INDENNITÁ DI FINE RAPPORTO NEL CONTRATTO DI AGENZIA

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INDENNITÁ DI FINE RAPPORTO NEL CONTRATTO DI AGENZIA
INDENNITÁ DI FINE RAPPORTO NEL CONTRATTO DI AGENZIA
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La corte di cassazione ha di recente confermato il suo orientamento in tema di indennità di fine rapporto
nell’ambito del contratto di agenzia. La relativa disciplina è contenuta nell’art. 1751 c.c., nonché negli AEC
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del 2002, quanto al settore dell’industria, e del 2009 , quanto al settore del commercio.
Il rapporto tra le due fonti è stato foriero di interpretazioni contrastanti in Giurisprudenza da quando
l’ordinamento italiano ha dato attuazione alla Direttiva comunitaria (86/653/CEE) -di seguito “la Direttiva”-,
relativa al coordinamento dei diritti degli stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti,
attraverso il D.lgs. n. 303 del 1991 e il D.lgs. n. 65 del 1999.
Se infatti, prima dell’intervento modificatore, tra le due fonti, legale e pattizia, non vi erano difficoltà di
coordinamento, prevedendo entrambe la sussistenza del diritto all’indennità in ogni ipotesi di scioglimento
del contratto e rimandando la fonte legale proprio alla contrattazione collettiva per ciò che concerneva le
modalità di calcolo dell’indennità in discorso, il necessario adattamento dell’art. 1751 c.c. a quando previsto
dagli artt. 17, 18 e 19 della Direttiva ha creato una profonda spaccatura tra le due discipline.
La Direttiva (art. 17, 2° comma) ha infatti introdotto una nuova visione meritocratica dell’indennità da
attribuire all’agente a seguito dello scioglimento del contratto, la quale non deve riconoscersi a prescindere,
ma solo laddove siano dimostrabili due condizioni: (i) che l’agente abbia procurato nuovi clienti al
preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con clienti esistenti e il preponente abbia ancora
sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; (ii) che il pagamento di tale indennità sia equo,
tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che
risultano dagli affari con tali clienti.
L’art. 18 della Direttiva ha inoltre previsto tre ipotesi in cui l’indennità non è dovuta, ossia: (i) in caso di
risoluzione per inadempienza imputabile all’agente; (ii) in caso di recesso dell’agente, sempre che non sia
giustificato da circostanze attribuibili al preponente o che obiettivamente gli impediscano la prosecuzione
dell’attività, per età, infermità o malattia; (iii) in caso di cessione da parte dello stesso agente a terzo dei diritti
ed obblighi ad esso appartenenti in virtù del contratto di agenzia.
Infine l’art. 19 ha sancito l’inderogabilità degli artt. 17 e 18 “a detrimento dell’agente”.
All’interno del nostro ordinamento è stata data attuazione alla Direttiva per mezzo del D.lgs. n. 303 del 1991
il quale ha modificato l’art. 1751 c.c. in modo solo apparentemente uguale alla direttiva stessa.
Ha difatti utilizzato le stesse formule letterali, eliminato il richiamo alla contrattazione collettiva per le modalità
di calcolo ed inserito le tre ipotesi in cui l’indennità non è dovuta nonché la previsione di inderogabilità in
peius; ha tuttavia impostato le due condizioni necessarie per la sussistenza in capo all’agente del diritto
all’indennità come tra loro alternative invece che cumulative.
A detto errore, del quale si era servita la Giurisprudenza per continuare ad applicare la disciplina pattizia,
potendo prescindere dall’aspetto meritocratico, ha provveduto il D.lgs. n. 65 del 1999 il quale ha uniformato
la previsione contenuta nell’art. 1751 c.c. a quella prevista dalla Direttiva stabilendo che il diritto all’indennità
sussista solo nel caso in cui siano riscontrabili entrambi i requisiti, tanto quello della permanenza in capo al
preponente dei vantaggi procurati dall’attività dell’agente, quanto quello dell’equità dell’attribuzione.
Gli AEC successivi hanno cercato di aggirare il contrasto prevedendo, in aggiunta alle due indennità già
contemplate dai precedenti accordi, quella di risoluzione e quella suppletiva di clientela, una indennità di tipo
meritocratico, da riconoscersi solo agli agenti che si siano distinti per la loro attitudine nel promuovere affari
adducendo obiettivi vantaggi all’attività del preponente.
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Cass. 21 febbraio 2014, n. 4202.
Aggiornato il 13 luglio 2010.
In ogni caso la Giurisprudenza si trovava costantemente di fronte alla scelta relativa alla disciplina da
applicare, con il vincolo rappresentato dalla l’inderogabilità in peius del disposto contenuto nell’art. 1751 c.c.
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L’orientamento maggioritario riteneva che la concessa possibilità di deroga migliorativa delle previsioni
legali imponesse un confronto globale, da effettuarsi ex ante, tra le due opzioni, legale e pattizia. Confronto
che non poteva che condurre alla preferenza della disciplina pattizia, dal momento che essa garantiva in
ogni caso una indennità minima a tutti gli agenti, indipendentemente dall’andamento della loro attività
lavorativa.
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A tale orientamento se ne contrapponeva un altro , minoritario, secondo cui il confronto doveva invece
essere operato valutando il singolo caso concreto di scioglimento del contratto ex post, ossia al momento
della cessazione del rapporto, poiché solo in tale momento diveniva effettivamente possibile verificare la
sussistenza dei due presupposti previste dall’art. 1751, con conseguente applicazione di quest’ultima.
D'altronde, secondo questo orientamento, il riferimento all’equità doveva essere inteso non solo come
condizione per la spettanza dell’indennità, ma anche come criterio per la sua determinazione, con la
necessità di esaminare tutte le circostanze del caso, ciò che si rende possibile solo con una valutazione
successiva.
Questa divisione giurisprudenziale indusse la Corte di Cassazione a proporre domanda di pronuncia
pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE, ai sensi dell’art. 234 TCE, attraverso l’ordinanza n. 20410/04,
con la quale venne richiesto un chiarimento riguardo alla corretta interpretazione degli artt. 17 e 19 della
Direttiva, nonché alla possibilità per un accordo o contratto collettivo di prevedere un’indennità dovuta
all’agente a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 17, 2° comma, e quantificabile
secondo criteri diversi da quelli desumibili dalla direttiva, ossia sulla base di percentuali fisse in relazione alle
provvigioni percepite nel corso del rapporto.
La Corte di Giustizia, con la sentenza n. 465/06, ha ribadito la natura imperativa delle disposizioni in
discorso e che «l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, di tale
direttiva, non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata
secondo criteri diversi da quelli fissati da quest’ultima disposizione a meno che non sia provato che
l’applicazione di tale accordo garantisca, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a
quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione». Gli stati membri godono invece del loro
«potere discrezionale quanto alla scelta delle modalità di calcolo dell’indennità», considerato che la Direttiva
non contiene indicazioni dettagliate sul punto, se non il generico riferimento all’equità.
Successivamente all’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia, la decisioni della Corte di Cassazione si
sono pressoché uniformate all’interpretazione data registrando un’inversione rispetto al precedente
orientamento maggioritario.
È pacifico quindi che si debba assicurare il miglior trattamento di fine rapporto all’agente, ma un raffronto tra
le due discipline effettuato ex ante condurrebbe sempre all’esclusione dell’applicabilità del contratto
collettivo, dal momento che l’indennità calcolata sulla percentuale dei compensi ricevuti dall’agente sarebbe
nella quasi totalità dei casi inferiore rispetto a quella massima prevista dalla direttiva e, comunque, inferiore
a quella che avrebbe potuto stabilire in concreto il giudice non attenendosi ai criteri fissati dall’AEC.
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Sulla base delle ragioni esposte, secondo l’ormai costante orientamento della Giurisprudenza , è necessario
che il confronto tra la disciplina legale e quella pattizia venga effettuato con riferimento al caso concreto,
ossia ex post, con la conseguenza che, qualora sussistano i due requisiti richiesti dall’art. 1751 c.c.,
l’incremento del volume di affari sviluppato dall’agente e l’equità dell’attribuzione, esso dovrà essere
senz’altro applicato.
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Cass. 6 agosto 2002 n. 11791; Cass. 30 agosto 2000, n. 11402.
Cass. 29 luglio 2002, n. 11189.
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Da ultimo proprio Cass. 21 febbraio 2014, n. 4202, nonché i precedenti Cass. 1 agosto 2013, n. 18413; Cass. 3 marzo
2011, n. 5130; Cass. 23 giugno 2010, n. 15203; Cass. 1 giugno 2009 n. 12724; Cass. 22 settembre 2008, n. 23996;
Cass. 19 febbraio 2008, n. 4056; Cass. 16 gennaio 2008, n. 687; Cass. 9 ottobre 2007, n. 21088; Cass. 24 luglio 2007,
n. 16347; Cass. 23 aprile 2007, n. 9538; Cass. 12 marzo 2007, n. 5690; Cass. 3 ottobre 2006, nn. 21301 e 21309.
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La stessa Giurisprudenza ha inoltre affermato il seguente principio di diritto per quanto concerne la
quantificazione dell’indennità in esame: ove risultino provate le condizioni di cui all’art. 1751, 1° comma, c.c.
il giudice è tenuto a verificare se, nei limiti posti dal 3° comma, l’indennità calcolata sulla base dei criteri posti
dall’AEC sia equa e compensativa del particolare merito dimostrato, tenuto conto di tutte le circostanze del
caso ed in particolare delle provvigioni che l’agente perde, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza
necessaria per ricondurla a equità.
Agli accordi collettivi viene in questo modo riconosciuto un ruolo sussidiario, applicati solamente al fine di
garantire un minimum di indennità a quegli agenti che non soddisfino i presupposti di cui all’art. 1751 c.c., in
quanto solo in tal caso possono considerarsi di maggior favore per l’agente.
Dott.ssa Lavinia Vincenzi