del rapporto tra umanesimo
e scienza.
Proprio il titolo “Umanesimo e scienza” è stato il filo conduttore dei quattro incontri che
si sono svolti presso il nostro Istituto. Per la terza conferenza, tenutasi il giorno 19
marzo, il liceo ha avuto l’onore di ospitare una nota giornalista: Antonella Rampino.
Accreditata giornalista, la dottoressa Rampino, inviata del quotidiano“La Stampa”,si è
dedicata spesso a lunghi e impegnativi reportage in tutto il mondo, incontrando
protagonisti della scena internazionale, da Balthus ad Arafat, da Fellini a Tarek Aziz.
Donna di vastissima cultura ha dato il proprio contributo sia nelle nuove espressività
teatrali, sia in radio dove ha condotto alcune trasmissioni.
Nonostante il forte impegno per il suo giornale si è dedicata a scrivere articoli anche per
altre importanti testate giornalistiche.
La relazione della dottoressa Rampino è stata incentrata sull’uso del linguaggio nella
formazione della pubblica opinione. Essendoci precedentemente interrogati sul rigore e
la complessità delle forme linguistiche attraverso le relazioni dei professori De Mauro e
Bernardini, in questa conferenza è stato posto il problema se il linguaggio giornalistico
costituisca uno strumento rigoroso e scientifico oppure no. Si potrebbe affermare però
che l’ oggettività e l’obbiettività, l’interpretazione dei fatti e la selezione dei
documenti non sia propria del giornalista ma dello storico.
Prendendo la parola la dottoressa Rampino ci introduce subito in una delle importanti
questioni riguardanti il giornalismo, quella del rigore. Il rigore, elemento tanto
importante nelle società anglosassoni, è alla base di queste democrazie e viene definito
“account ability”, espressione che, non si riferisce solo a persone che lavorano in un
determinato settore, ma a tutti i cittadini di una comunità di qualunque estrazione
sociale. Il rigore quindi deve anche essere alla base del lavoro del giornalista, il quale
può essere sempre chiamato a rispondere delle informazioni che riporta in un giornale.
La contrapposizione tra l’Umanesimo e la scienza, viene tuttavia mitigata
dall’inesattezza che vi è in entrambe; infatti anche la scienza, che è ritenuta esatta e
rigorosa, è soggetta ai limiti della mente umana. Il linguaggio giornalistico è in ogni caso
molto più vicino all’umanesimo piuttosto che alla scienza.
In relazione alla questione sollevata dalla professoressa Fierro, ossia se il lavoro del
giornalista nello scrivere un articolo coincida con quello dello storico, la dottoressa,
benché riconosca le differenze tra un pezzo di cronaca e uno scritto storiografico,
ritiene che la storia sia composta da un insieme di cronache e fondata
sull’interpretazione della sequenza degli avvenimenti.
Per comprendere la realtà che ci circonda è necessario essere costantemente informati
su ciò che accade, anche utilizzando fonti e interpretazioni differenti. Uno dei più
comuni mezzi di informazione che concorre alla formazione della pubblica opinione è il
giornale. Articoli, foto e piccoli annunci, tradotti in un codice che è il linguaggio,
compongono un giornale e costituiscono un universo compiuto e finito. Ogni singolo
giornale ha una propria identità che si può esprimere in modo più o meno evidente;
117
l’anima di un giornale emerge dalle stesse scelte che si fanno in redazione, nel
selezionare i fatti da riportare, nel decidere quanto spazio dedicare ad un articolo e
anche la scelta del titolo di un articolo rivela profondamente quelle che sono le
ideologie e i principi di un giornale.
Ma nello specifico di cosa parla un giornale? Il giornale riferisce, dopo un’ attenta analisi
e riflessione, gli avvenimenti che influiscono nella quotidianità. Quando però un
giornale, che come si è detto è un universo raccontato, omette un fatto è come se
volesse cancellarlo dalla realtà, e nascondere un avvenimento alla società significar far
finta che non si avvenuto nulla.
“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” è evidente come per Wittgenstein con
questa affermazione non voglia riferirsi all’omertà, ma sottolineare la necessità di zone
d’ombra in ognuno di noi, nel nostro inconscio e nella nostra psiche. Interpretazioni
recenti, tuttavia, intendono questa frase come un riferimento al mondo del giornale
affermando che ciò che non si può dire può essere scritto. Su questo principio si fonda il
lavoro del giornalista, ossia non tacere nulla di ciò che vede, apprende e verifica. Siamo
dunque arrivati a dover definire cosa sia un giornalista: la dottoressa Rampino ci
propone come definizione, quella di Honorè de Balzac, secondo il quale il giornalismo è
pensiero che cammina. Il giornalista dunque attraversa e riflette sulla realtà. Il lavoro
del giornalista è tuttavia un mestiere pericoloso, non solo per gli inviati speciali che
spesso devono lasciare la loro casa per essere testimoni di ciò che accade nel mondo, ma
anche per coloro che devono scrivere nel loro paese. Un giornalista, infatti, descrivendo
la realtà e riportando quelle che sono le proprie idee e i propri pensieri, può essere
anche esposto a pericoli e intimidazioni.
La dottoressa Rampino sottolinea come l’informazione costituisca uno dei diritti
fondamentali del cittadino, che per essere ben informato deve poter avere la possibilità
di leggere pareri diversi e interpretazioni differenti e confrontarsi con essi.
Uno dei mezzi di comunicazione più vasti, e sicuramente uno dei più utilizzati dai
giovani è internet. Internet garantisce un flusso di informazioni continue e sempre
aggiornate, tuttavia è anche bene sapersi guardare da questo flusso di informazioni
senza tempo. Bisogna, infatti, prima di prestar fede ad una notizia controllarne le fonti
e la validità. Questo è uno dei compiti del giornalista che deve controllare le proprie
fonti e cercare di comprendere e collegare gli avvenimenti di una giornata cercando di
tracciarne il senso.
Tutto questo flusso di informazioni passa attraverso il linguaggio. Un linguaggio
particolare, quello del giornale, sta che spesso si ritrova anche ad inventare nuove
parole,e che fa sue espressioni inesistenti nel linguaggio formale. Questo avviene perché
il giornalista ha la necessità di comunicare in poche righe un evento anche molto
complesso, e quindi spesso utilizza parole nuove di immediata comprensione per il
lettore; basti pensare al termine “ribaltone” riferito al cambiamento del governo, o
anche alle “convergenze parallele” di Aldo Moro.
Il giornale quindi è un elemento ineliminabile di una democrazia, non solo perché
incarna il diritto di espressione e di opinione, ma anche perché forma il cittadino
consapevole; ed è proprio l’insieme dei cittadini consapevoli che costituisce uno stato
democratico.
La dottoressa, dopo aver toccato in maniera breve quanto incisiva gli argomenti relativi
all’uso del linguaggio nella formazione della pubblica opinione, decide di lasciare spazio
118
al dibattito in modo tale da permettere sia a noi ragazzi sia ai nostri insegnanti di
intervenire nella conferenza, per approfondire alcune e chiarirne altre.
La professoressa Fierro è la prima a fare una domanda riguardo la creazione di
neologismi all’interno della redazione di un giornale. La professoressa si chiede infatti se
questi termini vengano inventati dai giornalisti, oppure, se sia il giornale stesso che,
utilizzando termini nuovi già in uso nella società, finisca per attribuire a queste nuove
parole un certo statuto linguistico. Il giornale quindi propone nuove parole che entrano a
far parte del nostro vocabolario, ma questo è sempre positivo o si rischia anche di
intaccare la “purezza della lingua italiana”.
La dottoressa Rampino, rispondendo subito alla domanda della professoressa Fierro,
spiega come la nascita di questi nuovi termini possa avvenire in modi diversi. Può
accadere che un giornalista, spinto dalla necessità di tener conto del numero delle
battute, sia portato ad inventare una nuova parola, oppure può anche accadere che il
giornalista riprenda termini già inventati da personaggi importanti del nostro scenario
politico. Basti pensare al termine “tesoretto”, coniato da Padoa-Schioppa. Questa
necessità di sintetizzare un concetto difficile e complesso può sicuramente portare alla
nascita di parole brutte in relazione alla purezza della lingua italiana, ma è un rischio
che il giornalista deve correre necessariamente.
Le prime quattro domande proposte da noi ragazzi concentrano invece l’attenzione sul
rapporto informazione-potere. Tutti e quattro i ragazzi, anche se in maniera diversa,
hanno fatto una critica nei confronti dell’anomala situazione italiana, dove una sola
persona, il nostro presidente del consiglio, controlla gran parte dell’informazione per cui
sembra che anche nella scelta delle notizie da riportare sia sempre presente la pressione
politica. La dottoressa Rampino, risponde che nonostante anche lei ritenga inaccettabile
il controllo eccessivo da parte del presidente del consiglio dell’ informazione, non si può
negare che questa situazione sia stata accettata passivamente dagli italiani, che oramai
la concepiscono come una situazione normale, e come essa sia stata anche
legittimata,in passato, da quella che oggi è l’opposizione.
I giornali, come si è detto prima, seguono una propria linea di pensiero, e quindi quando
si legge un giornale è necessario sapere a chi appartiene per capirne le sfumature e per
capire qual è la legittima rappresentanza di interessi che quel giornale fa. La dottoressa
porta l’esempio del giornale il “Sole 24 Ore”, un giornale forse poco considerato in Italia
ma che in realtà costituisce uno dei più importanti giornali nazionali. È ovvio, afferma la
Rampino, che questo giornale, essendo il giornale di Confindustria, scriverà raramente
articoli in contrasto con la linea di pensiero di questa, ma comunque rimane sempre un
ottimo giornale, sicuramente uno dei migliori in politica estera, in quanto si interessa
sempre attivamente, soprattutto per gli interessi dei vari imprenditori, degli eventi che
riguardano la scena internazionale. Non è sempre vero quindi che un giornale che non
abbia un editore “puro”, ossia che sia diretto da imprenditori che nella vita producono
solo informazione, sia necessariamente peggiore o falsario.
Si pone poi in un secondo giro di domande, una maggiore attenzione al valore proprio
del linguaggio e del giornale in rapporto con la società. Ci si chiede, infatti, come da
una parte abbiano influito il giornale e tutti gli altri mezzi di comunicazione sulla
società in questo periodo di crisi, e perché molti programmi o giornali concentrino la
propria attenzione su fatti,spesso di cronaca nera, ponendo l’accento su fatti della vita
privata che forse non dovrebbero essere né riportati né essere considerati così
importanti dalle persone.
119
Riguardo l’influenza che hanno avuto i giornali sulla società, in particolare in questo
periodo di crisi, la dottoressa Rampino afferma con estrema decisione che lei non crede
che siano i giornali ad influire sull’umore degli italiani, quanto la crisi stessa. In realtà i
giornali non hanno raccontato fino in fondo il punto di rottura nel modello capitalistico e
non l’hanno raccontato sia perché non conosciamo ancora l’entità del crack finanziario,
sia perché questo punto di rottura porterà necessariamente ad un nuovo tipo di modello
economico per ora individuabile.
Per quanto riguarda la seconda questione, la dottoressa riconosce come questo sia un
dei grandi problemi dell’informazione, che forse spesso si concentra sul alcuni
avvenimenti, anche in maniera morbosa, per distogliere l’attenzione dello spettatore o
del lettore da questioni più gravi e importanti, ma come forse questa esagerata
attenzione verso i fatti di cronaca nera sia dovuta anche alla necessità di cogliere il
gusto del pubblico indirizzato, purtroppo, molte volte solo verso questi aspetti della vita
di una società.
Sempre in relazione all’uso del linguaggio viene sollevata la questione se il linguaggio
abbia avuto un ruolo nel generare la disillusione nei confronti della politica italiana. La
dottoressa Rampino risponde che forse la disillusione degli italiani verso la politica non è
dovuta ad un problema di linguaggio, ma forse dall’assenza di contenuti. Il linguaggio in
politica è fondamentale per trasmettere le proprie idee, basti pensare al ruolo che ha
avuto lo slogan di Obama “We can” nella corsa alla Casa Bianca, ma la dottoressa
ricorda come il linguaggio, da solo, non è sufficiente, esso deve esprimere validi
contenuti. Con queste parole si conclude il lungo dibattito dedicato al linguaggio
giornalistico e alla funzione di questo nella formazione del cittadino consapevole.
Riteniamo che questa conferenza abbia dato a ciascuno di noi lo spunto necessario per
riflettere sul valore dell’informazione nella nostra società, affinché sia possibile
salvaguardare la nostra libertà e i nostri diritti. Infatti solamente il lettore che possiede
una solida base culturale, arricchita da una costante lettura dei giornali e delle opere
letterarie, avrà i mezzi necessari al confronto e al rafforzamento delle proprie idee.
Giulia Giannini e Francesca Vernile
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott.ssa Antonella Rampino
Il giorno 19 marzo 2009 l’inviata e giornalista de “La stampa” Antonella Rampino ha
preso parte nel nostro Liceo ad una conferenza circa il ruolo dell’informazione nella
formazione della pubblica opinione, facente parte di un ciclo di incontri dedicati al
rapporto tra Umanesimo e Scienza.
La conferenza è partita da una domanda estremamente semplice, ma che ha subito colto
il punto del dibattito occorso: tra il fatto accaduto, il dato oggettivo, e l’interpretazione
data di esso da parte del giornalista, comunque soggettiva, sussiste una distanza.
Come si può giudicare se le informazioni ci vengono trasmesse in modo corretto e che
non vengano invece manipolate, modificate, e magari anche strumentalizzate?
In primo luogo la dottoressa ha sottolineato l’umanità del mestiere del giornalista: il
giornalista è un uomo come altri, e come tale è fallibile, può sbagliare. Al giornalista
non si può richiedere l’infallibilità; bisogna però pretendere da lui, come da qualunque
altro lavoratore serio, un certo rigore, e quella che nei Paesi Anglosassoni viene definita
l’ “Account Ability”, il dover rendere conto del proprio operato agli altri.
Il giornalismo, in particolare, è un mestiere che costringe ad un continuo confronto con
l’altro, con il fruitore; è un mestiere che non può e non deve essere autoreferenziale,
perché trova nella comunicazione il suo punto nevralgico, il suo nodo focale. Questa
comunicazione deve essere diretta, immediata, e quanto più chiara possibile: citando
Benedetto Croce, “un linguaggio non è mai difficile se chi scrive ha compreso
veramente”. Di qui l’invito della dottoressa a diffidare di linguaggi eccessivamente
arzigogolati, che denotano scarsa comprensione dell’argomento trattato.
Ritornando al discorso iniziale, oggettività del dato-soggettività dell’interpretazione, è
stata calzante in questo senso la definizione che la Rampino ha dato circa il ruolo del
giornalista: citando Honorè de Balzac, e il suo giornalismo come “pensiero che
cammina”, ha detto che il giornalista è colui che in primo luogo riflette sulla realtà, e
che poi la trasmette attraverso un filtro soggettivo.
La notizia viene poi ulteriormente filtrata, al di là delle istanze del singolo, anche dalla
linea del giornale. A questo proposito la dottoressa ha portato giornali differenti, per
farci notare, nell’ambito della divulgazione della medesima notizia, la differenza
sostanziale a livello comunicativo.
Il giornale riporta una giornata di vita del mondo, uno spaccato di quello che ci succede
attorno; non si limita a divulgare, ma riflette, smonta il fatto, cerca il senso. Bisogna
imparare ad accostarsi alle notizie in maniera critica, magari leggendo più giornali
diversi, per formarsi un proprio pensiero e una propria opinione, senza mai prendere
nulla per vero in maniera acritica, ricordandoci, come ci insegna Nietzsche, che non
esistono fatti, ma solo interpretazioni di essi.
Se non siamo d’accordo con l’interpretazione che un giornalista dà di un evento,
possiamo non leggerlo, non comprare più quel dato giornale; ricordandoci sempre però
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che la libertà di stampa è un grande indicatore di democrazia, e così il pluralismo
dell’informazione.
E’ il giornale scritto, letto, analizzato e interpretato, che fonda il cittadino consapevole
di sé e della società circostante. L’insieme dei cittadini consapevoli rappresenta la
democrazia, che altrimenti sarebbe un concetto vuoto e astratto. Anche il giornale
senza la società circostante sarebbe carta straccia: esso è indissolubilmente legato alla
società e ad essa si deve rivolgere.
La conferenza come vera e propria lectio è durata mezzora; la dottoressa ha preferito
lasciare uno spazio maggiore al dibattito e alle nostre domande e curiosità, che si sono
fatte apprezzare per numero e partecipazione come poche altre volte prima.
Il dibattito è stato vasto e ha toccato tanti argomenti, la maggior parte dei quali di
attualità.
La Rampino ha ribadito l’impossibilità quasi ontologica, per il giornalista, di essere
realmente obiettivo. Non esiste l’obiettività; piuttosto l’equanimità. Il grado di
influenza dell’informazione sulla formazione del pensiero viene determinato dalla
criticità del lettore.
Una domanda ha toccato il concetto del giornalismo come cassa di amplificazione delle
notizie. Può il giornalismo gonfiare delle notizie ad hoc e alimentare dunque una sorta di
isteria collettiva, come è avvenuto nel caso dell’ultima grande crisi finanziaria ed
economica di cui siamo tutti testimoni?
Può essere stata la sopracitata crisi gonfiata dai giornali?
La dottoressa ha espresso a tale riguardo parere negativo; la risonanza mediatica in
questo caso è stata causata dalla rilevanza abnorme dell’evento occorso, un vero crack
del modello capitalistico, anche per portare i lettori a riflettere circa la necessità di una
regolamentazione nuova che ponga limiti più saldi alla più assoluta libertà di azione
individuale.
In questo, come in altre occasioni, la Rampino ha notato una mancanza di coesione a
livello europeo.
Un altro ragazzo ha domandato se esista o meno un rapporto tra il linguaggio adoperato
dai giornali e la disillusione politica che si respira nel nostro Paese. La Rampino ha
risposto rammaricata che il problema non è il linguaggio, ma la politica e il suo
messaggio. Obama, con il semplice “Yes, we can”, è riuscito a conquistare il mondo
sottolineando in tre parole due elementi fondamentali: la portata innovatrice del suo
disegno politico e la dimensione corale dello stesso. Non è stato un semplice slogan,
quanto una dichiarazione di politica e un appello al popolo americano, che è stato
coinvolto in un progetto di cui si sente protagonista. Quel “noi” esprime l’aggregazione,
la possibilità di conseguire un obiettivo comune.
Come direbbero i latini, res, non verba: sono i fatti a contare, non le parole.
Silvia Staffa
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Dopo gli importanti interventi del linguista Prof. De Mauro, del fisico Prof. Bernardini, e
della giornalista Rampino, il ciclo di conferenze sul tema di approfondimento culturale
di quest’anno, dal titolo “Umanesimo e Scienza”, si è concluso con una dissertazione,
seguita da dibattito, tenuta da Corrado Augias su “Il linguaggio della scienza e quello
della poesia”.
In molte occasioni, in passato, scienza e poesia si sono incontrate, in un connubio che ha
partorito opere di fondamentale importanza nella storia della letteratura e della
filosofia. E’ difficile, in questi casi, distinguere il poeta dallo scienziato, perché è
proprio attraverso il rigore del linguaggio scientifico che la poesia prende forma,
evocando suoni ed immagini che perdono del tutto la loro fredda logicità ed acquistano
la delicatezza e l’eleganza proprie del linguaggio metaforico.
Un testo scientifico può dunque suscitare emozioni, così come fa una poesia?
Il poema filosofico-scientifico di Lucrezio lo ha fatto. Ha analizzato matematicamente la
struttura dell’universo, ma allo stesso tempo ha esplorato gli angoli più remoti
dell’anima umana, con il rigore della scienza e la sensibilità della poesia. E così come il
“De Rerum Natura”, la “Divina Commedia” dantesca ha affascinato per secoli e secoli
studiosi di tutte le discipline, per la sua sapiente commistione di poesia, scienza e
teologia. Per non parlare poi di Leonardo, che ha riassunto in sé i caratteri dell’umanista
e dello scienziato, o di Goethe, autore della “Teoria dei Colori”, saggio sullo spettro
ottico, e contemporaneamente del “Faust”, opera teatrale, e per finire del nostro stesso
Leopardi, che oltre ad essere stato uno dei più grandi poeti della letteratura romantica
italiana ed europea, ha anche affrontato, in gioventù, problemi di astronomia, di
idrodinamica, di fisica teorica e sperimentale nelle sue “Dissertazioni filosofiche”.
Non è dunque impossibile incontrare figure di poeti-scienziati. Eppure nel corso della
storia si è andata definendo quella frattura, tra scienze naturali e scienze umane, che
spinge noi, oggi, ad affrontare un’indagine che possa portarci a capire che cosa ci sia di
irrimediabilmente lontano tra il linguaggio poetico e quello scientifico.
Gian Battista Vico, a proposto della poesia, disse che la sensazione e l’emozione estetica
che si prova di fronte ad un’opera d’arte si può esprimere solo attraverso la metafora: il
messaggio poetico, quella vibrazione nell’anima che avvertiamo, non è restituibile con il
linguaggio della logica, ma solo con quello figurato. Dalle semplici parole di un verso alla
sua piena comprensione, si apre un abisso che solo noi lettori possiamo colmare, con un
qualcosa si sconosciuto e misterioso che proviene dalla nostra anima. Poeta è chi scrive,
dunque, ma anche chi legge, perché un testo poetico richiede un intervento emotivo che
rende ciascuno di noi interprete singolo e diverso da tutti gli altri interpreti. Questo
spiega il motivo per cui non sempre si rivela necessario l’aiuto di un testo critico per la
comprensione di una poesia. Da studenti, siamo portati a credere che sia impensabile
avvicinarci ad una lirica qualsiasi senza un’interpretazione alla mano, eppure la risposta
di Augias è stata semplice e diretta: ciò che ha provato quel critico nel leggere quella
poesia non può adattarsi al nostro modo di sentire e vedere. Certamente, un aiuto di tal
genere ci può servire nel momento in cui ci accostiamo alla lettura dei testi antichi, per
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gli innumerevoli riferimenti che esso potrebbe riportare, e che noi potremmo non
conoscere; ma siamo perfettamente in grado di avvertire il messaggio di un poeta nostro
contemporaneo, perché condivide le inquietudini, i drammi, le malattie del nostro
tempo, quello che egli scrive, farà suonare corde segrete completamente diverse da
persona a persona, e anche se non saremo in grado di esprimere logicamente ciò che
abbiamo sentito, potremo dire di aver sentito.
Non c’è dunque da meravigliarsi, se il linguaggio poetico confini con il linguaggio dei
mistici: l’immaginazione è strumento indispensabile per la lettura dei testi poetici come
per la comunicazione con Dio. E’ la difficoltà di comprendere, di esprimere, di definire
in maniera chiara e distinta ciò che per un attimo, un istante infinito, ha turbato la
nostra anima.
Ed è proprio in quell’attimo, in quell’istante, che poesia e misticismo incontrano la
scienza.
Sì, perché la scintilla del poeta e l’intuizione immediata e (perché no) fortunata del
matematico, sono davvero molto simili: nessun matematico saprà mai spiegarsi da dove
sia venuta effettivamente l’idea che ha magicamente risolto quel problema che proprio
non riusciva a capire.
Scienza e poesia non sono, e non saranno mai, così vicine come lo sono nel momento
dell’intuizione.
Non appena infatti sarà compreso il come applicare quel dato mancante, l’intuizione del
matematico sarà esplicata in formule, e perderà la sua magia. Ecco quindi che,
abbandonato tutto quel che di poetico si può trovare nel linguaggio scientifico, esso si
presenterà con i caratteri della verificabilità, falsificabilità e ripetibilità: come dice
Popper, né la psicoanalisi, né la religione, possono essere scientifiche, perché cambiano
al mutare delle condizioni originarie; la scienza ha un linguaggio più rigido, e più
rischioso, e i principi scientifici devono essere così precisi da poter essere dimostrati
falsi, poiché se in un teorema c’è un errore, la sua precisione permetterà di
individuarlo.
La complessità delle formule scientifiche di oggi toglie alla poesia scientifica qualsiasi
speranza di rifiorire. Quando ancora l’indagine sulla natura si limitava ad una
spiegazione fantastica, spesso mitica, dei fenomeni, era facile sconfinare nel linguaggio
poetico: come non inserire l’immagine dei cavalli scalcianti del carro di Zeus, se l’ira
divina era l’unica forma di interpretazione plausibile di fronte al fragore di un fulmine?
D’altra parte, è proprio attraverso la poesia che si sono espressi i più antichi tentativi di
spiegazione della realtà, e non a caso i primi filosofi si servirono del linguaggio poetico:
abbondano nell’antichità greca i “Περί Φύσεως”, poemi filosofici tra i quali senza
dubbio i più importanti sono quello di Parmenide e di Empedocle. C’è infatti un po’ del
poeta anche nel filosofo: il filosofo legge il mondo filtrandolo attraverso la sua testa, e
nelle sue speculazioni metafisiche spesso si avvicina a quel grado di elevazione che non
è molto diverso dall’intuizione matematica o dall’ispirazione poetica. D’altra parte, non
fu proprio un filosofo, Spinoza, a ritenere che la trattazione poetica potesse esprimersi
attraverso la verificabilità e la chiarezza del linguaggio geometrico? Tuttavia, Spinoza è,
rispetto agli altri, una figura straordinaria. Gli fu possibile trovare compatibilità tra i
due linguaggi, perché egli stesso era, a tutti gli effetti, un tecnico, un occhialaio, e allo
stesso tempo un filosofo, in grado di guardare alla Natura da una prospettiva scientifica
e poetica insieme, e di individuare in Dio l’ordine razionale necessario che è in tutte le
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cose e che le comprende tutte, ma, contemporaneamente, quell’entità inconoscibile e
immisurabile al cospetto della quale ciascuno di noi non può che provare smarrimento e
tremore. E’ vero che Spinoza, come ha potuto notare una ragazza durante il dibattito,
nel suo intendere l’ordine dell’universo nei termini di necessità, potrebbe non essere
considerato filosofo “poetico”: l’infinità dei modelli interpretativi di un testo poetico,
così come della realtà circostante, si accorderebbe in questo senso più con una filosofia
come quella di Leibniz, il quale, contemplando per l’universo un ordine contingente, ha
lasciato lo spazio alla libertà umana e alla sua volubilità; nel salto dalla parola al suo
significato metaforico, infinite sono le possibilità di comprensione, e in questo consiste,
come già detto, la libertà di chi legge e l’irrimediabile lontananza di una poesia
dall’univocità di un testo scientifico. Tuttavia Augias ci ha portati a considerare che pur
nell’esclusione, da parte di Spinoza, di altre forme di interpretazione della realtà, e
quindi nel suo rigoroso determinismo, pochi sono stati i filosofi che sono riusciti ad
esprimere la gioia di un rapporto maturo con la divinità, e la beatitudine dell’unione di
mente e natura, con un linguaggio più poetico, e più ispirato di quello spinoziano.
Filosofia e poesia quindi possono essere, e spesso lo sono state, vicine l’una all’altra. La
difficoltà, oggi, come nel passato, non è di individuare un legame tra queste due
discipline, che rientrano nell’ambito di quanto è definito “Umanesimo”, ma di
rintracciare, se esiste, il collegamento con quel mondo che chiamiamo “Scienza”.
Abbiamo visto che questo collegamento c’è, dal momento che all’origine di ogni trovata
dell’intelletto umano, che sia di tipo poetico, filosofico, o matematico, si trova
un’ispirazione. Inoltre, molti sono gli scienziati, tra cui il Prof. Bernardini che abbiamo
avuto occasione di ascoltare, che insistono sul carattere evocativo di una formula
matematica, che la rende certamente accostabile ad un verso poetico. Dunque,
nonostante la resistenza di alcuni rappresentanti dell’una e dell’altra parte, un ponte
tra questi due mondi, universalmente considerati agli antipodi, è possibile, perché, per
quanto diversi, i linguaggi di cui si servono non sono poi così incompatibili. Ripresi,
interrogati, e certamente provocati, siamo stati guidati da Augias attraverso riflessioni
che vanno al di là del semplice studio manualistico, eppure così importanti, per
comprendere a fondo lo spirito dei filosofi, e per affrontare questioni che ancora oggi si
rivelano irrisolte.
Marina Amadori
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Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Il giorno 21 aprile nel liceo classico Orazio si è concluso il ciclo di conferenze sul tema di
approfondimento culturale "Umanesimo e scienza" con l'intervento di Corrado Augias,
noto giornalista,scrittore e conduttore televisivo.Augias in questa conferenza dal titolo
"il linguaggio della scienza e quello della poesia",ha espresso la complessità del rapporto
che sussiste tra linguaggio poetico e scientifico cercando di inserire l'uditorio in quella
prospettiva in cui,come afferma Benedetto Croce,"il linguaggio in quanto espressione
diventa creazione e tecnica,nella sua forma compiuta poesia".Questo argomento
,oggetto ancora oggi di diffuse discussioni, riguarda un tema già tarttato nell'antichità
,a partire dal "De rerum natura" in cui Lucrezio ha espresso in un linguaggio
squisitamente poetico il frutto delle sue ricerche sulla natura,rendendo addirittura
difficile catalogare la sua opera tra gli scrittti di fisica o poesia. Dante,ugualmente,è'
allo stesso tempo, poeta ,scienziato e teologo ,proprio come Goethe, il quale "analizza
lo spettro,analizza le rifrazioni dei colori e scrive il Faust".Leopardi stesso "uno dei
nostri poeti sommi dell'Ottocento"scrive una storia dell'astronomia.A questo punto Augias
entrando nel vivo della questione, fa riferimento al filosofo Giovan Battista Vico.Egli ha
avuto,infatti, un ruolo particolarmente importante nell'ambito degli studi sulla funzione
della lingua.Infatti,afferma Augias,guardando un quadro o ascoltando un'opera
musicale,l'unica maniera possibile per rendere le sensazioni ,le emozioni provate è
ricorrere all'uso di metafore.La difficoltà di restituire altrimenti ciò che un'opera d'arte
suscita è data dal semplice fatto che"le emozioni estetiche sono difficilmente restituibili
con il linguaggio proprio della logica".Questa è la motivazione per cui così noiose e
complicate,a volte anche devianti sono le argomentazioni di carattere tecnico messe in
pratica dai critici d'arte i quali,dovendo scendere nei particolari e analizzare
scientificamente l'opera non lasciano spazio all'impulso delle emozioni e della fantasia
che quella stessa opera si propone di suscitare.Attingendo sempre all'analisi di
Vico,Augias individua essenzialmente due tipi di metafora.Il primo tipo di metafora è
quella più semplice e nota,quello i cui termini propri e traslati sono immediatamente
comprensibili.Ne sono un esempio l'espressione "bianco come la neve "o "pesante come
un macigno".Il secondo tipo di metafora si identifica con il verso di un poeta e richiede
per capirne il senso,uno sforzo maggiore in quanto non esiste nessuna chiara relazione
tra i termini propri e quelli traslati.Un esempio : "le ali del mattino".Non c'è alcun nesso
tra le ali e il mattino.Siamo noi che dobbiamo unire i due termini attrarverso un terzo
elemento che spetta a noi di recuperare attraverso un "intervento emotivo ,prelogico
inesprimibile".E' interessante,notare a questo punto,quanto in realtà il linguaggio
poetico confini con quello della mistica , rileva Augias,citando come esempio alcuni
versi di William Blake.L'esperienza mistica nasce,proprio come quella poetica,da una
ricerca dell'inafferrabile che solo l'immaginazione può cogliere.George Bernard Shaw in
"Santa Giovanna"mette in luce proprio, in un dialogo tra la protagonista e
l'Inquisitore,quanto l'immaginazione sia lo strumento privilegiato con cui Dio si manifesta
nella mente dell'uomo.Giovanna afferma che le voci che sente nella sua anima sono
si,come dice l'Inquisitore, frutto della sua immaginazione,ma Dio è,Colui che le
ispira.Così il linguaggio della poesia e quello della mistica sono accumunati da questa
tensione
verso
l'irrazionale"che
sfugge
ad
una
piena
comprensione
logica".D'altronde,precisa Augias,anche il linguaggio scientifico ha palesi affinità con
126
quello poetico.I grandi matematici,come i grandi poeti,traggono spunto per le loro
riflessioni da una intuizione,da quell'impulso irrazionale dell'anima che non appariene
all'ambito della scienza ma a quello dell'immaginazione.Quell'intuizione non è in alcun
modo frutto,dunque,di un ragionamento logico,ma della capacità creativa della
mente.La fase che segue l'impulso emotivo,definisce la separazione tra l' attività del
poeta e dello scienziato.Mentre il poeta si serve della poesia nell'intento di esternare le
emozioni vissute cercando di resituirle al lettore attraverso l'uso di un liguaggio
nobiltante e altamente ricercato,lo scienziato formalizza quell'intuizione e la rende
oggetto di verifica e controllo da parte della mente attraverso un'attenta analisi
rigorosamente logica e scientifica.La razionalizzazione dell'intuizione fa sì che della fase
intuitiva non resti traccia,ma rimanga solamente la rigorosa argomentazione scientifica
che ha portato a determinate conclusioni.Mosso dalle domande degli studenti che hanno
preso vivamente parte al dibattito, Augias ha spiegato che il linguaggio scientifico,per
essere tale,deve innanzitutto essere "verificabile",cioè deve essere espresso in maniera
così rigorosa che chiunque deve poter intendere la validità di una tesi.In secondo luogo
la chiarezza del linguaggio scientifico deve permettere eventualmente di negarne la
veridicità ,deve essere, cioè,falsificabie.Per finire, un'argomentazione scientifica deve
essere ripetibile,cioè valida in qualsiasi luogo e circostanza.Si comprende così quanto sia
differente questo tipo di processo dalle modalità di espressione della poesia
,"misteriosamente evocativa" la cui unica clausola è quella di riuscire a "far vibrare le
corde
segrete
dell'anima".Mentre
il
linguaggio
della
logica
è
comunicativo,informativo,quello della poesia è assolutamente evocativo proprio in
quanto,come è espresso dagli artisti romantici, esso deve suscitare i moti dell'animo..
Così,con la brillantezza che ha caratterizzato fin da subito la conferenza ,Corrado
Augias ha concluso il suo discorso con un ultimo riferimento a Leibniz individuando nella
sua concezione libera ,laica e progressista della società un modello da seguire per le
generazioni future;così tra i ringraziamenti e gli appausi di tutti i presenti è terminata
l'ultima conferenza del tema di approfondimento culturale dell'anno 2008-12009 del
liceo.
Rosa Calabrese
127
Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Il 21 aprile Corrado Augias ha tenuto l’ultima conferenza sul tema di approfondimento
culturale di quest’anno dal titolo: “Il linguaggio della scienza e il linguaggio della
poesia”. Il Preside del nostro Liceo e l’insegnate di storia e filosofia, la professoressa
Fierro, hanno introdotto la conferenza elogiando le qualità di Augias e ritraendolo come
un uomo polivalente con molteplici interessi: la letteratura, la stesura di testi teatrali, il
giornalismo ed anche il ruolo di inviato speciale de “La Repubblica”, “L’Espresso” e
“Panorama”. Corrado Augias ha iniziato con l’enumerare casi in cui i due tipi di
linguaggio, scientifico e poetico, coesistono senza problemi; ciò avviene ad esempio nel
“De rerum natura” in cui Lucrezio ci offre una visione completa del mondo; anche Dante
fa nello stesso tempo poesia, scienza e teologia. Lo stesso si può dire di Leonardo e di
Leopardi che è un poeta e un filosofo di livello mondiale. Augias prosegue il suo discorso
coinvolgendo anche noi ragazzi:” voi state guardando un quadro e io vi chiedo che
impressione vi ha suscitato;voi cercate di rendermi ciò che avete provato con delle
metafore quali ad esempio:”ci ricorda un tramonto!”. Questo accade perché non si può
rendere ciò che vediamo con un linguaggio diretto. Le emozione estetiche, infatti, sono
difficilmente restituibili con il linguaggio della logica. Augias inoltre ha spiegato due
diversi tipi di metafora:
-il primo nel quale tutti i termini, sia propri che traslati, sono immediatamente
comprensibili:”Luca ha volato con la sua Ferrari”, in questo io trasferisco l’idea della
velocità dal concetto di macchina a quello di aereo
-il secondo tipo è quello poetico nel quale lo iato tra una parola e l’altra deve essere
riempito con qualcosa di sconosciuto, con un intervento poetico:” Se prendo le ali del
mattino e dimoro nelle zone piu’ estreme del mare”; in questo verso non c’è relazione
tra le ali e il mattino,bisogna metterci qualcosa di nostro!
Il primo tipo di metafora è associabile ad un’esperienza quotidiana; il secondo richiede
invece un impegno maggiore.
Augias prosegue sottolineando il fatto che il linguaggio della poesia confina con quello
della mistica; il mistico è colui che sa veramente di vedere e di udire ciò che si vede o
che si ode. Tale collegamento tra poesia e mistica è testimoniato da vari esempi, come
quello di Giovanna d’Arco la quale dice all’Inquisitore che le parole con cui si difende se
le è inventate lei; ma chi gliele ha messe in testa?
A questo punto Corrado Augias decide di terminare la conferenza per lasciare spazio alle
domande di noi alunni, affermando che il linguaggio della scienza deve essere:
-verificabile, cioè espresso in termini precisi perché chiunque deve poter constatare se
sia corretto;
-falsificabile, cioè espresso in termini precisi perché chiunque deve potere affermare se
sia falso;
-ripetibile, cioè espresso in termini tali da poter essere ripetuti nelle condizioni date.
128
Al contrario il linguaggio poetico appartiene alle intuizioni e alle emozioni interne;la
poesia deve far richiamare alla mente delle corde segrete.
Concluso il suo discorso è iniziata la seconda parte della conferenza, quella dedicata alle
domande:
la prima attiene al perché il linguaggio della scienza debba essere falsificabile anche se
è già verificabile.
Augias ha risposto citando Popper. Secondo Popper sia la psicoanalisi, sia la religione, sia
le dottrine politiche al mutare delle condizioni politiche e sociali dalle quali sono nate,
mutano anche esse perché sono espresse in un linguaggio che si presta a questo tipo di
cambiamento. Quindi i termini devono essere tali da poter essere smentiti.
Così l’alunno ha replicato: una volta che è stato dimostrato il contrario come può essere
ripetibile?
Il giornalista ha risposto che sarà ripetibile il contrario, ripetendo la formule ogni volta.
Il dibattito si è poi spostato e l’attenzione si è rivolta a come si possano comprendere le
metafore di tipo poetico.
Nel rispondere Augias ha affermato che c’è bisogno di uno storico, di un critico per
l’interpretazione.
Proseguendo sullo stesso argomento è stato chiesto se la trattazione poetica possa
essere assimilabile a quella scientifica.
Per la risposta è stato citato Spinoza; infatti la sua visione della natura è fortemente
scientifica e poetica, c’è una compatibilità tra i due linguaggi;
L’argomento è stato chiuso domandando se ci sia ancora usanza di riportare il linguaggio
scientifico in quello poetico.
La risposta è stata negativa perchè il linguaggio scientifico è diventato troppo
complicato per far sconfinare il linguaggio della scienza in quello poetico.
In conclusione del dibattito si è posto il quesito su quale delle soluzioni sia più adeguata
al “riempimento” dei vuoti del secondo tipo di metafora tra quella prospettata da
Leibniz e quella di Spinoza.
Nel 1754 a Lisbona ci fu un grande terremoto e di conseguenza un maremoto, così tutti i
cittadini si rifugiarono in una Cattedrale; ci fu una nuova scossa e il Crocifisso si staccò
dal muro e morirono alcuni bambini. In seguito a questa tragedia scaturì una discussione
filosofica e Leibniz elaborò la dottrina teodicea (da teòs = Dio e dìke = giustizia).
Spinoza ci dà una visione completa del mondo e del nostro rapporto con la divinità.
Alla fine abbiamo ringraziato Augias per la sua disponibilità nel parlarci di un argomento
molto affascinante ed interessante.
Alessia Coletta
129
Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Il tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2008/09 è “Umanesimo e scienza”. Esso
è affrontato nella chiave di lettura del “linguaggio” attraverso quattro conferenzedibattito l’ultima delle quali è stata tenuta il 21 aprile 2009 dal dottor Corrado Augias,
giornalista, scrittore, conduttore televisivo, con il titolo “Il linguaggio della scienza e
quello della poesia”.Augias per introdurre il tema centrale della propria relazione
prende in considerazione illustri letterati ,che possono essere considerati sia poeti che
scienziati come Lucrezio che,nel De Rerum Natura, utilizza il linguaggio poetico per
affrontare tematiche scientifiche e filosofiche o come Dante e Leopardi che possono
essere ritenuti poeti,scienziati e teologi. Tutti uomini che incarnano l’ HUMANITAS con
la quale s’intende,fin da Terenzio, una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità
positiva, fiduciosa nelle proprie capacità,sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai
sentimenti. Terenzio sostiene appunto-Homo sum: humani nihil a me alienum puto;
ovvero : sono un uomo e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.Augias poi, ha
soffermato la sua attenzione sul concetto di metafora, citando Giovan Battista Vico il
quale ritiene che non si possa esprimere con il linguaggio diretto e logico l’intuizione
estetica
Le metafore si possono classificare in due gruppi: per le metafore di primo tipo si usano
termini propri e traslati che sono immediatamente comprensibili come ad esempio la
metafora “bianco come la neve”. Le metafore di secondo tipo invece non possono essere
interpretate immediatamente dal momento che tra i termini non c’è una relazione
reale, dunque, è necessario il nostro intervento come ad esempio nella metafora ” se
prendo le ali del mattino e dimoro nelle zone più estreme del mare” in cui bisogna
inserire qualcosa di sconosciuto che va al di là dell’esperienza. Ma allora che cosa
distingue queste due classi?
La prima comprende metafore associate all’esperienza, la seconda implica un intervento
emotivo, prelogico ed inesprimibile a tal punto da giungere ad una identificazione del
linguaggio della poesia addirittura con quello della mistica.
I grandi matematici,che potrebbero sembrare i possessori del linguaggio razionale
partono da una intuizione che non saprebbero spiegare in termini scientifici ed è proprio
in questa scintilla intuitiva che poesia e scienza coincidono dal momento che anche i
poeti partono da una intuizione di base arazionale.
A questo punto Augias vuole evidenziare quelle che sono le caratteristiche proprie di
questo linguaggio scientifico: esso è verificabile in quanto si serve di termini precisi che
ne fanno comprendere la correttezza, falsificabile perché espresso in modo così chiaro
che non si ammettono ambiguità ,tale che può essere dichiarato falso,inoltre,deve
risultare ripetibile perché i suoi principi possono essere ripetuti in ogni condizione senza
essere smentiti. Finito il suo intervento, il dottor Augias ha lasciato spazio al dibattito
con i ragazzi permettendoci di fare domande . I primi dubbi emersi riguardano il
concetto di falsificabilità del linguaggio scientifico che Augias si è proposto di chiarire
meglio .Successivamente ha preso in considerazione il carattere fortemente evocativo
della poesia in grado di far vibrare nel lettore le corde segrete e assolutamente
soggettive ed è così che si spiega il ruolo del lettore di coautore del testo . Un altro
130
esempio di intellettuale che ha unito filosofia e scienza è Spinoza, il quale si è servito di
un metodo geometrico per sviluppare la sua metafisica. La domanda più interessante
concerne le motivazioni per le quali al giorno d’oggi non si può parlare di una vera e
propria relazione tra poesia e scienza e il dottor Augias ha spiegato che il linguaggio
scientifico non può essere più legato a quello poetico dal momento che è divenuto
eccessivamente complicato ,quindi, l’unica coincidenza tra i due si verifica nel momento
iniziale e in quello culminante, quando la filosofia sconfina nella scienza e la scienza
nella filosofia .
A nostro parere la relazione è stata interessante e chiara . Sono stati ben sviluppati i
punti fondamentali e sono stati affrontati temi complessi in maniera facilmente
comprensibile .
Le metafore e il concetto di intuizione poetica e scientifica sono stati i nuclei principali
della relazione con la quale Augias si è impegnato a dimostrare come scienza e poesia
siano indispensabili l’una all’altra pur nella differenza del taglio linguistico. Per quanto
concerne la nostra opinione, anche noi riteniamo che, sebbene scienza e filosofia
abbiano un linguaggio diverso, la sostanza del ricercare è la stessa. Infatti anche la
ricerca scientifica, come la poesia, è una forma di creatività che si esprime con un
proprio linguaggio. La scienza fornisce sicuramente delle rappresentazioni che
soddisfano il nostro innato bisogno di ordine, il bisogno di vedere il mondo inquadrato di
leggi coerenti di causa ed effetto, che poi queste leggi siano reali o meno non è
rilevante dal momento che il vero esiste unicamente nella nostra mente. Ma anche il
linguaggio della poesia, seppure fornisce delle immagini del mondo più soddisfacenti dal
lato emotivo, non afferma di certo verità assolute. Il poeta, come lo scienziato, come
può anche essere un qualsiasi artigiano, rappresenta dei fatti della vita o del mondo
come li vede, come li teme, come spera che siano, come dunque sono presenti nella sua
mente. E inoltre siamo anche convinte che la scienza e la poesia, lungi dall'escludersi a
vicenda, si compiono e si armonizzano in una grande unità: la poesia diventa scientifica
quando s'ispira alle scoperte ed alle verità della scienza; la scienza nonostante la rigidità
del suo metodo è in se stessa altamente poetica, quando dischiude al sentimento ed alla
fantasia gli abissi infiniti dell'essere.
Giulia Cossu e Ilaria Ferrara
131
Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Il 21 aprile nell’Aula magna del nostro liceo classico, si è svolta l’ultima conferenza sul
tema culturale dell’anno 2008/2009: “Umanesimo e Scienza”. Come sempre, infatti, la
professoressa Fierro ci ha presentato il relatore, Corrado Augias, giornalista de “La
Repubblica”, scrittore di romanzi e opere teatrali, giallista e conduttore di alcuni
programmi culturali.
Prima dell’inizio della conferenza, Augias ci ha richiamato all’ordine spiegando che, a
causa di imprevisti capitati al suo programma televisivo, non ha molto tempo da
dedicarci. Ci promette così che in cambio della nostra attenzione cercherà di chiarirci i
dubbi su una lunga discussione: il rapporto tra il linguaggio della scienza e quello della
poesia.
Perciò, prima di spiegarci la differenza tra un poeta e un matematico, e tra i loro
linguaggi,inizia col citare nomi di uomini i quali hanno incarnato perfettamente il motto
di Terenzio: “ Homo sum: humani nihil a me alienum puto”.
Il primo su cui viene posta l’attenzione è Lucrezio, il quale con il De Rerum Natura fa sia
opera di poesia sia di scienza. Egli, infatti, tratta di temi scientifici e filosofici
attraverso il linguaggio della poesia, fornendo così una visione laica e completa del
mondo. Come lui, non solo Dante, che analizza argomenti di poesia, scienza e teologia,
ma anche Goethe, il quale, studiando lo spettro dei colori e le loro rifrazioni, scrive il
Faust, vengono annoverati tra gli uomini più geniali. Fra questi viene citato anche
Giacomo Leopardi, il quale, definito da Augias “uno dei nostri sommi dell’800”,
rappresenta l’eccezione del 19° secolo. Egli è in grado di fondere la figura di poeta con
quella di scienziato e, secondo alcuni critici, anche con quella di filosofo.
Perciò per capire quale sia il confine che separa la genialità di uno scrittore da quella di
uno scienziato, Corrado Augias ha cercato di spiegarci come non sia possibile rendere
con un linguaggio diretto un’emozione provata. Infatti, essendo le emozioni estetiche
difficilmente rendibili attraverso un linguaggio analogico, l’uomo ricorre all’uso di
metafore per potersi esprimere. Usare una metafora, ovvero un’espressione linguistica
la quale usa parole associate ad un’esperienza quotidiana in modo da evocarne un’altra,
significa rendere un concetto più comprensibile. Il problema però sussiste quando
bisogna capire se si sta parlando di una metafora del primo o del secondo tipo, e che
tipo di “salto” deve essere effettuato per intenderne il significato. La metafora del
primo tipo è associata dal lettore a un’esperienza quotidiana e tutti i suoi termini, siano
essi propri o impropri, sono subito comprensibili. Quella del secondo tipo, invece,
richiede da parte del lettore un intervento emotivo, pre-logico, inesprimibile,
comportando l’introduzione di qualcosa di nuovo, di parole sconosciute che possano
riempire il “buco” lasciato dal poeta. Ad esempio, William Blake, scrittore del 18°
secolo, nonostante utilizzi metafore facili da comprendere, le rende misteriose od
oscure quando vengono attribuite a un soggetto che a livello logico non è adatto a
compiere quelle azioni.
Inoltre, il linguaggio della poesia confina anche con quello della mistica. Nel passato,
infatti, i mistici e gli empatici avevano visioni così forti emotivamente da suscitare e
provocare reazioni fisiche. Una dimostrazione ci viene offerta dal dialogo che avviene
132
tra l’Inquisitore e Giovanna d’Arco nell’opera “Santa Giovanna”. In esso, infatti, si
assiste a un’unione tra il linguaggio della poesia e quello della mistica, i quali spingono
la parte irrazionale di un discorso a sfuggire a una piena comprensione logica.
Lo stesso accade con i grandi matematici. Loro partono da un’intuizione che in un primo
momento è indefinibile in termini razionali-scientifici. Solo in seguito è possibile
esprimere questa intuizione in una formula, ovvero con il linguaggio della scienza. Così
nella fase embrionale, la scintilla è tipica sia del poeta sia dello scienziato. Ma allora, ci
chiede Augias, perché le loro strade si dividono? Esse si separano perché, mentre il
linguaggio della poesia è composto di emozioni e sensazioni, quello della scienza ha
regole e parametri da rispettare. Quest’ultimo deve infatti essere verificabile,
falsificabile e ripetibile. E’ verificabile nel senso che deve essere espresso in termini
così precisi che chiunque deve poter capire la correttezza del ragionamento. E’
falsificabile in quanto, essendo scritto in modo chiaro, qualsiasi persona può dire che il
risultato ottenuto da un dato esperimento non è vero. Infine la scienza deve essere
ripetibile poiché i termini utilizzati devono essere tali da poter far ripetere tutte le
volte che serve quell’esperimento nelle condizioni date.
Così se da una parte può ritenersi conclusa la relazione di Augias, dall’altra la sua fine
rappresenta l’inizio del momento che tutti gli studenti aspettano nelle conferenze: il
dibattito.
Le domande e le osservazioni fatte a noi ragazzi e dai docenti spingono il relatore a
trattenersi più del dovuto.
Tra i quesiti posti, alcuni hanno attirato la mia attenzione. Uno di essi riguarda il modo
con cui il lettore deve avvicinarsi agli scritti poetici dei tempi antichi e se sia necessario
utilizzare testi critici.
Augias risponde a questo interrogativo ponendo l’attenzione sul fatto che rifacendosi al
passato, spesso ci mancano riferimenti o addirittura le parole possono avere significato
diverso da quello attuale. In questi casi nonostante sia necessario l’uso di testi critici, è
importante ricordare che ognuno è interprete di ciò che legge. Emerge così, anche
grazie all’intervento della professoressa Fierro, il modo in cui Augias concepisce la
poesia.
Essa è per lui un’interpretazione soggettiva e assume perciò una connotazione
romantica. Il linguaggio della poesia va oltre la logica in quanto, essendo evocativo,
deve richiamare e far emergere ciò che è proprio di ognuno. Ciò accade anche per
quanto riguarda le opere letterarie. Infatti dal secolo scorso è nata l’idea di una
“letteratura aperta” , la quale si verifica quando il lettore diventa co-autore del testo.
Chi legge non solo fa sua l’opera, ma la fa anche aderire alla sua biografia, diventando
nello stesso tempo destinatario e scrittore.
Se perciò il linguaggio poetico è così diverso da quello scientifico, non è proprio possibile
conciliarli? Questa domanda, posta da uno studente, ha suscitato interesse nel relatore.
Egli spiega che la trattazione poetica può essere suscettibile di linguaggio scientifico
tanto che un esempio ci viene fornito da Spinoza. Questo filosofo è stato in grado di
proporci non solo una visione scientifica e poetica del mondo, ma anche il nostro modo
di vivere sulla terra, e il rapporto laico e sereno che l’uomo può avere con Dio.
Elisabetta Orlando Senatore
133
Relazione sulla conferenza
tenuta dal dott. Corrado Augias
Nell’ ambito del ciclo di conferenze organizzate dalla prof.ssa Fierro riguardo il
rapporto “Umanesimo e Scienza”, il giorno 27 Aprile ha avuto luogo nell’ aula magna
del nostro liceo l’ ultima conferenza tenuta dal dottor Corrado Augias, scrittore,
giornalista, autore e conduttore televisivo che ha effettuato una riflessione sul
linguaggio della scienza e il linguaggio della poesia.
Il suo discorso si è aperto con una domanda circa l’autore latino Lucrezio: “E’ un poeta
o uno scienziato?”. Analizzando il De Rerum natura, poema didascalico di natura
scientifica ma anche filosofica, emerge un elevato linguaggio poetico ma anche una
visione scientifica, laica e completa del mondo in quanto egli dissipa i fiumi di troppi
dèi contrapponendo chiaramente ratio e religio. Lo stesso Dante, fa notare Augias,
unisce nella sua Divina Commedia poesia, scienza e teologia creando un linguaggio che
riesce ad amalgamare tutti questi elementi rispecchiando l’eclettismo dell’ autore così
come Goethe che, da un lato analizza scientificamente le rifrazioni della luce, dall’
altro scrive il Faust in cui appaiono elementi a-scientifici come ad esempio la magia
nera. Secondo Augias questi uomini incarnano perfettamente l’assunto Terenziano
“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo, nulla che sia umano mi
è estraneo).
Nel mondo contemporaneo la stessa divisione liceo classico – liceo scientifico,
contrapposizione reputata antica da Augias, è ancora un sistema legato alla tradizione;
quest’ ultima ha considerato infatti una eccezione, un caso limite Leopardi che seppur
celeberrimo scrittore e letterato ha scritto una storia dell’ astronomia.
Il relatore in seguito cita Giambattista Vico e rivolge una domanda a noi studenti: “Se
voi ascoltate una sonata o guardate un quadro ed io vi chiedo le vostre impressioni,
cosa mi rispondete? Mi rispondete vagamente e potete rendere ciò che avete provato
solo per mezzo di metafore perchè l’emozione estetica non si può rendere con un
linguaggio diretto né scientifico”. I testi critici infatti sono noiosi proprio perché, non
lasciando spazio alla poeticità, sono estremamente tecnici e particolari. La metafora,
al contrario, usa parole legate alla quotidianità , di grande fruibilità per esprimere un
concetto all’apparenza inesprimibile. Vi è anche un tipo di metafora che non
corrisponde alla realtà neanche per traslato, come “le ali del mattino”, nel quale
dobbiamo aggiungere noi qualcosa di personale per colmare lo iato che si crea tra un
termine e l’altro; proprio per questo a volte il linguaggio dei poeti confina con quello
dei mistici, degli estatici esprimendo l’ irrazionalità. Ad esempio nell’ opera
drammatica di Gorge Bernard Shaw “Santa Giovanna” la misticità poetica delle voci che
Giovanna D’ Arco sente, viene contrapposta alla rigorosa metodicità con cui l’
Inquisitore le parla per farla cadere in fallo.
Come alla base della loro opera i poeti hanno una scintilla improvvisa, anche i grandi
matematici muovono da un’ intuizione che non sanno inizialmente spiegare in termini
scientifici, dunque la radice è molto simile ma poi nell’ elaborazione formale le strade
si dividono.
Augias ha infine concluso il suo discorso con una chiara distinzione tra i due linguaggi.
134
Il linguaggio della scienza deve essere:
•
verificabile, espresso in termini precisi per poter verificare la correttezza del
ragionamento;
• falsificabile, espresso in termini tali da essere confutato se errato;
• ripetibile, espresso in termini tali da poter essere ripetuto in ogni momento in
condizioni simili.
Il linguaggio della poesia, invece, appartiene ad emozioni interne non oggettive, bensì
esclusive.
Ampio spazio è stato riservato al dibattito che si è alimentato con varie domande da
parte di noi studenti. E’ stata chiesta in primis una chiarificazione riguardo al concetto
di linguaggio scientifico falsificabile che è stata accostata a quella riguardo la possibile
espressione della religione e della psicoanalisi in linguaggio scientifico. Augias ha
spiegato in modo molto breve ma efficace che la scienza deve avere un linguaggio
rigido, serrato, 2 + 2 = 4 non può significare nient’ altro che questo a meno che in
futuro qualcuno sia in grado di dimostrare il contrario, di qui la falsificabilità. Marx fa
del socialismo scientifico, dunque il linguaggio scientifico può essere applicato a varie
branche del sapere, la teologia, la sociologia, l’ economia, la psicoanalisi purché abbia
una funzione esplicativa e sia ad essa attinente.
Alla domanda “Perché lo iato poetico è presente nei testi più difficili?” Augias ha
risposto che più la poesia è elevata più diventa impalpabile, difficile da cogliere,
questo avviene specialmente nei testi antichi nei quali, oltre a dover ricostruire veri e
propri “buchi” testuali, bisogna carpire il significato di parole desuete o di termini che
con il tempo hanno cambiato significato, per questo motivo spesso la letteratura si
avvale dell’ apporto della storia.
Augias ha poi, approfittando di una domanda postagli, analizzato il fatto che la poesia è
ancora creatrice di senso e che con il suo linguaggio metalogico è fortemente
evocativa, fa vibrare le corde della nostra anima sull’ esempio di Umberto Eco che,
nella sua opera aperta, rende il lettore coautore del testo.
E’ emerso dal dibattito che il linguaggio scientifico e poetico non sono inconciliabili; lo
stesso Spinoza aveva una visione della realtà insieme fortemente poetica e scientifica,
ma se prima i due linguaggi sconfinavano l’ uno nell’ altro, ora il linguaggio scientifico è
decisamente più preciso, teorico e specifico tanto che se in tempi antichi il lampo
veniva poeticamente spiegato come ira di Zeus e non implicava il concetto fisico di
elettricità, oggi la coincidenza dei due linguaggi è possibile, secondo il parere di
Augias, solo nel momento più alto dell’ intuizione.
Arianna Sorrentino
135
Mario Carini
Gli usi moderni del latino
Da più parti ci si lamenta della perdita di sensibilità per la civiltà classica, quale tratto
peculiare della nostra società moderna (o, meglio, postmoderna), quasi che essa
dovesse essere, proprio per definizione, in antitesi con il classico. È un dissidio che già si era
manifestato apertamente nel Novecento (soprattutto nella seconda metà), in accordo
con le grandi correnti ideologiche che imponevano di guardare al nuovo nella cultura e
nella società, preparando il sommovimento del Sessantotto. “C’è ancora posto, nell’èra
dei missili e delle bombe atomiche, degli «urlatori» e dei fumetti, per il mite Virgilio?”, si
chiedeva preoccupato Adriano Bacchielli nella prefazione alla sua nota traduzione
dell’Eneide virgiliana, dando comunque, poi, una rassicurante risposta affermativa. 8 Ma
oggi, nella scuola delle famose tre I (Inglese, Internet, Impresa), v’è ancora posto per la
cultura classica, e per le lingue che di essa sono strumento ed espressione, ossia il greco e
il latino?
Premettiamo che non vogliamo di proposito affrontare questo argomento assai
dibattuto, e che registra, nella grande varietà di opinioni degli “addetti ai lavori”,
accanto a posizioni di accorato pessimismo, 9 altre improntate a una più fiduciosa visione
sul destino dei classici, che continueranno certamente a persistere nella scuola e nella
società. 10 Limitiamo il nostro discorso al latino, lingua, il cui studio è posto, assieme al
greco, a fondamento dell’indirizzo liceale classico. 11 La lingua di Cicerone e Cesare, di
Virgilio e Orazio, considerata abitualmente il simbolo stesso della classicità, soffre di un
pregiudizio che quasi sempre affiora allorché si tocca questo argomento: sembra essere
trattata alla stregua di vessillifera di una cultura antiquata e polverosa, che nulla abbia
più da dire alle nuove generazioni, perché è una lingua morta, ossia una lingua che
nessuno, da tempo, parla più. Molti studenti della scuola media, lo dico per esperienza
diretta, vengono al ginnasio con questa convinzione. Ma è davvero una lingua morta, il
latino? Se una lingua è “morta” proprio perché non viene più praticata, non vive più
nell’uso quotidiano, non sopravvive più nella coscienza dei parlanti, ciò non può dirsi
certamente del latino. Non poteva dirsi ieri (allorché era la lingua dei dotti, delle
università, delle accademie, del diritto e della Chiesa) e, soprattutto, non può dirsi oggi,
perché sta vivendo in questi ultimi decenni un singolare destino. Scomparso da secoli
dall’uso quotidiano, per la naturale evoluzione di esso nelle lingue neolatine, il latino è
tornato inaspettatamente a rivivere, come lingua della comunicazione, nell’ambito di
quei gruppi di studiosi e cultori del latino come sermo vivens, che lo praticano
esattamente come una qualunque altra lingua moderna: scrivendo e parlando in latino.
8
Adriano Bacchielli, pref. a Virgilio, Eneide, versione poetica, introduzione e commento di Adriano Bacchielli, Paravia
1979⁴, 28ª rist. (I ed. 1963), p.V.
Come quella espressa da Carlo Carena, secondo il quale il classicismo viene considerato, nella società di oggi, come
“una stramberia e un’ascesi”, vd. Carlo Carena, Trenodia sui classici, in Di fronte ai classici, a colloquio con i greci e i
9
latini, a cura di Ivano Dionigi, Rizzoli, Milano 2003⁴, p.65.
Vd., ad esempio, l’intervista a Luciano Canfora, Il fiume si scava il suo letto, in Di fronte ai classici, cit., pp.45-62.
11
Sulla necessità e importanza dello studio del latino quale lingua di tutta la cultura occidentale si è espresso con salde
motivazioni Luigi Miraglia nel suo contributo Il latino non era la lingua dei Romani, in La Civiltà dal Testo. Convegno
di studio sulla didattica del latino, Liceo scientifico statale “C. Cavour”, Roma, 22-23 Novembre 2002, pp.66-67. La
necessità dello studio del latino quale mezzo per riscoprire la piattaforma comune su cui si sono edificate le civiltà
nazionali europee, era già stata rilevata nell’articolo di Edmondo Coccia, Le lingue e la «casa comune», in “Licei”,
n.4/5, aprile-maggio 1990, pp.3-5. Si veda anche il breve saggio di Peter Wülfing sull’importanza del greco e del latino
quali mezzi per conservare e trasmettere l’eredità del patrimonio culturale antico: Peter Wülfing, Le lingue classiche nel
nostro tempo, in Temi e problemi della didattica delle lingue classiche, Herder Editrice, Roma 1986, pp.27-49.
10
136
Quando si pone la domanda sull’attualità del latino per volere (forse con una certa
punta di malafede) considerare la lingua di Roma come un’eredità del passato
inevitabilmente datata, ovvero quando si dice che il latino è una lingua morta, si
resterebbe sorpresi nel sapere, invece, che questa lingua è praticata come strumento di
comunicazione da studiosi e cultori riuniti in circoli e associazioni di latinisti. In questi ultimi
anni, grazie anche agli sviluppi delle comunicazioni via Internet, ne sono fioriti moltissimi
non solo in Italia ma anche in Europa. Attraverso varie iniziative che sono sorte in tutto il
mondo si è cercato di riattivare il latino, di rivitalizzarlo, anche sul piano didattico,
approntando anzitutto nuovi strumenti per un approccio al latino che utilizzi nuove
metodologie, ben diverse da quelle delle cosiddette grammatiche normative tradizionali
e certamente più adatte e stimolanti rispetto alla sensibilità e alla mentalità delle odierne
generazioni di alunni. 12
La pratica del latino come lingua viva nasce, innanzitutto, nell’ambito della Chiesa: la
necessità di tradurre in latino (la lingua delle encicliche papali e dei documenti della
Chiesa) idee, concetti e invenzioni moderne, che nel tempo dell’antica Roma non si
sarebbero potute concepire, pose il problema dello “svecchiamento” del lessico latino fin
dagli anni Cinquanta. Al riguardo viene in mente l’arguto episodio narrato da Roger
Peyrefitte nel suo romanzo Le chiavi di San Pietro (trad. di Adriana Pellegrini, Longanesi &
C., Milano 1968, rist., I ed. 1955), in cui il protagonista, un giovane seminarista francese,
entra alla Pontificia Università Gregoriana, a Roma, e ascolta una conferenza sui clipei
ardentes, che non sono gli scudi della mitologia, ma gli UFO. 13
In quell’episodio Peyrefitte si serviva del latino per svolgere una sua critica del mondo
ecclesiale preconciliare in senso spregiudicatamente antitradizionalista. Quell’episodio,
però, ispirato probabilmente da una conferenza ascoltata dallo scrittore francese, aveva,
magari inconsapevolmente, il merito di mostrare che il latino, opportunamente rinnovato
nel lessico, poteva prestarsi, come in effetti si presta, alla trasmissione dei più svariati
contenuti, dalla notizia di pura cronaca a quella di carattere tecnico-scientifico.
Il problema, che è sorto ed è stato affrontato allorché si è cominciato, intorno agli anni
Cinquanta, a utilizzare il latino come lingua viva al di fuori dell’ambito ecclesiastico, è
stato quello di creare ex novo un lessico di voci per esprimere le invenzioni dell’era
moderna e i concetti e le idee create dall’incessante progresso in tutti i campi della civiltà
umana. Il card. Antonio Bacci, quale eminente studioso e cultore del latino come sermo
vivens, offrì in un suo contributo apparso oltre quarant’anni fa una soluzione che ci
appare certamente valida ed efficace ancora oggi (Antonii S. R. E. Cardinalis Bacci,
Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, in Institutum
Romanis Studiis Provehendis, Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis litteris
linguaeque fovendis, a die XIV ad diem XVIII mensis Aprilis a. MDCCCCLXVI Romae habiti,
12
Intendiamo riferirci al “metodo natura” di Hans H. Ørberg, che mette gli alunni immediatamente di fronte ai testi per
far acquisire un sicuro orientamento e una padronanza anche della lingua parlata. Il metodo di Ørberg è alla base del suo
manuale: Hans H. Ørberg, Lingua Latina per se illustrata, pars I Familia Romana (Accademia Vivarium Novum,
Montella 2003), pars II Roma aeterna (Accademia Vivarium Novum, Montella 2002), Latine disco (Accademia
Vivarium Novum, Montella 2001). Di simile impostazione, ma con una maggiore attenzione alle strutture linguistiche
del latino, è il manuale di Edmondo Coccia – Walter Sievert – Werner Straube – Klaus Weddingen, Ostia, corso di
lingua latina per il biennio delle scuole superiori, teoria ed esercizi vol. I (Armando Scuola, Roma 1992) e vol.II
(Armando Scuola, Roma 1991). Il manuale è la traduzione e adattamento, a cura di Edmondo Coccia, del corso di latino
Ostia. Lateinisches Unterrichtswerk di Sievert - Straube – Weddingen (Stuttgart, 1985 e 1986).
13
Vd. p.14-15: «Non poté che compiacersi della sua «seria cultura latina», poiché i corsi si svolgevano in latino.
L’università aveva persino una cattedra di latino moderno. Un monsignore del Vaticano, latinista arrabbiato, segretario
del Papa per i brevi ai principi, ne era l’ideatore. Voleva fare del latino una lingua viva, capace di esprimere qualsiasi
cosa. Alla prima lezione, passò un po’ di tempo prima che l’abate riuscisse a capire che i clipei ardentes non erano altro
che i dischi volanti,ma ben presto prese parte ad un pubblico dibattito in frasi ciceroniane sull’ascensione dell’Everest».
137
Romae in aedibus Caroli Colombo MDCCCCLXVIII, pp.299-310). Accertata la lacuna nel
lessico latino di termini con cui rendere i nova nostrae aetatis inventa et excogitata, il
Bacci enunciava sei principi normativi, con cui poter procedere alla creazione di nuovi
termini latini. La teorizzazione e l’applicazione di questi principi, ispirati alle concezioni
degli scrittori della latinità classica, come Cicerone, Orazio e Quintiliano, dovevano servire
ad evitare che il latino rinnovato nel lessico perdesse la sua identità, la sua specifica
fisionomia e finisse per assomigliare al latino “maccheronico” del Folengo. I principi esposti
dal card. Bacci sono i seguenti:
1) Anzitutto, i neologismi si possono creare prendendo termini già esistenti negli autori
classici e usandoli per similitudinem et affinitatem, seu analogiam, per significare nuovi
concetti e nuove invenzioni. Il Bacci porta, come esempio di riuso di materiale lessicale
già esistente in latino, il termine anabathrum (dal gr. α̉νάβαθρον, a sua volta derivato dal
verbo α̉ναβαίνω , “salire”), che compare in Giovenale, 14 utilizzandolo per indicare, nel
latino moderno, l’ascensore, peraltro così definito (Cella illa ex pluribus tabulis aliisque
rebus compacta, in qua, electrica vi acta sedentes, sine labore ac sine scalis possumus
domos ascendere, et quam ascensore nos Itali vocamus). 15 In alternativa il Bacci indica le
espressioni cella scansoria e pegma scansorium (dal gr. πη̃γμα, “tavolato”, e dal verbo lat.
scando, “salire”). Analogamente, per indicare il portalettere il Bacci consiglia il termine
tabellarius, già in uso presso i Romani, e per la posta ricorre a una ampia rosa di
espressioni, tra cui cursus publicus, cursus vehicularis, cursus fiscalis, res raediaria vel
vehicularis. Per indicare il francobollo il Bacci prende in prestito dal Paoli l’espressione
pittacium cursuale, 16 intendendo con pittacium, termine del latino classico, 17 una
scidula 18 seu chartae particula che si attacca a qualcosa per indicare alcunché:
aggiungendo a scidula l’agg. cursualis (alludente al cursus publicus), precisa il Bacci, si
intenderà trattarsi del rettangolino filigranato, ossia del francobollo.
2) Un secondo modo di creare neologismi latini, soprattutto per il lessico tecnico, è l’uso di
termini greci (semplici o composti) con un significato parzialmente modificato, come
attesta Orazio. Ma, avverte il Bacci, soltanto in quanto necessario: se è a disposizione il
corrispondente termine latino, non occorre ricorrere al greco (Si igitur Latina vox praesto
sit, ad Graecam confugiendum non est). Così, è errato usare archivum (dal lat. tardo
archivum, derivato dal gr. α̉ρχει̃ον, “residenza del governo o dei magistrati” e anche
“archivio pubblico”, in Dionigi d’Alicarnasso), 19 perché c’è già tabularium. Invece un
neologismo di questo secondo tipo è concepito per indicare un mezzo tipicamente
moderno: aeroplanum (composto dalle voci greche α̉ήρ, “aria”, e πλανάω, “andare
errando, vagare”). Però il Bacci avverte che ornatius, con maggior eleganza, si possono
usare i latini velivolum, aëria navis, navis volans, volatilis navicula, aligera cymba, etc.
Analogamente è creato spintherogenum, ad indicare lo spinterogeno, ossia il dispositivo
che permette alle candele di generare la scintilla nel motore a scoppio (dalle voci
greche σπινθήρ, “scintilla”, e γεννάω, “generare”).
14
IUV. 8,45: conducto pendent anabathro tigillo. Il termine anabathrum indicava un macchinario atto a sollevare o
abbassare pesi e persone nei teatri e nei pubblici spettacoli
15
Antonii S. R. E. Cardinalis Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, in
Institutum Romanis Studiis Provehendis, Acta omnium gentium ac nationum conventus Latinis litteris linguaeque
fovendis, a die XIV ad diem XVIII mensis Aprilis a. MDCCCCLXVI Romae habiti, Romae in aedibus Caroli Colombo
MDCCCCLXVIII, p.302.
16
E così è tradotto nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, European Language
Institute – Mondadori, Milano 1992, rist., p.115. Questo dizionario contiene numerosissimi neologismi del latino
moderno, ancora non registrati nella III edizione del Castiglioni-Mariotti.
17
Pittacium compare, fra l’altro, in Petronio (34,6) ad indicare le etichette delle anfore di Falerno nella cena di
Trimalchione.
18
O schedula.
19
DION. 2,26,2.
138
3) Un terzo modo consiste nel ricavare termini nuovi da parole latine, già impiegate dagli
scrittori classici. Ad esempio le voci communismus e socialismus possono utilizzarsi in
quanto derivate dagli aggettivi latini communis e socialis, con l’aggiunta del suffismo
latinizzante in –ismus. Ma il Bacci riporta anche l’espressione bonorum omnium aequatio,
usata da Cicerone (in De off. 2,21) per indicare, appunto, la teoria comunistica che già
aveva avuto i suoi illustri teorici antichi (come, ad esempio, Platone, nella sua Repubblica,
e Blossio di Cuma, il maestro di Tiberio Gracco). Il Bacci, avvertendo che non sempre può
usarsi l’espressione ciceroniana perché non si adatta pienamente alla dottrina moderna
del comunismo e del socialismo, ammonisce comunque a non spingersi troppo in là nella
creazione di simili neologismi, onde il latino moderno non latinitatem sapiat, sed potius
iocularem illam Merlini Coccaii linguam. 20
4) Il quarto modo è creare termini composti, ibridi (verba, quae hybrida a grammaticis
vocantur), congiungendoli dal greco e/o dal latino e/o da un’altra lingua, come illustra
Quintiliano (Inst. 1,5,68) che cita per il latino superfui, malevolus, per il greco e latino
epitogium 21 e per il greco e gallico epiraedium. Perciò, assumendo l’esempio di
Quintiliano, si possono formare termini come, per indicare l’it. automobile, il composto
greco autocinetum e l’espressione grecogallica automataria raeda.
5) Il quinto modo è l’uso di una circollocuzione (verborum ambitus) o perifrasi. Il Bacci
ricorda in proposito l’esempio di Cicerone, che rende il greco σωτήρ con la perifrasi qui
salutem dedit (nelle Verr. 2,2,63). Quindi il gioco del calcio (che in inglese è il composto
foot-ball) si può indicare con l’espressione perifrastica follis pedumque ludus o follis
calciumque ludus, intendendo il follis come il pallone.
6) Il sesto e ultimo modo è quello di utizzare i termini latini arricchiti da nuovi significati che
hanno apportato il decorso del tempo e determinati fenomeni storici, come, ad esempio,
l’avvento del Cristianesimo (il Bacci cita il caso del termine martyr, passato a indicare,
com’è noto, dal testimone processuale il testimone della Fede cristiana). Si potrà pertanto
usare divortium, che letteralmente significa “biforcazione di due strade”, per indicare la
separazione civile dei coniugi, ossia il moderno istituto del divorzio.
Più recentemente il prof. Biagio Amata ha ampliato i criteri di creazione dei neologismi
latini, enunciandoli nel suo Lexicon recentioris Latinitatis. 22 I principia theoretica Latini lexici
coaevi sono: il principium transhistoricitatis, per cui la lingua latina moderna, sermo
metalinguisticus in nessun luogo o tempo universaliter vigens, conserva la sintassi
normativa degli antichi e accoglie i termini nuovi; il principium indolis propriae sermonis
cuiusque, per il quale possono assumersi: un termine italiano, ovviamente latinizzandolo,
se sia omogeneo al carattere del latino, un termine di lingua straniera comunemente
usato, un termine greco o latino che possa adattarsi al nuovo significato; il principium
polisemiae, per il quale il termine del latino classico può essere arricchito da nuovi
significati e le parole greche possono essere usate per indicare le invenzioni moderne; il
principium concinnitatis, per il quale la parola antica può assumere significati moderni; il
principium reciprocitatis, per cui ai termini antichi se ne possono aggiungere altri e creare
nuove espressioni per indicare nuovi significati. Il principium facilius accedendi e il
principium ordinis servandi riguardano, invece, i criteri di redazione del Lexicon. Questi
principi enunciati dall’Amata appaiono, in verità, più elastici di quelli esposti dal Card.
20
Antonii S. R. E. Card. Bacci, Quatenus possint huius temporis inventa et excogitata Latine significari, cit., pp.304305.
21
Una sopravveste da portare sulla toga.
22 Testo accessibile su Internet all’indirizzo: www.geocities.com/blas3/lexicum/lex_index.html
139
Bacci e, per conseguenza, hanno condotto alla formazione di un grande numero di
neologismi latini.
Vi è dunque la continua fioritura di un lessico latino adeguato a trasmettere i contenuti
attinti agli ambiti più svariati, dalla vita quotidiana alla scienza, all’arte e alla letteratura.
Ci permettiamo di fare al riguardo un’osservazione. Il latino moderno, secondo la nostra
modesta opinione, può mantenere la sua specificità come lingua latina, ossia la sua
Latinitas, se osserva i precetti di formazione dei nuovi termini, ossia se attinge i neologismi
dal greco e dal latino. Viceversa, se ammette termini stranieri latinizzandoli, rischia di
diventare un ibrido, ossia di accentuare la sua artificiosità a scapito della genuinità e
naturalezza. Per fare un esempio, è ammissibile il termine manuballista per indicare la
pistola o vermiculi per gli spaghetti, ci lascia perplessi, invece, la recente coniazione di
tabernae Macdonaldianae per i moderni fast food. Per questa via il latino moderno
rischia di avere il medesimo destino dell’italiano, lingua “ibridizzata” – ci si passi
l’espressione 23 – dall’enorme introduzione di termini inglesi italianizzati (si pensi, ad
esempio, al neologismo chattare, dall’ingl. chat, “chiacchierata”, usato per indicare lo
scambiarsi messaggi in tempo reale).
Seppure il latino moderno non sia sfuggito alle critiche di quanti vedono in esso
sostanziamente il frutto di un’operazione artificiosa e antistorica, 24 tuttavia, a nostro
giudizio, ci sembra lodevole il tentativo, che riteniamo coronato da successo (visto che i
circoli e le associazioni di cultori di Latinum vivens aumentano col trascorrere del tempo),
di rivitalizzare e riabilitare il latino promuovendolo come lingua d’uso e stimolando la sua
capacità “produttiva”, ossia di mezzo di espressione del pensiero. 25
Presentiamo ora una scelta di articoli di attualità, tra quelli composti in latino moderno
dall’Abate Prof. Carlo Egger (1914-2003), insigne studioso e cultore pontificio della lingua
latina, nonché redattore di testi ufficiali della Chiesa. 26 Essi sono stati pubblicati sul Diarium
Latinum, curato dal Prof. Egger quale supplemento della rivista trimestrale “Latinitas,
Commentarii linguae Latinae excolendae provehendae”, edita dalla fondazione Latinitas
nella Città del Vaticano. Vi abbiamo aggiunto anche alcuni brevi testi apparsi sul
periodico “Vita Latina”, pubblicato dall’Institut d’Etudes Latines, 17 rue de la Sorbonne,
Paris. Facciamo seguire agli articoli una sintesi del contenuto e alcune brevi annotazioni,
mettendo soprattutto in rilievo i neologismi latini presenti nei testi.
Cominciamo con un primo gruppo di articoli incentrati su fatti di terrorismo, fenomeno
che già negli anni Ottanta turbava le relazioni internazionali, a seguito del conflitto israelopalestinese, e aveva assunto soprattutto la forma dei dirottamenti aerei.
23
Che non vuole necessariamente esprimere un giudizio negativo, anche perché i termini d’origine straniera nell’area
informatica, che hanno peraltro il vantaggio di una più immediata comprensione rispetto a una perifrasi in italiano, sono
ormai entrati stabilmente nell’uso.
24
Vd., ad esempio, le critiche di Giorgio Raimondo Cardona, Prospettive linguistiche per lo studio e l’insegnamento del
latino, in “Aufidus”, n.1, 1987, pp.93-107; peraltro già il Biliński aveva rimarcato la dissona et hibrida coniunctio
creata dai neologismi latini, nel suo intervento stampato dopo il contributo del Bacci, Quatenus possint huius temporis
inventa et excogitata Latine significari, cit., p.310.
25
Citiamo al riguardo le parole di Antonio Traglia, nella pref. al dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario
della lingua latina , cit., p.V: “Orbene, assecondando questi movimenti di riabilitazione del latino anche come lingua
d’uso, gli autori offrono agli studenti uno strumento che possa facilitarne lo studio. E non solo agli studenti essi si
rivolgono, ma a tutti coloro che intendono acquisire una conoscenza del latino più profonda, attraverso la lettura e lo
studio degi autori, ma anche attraverso la “produzione”. Solo così infatti si può acquistare una conoscenza non
superficiale di una lingua che ha in sé ancora tanta vitalità. Proprio la mancanza della capacità “produttiva” fa odiare
spesso l’uso del latino come mezzo di espressione del pensiero. Non raramente si odia quello che non si sa fare.”
26
Su Carlo Egger vd. l’articolo di Dario di Maso – Edmondo Caruana, L’Abate Carlo Egger latinista di cinque
pontefici, in «L’Osservatore Romano», 3 settembre 2005 (testo accessibile in Internet all’indirizzo
www.associazionenomentana.com/annali_2006/8-9
140
AERONAVIS AEGYPTIA, RETROVERSUS PROPULSA, A TROMOCRATIS EST ABDUCTA MULTORUMQUE
SANGUINE FOEDATA
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus:
Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, p.280)
Aeronavis Aegyptia, inversa vi propulsa, quae, Athenis profecta, Cairum petebat, mense
Octobri a tromocratis, qui se «seditiosos Aegypti» profitebantur, supra insulam (Milos) iussa est
cursum mutare atque ad aeroportum Melitensem dirigere. In ipso aeroplano est proelium
commissum, quo milites Aegyptii ac due vectores sunt occisi, nonnulli sauciati.
Cum aeronavis in aeroportu Melitensi, cui nomen La Valletta, constitisset, eius loci auctoritates
cum tromocratis de liberandis vectoribus, praesertim mulieribus ac pueris, egerunt. Sed res ad
irritum cecidit.
Advenerunt autem clam milites Aegyptii, qui «capita coriacea» appellantur et ad debellandos
eiusmodi praedones sunt exercitati. Quattuor seditiosi (unus a gubernatore securi est necatus) et
amplius quintaginta (sic) 27 vectores in terribili pugna sunt pyrobolis, igne, fumo interempti.
La notizia riportata è quella di un sanguinoso dirottamento aereo avvenuto il 23
novembre 1985 (non mense Octobri). Un aereo di linea egiziano, partito da Atene e
diretto al Cairo, mentre era sull’isola di Milo, è stato dirottato da terroristi appartenenti al
gruppo “Rivoluzionari d’Egitto” (a tromocratis, qui se «seditiosos Aegypti» profitebantur), i
quali hanno ordinato ai piloti di fare rotta sull’aeroporto di Malta. A bordo dell’aereo
avveniva nel frattempo uno scontro a fuoco, nel quale alcuni soldati egiziani e due
passeggeri (vectores) restavano uccisi, altri feriti. All’aeroporto di Malta “La Valletta” le
autorità locali intavolavano trattative con i terroristi per liberare i passeggeri, soprattutto le
donne e i bambini, ma invano. Quindi giunsero sul posto in segreto le “teste di cuoio”
egiziane (milites Aegyptii, qui «capita coriacea» appellantur), soldati addestrati alla lotta
antiterrorismo. Quattro terroristi (uno dei quali veniva ucciso dal comandante dell’aereo
con una scure) e più di cinquanta passeggeri perdevano infine la vita nel terribile scontro,
uccisi dalle bombe (pyrobolis), dalle fiamme e dal fumo.
Tra i neologismi notiamo aeronavis, tromocratis, aeroportum, capita coriacea,
pyrobolis. Aeronavis è una variante di aeroplanum. Capita coriacea è un calco
semantico creato per indicare le “teste di cuoio”, i reparti speciali antiterrorismo
organizzati da molti stati nel mondo. L’abl. pyrobolis presuppone un nom. pyrobolum,
“bomba”, formato da due termini greci : il prefisso pyro- dal gr. πυ̃ρ , “fuoco”, e il suffisso –
bolum dal gr. βάλλω, “scagliare, gettare”. Il Lexicon recentis Latinitatis di Cleto Pavanetto
registra tromocrates come maschile della 1ª decl. (con gen. in -ae), quale nomen agentis.
Il termine tromocrates è costruito con prefisso e suffisso greco: tromo- dal gr. τρόμος,
“tremore” (derivato a sua volta dal verbo τρέμω , “tremare di paura”) e -crates, dal gr.
κράτος , “forza, potere, dominio”. Ι tromocratae sono dunque, letteralmente, “coloro che
assoggettano altri al dominio del terrore”. È una soluzione colta ed elegante, ma il termine
potrebbe risultare di difficile comprensione al di fuori del suo contesto. 28 Altre soluzione
per “terrorista”, a nostro giudizio, potrebbero essere quella più comoda ma meno
27
Probabile errore di stampa per quinquaginta (cfr. p.280).
Di difficile comprensione per gli studenti di latino del biennio, come ho avuto modo di sperimentare personalmente
assegnando in traduzione un articolo dal Diarium Latinum, in cui compariva questo neologismo.
28
141
elegante di terroristae (dal lat. terror con l’aggiunta del suffisso -ista), 29 o una equipollente
perifrasi latina, del tipo rerum novarum adfectatores (o fautores) vi armisque. Al latino
classico appartengono invece vectores nel senso di “passeggeri” e gubernator, “pilota”,
qui dell’aereo. L’espressione inversa vi propulsa, lett. “spinta da una forza contraria”,
riferita alla aeronavis, è una perifrasi per indicare che si tratta di un aviogetto.
L’espressione multorumque sanguine foedata è classica (foedare sanguine è, per
esempio, in Sallustio, Hist. 1,47) e lascia intendere che il dirottamento si è concluso con un
massacro.
NAVIS ITALICA, ORAS MARIS INTERNI CIRCUMVECTANS, CAPTA A FEDAHINIS (dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus:
Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, p.281)
Navis Italica, cui nomen Achilles Lauro, oras Maris Interni circumvectans, cum ante portum urbis Aexandriae in
Aegypto staret in ancoris, a quattuor fedahinis, qui ad factionem quandam Corporis Palaestinae Liberandae
pertinebant, mense Octobri est capta – gubernatori armis ignivomis illi minitabantur – et ad portum Syriacum Tartous
iussa est navigare; sed eius Civitatis moderatores appulsum denegarunt. Deinde praedonum mandato Tunesiam petiit,
sed, nefariis illis contra praecipientibus, Portui Saidensi in Aegypto appropinquavit. Ubi tres dies constitit, dum
potestates Aegyptiae, ut assolet fieri, cum illis paciscuntur. Civem quendam Americanum, nomine Leonem Klinghoffer,
in sella rotali sedentem, cruente antea praedones trucidarant.
Demum his facultas est facta aeronavi Aegyptia evolandi – hac enim condicione se a gravioribus facinoribus
destituros spoponderunt. Verumtamen aeroplana Americana, quae in volatu ad aeronavem, in Tunesiam cursum
tenentem, accesserant, eam coegerunt ad stationem militarem, Sigonella appellatam, quam Americani in Sicilia habent
constitutam, descendere.
Ibi fedahini traditi sunt publicae securitatis custodibus Italis, qui eos in custodiam condiderunt. Dux autem eorum,
Abu Abbas, est dimissus permissusque aerio itinere se in Iugoslaviam conferre.
L’articolo si riferisce al famoso episodio, avvenuto nell’ottobre del 1985, del dirottamento della
motonave “Achille Lauro”, che provocò tra l’altro una crisi nei rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti
(per la mancata consegna del capo dei terroristi Abu Abbas) e una crisi politica interna (con le
dimissioni del governo Craxi). L’articolo narra brevemente i fatti salienti. La motonave italiana
“Achille Lauro”, in crociera lungo le coste del Mediterraneo, mentre stava all’ancora davanti al
porto di Alessandria d’Egitto, era assaltata da quattro fedayn (guerriglieri palestinesi),
appartenenti al’organizzazione Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP), che ne
prendevano possesso e imponevano al comandante, con la minaccia delle armi (gubernatori armis
ignivomis minitabantur), di fare rotta verso il porto siriano di Tartus. Le autorità di Damasco
negavano però alla nave il permesso per l’attracco, quindi i terroristi facevano rotta per la Tunisia
e si fermavano a Porto Said, arrendendosi dopo tre giorni di trattative. Un cittadino americano,
Leon Klinghoffer, invalido costretto sulla sedia a rotelle (sella rotali sedentem), durante il
dirottamento veniva trucidato dai terroristi. I dirottatori, dietro promessa di astenersi da ulteriori
atti di pirateria, avevano il permesso di lasciare l’Egitto a bordo di un aereo egiziano. Il velivolo,
una volta in volo sui cieli della Tunisia, era però fatto atterrare dai “caccia” americani sulla base
militare di Sigonella, in Sicilia. Nella base americana i terroristi venivano presi in consegna dagli
agenti di pubblica sicurezza italiani, mentre il loro capo, Abu Abbas, era rilasciato e, a bordo di un
aereo, poteva rifugiarsi in Iugoslavia.
29
Una soluzione che, a nostro giudizio, potrebbe ammettersi (presupponendo, ovviamente, anche terrorismus), perché
sono registrati anche i termini in -ismus, per identificare le forme ideologiche del Novecento, come il comunismo
(communismus), il socialismo (socialismus) e il nazismo (nazismus), nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo
vocabolario della lingua latina, cit. (alle pp.63, 244, 175).
142
Da notare il neologismo fedahinis, abl. pl. m. presupponente il nom. sing. fedahinus,
latinizzazione dell’arabo fedahin (ovvero fedayn), per indicare il guerrigliero palestinese. Con
armis ignivomis (abl. n. plur., nom. arma ignivoma) sono indicate genericamente le armi di cui
erano dotati i dirottatori (mitra kalashnikov). Sella rotali, abl. sing. f., rimanda a un nom. sella
rotalis, la “sedia a rotelle”. Da notare anche i termini aeroplana e aeronavem, varianti per indicare
i velivoli coinvolti nella vicenda. Il Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP) è reso con
l’espressione Corpus Palaestinae liberandae. Gli agenti di pubblica sicurezza italiani sono indicati
con l’espressione publicae securitatis custodes.
CAEDES A TROMOCRATIS PALAESTINENSIBUS FACTA IN AEROPORTU ROMANO ET VINDOBONENSI
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.284-285)
Die XXVII mensis Decembris pax temporis natalicii in aeroportu Romano ad Fossam Traianam (Fiumicino) et
Vindobonensi, qui a pago Schwechat appellatur, gravissimum in modum est turbata. In Romano aeroportu hora nona
cum quindecim minutis ante meridiem ante ostiolum sedis societatis aeronauticae Israelianae, cui nomen El Al, et
proximae stationis societatis aeronauticae Americanae, compendiariis litteris TWA insignis, subito quattuor
tromocratae Palaestinenses constituerunt statimque pyrobolos iacere et e parvis polybolis (mitragliatrice, mitrailleuse,
machinegun, Maschinengewehr) metallicas glandes spargere coeperunt. Immo etiam homines, ad thermopolium
conglobatos, sine discrimine petierunt. Biocolytae (polizia, police, Polizei) Italici ac tecti vigiles Israeliani, vim illatam
defendentes, tres aggressores occiderunt, quartum vulnerarunt, qui est in custodiam datus. Tredecim iter aerium inituri
sunt interfecti, in quibus Anastasia Simpson, puellula undecim annorum Americana, quae, in valetudinarium recepta,
confestim est mortua; circiter sexaginta homines sunt sauciati.
Eodem die et eadem fere hora in aeroportu Vindobonensi tres tromocratae in oecum proficiscentium incurrerunt,
item sedem societatis aeronauticae Israelianae adorturi. Nonnulli, qui ibi scidulas «conscensionales», id est quibus
facultas datur aeronavem conscendendi, exspectabant, sunt interempti, ad quadraginta sauciati.
Tromocratae in tanto tumultu aufugerunt, raedarium autocineti, quod forte foris erat, armis cogentes ut se aveheret.
Sed milites a publica tutela Austriaci, eos insecuti, comprehenderunt, postquam ictus manuballistulis hinc inde sunt
missi. Unus e praedonibus est interfectus.
Audaces manus horum tromocratarum eo sunt periculosiores, quod ii sunt voluntarii sui interemptores, id est parati
mortem sponte obire (quos sermone Iaponico kamikaze appellant).
L’articolo narra delle stragi compiute da terroristi palestinesi sotto il periodo natalizio
(pax temporis natalicii… gravissimum in modum est turbata), ossia il 27 dicembre 1985,
negli aeroporti di Fiumicino a Roma e di Schwechat a Vienna. All’aeroporto romano di
Fiumicino (ad Fossam Traianam), alle ore nove e un quarto, fermatisi davanti all’ingresso
della sede della compagnia aerea (societas aeronautica) israeliana El Al, che è attigua a
quella dell’americana TWA, all’improvviso quattro terroristi (tromocratae) palestinesi
cominciarono a lanciare bombe a mano (pyrobolos) e a sparare con mitragliette
automatiche (et e parvis polybolis metallicas glandes spargere coeperunt, lett. “e
cominciarono a spargere pallottole dalle piccole mitragliatrici”). Colpirono,
indistintamente, anche individui che affollavano il bar (thermopolium). Poliziotti
(biocolytae) italiani e agenti segreti (tecti vigiles) israeliani, reagendo all’aggressione,
uccisero tre terroristi e ne ferirono un quarto, che venne catturato. Furono uccisi tredici
passeggeri in attesa di imbarcarsi, tra i quali Anastasia Simpson, ragazzina americana di
undici anni, morta all’ospedale subito dopo il ricovero (quae, in valetudinarium recepta,
confestim est mortua). Nello stesso giorno e quasi alla stessa ora tre terroristi nell’aeroporto
di Vienna (in aeroportu Vindobonensi) irruppero nella sala d’attesa dei viaggiatori in
partenza (in oecum proficiscentium), con l’intenzione, anche qui, di assalire la sede della
compagnia israeliana. Rimasero uccisi alcuni viaggiatori, che attendevano di ritirare la
carta d’imbarco (scidulas «conscensionales», id est quibus facultas datur aeronavem
conscendendi, lett. “biglietti di salita a bordo, ossia con i quali si consente di imbarcarsi
sull’aereo”), e circa quaranta furono feriti. I terroristi, fuggiti nella grande confusione
dall’aeroporto, costrinsero con le armi un automobilista (raedarium autocineti), che
sostava lì per caso, a prenderli a bordo della sua auto, ma gli agenti austriaci di pubblica
143
sicurezza li inseguirono e li catturarono, dopo uno scontro a fuoco (postquam ictus
manuballistulis hinc inde sunt missi , lett. “dopo che furono esplosi colpi di pistola da ambo
le parti”). Uno dei banditi rimase ucciso. Le azioni audaci di questi terroristi sono tanto più
pericolose perché sono pronti ad affrontare la morte, come i kamikaze giapponesi.
Come neologismi notiamo aeroportus e l’espressione societas aeronautica, per
indicare la compagnia aerea, tromocratae per indicare i terroristi, pyrobolum per la
bomba a mano. La mitragliatrice è indicata con polybolum, termine coniato dal prefisso
gr. πολυ-, esprimente l’idea di molteplicità (dall’agg. πολύς , “molto”), e dal suffisso -βολος
(dal gr. βάλλω, “scagliare, gettare”): lett., è l’ “ordigno che lancia molti proiettili”. La
pallottola è indicata dall’espressione metallica glans, lett. “ghianda di metallo”; per il
moderno bar l’autore è ricorso al termine classico thermopolium (composto dal gr. θερμός
e πωλέω, lett. “spaccio caldo”), che nell’antica Roma, e soprattutto a Pompei, indicava i
locali di ristorazione, antenati delle “tavole calde”, ove gli avventori potevano bere vino e
gustare qualche piatto alla buona. 30 Un altro interessante neologismo è biocolytae,
coniato per indicare gli agenti di polizia: è la latinizzazione di un termine greco,
βιοκωλύτης (da βία, “violenza” e κωλύω, “impedire”), “colui che impedisce atti di
violenza”, che è usato in ambito giuridico, ad esempio nelle Novellae constitutiones di
Giustiniano (Nov. 8,12) per indicare le guardie pubbliche. Gli agenti segreti israeliani sono
chiamati tecti vigiles, lett. “guardie coperte”; valetudinarium indica l’ospedale, mentre
l’oecus proficiscentium è la sala d’aspetto dei viaggiatori (oecus dal gr. οι̉̃κος). Le carte
d’imbarco sono indicate con l’espressione scidulae «conscensionales» (scidula è dimin.
del lat. scida o scheda, “foglio”, dal verbo gr. σχίζω, “spezzare, dividere”), spiegata con la
perifrasi id est quibus facultas datur aeronavem conscendendi. Il conducente
dell’autoveicolo è chiamato raedarius autocineti: nel latino classico il raedarius era il
guidatore della raeda (o rheda), carrozza da viaggio a quattro ruote e due o quattro
cavalli, di origine gallica, largamente usata per il pubblico trasporto di persone, merci e
corrispondenza. 31 Il gen. autocineti (nom. autocinetum), che integra l’espressione, è un
neologismo coniato dal prefisso gr. αυ̉το- e dal verbo gr. κινέω, “mettere in movimento”.
Per la pistola si ricorre a manuballistula, composto dal prefisso manu- e dal diminutivo di
ballista, che nel latino classico indicava una macchina per lanciare pietre e vari proiettili
nel campo nemico, da cui l’it. balestra. Interessante la perifrasi, d’origine classica, per
indicare i volontari suicidi, chiamati poi kamikaze, con l’ausilio del giapponese: voluntarii
sui interemptores, “i volontari assassini di sé medesimi”. Non è stato coniato ancora un
termine, in latino moderno, esprimente il concetto: potrebbe essere accettabile uno del
tipo autointerfectores?
Un secondo gruppo di articoli, che riportiamo, riguarda fatti di cronaca nera.
MALEFICIUM CIGARETTAE
(dalla rubrica Commentarium Aprilis, in “Vita Latina”, anno MCMLXVII, Mense Maio, n.30, p.82)
In quadam urbis Clichy domo, mulier mortua in combusto pulvinari et ad modum carbonis redacta reperta est.
Quomodo res acciderit facile conjicitur quia notum erat illam feminam tum somniferis medicamentis tum fumo tabaci
multum uti. Probabile est ergo eam somno raptam esse atque cigarettam ab ejus labiis decidentem pulvinar incendisse.
L’articolo menziona l’evento di una tragedia domestica, avvenuto a Clichy nell’aprile del 1967:
una donna fu trovata pressoché carbonizzata, tra i resti bruciati del suo letto. L’incendio fu causato
30
Sui thermopolia di Roma e Pompei rimandiamo alla voce osteria nel dizionario di Karl-Wilhelm Weeber, Vita
quotidiana nell’antica Roma, trad. di Francesca Ricci, Newton & Compton editori, Roma 2003, pp.299-300.
31
Sulla rheda informa Giuseppina Pisani Sartorio, Mezzi di trasporto e traffico (Vita e costumi deiRomani antichi, n.6),
Edizioni Quasar, Roma 1994², pp.58-61.
144
da una sigaretta lasciata inavvertitamente accesa dalla donna, che aveva ingerito sonniferi ed era
stata colta dal sonno.
Per indicare il letto della donna è stato usato il termine del latino classico pulvinar. Che la
donna fumasse molto è indicato dall’espressione fumo tabaci (nom. tabacum) multo uti. Somnifera
medicamenta sono i sonniferi. Cigaretta, forma latinizzata del fr. cigarette, è al posto del più usato
(e registrato) convolvulus tabacinus. 32 Per Clichy non è stranamente usato il corrispondente
toponimo latino.
VIR COLUMBIANUS, VENENUM STUPEFACTIVUM GERENS IN VENTRE, NOLENS SE IPSE INTEREMIT
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Mensibus: Iunio, Iulio, Augusto, Septembri, Octobri,
Anno MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, p.205)
Medio mense Augusto, dum calores sunt maximi, hoc accidit in statione ferroviaria Urbis: Vincentius Mellana, vir
Columbianus, cocaini negotiator fraudulentus, eius veneni chiliogramma, diligenter dispertitum et in parvis excipulis e
re plastica inclusum, ore hausit et in stomacho servavit.
In statione illa ferroviaria quidam, rixa excitata, pugnum in stomachum Columbiani impegit, quo factum ut unum e
quattuor excipulis illis rumperetur et cocainum in circuitum sanguinis immitteretur. Sic miserandus ille negotiator et
lucrum et vitam amisit.
Il fatto è avvenuto ad agosto del 1990, alla stazione Termini di Roma. Uno spacciatore di
cocaina (cocaina negotiator fraudulentus) di nazionalità colombiana, tale Vincente Mellana, è
morto durante una rissa, a seguito di un pugno ricevuto allo stomaco. L’uomo, infatti, aveva
inghiottito e teneva nello stomaco un chilo di cocaina sigillata in capsule di plastica (eius veneni
chiliogramma, diligenter dispertitum et in parvis excipulis e re plastica inclusum, ore hausit et in
stomacho servavit). Il pugno ricevuto ha causato la rottura delle capsule e la cocaina è entrata
immediatamente in circolo, determinando la morte dell’individuo.
Statio ferroviaria è forma in alternanza con statio ferriviaria. Per indicare il trafficante o
spacciatore di droga (cocaina) è usata la perifrasi cocaini negotiator fraudulentus. I piccoli
contenitori o capsule di plastica contenenti la droga sono indicati con parva excipula e re plastica.
L’excipulum nel latino classico (dal verbo excipio, “ricevere, accogliere, prendere” e suff. dim. ulum) significa “recipiente, vaso”.
VESANI FAUTORES FOLLE PEDIBUSQUE LUDENTIUM GRAVISSIMIS POENIS IN BRITANNIA
DAMNATI
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.282-283)
Primum ex quo coeptum est ludi folle pedibusque, gravissima sententia contra vesanos fautores hac ludica
exercitatione certantium mense Novembre in Britannia est pronuntiata. Circiter viginti eorum qui, eiusmodi ludis
astantes, rem ad manus et pugnam vocarunt, praegravibus poenis sunt damnati, ex quibus unus, nomine Kevinus
Whitton, sempiternis est vinculis mandatus, quia certamen inter turmam Londiniensem et Mancuniensem (Manchester)
una cum aliis manu prompta turbavit. Alius ex eodem grege in carcerem est coniectus, octo annos ibi mansurus.
Sine ulla dubitatione ad talem sententiam ferendam vim habuit caedes Bruxellis in Heyseliano stadio edita, ubi
manus Liverpulana et «Iuventus» Taurinensis inter se pugnaverunt. Contra Kevinum Whitton tam graviter est
animadversum, quia facinus iterato admisit.
La notizia riguarda la prima gravissima sentenza, dall’inizio del gioco del calcio (ex quo
coeptum est ludi folle pedibusque), comminata a novembre del 1985, in Inghilterra,
contro i teppisti degli stadi (contra vesanos fautores). Circa venti di questi esagitati,
colpevoli di aver scatenato risse e incidenti durante le partite di calcio, sono stati colpiti
da pene gravissime: tra questi il giovane Kevin Whitton è stato condannato all’ergastolo
(sempiternis est vinculis mandatus), per gli incidenti, i ferimenti e le devastazioni causate
32
Cigaretta non è registrato nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit.
145
durante e dopo la partita Chelsea-Manchester. Un altro suo accolito è stato condannato
a otto anni di detenzione. Senza dubbio una così grave sentenza è stata suggerita ai
giudici inglesi dalla strage avvenuta allo stadio di Heysel, a Bruxelles, durante l’incontro tra
Liverpool e Juventus (ubi manus Liverpulana et «Iuventus» Taurinensis inter se
pugnaverunt). Contro Kevin Whitton i giudici hanno preso un provvedimento così grave
perché l’imputato ha ammesso di aver ripetuto i fatti contestatigli (quia facinus iterato
admisit).
L’articolo presenta i termini del lessico calcistico latino: i teppisti degli stadi sono chiamati nel
titolo con una lunga perifrasi, vesani fautores folle pedibusque ludentium, lett. “i tifosi impazziti
dei giocatori di calcio”, la squadra del Liverpool è la manus Liverpulana. Da notare che i
calciatori, nel titolo, sono chiamati folle pedibusque ludentes, con un’espressione trimembre
(participio reggente due abl. strumentali), mentre per calciatore è usato anche il sostantivo
pedilusor (da pediludium, composto di pes, pedis , “piede”, e ludere, “giocare”, che indica il gioco
del calcio). 33
Un altro gruppo di articoli che presentiamo riguarda notizie di carattere medico-scientifico e
annunci di nuove invenzioni. 34
«SYNDROME COMPARATI DEFECTUS IMMUNITATIS» (AIDS) NOVA PESTILENTIA ESSE PERHIBETUR
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus:
Octobri-Novembri-Decembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.280-281)
Nomen AIDS, quod e primis litteris verborum Anglicorum Acquired Immunity Deficiency
Syndrome («syndrome comparati defectus immunitatis») constat, quasi de nova agatur pestilentia,
hominum, qui nunc sunt, animos perturbat. Virus sanguine vel aliis liquoribus organicis transmittitur.
Nullum adhuc remedium efficax adversus hunc morbum mortiferum est inventum. Nec solum
homosexuales et medicamentis stupefactivis utentes eo corripiuntur, sed etiam alii, in quibus
infantes, pueri puellaeque.
Novum Eboracum primum locum in urbibus obtinet, ubi hac nova pestilentia laboratur. Ab anno
MCMLXXIX usque in praesens ibi duo milia hominum et ducenti septuaginta duo, secundum
rationarium medicorum, eo morbo sunt mortui.
La notizia riguarda il morbo dell’AIDS, che l’umanità nel 1985 stava imparando a
conoscere in tutta la sua drammatica virulenza. L’articolo fornisce poche, scarne notizie:
come fosse una nuova peste, il virus atterrisce gli animi dei contemporanei, si trasmette
col sangue o altri liquidi organici, contro di esso non è stato ancora ancora trovata una
cura efficace, ne sono colpiti non solo gli omosessuali (homosexuales) e i
tossicodipendenti (medicamentis stupefactivis utentes), ma anche altri soggetti, tra cui i
bambini. New York (Novum Eboracum) risulta essere la città più colpita dal contagio. Dal
1979 fino ad oggi (ossia al 1985) sono morti di AIDS nella città americana 2272 individui,
secondo i calcoli dei medici.
33
Attestato nel dizionario di J. Mir – C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., p.45.
A proposito dell’adattabilità del latino a contenuti di carattere tecnico-scientifico, segnaliamo che il «Praemium
Urbis» per il LIX Certamen Capitolinum, organizzato dall’Istituto di Studi Romani, è stato conferito a Luigi Luzzi,
autore della composizione De ozonio et ozonosphaerae foramine, “un elaborato che affronta una tematica ardua e di
grande attualità, risolvendo i comprensibili problemi espressivi con una prosa elegante e scorrevole” (dalla Rassegna
d’informazioni dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, n.7-9, luglio-settembre 2008, p.3).
34
146
Da notare la traduzione latina di AIDS (syndrome comparati defectus immunitatis), ove
compare il termine syndrome, latinizzazione dal gr. συνδρομή, “concorso di folla; insieme di
sintomi” (da σύν, “con”, e δρόμος, “corsa”). Per indicare i tossicodipendenti è usata la
perifrasi medicamentis stupefactivis utentes, lett. “quelli che usano sostanze stupefacenti”
(ma nel Nuovo vocabolario della lingua latina di J. Mir – C. Calvano, Milano 1992, II rist., è
registrato il termine drog(i)a per “stupefacente”). 35
FRATRES GEMINI «SIAMENSES» SECTIONE CHIRURGICA FELICITER SUNT SEIUNCTI
(dal Diarium Latinum, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Junio, Julio, Augusto, Septembri, Octobri,
Anno MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, pp.204-205)
Non agitur quidem de fratribus geminis vere Siamensibus, sed de infantibus Hassan et Salem e Libya oriundis.
Solent autem fratres gemini, quorum corpora naturae vitio ex parte sunt coniuncta, ita appellari exemplo conspicuo
germanorum hoc modo deformium, qui saeculo XIX in Siamo – ut illa aetate Thailandia vocabatur – fuerunt quorum
pectora e matris utero conectebantur (nihilominus matrimonium inierunt patresque exstiterunt viginti duorum filiorum).
In nosocomio Vindobonensi delecti medici perdifficilem sectionem chirurgicam – immo quinque sectionum seriem –
peregerunt : imprimis necesse fuit vasa sanguinea in cerebro, quae parvulis illis Libycis erant communia, separare,
deinde utrique calvariam e re plastica imponere.
Solum recentissima artis medicae progressione potuit fieri ut eiusmodi sectio, id est capitum seiunctio, perficeretur.
Eiusdem artis periti quasi quoddam miraculum factum esse declarant. Id mense Iulio evenit.
La notizia non riguarda i veri e propri gemelli siamesi, ma due piccoli libici, Hassan e Salem,
congiunti dalla nascita nella parte craniale e separati con successo da una équipe medica viennese.
I gemelli siamesi (gemini «Siamenses»), ossia quelli che nascono uniti in qualche parte del corpo
per una naturale anomalia (quorum corpora naturae vitio ex parte sunt coniuncta), sono così
chiamati dal caso dei due gemelli originari del Siam – l’odierna Thailandia –, che nacquero uniti
nella parte toracica (ciononostante poterono sposarsi e mettere al mondo ventidue figli). 36
All’ospedale di Vienna, nel mese di luglio 1989, medici specialisti (delecti medici) hanno eseguito
una difficilissima operazione chirurgica (perdifficilem sectionem chirurgicam peregerunt) – anzi
una serie di cinque interventi –: prima hanno dovuto separare i vasi sanguigni cerebrali, che i due
gemellini avevano in comune, poi a entrambi hanno dovuto applicare una speciale calotta di
plastica (deinde utrique calvariam e re plastica imponere). Solo i recentissimi progressi della
medicina hanno potuto permettere l’effettuazione di tale intervento, ossia la separazione dei crani:
un’operazione che, a detta degli esperti, è stata quasi un miracolo.
L’ospedale è qui indicato come nosocomium, in alternativa a valetudinarium. L’operazione di
neurochirurgia è la sectio chirurgica, i vasi sanguigni cerebrali sono indicati come vasa sanguinea
in cerebro, la speciale calotta cranica apposta ai due piccoli pazienti, dopo l’intervento, è la
calvaria (termine che nel latino classico è usato col senso di “cranio”) e re plastica.
DE «LACUNA OZONICA»
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.210-211)
Quadringenti speculatores venatoresque naturae, ut verbis utar Tullianis, mense Augusto Gottingam (Göttingen), in
Germaniae urbem, sunt congregati ut de «lacuna ozonica» per sex dies disceptarent atque consilium darent iis qui in
publica re versantur atque officio tenentur rei oecologicae prospicienti.
Panditur in stratosphaera, quae par est aëris Terrae circumfusi, in altitudine, quae est inter viginti et triginta
chiliometra, ozonosphaera, qua solis radii perviolacei (ultravioletti, ultraviolets, ultra-violets, ultraviolette) cohibentur
seu potius colantur.
35
Vd. p.94.
Sono i primi celebri gemelli siamesi Chang e Eng, che, scampati alla morte decretata loro da re del Siam, sposarono
due sorelle americane e generarono più di venti figli (vd. la loro storia in Darin Strauss, Chang ed Eng (Chang and Eng,
2000), trad. di Idolina Landolfi, Rizzoli, Milano 2001).
36
147
Verumtamen in regione antartica factus est hiatus seu lacuna in ozonosphaera, ita ut perpetua glacies, qua axis
meridianus contegitur, calescat.
Ozonio deficiente etiam caeli status mutatur. Haec pericula hominum generi impendere dicuntur: cancer in pelle et
calor in mundo, qui similis caldariae herbarum aedi (serra, serre, hothouse, Treibhaus) effici possit.
Affirmant in causa esse gasia et sparsivos liquores nebulosos (aerosol), quae ob inductam quaestuosam industriam
per haec decennia ingenti auctu in aëra sunt emessa. Agitur hominum generis salus!
Il fenomeno del buco nell’ozono è l’argomento di questo articolo. Quattrocento studiosi e
ricercatori della natura (speculatores venatoresque naturae) nell’agosto 1988 hanno partecipato a
un convegno di sei giorni a Gottinga, in Germania, per discutere del “buco nell’ozono” e
formulare proposte da presentare ai governi e ai ministri dell’ambiente. L’ozono è un gas
atmosferico presente nella stratosfera, tra i venti e i trenta chilometri d’altezza, che permette di
riparare la Terra dai raggi ultravioletti, perché li respinge o piuttosto li filtra (qua solis radii per
violacei cohibentur seu potius colantur). Ma nella regione antartica si è formato un buco nella sfera
di ozono che avvolge il pianeta (in ozonosphaera), cosicché il ghiaccio che ricopre la superficie
polare si sta riscaldando. La riduzione dell’ozono ha effetti anche sul clima. I pericoli che
incombono sul genere umano sono i tumori della pelle e l’aumento della temperatura globale del
pianeta, ossia il fenomeno dell’ “effetto serra” (calor in mundo, qui similis caldariae herbarum aedi
effici possit, lett. “l’aumento di temperatura nel mondo, che potrebbe esser reso simile a una
serra”). La causa della riduzione dell’ozono è attribuita ai gas e ai propellenti delle bombolette
spray emessi nell’atmosfera in quantità sempre maggiori e prodotti dalle industrie che badano
soltanto ai profitti.
Speculatores venatoresque naturae sono chiamati, con il dotto stilema ciceroniano (dal De
natura deorum 1,83), gli studiosi e i ricercatori della natura che si sono riuniti a convegno a
Gottinga; «lacuna ozonica» indica il buco nell’ozono (ozonium); stratosphaera (composto grecolatino dal verbo lat. sterno, “stendere, cospargere”, e dal gr. σφαιρ
̃ α, “sfera”) e ozonosphaera (da
ozonium e σφαιρ
̃ α) indicano i corrispondenti strati dell’atmosfera; solis radii perviolacei è
perifrasi per indicare i raggi ultravioletti; caldaria herbarum aedes è la serra, lett. la “calda dimora
delle piante” (espressione costruita probabilmente su caldaria cella, che in Plinio, Ep. 5,6,26,
indica la stanza con vasche per il bagno caldo); gasia (sing. gasium) indica i gas; sparsivi liquores
nebulosi sono i gas propellenti usati come spray, del tipo aerosol, che a sua volta è la sigla di
sol(uzione) aer(ea), il cui significato è sotteso dall’espressione latina. Notevole, da ultimo, è
l’arguto gioco di parole, quale ammonimento finale: agitur hominum generis salus! L’espressione è
basata, a nostro giudizio, sul doppio senso di salus, “salute” e “salvezza”. “È in gioco la salute del
genere umano!”, perché l’esposizione alle radiazioni ultraviolette può provocare tumori della
pelle, ma è anche in gioco la sua salvezza, giacché il surriscaldamento progressivo e ininterrotto
della temperatura potrebbe causare, fra l’altro, lo scioglimento dei ghiacci polari, con effetti
catastrofici per il pianeta.
ITER AD LUNAM 37
(dalla rubrica Commentarium Martii, in “Vita Latina”, anno MCMXVI, Mense Dicembri, n.29, p.72)
Notum est soviéticum missile, nómine Luna IX, ultimo Januárii die post méridiem ad satéllitem terræ jactum esse.
Scopum die tértio Februárii mane attigit. Inde prima photográphica lunæ imago in terram die sequenti pervenit.
Mirábile quidem! Mirabílius autem erit (quod jam impossibile non videtur) quando ipse homo lunam adibit.
Tu vero puer, noli de hoc eventu in scholā intempestive cogitare ne magister te interpellet: «Puer, attendisne ad ea
quae dico? Nonne in lunā mente vagaris?»
È uno dei primi articoli sulle imprese spaziali, negli anni Sessanta, e ricorda il lancio verso la
Luna della sonda sovietica Lunik 9, avvenuto il 31 gennaio 1966. Atterrata sulla Luna, la sonda
inviò poi le prime foto della superficie del satellite. L’autore preconizzava l’allunaggio dell’uomo
(che sarebbe avvenuto, com’è noto, nel 1969) e concludeva il breve scritto con una battuta
37
I termini accentati compaiono nel testo.
148
spiritosa, Nonne in luna mente vagaris?, rivolta dal maestro all’alunno distratto (che è un modo di
dire anche in italiano).
Da notare l’aggettivo sovieticus (stranamente non in maiuscolo), riferito a missile, 38 e
l’espressione photographica imago (agg. derivato da photographia, dal gr. φως̃ , “luce”, e γραφ
́ ω,
“scrivere”, lett. “riproduzione di una immagine fatta attraverso la luce”).
AEREOFOLLIS ADHUC IN USU
(dalla rubrica Commentarium Maii, in “Vita Latina”, anno MCMLXVII, Mense Maio, n.30, p.84)
Vix hodie memoria habetur illorum ingentium follium sphericorum hydrogenio inflatorum, in quibus audaces homines
iter per aerem olim faciebant. Non tamen omnino derelinquuntur. His diebus photographica illiusmodi follis publicatur
in quo americanus Barnes foederatos Americæ Status supervolare intendit. Octo hebdomadas iter aereum faciet.
Il breve testo ricorda le mongolfiere e preannuncia il volo in mongolfiera dell’americano
Barnes, sugli Stati Uniti, che durerà otto settimane.
La mongolfiera (aereofollis) è indicata anche con la perifrasi folles sphericae hydrogenio
inflatae, lett. “palloni sferici riempiti di idrogeno”.
DE PERCONTATRO MARTIALI
(da Nuntii Latini 6.6.2003, dal sito Latinitas viva , testo accessibile all’indirizzo:
www.latinitatis.com/latinitas/menu_it.htm )
Ordo Europaeus spatio cosmico investigando (ESA) suam expeditionem in aliam planetam incohavit, cum proprium
percontatrum spatiale ex Cazastania ad stellam Martem versus emisit. Propositum est, ut hoc navigium iter suum
quadringentarum fere milionum chilometrorum iam ante finem huius anni emetiretur. Ei applicatum est instrumentum
sensorium, quod solum planetae perscrutaretur ad cognoscendum, utrum ibi aqua aut alia vitae signa invenirentur
necne.
Nell’articolo si annuncia il lancio di una sonda spaziale verso Marte, da una base in
Kazakistan, effettuato nel giugno 2003 dall’ESA (European Space Agency, Ente Spaziale Europeo).
La sonda, secondo il progetto degli scienziati, sarebbe dovuta arrivare sul pianeta alla fine
dell’anno, dopo aver percorso quattrocento milioni di chilometri. Era provvista di uno strumento
sensorio per l’esplorazione del suolo marziano e la ricerca di acqua o segni di vita.
La sigla ESA è stata sciolta in latino con l’espressione Ordo Europaeus spatio cosmico
investigando. Percontatrum spatiale designa la sonda spaziale (dal verbo lat. percontor,
“interrogare, indagare” e il suffisso -atrum): altra espressione, di eguale significato, usata dai
latinisti moderni è siderale instrumentum speculatorium. Instrumentum sensorium indica l’insieme
della strumentazione applicata alla sonda, per compiere i rilievi sul Pianeta Rosso.
AUTOCINETUM SOLARE INVENTUM
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.209-210)
Autocinetum solare, nuperrime inventum, mense Augusto, experimenti causa Darvinopoli (Darwin) vectum est
Adelaidopolim (Adelaide), id est a septentrione ad meridiem Australiane. Vehiculum sic est constructum ut sola vi
solari propellatur, ad quod amplae laminae metallicae, id paene contegentes, non tamen excedentes quattuor metrorum
spatium, sunt necessariae. In iis novem milia cellularum solarium continentur.
Capsus ipse est admodum parvus; in quo machinamentum motorium electricum est et gubernator. Pondus totius
vehiculi est solum centum sexaginta quinque chiliogrammatum, velocitas usque ad centum tredecim chiliometra unius
horae tempore pertingit. Loco indicis benzini est amperometrum, quo ostenditur, quantum roboris supersit adhuc in
peculiaribus pilis ex argento et zinco.
Ratio huius vehiculi automatarii fabricandi, quod Anglice spaceracer nuncupatur, summo secreto obtegitur (top
secret dicunt Americani).
38
Nel dizionario di J. Mir e C. Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., è registrato (p.169) per “missile”
anche il non più ammesso f. rocheta (forma latinizzata dell’ingl. rocket).
149
L’articolo dà notizia dell’invenzione, in Australia, di un veicolo ad energia solare. L’invenzione
è stata provata nell’agosto 1988 con successo: l’automobile ha coperto il percorso nord-sud da
Darwin ad Adelaide. Il veicolo è mosso esclusivamente dall’energia solare (vehiculum sic est
constructum ut sola vi solari propellatur): ad esso sono stati applicati grandi pannelli metallici,
lunghi poco meno di quattro metri, che contengono novemila cellule solari. Nel piccolo spazio
interno sono disposti il motore elettrico e l’abitacolo del guidatore. Il peso complessivo non supera
i centosessantacinque chili, la velocità può toccare i centotredici chilometri all’ora. Al posto
dell’indicatore di benzina (loco indicis benzini) vi è un amperometro che misura la corrente
presente nelle speciali batterie di argento e zinco. I piani di costruzione del veicolo, il cui nome
inglese è spaceracer, sono coperti dal più assoluto segreto (top secret).
Autocinetum solare indica l’autoveicolo ad energia solare, cellulae solares sono le cellule
solari, con capsus (in latino classico la “cassetta” ove siede il cocchiere, vd. VITR. 10,9,2) è da
intendere lo spazio interno del veicolo, contenente il vano motore e l’abitacolo del pilota. Altri
termini tecnici: index benzini (gen. sing. presupponente un nom. benzinium) è l’indicatore del
livello di benzina, amperometrum è l’amperometro, strumento che misura l’intensità della corrente
elettrica. Summum secretum corrisponde all’ingl. top secret.
MANUALE INSTRUMENTUM ASPERSIONI NUBIFORMI FACIENDAE CONTRA AGGRESSORES IN
BRITANNIA INVENTUM
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Ianuario et
Februario, Anno MCMLXXXIX, suppl. a “Latinitas”, I, 1989, p.44)
Manuale instrumentum, quod in sinu condi potest ideoque portatu est facile, in Britannia est inventum, quo
praesertim mulieres et homines aetate provecti scelestorum aggressiones valent declinare. Venit autem pretio sex
sillingorum (shilling). Ita, quemadmodum speratur, nefarii conatus latrunculorum circumforaneorum, qui mulieribus et
senibus monile aut peram eripiunt (Italice scippatori vocantur), ad irritum cadent; etiam improbi pudicitiae
expugnatores a mulieribus facilius poterunt repelli.
Hoc instrumentum eo est efficax quod aggressor aspersione nubiformi (spray) rutili coloris irroratur; maculae, in
eius veste inde effectae, solum smegmate chemico possunt auferri. Accedit quod cum aspersione illa vehemens odor
coniungitur, ita ut molestissimus vexator eo etiam possit agnosci. Recte ergo instrumento illi nomen Anglicum tracer est
inditum, quod idem valet ac vestigator. Haec mense Ianuario diario quodam sunt vulgata.
L’articolo annuncia l’invenzione, in Inghilterra, di uno spray antiaggressioni, presentato nel
gennaio 1989. È facile da nascondere addosso, e può essere utile a donne e anziani per
scoraggiare eventuali malintenzionati. È venduto al prezzo di sei scellini. È sperabile che con
questo ritrovato scippatori e maniaci facilmente possano essere respinti. L’efficacia dello spray sta
nel fatto che spruzza addosso all’aggressore una sostanza di colore rosso, le cui macchie possono
essere tolte soltanto con un detergente chimico. Inoltre la sostanza spruzzata emana un odore
pungente e persistente, che può essere utile per individuare il malintenzionato. Gli inglesi hanno
battezzato lo strumento tracer, perché ha la stessa efficacia di un investigatore.
Da notare, nel testo, l’espressione aspersio nubiformis, per indicare lo spray, nonché la lunga
perifrasi latrunculi circumforanei, qui mulieribus et senibus monile aut peram eripiunt (lett. “i
ladruncoli che gironzolano per la città e strappano alle donne e agli anziani i gioielli e le borse”)
che designa gli scippatori. Un’altra perifrasi, improbi pudicitiae expugnatores, lett. “i malvagi
espugnatori della pudicizia femminile”, designa i maniaci e i violentatori. Con l’abl. smegmate
chemico (da cui il nom. neutro smegma chemicum, dal gr. σμηγ̃ μα, “detergente, unguento”) è
indicato il detergente chimico.
Altri articoli riguardano anniversari e decessi di illustri personaggi.
ENTIUS FERRARI, PRINCEPS REI AUTOCINETICAE CURRULIS, VITA FUNCTUS
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, p.209)
150
Die XIV mensis Augusti Mutinae (Modena), ubi et natus erat, Entius Ferrari nonagenarius diem obiit supremum,
qui princeps fuit rei autocineticae currulis seu ad certamina pertinentis, quae in autocinetodromis eduntur.
De parvo crevit. Mature, anno MCMXXIX, autocineta cursoria coepit exstruere, quae praestantissimis
gubernatoribus vehentibus, maximam famam per totum orbem terrarum sunt adepta: inter praecipuos gubernatores
«Ferrarianos» hi recensentur: Vido Moll, Tatius Nuvolari, Aegidius Villeneuve, Nicolaus Lauda. Non igitur mirum
quod rubra illa autocineta, quorum machinamentum motorium duodecim cylindris praeditum erat quaeque in huius viri
ergasterio, in oppido Maranello, intra Mutinensis provinciae fines sito, conficiebantur, plurimum expeterentur. Tanta
erat auctoritas Entii Ferrari, a saeculi conventibus ac strepitu remoti, ut et reges empturientes in eius procoetone
exspectare debuerint.
Sunt qui dicant eum maximum huius saeculi Italum fuisse.
Nell’articolo si dà notizia della scomparsa, avvenuta a Modena il 14 gennaio 1988, di Enzo
Ferrari, il padre delle celeberrime macchine da corsa nonché principe dell’automobilismo sportivo
ossia da competizione su circuito (qui princeps fuit rei autocineticae currulis seu ad certamina
pertinentis, quae in autocinedromis eduntur). Ferrari se ne è andato all’età di novanta anni. È
ripercorsa brevemente la sua vita: dopo un’infanzia modesta, nel 1929 cominciò a costruire auto
da corsa (autocineta cursoria), che, grazie a validissimi piloti come Guy Moll, Tazio Nuvolari,
Nicky Lauda e Gilles Villeneuve, ottennero la massima celebrità nel mondo. Non bisogna perciò
meravigliarsi se le rosse macchine con motore a dodici cilindri (quorum machinamentum
motorium duodecim cylindris praeditum erat), costruite da Ferrari nell’officina (in ergasterio) di
Maranello, in provincia di Modena, erano assai richieste. La grande fama di Ferrari, uomo schivo
e lontano dalle chiassose manifestazioni mondane, faceva attendere in anticamera (in eius
procoetone) anche i re che volevano acquistare un suo modello. Secondo alcuni Enzo Ferrari è
stato il più grande italiano del Novecento.
Nel brano compaiono termini ed espressioni tecniche: la res autocinetica currulis è
l’automobilismo da corsa, l’autocinetodromus è il circuito per le auto da corsa (termine composto
dal prefisso gr. αυτ̉ ο-, dal verbo gr. κινεω
́ , “mettere in movimento” e dal sostantivo gr. δρομ
́ ος,
“corsa”), il machinamentum motorium duodecim cylindris praeditum è il motore a dodici cilindri,
l’ergasterium è l’officina di Maranello, in procoetone (nom. procoeton, dal gr. προκοιτων
́ ) designa
l’anticamera nella quale Ferrari faceva attendere i suoi illustri acquirenti.
AGATHA CHRISTIE, CELEBERRIMA FABULARUM CRIMINALIUM AUCTOR, ANTE CENTUM ANNOS IN
BRITANNIA NATA
(dal Diarium Latinum, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Junio, Julio, Augusto, Septembri, Octobri, Anno
MCMLXXXX, in “Latinitas”, III, 1990, p.205)
Non solum die IV mensis Septembris, quo ante centum annos in lucem est edita (in oppido Torquay), sed totum per
annum memoria Agathae Christie, pernotae fabularum criminalium auctoris, in Britannia recolitur. Quae
duodenonaginta fabulas criminales, animum moventes erigentesque, conscripsit; quibus adduntur sex fabulae milesiae
ac quattuor libri alterius generis. Amplius miliardum eiusmodi fabularum venditum eaeque in quadraginta quattuor
linguas esse conversae dicuntur. Quod prodigii simile esse videtur. Unde uberrimae scriptricis progenies quaestum
facit amplissimum, quippe in quam iura auctoris devenerint.
Persona notissima fabularum criminalium Hercules Poirot, investigator, esse cognoscitur.
Il testo informa sul centenario della nascita della celeberrima regina del giallo (pernota
fabularum criminalium auctor), la scrittrice inglese Agatha Christie (nata il 4 settembre 1890 a
Torquay). Le celebrazioni dureranno per tutto l’anno. Agatha Christie ha pubblicato ben ottantotto
avvincenti romanzi gialli (fabulas criminales), sei storie d’amore (fabulae milesiae) e quattro libri
d’altro genere, vendendo più di un miliardo di copie. I suoi libri sono stati tradotti in
quarantaquattro lingue e hanno fruttati enormi guadagni all’autrice, grazie ai diritti d’autore. Ha
creato il famosissimo personaggio dell’investigatore Hercules Poirot.
Con fabulae criminales vengono designati i romanzi gialli.
LADISLAUS BIRO, INVENTOR GRAPHII SPHAERALIS, IN ARGENTINA VITA FUNCTUS
151
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXV, suppl. a “Latinitas”, IV, 1985, pp.281-282)
Ut die XXVI mensis Octobris accepimus, Bonaëropoli, in urbe principe Argentinae, vita functus est, annum agens
octogesimum sextum, Ladislaus Biro, vir Hungarus, inventor graphii, quo nunc fere omnes utuntur. Id instrumentum est
tubulo, quo atramentum continetur, et sphaerula, ad scribendum apta, instructum ideoque, ut liquet, cuspide caret. Cum
exhaustum est in tubulo atramentum, plerumque proicitur graphium. Itali hoc graphium e nomine inventoris appellant
biro, quod nos dicere possumus etiam graphium Biroanum.
Vir Hungarus, qui anno MCMXL in Americam australem transmigravit, etiam libros conscripsit, imagines depinxit
et recens tractavit de modo, quo uranium incrementis augeretur.
L’articolo annuncia la scomparsa, avvenuta a Buenos Aires il 26 ottobre 1985,
dell’ottantaseienne ungherese László Biró (1899-1985), l’inventore della famosa penna a sfera
(inventor graphii sphaeralis), che da lui ha preso il nome. La penna di Biró consiste in un tubicino
(tubulo), contenente in un apposito serbatoio l’inchiostro, e in una punta, con una sferetta metallica
atta a scrivere (sphaerula, ad scribendum apta). L’inchiostro scorre dal tubicino alla punta e bagna
la sferetta, che traccia il segno sul foglio. Gli italiani hanno chiamato questa penna, dal nome del
suo inventore, biro (noi la possiamo chiamare anche graphium Biroeanum). L’inventore ungherese,
che nel 1940 emigrò nell’America Meridionale, scrisse anche libri, dipinse quadri e infine studiò il
modo di trattare l’uranio arricchito.
Con graphium sphaerale è indicata la penna a sfera, sphaerula è la sferetta contenuta nella
punta, che sparge l’inchiostro (atramentum), graphium Biroeanum è la versione latina della biro.
Presentiamo ora altri articoli che riguardano particolari imprese sportive.
ORIBATES HELVETIUS PERBREVI TEMPORE MONTEM ALBUM ASCENDIT INDEQUE DESCENDIT
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, p.207)
Iacobus Berlie, iuvenis Helvetius, oribates validissimus, ut die XXIX mensis Iulii est nuntiatum, principatum in
Montis Albi (Monte Bianco, Mont Blanc) ascensu (cuius cacumen est in altitudine quattuor milium et octingentorum
septem metrorum positum) simulque descensu est assecutus. Uterque enim inter se conexus hoc montanum efficiebat
certamen.
Ex oppido Campo Munito (Chamonix) summo mane profectus, Helvetius tam celeriter est ad Montis Albi verticem
enisus, ubi miles eius adventum notavit, ac deinde ad oppidum illud remeavit ut tempore quinque horarum, triginta
septem minutorum, quinquaginta secundorum perarduum iter conficeret et sic aemulum, Petrum Cusin, Sabaudum, qui
ei instabat, tribus minutis et quattuor secundis superaret.
Quamquam in glaciem lubricam ceciderat ac bis nervi eius tenti erant in cruribus, tamen Iacobus Bernie victor
evasit.
Il testo dà notizia di una straordinaria impresa alpinistica, compiuta dallo scalatore svizzero
(oribates Helvetius) Jacques Berlie (o Bernie) e annunciata il 29 luglio 1988, ossia l’ascensione del
Monte Bianco (alto 4807 metri) e l’immediata discesa, compiute nel tempo record di cinque ore,
trentasette minuti e cinquanta secondi. Berlie ha iniziato la sua straordinaria impresa all’alba,
partendo da Chamonix (ex oppido Campo Munito) e facendovi ritorno, dopo, appunto, essere
asceso e disceso dal Monte Bianco, nel tempo di cinque ore e mezza (vincendo così il suo rivale,
Pierre Cusin, con un tempo inferiore di tre minuti e quattro secondi). Una caduta sul ghiaccio e i
crampi alle gambe non hanno impedito a Berlie di ottenere questo grande risultato. 39
Notevole, nell’articolo, è il neologismo oribates per “scalatore” o “alpinista”: è formato dal
prefisso ori- (derivato dal sostantivo gr. ορ
̉́ ος, “monte”) e dal suffisso -bates (dal verbo gr. βαιν
́ ω,
“andare, camminare”).
STEPHANUS PEYRON, TABULA VELIFERA (SURF) USUS, AD AXEM SEPTENTRIONALEM PERVENIT
(dal Diarium Latinum, Moderator et sponsor: Carolus Egger, Sedes in Urbe Vaticana, Mensibus: Octobri-NovembriDecembri, Anno MCMLXXXVIII, suppl. a “Latinitas”, n.3, 1988, pp.207-208)
39
Per la verità non abbiamo trovato riferimenti in Internet all’impresa compiuta da questo alpinista.
152
Mense Augusto hic vulgatus est nuntius: Stephanus Peyron, vir Gallus, arduis ludicris corporis exercitationibus
assuetus, tabula velifera per tres hebdomadas vehens, inter glaciales montes vagantes (iceberg) et procellas furentes,
ad polum magneticum septentrionalem feliciter pervenit.
Postquam die XXX mensis Iulii in sinu Canadiensi, Resolute appellato, difficillimum iter iniit, mille quingenta
chiliometra in vasta solitudine boreali confecit, saepius glacie detinebatur ac concutiebatur procellis, quarum velocitas
centum chiliometrorum in unius horae spatio erat. Nihilominus locum petitum vir audentissimus atque fortissimus
attigit: praeclarum facinus sane dignum historia!
L’articolo annuncia l’eccezionale impresa del francese Stéphane Peyron, che, navigando per
tre settimane su una tavola da surf, è riuscito a giungere sino al Polo Nord (magnetico). Partito il
30 luglio 1988 dall’isola di Resolute, in Canada, ha percorso millecinquecento chilometri in un
mare solcato da iceberg e da venti che soffiavano a cento chilometri all’ora. Ciononostante è
arrivato alla meta e ha compiuto una storica impresa.
Notevole è la versione latina di surf, tabula velifera, composta con un termine come velifer,
aggettivo usato dai poeti latini (ad esempio, Properzio 3,9,35).
Aggiungiamo a questi testi anche un interessante dialogo, apparso nel 1966 sul periodico “Vita
Latina” e tratto dalla vita quotidiana, di cui forniamo una nostra versione.
DE BIROTA REPARANDA
(dalla rubrica Quotidianae Vitae Colloquia, in “Vita Latina”, anno MCMXVI, Mense Dicembri, n.29, p.67)
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Dum urbem Vincentius autobirota petit, juxta viam Henricum animadvertit. Is birotam suam quam ad arborem
applicaverat attente considerabat. Tum Vincentius constitit, et ad amicum accedens:
Quid hic, inquit, facis?
Id nonne vides ? Anterioris rotae gumen perforatum est. Quare involucrum et tubulum detraxi, ut foraminis
locum reperirem. Quem tamen nec post horae quadrantem reperire potui.
At cur non involucrum prius examinasti quam a tubulo separares ?
Quid autem in eo, qui rugosus et luto maculatus est, videre poteram ?
Fortasse clavum quo gumen peforatum est. Videamus.
(Nec mora : clavi caput mox inventum est. Tum Vincentio:)
Gratias tibi dico, Vincenti! – ait Henricus.
Noli tamen maturius gaudere. Etenim, quoniam insipienter tubulum ab involucro detraxisti, foraminis locum
etiam nunc ignoramus.
Me ad res mechanicas minus idoneum esse fateor. Quid faciendum?
Ad villam istam eamus. Villici certe nobis vas cum aqua commodabunt ut immerso tubulo per exeuntis aeris
bullas foraminis locum detegamus. Tunc nihil aliud faciendum erit nisi ut ipso in loco guminis particulam
conglutinemus.
COME SI RIPARA LA BICICLETTA
–
Mentre Vincenzo andava in città con la sua moto, scorse vicino alla strada Enrico. Egli osservava
attentamente la sua bicicletta appoggiata a un albero. Allora Vincenzo si fermò e, avvicinandosi all’amico, disse:
– Che fai?
– Non lo vedi? La gomma anteriore è bucata. Ho tolto il copertone e la camera d’aria per trovare il foro, ma
non ci sono riuscito neppure dopo un’ora.
– Ma perché non hai guardato il copertone prima di togliere la camera d’aria?
– E che ci potevo vedere, se è pieno di grinze e sporco di fango?
– Forse il chiodo che ha forato la gomma. Vediamo.
(Subito si trova la testa del chiodo. Allora Enrico dice a Vincenzo:)
– Grazie, Vincenzo!
– Non essere contento troppo presto. È stata una sciocchezza togliere la camera d’aria dal copertone, non
sappiamo ancora dov’è esattamente il foro.
– Ammetto che non mi intendo molto di meccanica. Che bisogna fare?
– Andiamo a questa casa vicina. I contadini certamente ci presteranno un recipiente con dell’acqua: ci
immergeremo la camera d’aria e, badando a dove escono le bolle d’aria, troveremo il foro. Allora non
dovremo fare nient’altro che incollare sul punto del foro una toppa di gomma.
153
I neologismi impiegati nel dialogo sono: autobirota (la motocicletta), birota (la bicicletta),
gumen (n. gumen, guminis, la “gomma” della ruota), 40 tubulum (la camera d’aria), involucrum (il
copertone della ruota), res mechanicae (la meccanica), particula (lett. “particella”, ossia la toppa
di gomma da usare per la riparazione del foro), 41 conglutinare particulam (incollare la toppa di
gomma).
In questi ultimi anni v’è stato l’ampliamento del fenomeno dei notiziari (ephemerides) in latino
su Internet. Redatti oggi da latinisti presenti in moltissimi Paesi del mondo, provvedono ad
annunciare tempestivamente, nella lingua di Roma, gli eventi più importanti che accadono nel
mondo. Il brano seguente, ad esempio, riporta il giuramento del neopresidente americano Barack
Obama e i suoi primi atti da capo del governo.
BARACUS OBAMA PRAESIDENS
(dalla rubrica Ephemeris, nel sito Latinitas viva, testo accessibile all’indirizzo: www.alcuinus.net/ephemeris/ )
“Ego Baracus Hussein Obama sollemniter iuro, me officio praesidentis Civitatum Unitarum fideliter functurum
esse. Quoquo modo potero, legem supremam Civitatum Unitarum servabo protegam defendam.” His verbis dictis,
Baracus Obama novus praesidens USAe factus est, manu dextera attingens eadem Biblia sacra, quibus olim Abraham
Lincoln usus erat. Immani multitudine presente, die XX mensis Januarii ius iurandum Washingtoniae pronuntiatum est.
Posthac praesidens orationem habuit, qua USAe conditorum fidem et maiorum labores commemorans populum
Americanum exhortatus est, ut ex hodiernis difficultatibus resurgat. “Dum patriae nostrae dignitatem confirmamus,
novimus nos eandem dignitatem non certe et definite adeptos esse sed labore comparavisse. Numquam iter nostrum
compendiarium neu minimis rebus contentum fuit neu aptum infirmis animis, qui vitae operosae commoda anteponerent
et divitiarum famaeque voluptates mallent. Sed a periclitantibus et operosis hominibus exstruendo aptis, interdum
praeclaris plerumque obscuris, lustrata est diuturna et ardua semita ad prosperitatem et libertatem.” Totum diem
perduraverunt celebrationes, cui Baracus cum muliere Michaëla duabusque filiabus interfuit. Vesperi coniuges decem
celebrationibus saltatoriis adfuere.
Mercuri die praesidens prima consilia cepit: iudicia in reos Guantanami detentos intermisit et cum ducibus
nationum orientis medii telephonio collocutus est, id est cum Palaestinorum et Aegyptiorum praesidentibus, cum
Israelis ministro primario et cum Jordanorum rege. Quid enim in regionibus illis futurum sit, ante omnia Baraco cordi
est.
Scripsit Herimannus Novocomensis – 21/01/2009
Il testo contiene la versione latina del giuramento pronunciato da Barack Obama a Washington
il 20 gennaio 2009, al momento del suo insediamento: “Io Barack Hussein Obama, giuro
solennemente che adempirò con lealtà ai doveri di Presidente degli Stati Uniti e col massimo
dell’impegno preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti”. Dopo aver
pronunciato queste parole, Barack Obama è diventato il nuovo presidente degli Stati Uniti,
ponendo la mano destra sulla stessa Bibbia che usò Abraham Lincoln. Alla presenza di una enorme
folla, il giuramento è stato pronunciato a Washington il 20 gennaio. Quindi il presidente ha tenuto
il suo discorso, ricordando la fedeltà dei fondatori agli Stati Uniti e l’opera dei padri della patria, e
ha esortato gli americani a risollevarsi dalle difficoltà del momento. “Nel riaffermare la grandezza
della nostra patria, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai raggiunta una volta per sempre,
ma è stata ottenuta con l’impegno. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie né si è
fermato a piccole mete. Non è mai stato un cammino per animi incerti, per quelli che prescelgono il
divertimento al lavoro e preferiscono i piaceri della ricchezza e della fama. Ma sono stati quelli che
hanno saputo rischiare, quelli che si sono impegnati, quelli che hanno costruito, che talvolta sono
diventati famosi e più spesso sono rimasti oscuri, coloro che hanno percorso il lungo e difficile
cammino verso la prosperità e la libertà.” Le cerimonie, a cui hanno preso parte Barack, sua
moglie Michaela e le due figlie, sono durate tutta la giornata. La sera i coniugi hanno partecipato a
40
Nel dizionario Mir – Calvano, Nuovo vocabolario della lingua latina, cit., “gomma” corrisponde a gummi (n.
indecl.), a p.409. Vale la pena di osservare che “gomma” in ted. è Gummi, n. o m.: forse vi è stato un qualche influsso
nella creazione del corrispondente termine latino?
41
Osserviamo che l’it. particola (dal lat.particula) indica l’ostia sacra, che ha forma tonda, come la toppa per la ruota.
Forse anche qui vi sarà stato un influsso semantico dell’italiano (o, più facilmente, del latino ecclesiastico) sul termine
particula, usato con quella accezione nel latino moderno?
154
dieci feste da ballo. Il mercoledì il presidente ha preso le sue prime decisioni: ha bloccato i
processi contro i detenuti di Guantanamo e ha avuto colloqui telefonici con i leader del Medio
Oriente, ossia con i presidenti della Palestina e d’Egitto, con il primo ministro israeliano e con il re
di Giordania. I futuro di quella regione preoccupa Obama prima di tutto.
Da notare, per quanto riguarda le nuove formazioni, telephonium, che indica il telefono
̃ ε , “lontano”, e φωνή, “voce”: lett. “apparecchio per la trasmissione della
(dall’avverbio gr. τηλ
voce a distanza”), e l’uso della desinenza genitivale per la sigla USA, sostantivizzata (novus
praesidens USAe).
Un’ultima, ma non meno importante, opportunità per la pratica della lingua latina moderna, a
livello professionale, è data dai tribunali eccesiastici e in specie dal Tribunale Apostolico della
Sacra Rota, sito a Piazza della Cancelleria a Roma, al quale si rivolgono, in seconda o ultima
istanza, tutti coloro che desiderano ottenere l’annullamento ab origine del matrimonio cattolico,
per tutti gli effetti civili e religiosi.42 Per tutti i documenti relativi al procedimento, le difese degli
avvocati, i decreti e le sentenze del tribunale, è prescritto l’uso della lingua latina. La lettura delle
sentenze emesse dai giudici ecclesiastici rotali è molto interessante, soprattutto (per chi non è
esperto di diritto canonico e di diritto romano) nella prima parte, che si chiama facti adumbratio e
riassume i fatti che hanno portato al giudizio e alla decisione del giudice rotale (le altre due parti
sono quella In iure, che contiene tutte le norme e i principi del diritto canonico e romano, nonché i
documenti del magistero della Chiesa, a cui i giudici hanno inteso richiamarsi, e quella In facto,
che esamina le circostanze del caso giudicato, al fine di acclarare la pretesa nullità del vincolo
matrimoniale). Sono davvero brani di Latinum vivens, che riflettono difficili, a volte drammatiche
vicende coniugali, casi di vita vissuta e specchio della realtà del nostro tempo. Prendiamo, come
esempio, una sentenza del Tribunale della Sacra Romana Rota, emessa nel 1984, della quale
trascriviamo la sola prima parte, la facti adumbratio.
DECISIO DIEI 24 IANUARII 1984
(da Apostolicum Rotae Romanae Tribunal, Decisiones seu sententiae, volumen LXXVI, Libreria Editrice Vaticana,
Roma 1989, pp.44-45)
1. – Aelius Iacobus, in causa actor, cum mense novembri 1970 in viduitate cum semestri filiolo relictus esset, ut
calorem familiarem ac matrem amissam infanti reddere posset, novas nuptias inire statuit. Sequens igitur bene
momentum, ea de re nuntium matrimoniale in quadam ephemeride foras edidit. Reapse brevi tempore epistulam recepit
a Maria Aloisia (Marisa), parte conventa, declamante se in animo habere eum conoscere matrimonii ineundi gratia.
Tunc Aelius Patavium se contulit mulierem visum, quae cum parentibus ac fratribus suis illic versabatur.
Cum vero Maria Aloisia, id temporis agens vigesimum annum, Aelium revera delectaverit, haud mirandum quod ex
hoc occursu conversatio sponsalis orta est, subsequentibus sostentata salutationibus et frequenti epistularum
commercio.
Eo modo sponsi comune propositum assecuti sunt dum nuptias, die 1 maii 1972 in ecclesia paroeciali, intra fines
dioeceseos Patavinae, rite celebraverunt.
2. – Vita communis, etsi ortu filii ricreata, progrediente tempore deterior facta est tum propter sat frequentes morbi
comitialis accessus in uxore, tum propter incuriam vitae familiaris ex parte viri.
Quare, instante uxore, anno 1979 ad separationem perventum est, quam Tribunal Civile Taurinense die 11 iulii
1980 ratam habuit.
Interea vir libello diei 23 iunii 1980 matrimonium suum nullitatis accusavit penes Tribunal Ecclesiasticum
Pedemontanum ob errorem qualitatis redundantem in errorem personae.
Tribunal primae instantiae, ratione domicilii partis conventae competens, admisso libello ac processu legitime
peracto, die 29 octobris 1981 edixit non constare de matrimonii nullitate ex adducto nullitatis capite erroris qualitatis
redundantis in errorem personae, adstante rationabili dubio de exsistentia erroris in actore circa statum gravem
epilepsiae partis conventae.
Actore appellante, causa delata est ad Nostrum Forum.
Nunc igitur Nobis respondendum est ad dubium, die 27 maii 1982 legitime concordatum, id est: An constet de
matrimonii nullitate, in casu.
42
Rimandiamo per l’organizzazione e le competenze dei tribunali eccesiastici a Francesco Finocchiaro, Il matrimonio
nel diritto canonico, Il Mulino, Bologna 1989, pp.119-125.
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Questi i fatti che hanno portato alla causa e alla decisione dei giudici della Sacra Rota. Elio
Jacopo, la parte attrice (ossia la parte che prese l’iniziativa della causa), nel novembre 1970 era
rimasto vedovo con un figlio di appena sei mesi. Per poter ridare al fanciullo una famiglia e
l’affetto materno, decise di sposarsi di nuovo. Pubblicò perciò un annuncio matrimoniale su un
settimanale. In breve tempo ricevette una lettera da parte di Maria Luisa (Marisa), la parte
convenuta (ossia la parte citata in giudizio dall’attore), che affermava l’intenzione di conoscere
Elio a scopo di matrimonio. Allora Elio andò a Padova per conoscere la donna, che abitava in
quella città con i genitori e i fratelli. Elio trovò Maria Luisa, che allora aveva vent’anni, gradevole,
e dall’incontro nacque il fidanzamento, consolidato da frequenti incontri e scambi di
corrispondenza. I due perciò convolarono alle nozze il I maggio 1972 nella chiesa parrocchiale di
Padova. La vita coniugale, benché rallegrata dalla nascita di un figlio, col passare del tempo
divenne alquanto difficile sia per i frequenti attacchi di “morbo comiziale” (epilessia) nella moglie
sia per l’incuria della famiglia da parte del marito. Perciò, su istanza della moglie, nel 1979 si
giunse al divorzio, sancito dal Tribunale Civile di Torino in data 11 luglio 1980. Nel frattempo
l’uomo, con un esposto del 23 giugno 1980, accusò il suo matrimonio di nullità presso il Tribunale
Ecclesiastico del Piemonte per errore sulla qualità ridondante in errore sulla persona (ob errorem
qualitatis redundantem in errorem personae). 43 Il tribunale di prima istanza, competente in ragione
del domicilio della parte convenuta, avendo accolto l’esposto e svolto il processo secondo la legge,
il 29 ottobre 1981 sentenziò che non constava la nullità del matrimonio secondo l’addotto capo di
nullità (caput nullitatis) per errore sulla qualità ridondante nell’errore sulla persona, stante un
ragionevole dubbio sull’esistenza dell’errore nell’attore circa lo stato grave di epilessia della parte
convenuta. Su appello dell’attore, la causa è stata deferita al “Nostro Foro” (ossia al Tribunale
Apostolico della Sacra Rota). 44 Ora i giudici del Tribunale Rotale devono rispondere al dubbio,
concordato secondo la legge il 27 maggio 1982, ossia: Se consti la nullità del matrimonio, nel caso
(An constet de matrimonii nullitate, in casu). Alla conclusione del processo i giudici, dopo aver
acquisito anche le testimonianze dei familiari di entrambi gli ex coniugi, hanno respinto l’istanza di
nullità, dichiarando non sussistente il presupposto dell’error qualitatis redundans in errorem
personae. 45
Al termine di questo nostro lavoro, vorremmo esporre due considerazioni conclusive.
La prima riguarda un giudizio sul latino moderno. Di fronte alla querelle, ancora in
discussione, se si tratti di una lingua naturaliter latina o di un ibrido artefatto, vorremmo
avanzare un modesto suggerimento. Considerare, cioè, questa lingua latina come una
sorta di latino “ucronico” (prendiamo a prestito il termine dal moderno concetto di
“ucronia”, ossia della storia “fatta con i se…”, che ha generato un nutrito filone di
saggistica e narrativa). 46 Il latino moderno potrebbe essere definito latino “ucronico”,
ossia la lingua latina che avrebbero probabilmente parlato gli abitanti dell’impero
romano, se per ipotesi si fossero avverate queste due condizioni impossibili:
43
Secondo il can. 1097 § 1 c.i.c. l’errore sulla qualità che ridonda sulla identità della persona è rilevante e, quale vizio
del consenso, rende nullo il matrimonio, soltanto se tale qualità sia stata determinante per indurre al consenso quello dei
due coniugi che afferma l’esistenza dell’errore. In altre parole, il coniuge che afferma di aver prestato il consenso per
errore deve essere stato indotto a consentire al matrimonio proprio supponendo nella persona che ha sposato l’esistenza
di quella stessa qualità, mancando la quale, invece, non l’avrebbe sposata. Sull’error qualitatis Francesco Finocchiaro,
Il matrimonio nel diritto canonico, cit., pp.84-86.
44
Al nostro Foro, perché si esprimono i giudici rotali (Auditores) che hanno emesso la sentenza, ossia Anton
Stankiewicz, Mario Giannecchini e Emilio Colagiovanni.
45
A proposito delle sentenze della Sacra Rota, va ricordato il giudizio negativo di Pasolini, che però leggeva queste
sentenze da una prospettiva fortemente ideologica, condannandone anche il latino usato, con una certa critica forse un
po’ pregiudiziale (Pier Paolo Pasolini, Marzo 1974. Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, in
Scritti corsari, Garzanti, Milano 1977, rist., pp.40-45). L’epoca, però, era quella della contestazione e degli scontri tra
laici e cattolici su questioni sociali molto importanti, come il divorzio e l’aborto.
46 Sull’ucronia rimandiamo al nostro lavoro Gli orizzonti dell’ucronia, in “Miscellanea di Saggi e
Ricerche”, n.4, Liceo Classico “Orazio”, Roma 2008, pp.49-103.
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•
•
la persistenza dell’impero romano come entità politica fino ai nostri giorni e quindi
dell’utilizzazione del latino come lingua madre dalla comunità di popoli che
formava l’orbis Romanus;
l’arresto dell’evoluzione linguistica del latino al tempo della fine della repubblica
romana (I secolo a.C., l’età “aurea” della letteratura latina, quella di Cesare e di
Augusto).
Questo latino “ucronico” non ci appare essere una lingua artificiosa, perché si fonda sul
medesimo impianto morfosintattico, che era quello della lingua di Cesare e Cicerone, Virgilio e
Orazio. Artificiosi potrebbero essere, piuttosto, i neologismi usati per significare concetti e
invenzioni moderne, ma essi si fondano tutti su etimologie greche e latine. D’altra parte, se le
invenzioni moderne, come le armi da fuoco o l’automobile, fossero state realizzate per avventura in
Roma antica, chi può affermare che i nostri antenati non avrebbero usato, per designarle, quei
medesimi neologismi, come manuballista e autocinetum, creati dai moderni studiosi oggi?
La seconda e ultima considerazione che facciamo è di carattere didattico: il docente
del ginnasio potrebbe presentare agli alunni testi scritti in latino moderno, articoli di
giornale tratti dal Diarium Latinum, traduzioni in latino di classici moderni, come il Pinoculus
Latinus di Ugo Enrico Paoli (Le Monnier, Firenze 1962) o la traduzione del cap.VI di Alice
attraverso lo specchio di Lewis Carroll di Eugène de Veauce, 47 nel quale appare il
divertente personaggio di Humpty-Dumpty (tradotto con Gibbosus Crustosus) o, ancora,
le sentenze della Sacra Rota (la parte della facti adumbratio, non particolarmente difficile
per l’intelligenza degli studenti del ginnasio). Con ciò susciterebbe certamente, come è
capitato a chi scrive, se non l’entusiasmo almeno la curiosità della classe, stupita
dell’inaspettato e ai suoi occhi, antitradizionale, uso del latino. 48 Gli studenti
riceverebbero l’idea di una lingua viva o almeno rivitalizzata, serbante intatte le sue
possibilità di comunicazione e, anzi, in continua espansione nel lessico, stanti i continui
progressi tecnologici. Quanti neologismi latini (rigorosamente latini o grecolatini) gli
studenti potrebbero esercitarsi a creare, ovviamente con la guida dell’insegnante, per
esprimere, ad esempio, le operazioni e i componenti di un computer, compiendo
utilissime operazioni etimologiche e sottraendosi per una volta (sia detto senza polemica)
alla schiavitù dell’inglese? Inoltre, non è da escludere che una lettura di testi in latino
moderno, praticata nel ginnasio, possa essere utile quale propedeutica a una proficua
lettura e comprensione dei classici al liceo.
Certamente va considerato che il latino moderno è, oggi, ancora troppo lontano dal
concetto di lingua, quale è stato formulato, ad esempio, dal linguista Tullio De Mauro. 49
Sono ancora molto lontani, e probabilmente non verranno mai, i tempi in cui il latino
moderno possa essere padroneggiato da masse di parlanti o possa avere lo status di
lingua internazionale dell’intellettualità. Però, anche se alcuni illustri studiosi lo ritengono
47 Ludovicus Carroll, Trans Speculum et quae Alicia ibi invenerit, opus ex anglico in Latinum
sermonem ab Eugenio De Velcia conversum. Textus includit duo carmina ab Huberto D. Watson
olim conversa et edita (in “Vita Latina”, n.29, Mense Decembri, 1966, pp.52-57).
48
Ossia non associato alla lettura dei classici solitamente previsti dai programmi. Ma v’è da dire che testi scolastici per
il biennio, come l’antologia di autori latini Nostra latinità di Emidio Diletti (Casa editrice D’Anna, Messina-Firenze
1989) presentano in una apposita sezione testi di latino moderno dei secoli XIX e XX, compresi anche giochi
enigmistici (pp.494-550).
49 “Un insieme di forme e di regole che vivono nel tempo, in un certo tempo, per una massa
parlante, per una particolare, data, circoscritta massa parlante, con le sue abitudini (…), entro cui
ci sono anche gli addestramenti al senso delle parole di quella data lingua”, in Carlo Bernardini –
Tullio De Mauro, Contare e raccontare.Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma-Bari 2003, pp.130131.
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una lingua “contro natura” (o ritengono il latino una lingua morta tout court), 50
nondimeno gli attribuiscono una funzione di utilità, e può anche essere divertente sul
piano didattico (il che non è poco). 51 E se fosse associato alle altre lingue ufficiali
dell’Unione Europea, avrebbe certamente la possibilità di conseguire una assai ampia
diffusione, anche con una benefica ricaduta sull’insegnamento scolastico.
Ci sembra essere questo il pensiero di un grande studioso come Alfonso Traina, allorché dichiara
il latino lingua morta, sempre più morta sul piano della comunicazione, quantunque viva come
spontaneo veicolo dell’esperienza soggettiva (Alfonso Traina, Io e il latino, in Di fronte ai classici.A
colloquio con i greci e i latini, cit., pp.259-263).
50
Antonio La Penna, Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999, p.13. Il La Penna svolge le sue
considerazioni richiamando l’episodio del romanzo di Peyrefitte, citato alla nota 6.
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