Salto nel vuoto

Transcript

Salto nel vuoto
SALTO NEL VUOTO
di
Carlo Luciani
Nome Autore
Titolo Libro
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
1
Al di sotto di quelle piccole nuvole bianche che nel cielo tropicale riscaldato dal focoso sole di mezzogiorno
lottano invano per non dissolversi, al di sotto di quei raggi bollenti che illuminano e riscaldano mari azzurri e
spiagge dorate, al di sotto di quegli albatros che eleganti volteggiano nella calda aria, talvolta tuffandosi
nell’acqua cristallina per risalirne trattenendo col becco un succulento bottino che si dibatte nell’estremo
tentativo di sfuggire al suo destino di preda, o talvolta atterrando sul bagnasciuga colmo di bagnanti che
“distrattamente” dimenticano tozzi di pane o altro, proprio lì, a qualche metro di distanza, sorge un bar che,
data l’ora, si sta velocemente riempiendo di gambe che sorreggono pance desiderose di cibo.
Piccolo, quadrato, di legno scuro, dal profumo che lo circonda è facile intuire la presenza di una cucina, e un
naso attento potrebbe riconoscere pasta col pesce.
Una decina di tavolini stanno sistemati orizzontalmente al bancone, dietro il quale una signora dalla
carnagione scura, senza ombra di dubbio autoctona, prende le ordinazioni su fogli bianchi che poi impila in
un chiodo sul muro.
E sul fianco, sul tavolo più vicino al banco, due uomini discutono.
Uno è biondo, capelli lunghi, i vestiti, bianchi la sera prima e ora macchiati e insabbiati, tradiscono un’allegra
nottata.
Dimostra sui quarant’anni e la sua pelle è abbronzata, scura dal sole, tipica degli uomini di mare. Ma
l’abbigliamento, in particolare la camicia bianca aperta sul biondo petto villoso, tradisce un certo gusto tipico
non di chi solca i mari ma piuttosto le piste da ballo dei numerosi locali della costa.
Ettore Tartini, questo il suo nome, gesticolava animatamente, come del resto gli accadeva sempre; un
atteggiamento che tradiva chiaramente la sua nazionalità. Ma un paio di occhi osservatori e due orecchie
ascoltatrici avrebbero potuto intuire la sua provenienza anche dal tono di voce abbastanza alto e da quei
capelli biondi che, sebbene radi in cima alla testa, erano stati lasciati crescere lunghi e ricci fino alle spalle,
per raccoglierli poi in un codino di dubbio gusto.
Da qualche giorno, forse in un eccesso di maturità o in un tentativo di dimostrarla, aveva deciso di lasciarsi
crescere i baffi, e ora una leggera peluria bionda prosperava tra il labbro superiore e le narici.
Una grossa e luccicante collana d’oro gli cadeva sul petto, appesantita da un ciondolo raffigurante un cerchio
e una freccia, il simbolo della mascolinità.
Fino a una decina d’anni prima si sarebbe vestito così solo per carnevale. Ma da qualche tempo sentiva di
dover dare una scossa alla sua vita, uscire dal torpore nel quale era precipitato. Così non aveva trovato altra
soluzione che quell’abbigliamento da grezzo tamarro, era convinto che la grossezza della collana e degli
anelli, che numerosi sfoggiava alle dita, gli dessero un’aria molto più rispettabile dei suoi vecchi, dimessi abiti
che gli ricordavano il passato, ormai perduto per sempre.
E proprio gli anelli della mano destra, grossi come noci, spezzarono il silenzio che si era formato fra i due
uomini quando Ettore afferrò il bicchiere dal tavolo, facendolo tintinnare.
- Questo rum è squisito – disse al suo interlocutore – fa parte della mia riserva personale, me lo procura un
contadino che aiutai quando mi stabilii qui a Blanco Paraiso. Davvero non ne vuole assaggiare?
L’uomo dinanzi a lui rifiutò con un gentile ma deciso gesto della mano.
- Non sono abituato ai superalcolici – spiegò – tanto meno a mezzogiorno e con questo caldo.
Ettore rise di gusto.
- Questa è buona! Il rum è la migliore medicina dei Caraibi! Un paio di bicchieri di questo e tutti i mali, fisici
e non, svaniscono.
In effetti, pur essendo solo mezzogiorno, quel giorno Ettore era già brillo. Lo si poteva desumere, come del
resto aveva fatto il suo ospite, dai gesti talvolta rallentati, talvolta troppo veloci, dalla posizione che a poco a
poco assumeva sulla sedia, abbandonandosi fino ad arrivare col mento sul tavolo. Allora era costretto a
sollevarsi per poi, pian piano, ricominciare a scendere.
- Almeno una birra – insisté. Poi: - Rosa, porta una birra all’amico, per piacere – urlò alla donna che stava
al banco.
- Lasci, vado io – disse l’uomo alzandosi – la signora è indaffarata.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Ettore lo guardò coprire quei cinque passi che lo separavano dal bancone. Nonostante la stazza, arrivava
senza dubbio a cento chili, ben distribuiti, però.
Un’andatura decisa e dinoccolata non dimostrava i suoi cinquant’anni, la pelle del viso invece tradiva più di
qualche segno di vecchiaia, sembrava quasi fosse stato rifatto.
Il suo abbigliamento aveva turbato Ettore, quando, qualche ora prima, in spiaggia, se l’era trovato davanti.
Un gessato scuro, decisamente inadatto per quelle latitudini, lo rendeva impeccabile ai suoi occhi appena
aperti alla luce dopo una notte di festa e bagordi.
Lo aveva svegliato, questo signore, chiedendogli in italiano se serviva una mano.
La sensazione che provò, a prima vista, fu di disagio, e non sapeva ancora spiegarsi il perché. Forse perché
gli sembrava di averlo già visto da qualche parte, quel signore, o forse perché gli aveva parlato in italiano.
Ma un fortissimo mal di testa gli aveva impedito di proseguire nei suoi ragionamenti.
Ora che lo poteva osservare con un po’ di tranquillità e lucidità in più gli ricordava il tipico riccastro in cerca
delle ultime avventure che in Italia sarebbero costate troppo.
Si erano conosciuti in spiaggia qualche minuto prima.
Ettore era reduce da una festa in spiaggia e lì aveva dormito, sdraiato su una duna. Aveva bevuto troppo e
non era stato in grado di trascinarsi fino a casa. Sembrava un alcolizzato, quella mattina, ma lui si definiva
festaiolo e quel posto, Blanco Paraiso, gli era piaciuto proprio per l’aria di festa che aveva respirato fin dal
primo giorno in cui vi mise piede.
- Serve aiuto? – gli aveva domandato, mentre cercava di svegliarsi, quel signore.
Era contento ci fosse qualcuno ad aiutarlo, non si sentiva per niente in forma. Lo aiutò ad alzarsi e insieme
andarono al “Tamarindo”, il bar di Ettore, a far colazione.
Ettore che, ancora infastidito dalla luminosa e tagliente luce delle dieci, aveva avuto una strana sensazione
di presagio, una vaga inquietudine lo aveva percorso mentre, fianco a fianco, arrivavano al bar.
Così, nonostante l’ora e la festa della sera prima, decise di cominciare la giornata con due bicchieri di rum, o
moriva o resuscitava.
La colazione dei campioni – esclamò scuotendo violentemente la testa con gli occhi chiusi e
spalancando poi la bocca una volta che il liquido si era sparso nel suo stomaco vuoto – alla salute signor …
- Landi – rispose l’altro – Pietro Landi.
- Piacere Ettore – disse tendendo la mano.
- Bello, questo posto, è suo? – domandò l’altro con noncuranza.
L’ho aperto tre anni fa, fu un’occasione. Era il mio sogno, un bar in riva al mare dove cucinare italiano.
La fortuna mi ha aiutato.
- E’ raro sentir parlare di fortuna – sentenziò il Landi – perlomeno in Italia.
- Da che città?
- Milano, ma ho abitato anche a Torino e a Roma. Diciamo che non mi piace fermarmi.
- Avevo notato l’accento torinese, sono originario del Piemonte. Io invece mi sono fermato qui – proseguì
Ettore con gli occhi fissi nel vuoto e l’espressione improvvisamente pensierosa – doveva essere il paradiso,
come dice il nome stesso, ma si è rivelato un qualunque luogo del mondo, solo con un clima caldo. Ciò non
toglie che qui sto benissimo.
Poi calò il silenzio. Ettore rimase con gli occhi fissi sul pavimento mentre il Landi lo studiava, pensando a
quanto fosse ridotto male per trovarsi in quello stato disastrato a quell’ora.
Improvvisamente Ettore sobbalzò. Guardò l’ospite e annunciò:
- E’ ora di pranzo vediamo cos’ha cucinato Rosa, è una cuoca fantastica, le mani più delicate dei Caraibi.
Adoro queste capacità!
Si alzò ed entrò nel bar. Quando ne uscì, raggiante per il menu, scoprì che l’altro se n’era andato.
“In bagno” – rifletté poi, le sigarette e l’accendino del suo ospite erano ancora sul tavolo.
Camminò lungo il bancone e fece un cenno a un ragazzo con i dreadlocks che stava fissando le funi
reggenti il telone che forniva l’ombra ai clienti del bar. Appena il ragazzo lo vide si diresse verso di lui e si
scambiarono qualche parola. Poi Ettore lo congedò con una pacca sulla spalla.
Girandosi incrociò il suo ospite che, tornando dal bagno, aveva evidentemente assistito alla scena.
- Lui è il tuttofare – spiegò Ettore – si chiama Jim. È l’asso della manutenzione. C’è tanta brava gente da
queste parti – continuò. Quando sono arrivato, tre anni fa, qui era il deserto, c’era solo un piccolo villaggio –
concluse sedendosi nuovamente al tavolo e servendosi, visto il vuoto nel bicchiere.
Finì la bottiglia.
Poi si voltò notando due ragazze sulla spiaggia, urlò una amichevole battuta e una delle due rise,
salutandolo con la mano.
- Anche le ragazze sono splendide, non solo il clima – sentenziò.
- Come mai ha scelto questo posto?
Ettore lo guardò e scoppiò in una risata ubriaca.
- E me lo domanda? – continuando a ridere e ad ammiccare nei confronti delle ragazze.
Ma notò che l’altro, nonostante gli occhiali da sole, non era riuscito a nascondere un moto di stizza alla presa
in giro.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Non volevo risultare offensivo, mi scusi, è che qui … vede … insomma, io sono arrivato qui da una
situazione difficile, ho vissuto i momenti più belli della mia vita per poi provare quelli più amari e disgustosi.
Eppure sono innamorato della gentilezza e cortesia di questo luogo e di questa gente. In più c’è una
promessa, un’importante promessa. Ed Ettore Tartini le promesse le mantiene – concluse enfaticamente,
mettendosi la mano sinistra sul petto, accorgendosi solo dopo qualche istante di essersi confuso.
- Non sono affari miei, ma mi sembra ci stia andando giù forte con la bibita.
- Non ci faccia caso, adesso mangiamo e tutto passa.
Poi guardò il Landi e notò:
- Ma sa che lei ha un qualcosa che, come dire, ispira fiducia? Voglio dire, quelle sensazioni a pelle, quelle
che subito, dentro di noi, ci dicono se potersi fidare o no. Capisce cosa intendo? Non so se mi sono spiegato
bene.
Capisco bene – rispose l’altro sorridendo – sono contento di questo. Vede, nella mia vita ho avuto
raramente dei nemici, dev’essere proprio per questo motivo.
- Ma lei che ci fa qui?
- Beh, vacanza ovviamente – rispose sorridendo e allo stesso tempo pensando a quanto fosse ubriaco.
- Vacanza vacanza o … per, diciamo così, sport?
- Non capisco.
- Sì, sport estremi, da fare orizzontalmente con un partner – aggiunse Ettore con un lascivo sorriso.
- Io non ho mai pagato una donna perché venisse con me – rispose rabbioso il Landi, poggiando i palmi
delle mani sul tavolo – e mai pagherò. Lei, piuttosto, mi sembra il classico tipo di affascinatore di donne facili.
Ettore notò la permalosità, incassò e cambiò discorso:
- Le piace il rombo ai ferri? Oggi la cucina propone il re dell’oceano. Anche perché, a dire la verità, non c’è
altro, il mio bar funziona così, un paio di piatti ma fatti bene, da leccarsi i baffi.
- Accetto – rispose il Landi, lasciando che la rabbia sbollisse.
- Oggi non cucino io ma il pesce sarà squisito lo stesso, si fidi.
- Se lo cucinerà la signora ne sono sicuro – rispose con galanteria il suo ospite. Poi continuò:
- Mi stava dicendo che lei è arrivato qui tre anni fa, come mai ha lasciato l’Italia?
- E chi le dice che ho lasciato l’Italia? – rispose pronto Ettore.
- Visto che lei è italiano immagino sia partito da lì.
- Già, e infatti ha ragione. È una storia lunga, comunque, molto lunga – finì, rabbuiandosi.
- Se vuole raccontarla io ho un sacco di tempo, non si preoccupi.
- E chi le dice che voglio raccontarla? Potrebbero anche essere affari miei – concluse Ettore scontroso.
- Lei ha la tipica espressione di chi vuole raccontare ma non ci riesce, pur sapendo che dopo si sentirebbe
decisamente meglio - rispose l’altro, imperturbabile sotto gli occhiali da sole.
Ettore lo fissò a lungo. Nel suo cervello annebbiato si alternavano miliardi di pensieri. Perché fidarsi? Chi è
costui?
In qualche secondo, si trovò a pensare al loro incontro, da dov’era uscito quello strano personaggio? E
perché quegli occhiali neri lo turbavano? Fin dal primo momento aveva avuto la sensazione di aver già
conosciuto una simile persona, ma non riusciva a inquadrare il momento e il luogo precisi. “Può anche darsi
che io lo scambi per qualcuno che gli somiglia, ogni tanto mi capita”. Ma nel profondo del suo animo
qualcosa gli faceva credere che non era così, era qualcos’altro che lui non riusciva a mettere a fuoco.
“Chissà”, si disse, “forse senza aperitivo sarei più lucido”. Ma sapeva di doversi fidare del suo intuito. Troppe
volte lo aveva salvato per poterlo mettere da parte ora. In quel momento odiava quella sensazione di “ricordo
non ricordo”, odiava non avere sotto controllo le cose.
- Vede, lei mi sta chiedendo uno sforzo fuori dal comune. Non ho mai raccontato a nessuno la mia
avventura, e sono sempre stato bene. Perché dovrei cambiare proprio oggi e proprio con lei? Chi è?
Non si deve preoccupare, era solo per fare due chiacchiere. Parlare fa sempre bene.
- Non ne sono così sicuro.
- Dipende dal tema della storia – buttò lì il Landi.
Ettore poggiò le mani sui braccioli della sedia, si sporse in avanti e disse:
- Io non ho nulla da nascondere, se è questo che vuole dire, e in ogni caso potrei anche decidere per il sì.
Sempre se lei ha tempo – aggiunse – come le ho detto è una storia lunga.
- Mi piacciono le storie lunghe, in più la sua sembra anche sordida, allettante.
- Senta, non mi faccia perdere l’ispirazione con le sue baggianate – sbottò Ettore.
Il Landi lo interruppe, infastidito più che altro dall’alito dell’altro, sfiatava a due centimetri dal suo viso:
- Lei è ubriaco, lasci perdere, so come siete fatti, prima i fumi dell’alcol vi rendono loquaci, poi vi passano e
l’indomani non ricordate nemmeno il viso del vostro ospite.
Fece per alzarsi ma Ettore, con una rapidità che stupì anche il Landi, lo afferrò per il polso, lo fissò con gli
occhi ridotti a due fessure e, a voce bassa, mormorò:
Io sarò ubriaco ma so quel che dico. E quello che mi è successo lo so solo io. Quindi decido io, a
prescindere da tutto e tutti, se aprirmi oppure no.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
La tensione al tavolo non era passata inosservata. Qualche astante li stava fissando, soprattutto la gente del
posto, notò il Landi. Che decise di scendere a miti consigli. Sebbene odiasse ogni momento di più Ettore, la
storia segreta lo affascinava, voleva conoscerla.
- D’accordo, mi lasci adesso – disse sedendosi nuovamente – sono tutto orecchi.
Mi ha messo il nervoso, ho bisogno di bere qualcosa – rispose Ettore alzandosi e dirigendosi verso il
banco.
Il Landi lo osservò, imponendosi di restare calmo. Quelli come Ettore li avrebbe rinchiusi tutti, dal primo
all’ultimo. Uno come lui gli aveva rovinato la vita. E ora andava a prendere ancora da bere. Strinse i pugni
sotto il tavolo. Ripensò alla splendida vita a cui era destinato, ricchezza, fascino, popolarità. Non aveva
potuto avere nulla di tutto questo, nulla. E tutto per colpa di un tipo come quello lì che, guardalo!, aggrappato
al banco salta da un ginocchio all’altro per potersi reggere in piedi. Chissà come ha fatto i soldi. Sicuramente
rubandoli, e ora è qui a goderseli senza aver fatto un cazzo nella vita. Esattamente quello che sarebbe
dovuto accadere a lui se qualcuno non si fosse messo di mezzo.
“Si è messo su il bar” – pensava osservando Ettore parlare con Rosa che annuiva – “ora fa i soldi, tromba e
si alcolizza. Gentaglia. Da spazzare via”.
Ma dovette concludere i suoi ragionamenti, il bellimbusto stava tornando, una bottiglia di rum piena in mano.
- Ne finiranno almeno due di queste, prima che la storia sia finita – disse Ettore col sorriso.
Sembrava aver recuperato il buon umore, osservò il suo ospite in silenzio. Poi cominciò:
- Non sono sicuro che lei mi stia simpatico, ciononostante sento il bisogno di raccontarle tutto, chissà, forse
il motivo sono i suoi occhiali da sole, mi inquietano. Ma la avverto, se inizio lei deve assolutamente restare
fino alla fine, questo me lo deve promettere.
Ci fu un momento di silenzio, l’unico tavolo silenzioso tra festosi scoppi di risa.
- Se è solo questo … d’accordo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
2
Ettore prese una sigaretta, la accese e soffiando il fumo come se dovesse iniziare un’importante lezione
all’università esordì:
- Era la sera del 21 gennaio 200., e io avevo 24 anni. Eravamo a casa del Peti, a Mondovì, sulle langhe
piemontesi. Peti era il soprannome, dovuto sia al suo cognome, Peticcioli, sia alla sua straordinaria capacità
di espellere aria malsana dal sedere. Bisognava sentire che roba, un portento della natura quanto a rumore.
Ma era dopo il momento più terribile, quando la puzza aggrediva tutti e lui cominciava a ridere beato. Ecco,
questo è l’istante in cui è cominciato tutto. Stavamo a casa sua, abitava con i suoi, suo padre era un
imprenditore che aveva molti affari, lì in Piemonte.
Il Peti era figlio unico, ma non per questo insopportabile. Era viziato, aveva tutte le possibilità del mondo,
talvolta faceva i capricci, ma è sempre stato una persona umile, pronta ad aiutare gli amici. E soprattutto era
sempre pronto ad aprire le porte di casa per una serata in compagnia.
Eravamo in quattro quella sera, il menu era Play Station e canne, fuori era freddo e noi combattevamo anche
così l’inverno.
Fatto sta che il Peti ne tirò una delle sue e dopo trenta secondi si scatenò l’inferno. Mi lanciai ad aprire le
finestre e rimasi con i gomiti sul davanzale a guardare la strada boccheggiando.
Nonostante fossero ricchi, i suoi non si erano mai costruiti una villetta come la maggior parte di loro fanno,
suo padre insisteva a voler vivere nella vecchia casa dov’era nato, in un quartiere popolare vicino al centro
città.
Era un piccolo agglomerato di casette anni sessanta, ognuna col suo ritaglio di giardino. La stanza dove ci
trovavamo dava sulla strada e lì mi affacciai.
Quella era una sera freddissima, ma l’aria gelida fu benefattrice verso il mio cervello imbottito di canne e
partite. Soprattutto verso i miei occhi e mi fece notare un movimento sulla strada.
Mi voltai e vidi una ragazza che camminava sul marciapiede a passo spedito. La guardai e non distolsi più lo
sguardo.
Era bellissima.
Ettore si fermò, lo sguardo perso indietro negli anni.
Ancora adesso gli piaceva rivolgere il pensiero a quel momento, quando la vide per la prima volta. E ogni
volta non riusciva a ricordare le fattezze di quel viso se non fugacemente, come sempre accade, aveva
notato, con i volti dei propri cari. Eppure il tuffo al cuore e allo stomaco che provava erano inequivocabili, era
tuttora innamorato.
Osservò il suo interlocutore, lo guardava, in attesa. Finì il bicchiere e se ne versò un altro. Poi continuò:
- Era vestita con un impermeabile nero, e nonostante il cappuccio alzato riuscii per un attimo a scorgerne il
volto, illuminato da un lampione. Quasi avessi i raggi x intuii i capelli neri e la pelle liscia e vellutata, il corpo
sinuoso nascosto da quel lungo pezzo di lana. La guardai passare davanti alla finestra, col capo chino per
proteggersi dal freddo.
Avrei voluto parlarle, fermarla, sapere come si chiamava, cosa faceva, io le avrei spiegato tutto di me.
Eppure non feci nulla.
Poi un grido nella stanza mi distolse dai miei pensieri e catturò anche l’attenzione della ragazza che si voltò.
Fu proprio in quel secondo in cui si incrociarono i nostri sguardi che capii che era già stato tutto scritto.
Non so se riesco a spiegarmi bene, quell’occhiata racchiudeva in sé più di mille parole. Quando lei si girò
verso la finestra ebbi un attimo di timore, quasi mi nascondevo.
Ma fortunatamente rimasi.
E lei mi vide.
Durò meno di un secondo eppure più di un’occhiata normale, capisce cosa intendo? Era come se fossimo
già d’accordo, il nostro amore era già iniziato. Ero sicuro che, come il mio, anche il suo cuore in quel
momento era in tumulto.
O forse me lo immaginavo io, in quell’istante lungo mezz’ora.
Poi, arrivata all’incrocio, lei girò l’angolo e la persi di vista.
La mia serata era finita. Quando tornò la normalità, dopo la scorreggia del Peti, gli domandai
immediatamente che fosse quella ragazza, se la conosceva. Cominciarono a prendermi in giro.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Non è passato nessuno, è la scorreggia che ti ha dato alla testa!
- Ma chi dici? – domandava il Peti, le canne gli creavano confusione.
- E’ passata adesso, è una ragazza bellissima, capelli neri, abita qui in giro, ha girato l’angolo.
- Boh, non lo so …
- In giro a quest’ora sarà stata la mamma del Peti – disse Germano, un compagno di facoltà del padrone di
casa – è la più economica da queste parti!
Peticcioli si girò furente, odiava che sua mamma fosse oggetto di scherno.
- Ti sbatto fuori dalla finestra, ma prima ti spezzo le dita e ti infilo una penna su per il culo, così la verifica di
domani potrai scriverla solo in un modo.
- Smettetela – mi interposi – voglio sapere chi è.
- Se la vedo col chiaro magari la riconosco.
- Io l’ho già riconosciuta, te l’ho detto – continuò Germano.
Un pugno gli arrivò sulla spalla, proprio sul nervo, che lo fece sedere e zittire. Era normale fra loro.
- Allora rimango qui finché non la rivedo – dissi.
- Sai che non c’è problema per me, basta che non mi rompi di notte e non ci provi con mia madre.
Rimanemmo lì un altro po’, a ridere e a farci la pasta di mezzanotte.
Quando tutti se ne andarono Peti si mise a fare la ninna canna.
- Forse ho capito di chi parli, abita qui da poco se è lei – disse – credo sia albanese o comunque dell’Est –
concluse.
- Era bellissima, cacchio, davvero bella. C’è stato un secondo in cui ci siamo guardati e allo stesso tempo
parlati.
- E cosa vi siete detti? – chiese sorridendo.
- Hai capito cosa intendo. Devo parlarle, devo conoscerla.
- Magari abita qui con due fratelli enormi, Milos e Boris, che ti fanno un culo così appena la tocchi, poi ti
tocca sposartela.
- Che imbecille che sei.
- Mai quanto te che rimani qui solo per la speranza di rivedere una tipa vista in pieno buio. Comunque non
c’è nessun problema se resti, anzi.
Ero seduto sul divano, mi sdraiai con la testa sul bracciolo e mi fermai a osservare il Peti. Per lui non c’era
mai nessun problema, era per questo che potevo definirlo uno dei miei migliori amici.
All’inizio della nostra amicizia pensavo che il suo modo di vedere il mondo fosse dovuto alla sua famiglia,
quando si hanno i soldi per forza non ci sono problemi. Poi mi resi conto che davvero lui non si faceva mai
turbare da nulla, aveva sempre una soluzione per tutto. L’ho sempre ritenuto una persona intelligente, con
un gran difetto però, la poca voglia di sbattersi per avere le cose, qui sì la famiglia l’aveva intaccato.
Ma forse ora è meglio se le descrivo la mia situazione.
Come le ho detto avevo 25 anni a quel tempo, e se il Peti studiava ancora all’università, io avevo mollato da
un paio d’anni.
Mi era sempre piaciuto viaggiare, cosicché facevo la stagione sulla costa ligure o toscana e con i soldi
guadagnati partivo per fare ritorno solo quando erano finiti.
A quell’epoca ero tornato da poco dal Cile e dal Perù. Abitavo coi miei , mi vedevano davvero poco, qualche
mese in primavera, ma mi sopportavano, erano dei grandi i miei vecchi. Poveretti, avevano dovuto
sopportare una disgrazia immensa, la perdita di mio fratello, più grande di me, qualche anno prima.
Ma questo argomento non c’entra con la nostra storia.
Per quanto mi riguardava, stavano arrivando i primi dubbi, mica posso fare questa vita per sempre, mi
dicevo. Ma nemmeno riuscivo a decidermi sul da farsi. Sono ancora giovane, pensavo, posso continuare
finché arriverà la grande occasione. Che però non arrivava, da qualche anno l’aspettavo invano. Sicché
cominciava a insinuarsi nella mia testa il dubbio che sarei dovuto uscire da solo da questa situazione.
Vede questo bar?
Ecco, su quel divano, a casa del Peti, pensavo proprio a questo, a quanto bello sarebbe stato aprire un bar
in riva al mare. E se l’avessimo aperto in due, magari io e il Peti, sarebbe stato formidabile. Ma un paio di
mesi addietro, quando gliene avevo parlato, la sua risposta era stata quella che mi aspettavo:
Bella idea, ma sei sicuro di voler andare dall’altra parte del mondo? Possiamo aprirlo qui, lo troviamo
dove vogliamo il posto.
Ero certo che non sarebbe mai partito.
Così restavo con la mia bella idea in testa, ma con il timore che da solo sarebbe stata davvero dura.
Soprattutto mi mancava il capitale iniziale. Diciamo che col Peticcioli questo sarebbe stato un problema in
meno, affrontare i problemi in due è più semplice, soprattutto se si hanno le spalle coperte.
Per cui fumammo e mi addormentai sul divano.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Quando mi svegliai erano le otto, Peti dormiva ancora, i suoi genitori erano usciti. Mi precipitai in strada e
andai al bar a bere un caffè nella speranza di vederla.
Inutilmente.
Quando il mio amico si svegliò disse che doveva studiare per un esame. Ma bastò uno sguardo per togliergli
la voglia, prendemmo le moto e andammo a disegnare traiettorie sinuose sulle collinose strade delle langhe.
Era una tipica, bella giornata di gennaio, fredda ma limpida, ideale per i bei paesaggi, almeno fino al calar
del sole.
Mi piaceva correre in moto, soprattutto attraverso quelle magnifiche colline. Non erano mezzi potenti, erano
due 125 da enduro, le avevamo comprate quando ancora andavamo a scuola, fin da allora preferivamo i bei
paesaggi alla velocità.
Conoscevamo una miriade di luoghi nascosti, quelle colline le giravamo ormai da dieci anni, sia a piedi che
in moto. Guidare mi donava tranquillità, quando il mio sedere poggiava in sella il cervello si rilassava, una
parte di esso pensava a correre sulla strada, l’altra volteggiava e faceva invece correre la fantasia. Pensavo
al mio futuro, a quello che avrei potuto fare con un po’ di soldi. Ma io non ero capace di risparmiare, appena
possedevo qualche euro lo spendevo con facilità disarmante, alcune sere tornavo a casa col portafogli
vuoto e non sapevo ricostruire la fuoriuscita di tutte le banconote che avevo portato con me.
Sicché la fiducia nelle mie capacità imprenditoriali era abbastanza bassa, capisce?
Nel pomeriggio ci fermammo in un bar a bere una birra.
- Allora Ettore, quest’estate fai la stagione? – mi chiese il Peti.
Come ogni anno, il prossimo viaggio sarà in Centro America. Dicono che con pochi soldi si vive da
nababbi per mesi.
- Non pensi che sarebbe ora di fermarti? Intendo dire, ti trovi un lavoro normale e ti stabilisci qui, sai cosa
potremmo creare insieme?
Lo guardai, era placidamente seduto con la birra davanti e il sorriso stampato sulle labbra. L’immagine della
beatitudine.
- Potessi essere tranquillo come te! Ma come fai? Non hai domande, dubbi, richieste sulla tua vita futura?
E perché dovrei? Sto per laurearmi e i miei mi hanno promesso una casa come regalo se riesco a
superare il 100.
- Fai schifo! – esclamai – ti “regalano” una casa? C’è gente che vive in affitto da una vita e tu ti ritroverai
con un tetto tutto tuo sopra la testa senza nemmeno raggiungere il massimo dei voti? Ma ti rendi conto della
tua fortuna? A maggior ragione dovresti prendere l’occasione e venire con me in un viaggio, scopriresti il
piacere di nuove sensazioni, di nuove lingue, la straordinaria bellezza dell’essere sempre in movimento, del
doversi continuamente adattare.
- Preferisco la normalità, Ettore, preferisco stabilirmi in un luogo che conosco, in cui posso muovermi con
sicurezza proprio perché so dove andare e dove no. Lo sai che sono così, l’unica cosa che mi dispiace
veramente è che io e te saremmo una coppia formidabile.
- E allora parti con me.
- Ho paura dell’ignoto, Ettore.
- E’ che per te è più comodo restare dove ci sono i tuoi.
- Non essere cattivo con me solo perché preferisco restare qui.
- Non ti sto giudicando. Mi fai un po’ incazzare perché rinunci a prescindere, non siamo mai stati in viaggio
insieme, non puoi giudicare una cosa se non l’hai mai provata.
- Ma so che ho paura, so che probabilmente rovinerei la vacanza anche a te con le mie lamentele e timori.
Andammo avanti così per un poco, ciascuno a cercare di convincere l’altro a fare qualcosa che non gli
andava. Era un gioco che facevamo spesso, fra noi.
Poi, successe l’impensabile.
Eravamo usciti per fumare una sigaretta, battevamo i denti dal freddo ma la voglia di nicotina ci rendeva
invulnerabili. Stavamo pensando che bisognava tornare, erano le quattro e il buio si stava avvicinando a
grandi passi.
Passò la corriera diretta a Torino e si fermò per smontare e poi raccogliere i passeggeri alla fermata davanti
al bar.
E in quel momento la vidi!
Era seduta negli ultimi posti, seminascosta da una di quelle tendine che tanto rompono le scatole quando
mentre si viaggia. Lei si stava svogliatamente guardando intorno e fu inevitabile che incrociassimo gli
sguardi. Stavolta la vidi molto meglio. Aveva i capelli neri, lisci, lunghi fino alle spalle. Ma ciò che colpiva
erano i suoi occhi, grandi, luminosi, espressivi. Restai imbambolato, il cuore che sembrava essere entrato in
una centrifuga. Resistemmo entrambi allo sguardo. Stavamo nuovamente parlando silenziosamente.
Ma l’autobus aveva finito il suo lavoro, chiuse cinicamente le porte su di noi e lo sbuffo della partenza fece
terminare quel magico momento.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Vado a pagare e partiamo – dissi al Peti, che stava tornando dal bagno – seguiamo quel pullman.
- Ma ne ho appena ordinate altre due – rispose indicando i bicchieri vuoti.
- Lasciale lì, c’è lei su quel pullman, l’ho vista. Seguiamola, magari riesco a parlarle.
Prendemmo le moto e ci mettemmo alle costole della corriera.
Dopo cinque minuti l’avevamo raggiunta.
Cominciai a suonare il clacson, magari lei incuriosita avrebbe guardato. Ma non fu così, l’unico risultato fu
che l’autista, infastidito dai suoni insistenti, cominciò a dare colpetti di freno per farci desistere. E io desistei,
ci accodammo fino al centro di Mondovì, dove finalmente lei scese.
Era bellissima!
Di una bellezza disarmante.
Non stava andando a casa, era la fermata del centro. Parcheggiammo le moto e continuammo a seguirla.
Lei non si era mai girata, non ci aveva ancora notato.
Mentre camminavamo sotto i portici della città mi chiedevo come tentare l’approcccio. Deve saper, caro
Landi, che io non sono mai stato bravo in queste cose, rompere il ghiaccio non è la mia specialità. Con una
bellezza del genere a maggior ragione. Se avessi sbagliato avrei potuto perderla per sempre.
Ma quando alzai lo sguardo era sparita.
- Dov’è finita? – chiesi al Peti.
- Non so, stavo guardando quel negozio di mutande.
- Cazzo, l’abbiamo persa, che imbecille che sono!
- Vedrai che la becchiamo, è sicuramente entrata in uno di questi negozi.
In effetti attorno a noi c’erano solo botteghe di abbigliamento, l’esca perfetta per una donna, pensai.
Ma mi sbagliavo di grosso!
Mentre con fare leggermente furtivo buttavamo l’occhio nei negozi alla sua ricerca sentii una voce dietro di
noi.
- Sono qui, inutile che cerchiate lì dentro.
Mi voltai di scatto e lei era lì.
Figura di merda, pensai.
Il Peti scoppiò a ridere come un matto. Io mi sentivo un cretino con lo stomaco contratto.
- Cercavate me, vero? Prima il clacson, adesso mi seguite. Che vi ho fatto?
Non era propriamente incazzata, ma risentita sì, decisamente.
- Chiedilo a lui – disse il Peti fra le risate – è lui il capo in questo momento.
Non sapevo che fare, la guardavo e non mi muovevo, le parole nel mio cervello erano in totale confusione, si
mescolavano e sapevo che se avessi parlato non sarei stato molto comprensibile.
Io … suonavo all’autobus perché ci facesse spazio – borbottai – e ora siamo in cerca di un paio di
mutande per me. – dissi guardando il negozio – Anzi per lui – conclusi accorgendomi della sola lingerie
femminile in vetrina.
Sembrò accennare un sorriso. Ma poi tornò l’espressione accigliata con cui ci aveva accolto. E con ragione.
- E’ vero, ti stavamo seguendo – ammisi – ma è tutta colpa mia. Il fatto è che quando si vede un’opera
d’arte si resta sbigottiti e si fanno cose strane per rivederla ancora. C’è gente che torna in continuazione a
Lourdes per rivedere la Gioconda.
Lei mi guardò con disgusto. Il Peti era scoppiato nuovamente in una grassa risata.
- Casomai è il Louvre – puntualizzò lui scompisciandosi.
Lei mi guardò come se fossi l’ultimo degli alcolizzati o il primo dei tossici.
- Credo che sarà meglio se ciascuno di noi va per la sua strada, vero? – propose lei.
No! Cioè, voglio dire, se hai da fare anche sì, altrimenti si potrebbe andare a bere qualcosa insieme,
oppure potrei mostrarti la fontana che ho restaurato in centro, oppure …
Ma il Peti mi prese per il braccio.
- E’ appena andata via, non te ne sei accorto?
Si stava allontanando. Presi il coraggio a due mani e la raggiunsi:
- Scusa, non mi sono comportato come un vero gentleman, ma posso avere almeno l’onore di conoscere il
tuo nome?
Mi osservò per qualche secondo, sempre senza l’ombra di un sorriso.
- Tamara – sospirò. E si allontanò.
Piacere, Ettore – le dissi di rimando, guardandola allontanarsi. Mi ricordo che notai le gambe un po’
storte, come quelle dei calciatori. Ma un sedere di tutto rispetto. Poi, però, fatto qualche passo si bloccò, si
voltò e aggiunse:
- Ettore è un nome che non mi piace, penso che questo dica tutto, vero?
Restai senza parole.
Mi aveva rifiutato, senza alcuna grazia. Persino il Peti era rimasto allibito.
- Ne ha carattere, vero? – fu il suo commento.
Io non dissi nulla, ero incazzato nero, stava montando la rabbia, mi sentivo sbeffeggiato, e senza alcun
motivo. Certo non c’eravamo comportati da signori, ma non ritenevo giusto questo nostro trattamento.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Finì che andammo a cenare a casa del Peti, chiamammo gli altri e facemmo nuovamente serata.
Ebbi problemi ad addormentarmi quella sera, non potevo fare a meno di pensare all’incontro di qualche ora
prima. Una cosa era certa, signor Landi, mi stavo innamorando, se già non era accaduto. E la cosa apriva
degli sconvolgimenti nella mia vita. Fino a quella sera avevo pensato che una donna, o una ragazza, ti
impediscono di essere libero, ti costringono a pensare per due. In quegli anni le mie relazioni non erano mai
durate più di un paio di mesi, non volevo, altrimenti non avrei più potuto fare la vita che mi piaceva, cioè
viaggiare. Ma ora le cose stavano sotto una luce diversa. Mi rendevo conto che tutto quello che avevo
pensato fino a quel momento si sgretolava, per Tamara era possibile che io cambiassi, quella ragazza mi
piaceva proprio. Aveva degli occhi affascinanti, freddi come il ghiaccio, ma incredibilmente accesi e vitali,
vedevo la passionalità nelle sue iridi. L’unica cosa che stonava in lei era la sua freddezza nei miei confronti.
Ero sicuro, da come c’eravamo guardati la prima volta, che ci fosse complicità tra noi. Ma forse mi stavo
immaginando tutto, il mio ottimismo stava probabilmente esagerando come spesso accade. O forse era
come diceva Peti, per qualche oscuro motivo non poteva mostrarsi gentile con me, qualcuno glielo impediva.
Questa motivazione mi piaceva già di più. Già, qualcuno le impediva di avere rapporti con me.
Come ultimo pensiero del giorno giurai a me stesso che avrei conosciuto Tamara e tutta la sua persona.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
3
Appena Ettore finì di parlare arrivò Rosa con un gran vassoio fumante.
- Eccolo qui, ci sono anche le patate.
- Sono sicuro che sarà squisito – disse il Landi, cortese.
Ettore stava in silenzio, sebbene avesse vuotato il suo mezzo bicchiere di rum aveva ancora la gola arsa dal
troppo parlare. E mentre Rosa sfilettava il pesce, Ettore teneva gli occhi fissi sul tavolino accanto, ma non
per guardarlo veramente, era distratto dai suoi stessi ricordi.
- Per il momento è una storia molto interessante – lo interruppe il suo ospite.
Senza conoscere l’inizio non potrebbe capire – rispose Ettore pensieroso – a tutto c’è un inizio, basta
trovarlo.
Quando c’è un inizio c’è anche una fine – sentenziò il Landi con un sorriso che non piacque molto a
Ettore.
Quel tipo cominciava a dargli seriamente sui nervi. Ma non poteva fare altro che continuare la sua storia.
“Dopo il pesce, però”, si disse.
Come si conviene quando il piatto è squisito, i due restarono in silenzio fino all’ultimo boccone. Poi Ettore
urlò a Rosa:
- Quando cucini così ti adoro!
La donna si limitò a guardarlo e a sorridere compiaciuta.
- E’ la sua compagna? – domandò il Landi.
Non ho più una compagna da tempo – rispose senza sorriso Ettore – ma ciò non toglie che le mie
soddisfazioni me le tolgo lo stesso.
- Qui le ragazze sono molto belle, non dico da togliere il fiato ma quasi.
- E non è ancora iniziata la stagione turistica, lì si se ne vedono delle belle, in tutti i sensi!
- La mia esperienza, però, insegna che le donne è meglio lasciarle perdere.
Sbaglia, la donna è un essere superiore, senza di lei per noi sarebbe finita, addio emozioni. Tutti ci
soffrono, anche l’uomo più potente del mondo. Sanno sempre sorprenderci, siamo noi che quando
cresciamo smettiamo di voler giocare.
- O forse è il contrario. Comunque io non sono mai stato fortunato con loro, per questo la sua storia mi sta
affascinando.
Già, la storia – disse Ettore scuotendosi dal torpore nel quale stava sprofondando accompagnato per
mano dal rombo che si trovava a lottare coi succhi gastrici del suo stomaco.
Prese un'altra sorsata dal bicchiere.
Il Landi lo osservò. Era quasi giunto alla fine della bottiglia. Sommata ai bicchieri precedenti significava che
quell’uomo aveva bevuto un litro di rum in mezza giornata. Ciò lo faceva ben sperare. Ora di sera sarebbe
crollato e lui sarebbe stato libero.
Poi Ettore lo distolse dalle riflessioni ricominciando il racconto.
Passarono alcuni giorni e arrivò febbraio. Tamara sembrava sparita, né io né tantomeno il Peti la
vedemmo più. Ormai ero in pianta stabile a casa sua, ma non serviva a nulla. Così mi misi il cuore in pace, si
dice che bisogna battere il ferro quando è caldo, ma io avevo paura di scottarmi. Come se non bastasse,
ogni qualvolta ripensavo al nostro incontro montava l’ira per come ci eravamo lasciati. Sicché stavo
cercando di dimenticarla.
Finché una notte la sognai, anzi, ci sognai. In un’isola, al caldo di una spiaggia tropicale, nuotavamo,
mangiavamo, ridevamo, ma non facevamo l’amore.
Forse era un segno, mi dissi la mattina, da sogno a segno cambia solo una vocale, è ora di conoscersi.
Così feci mente locale su quello che conoscevo di lei.
Non era molto.
Sapevo che si chiamava Tamara, che, dato l’accento, era straniera e che forse prendeva il pullman tutti i
giorni. Decisi di partire da lì.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Non sbagliai.
Un giorno inforcai la moto e andai al bar dove l’avevamo incrociata. Era metà febbraio e proprio durante quel
percorso mi accorsi che l’inverno era verso la fine. Le piante erano ancora spoglie, ma all’estremità dei rami
andavano formandosi quei piccoli proiettili che nel giro di un mese sarebbero diventati gemme.
Il cuore cominciava a riempirsi di ardore, la bella stagione significava vita anche per me, non solo per le
piante. Anche le giornate si erano allungate.
Quando arrivò il bus mi resi conto che era ancora chiaro, mentre venti giorni prima il sole era già tramontato.
E dentro il bus lei c’era. Stavolta non mi feci vedere. Appena il pullman ripartì mi misi all’inseguimento.
Quel giorno non scese in centro ma vicino a casa.
La seguii e finalmente scoprii dove abitava.
Era venerdì pomeriggio e l’intento era quello di invitarla il giorno dopo. Ma la tensione mi paralizzò e non
successe nulla, mi limitai a comportarmi come uno psicopatico e a scoprire il suo portone.
Mi sentivo un perfetto coglione.
Il fatto è che nella mia testa facevo mille sogni, avevo immaginato almeno quaranta modi per attaccare
bottone, ma al momento decisivo mi si erano istantaneamente cancellati, il cervello si era svuotato e
trasformato in un inutile ammasso di materia grigia.
Tornai direttamente a casa rimuginando se non fosse il caso di lasciar perdere, fra poco sarebbe cominciata
la stagione e cominciavo ad avere bisogno di soldi, le riserve stavano finendo.
Fortunatamente l’indomani avrei aiutato un amico che aveva una ditta di traslochi e qualcosa avrei
guadagnato.
Ancora non sapevo che la svolta era dietro l’angolo. Infatti quel pomeriggio di sabato la mia vita cambiò per
sempre.
Ci trovavamo, io, Marco e Denis, i titolari della ditta, appena fuori Mondovì, vicino alla zona commerciale e
dovevamo sbaraccare un appartamento che sembrava un reliquiario. Nei mobili erano stipati centinaia di
oggetti, appese ai muri decine di mensole cariche di statuine e scatole di tutti i tipi sembravano dover cadere
da un momento all’altro.
Impiegammo mezza giornata ad inscatolare, assieme alla proprietaria dell’appartamento, una donna di
sessant’anni anni appena rimasta orfana, quell’immane montagna di cianfrusaglie.
Ci spiegò che la madre collezionava da vent’anni qualsiasi oggetto di metallo che le passasse per le mani,
soprattutto scatole.
Una volta terminato cominciammo a far scendere i mobili, tramite una carrucola elettrica, dalla terrazza.
Erano sei piani di discesa.
Marco e Denis, i ragazzi che aiutavo, rimasero sulla terrazza ad assicurare i carichi sulla pedana di discesa,
io dovevo controllare proprio la discesa degli oggetti col telecomando, pulsante rosso stop, pulsante verde
salita e discesa. Il camion scoperto era parcheggiato proprio sotto l’argano cosicché tutto atterrasse senza
fatica. Non era difficile, sistemai tutti i mobili, la cucina e i letti.
Ma quando fu la volta degli scatoloni successe l’irreparabile, il destino, o la fortuna, o comunque si chiami,
decise di aiutarmi.
Così, mentre facevo scendere gli scatoloni, in tutto circa una trentina di secondi, mi guardai intorno.
E quando vidi Tamara che, in bicicletta, si dirigeva verso di noi, restai imbambolato a guardarla.
Lei girò la testa e mi vide. Mi ricordo che le sorrisi, le feci un cenno.
Lei mi guardò, poi alzò la mano e mi urlò qualcosa.
Io ebbi appena il tempo di gioire per quello che avevo equivocato come un saluto prima di venire travolto
dagli scatoloni che ormai, arrivati sul camion, si erano rovesciati, visto che la pedana si era inclinata su un
lato della testiera.
Avevo scordato di togliere il dito dal pulsante verde.
Sentii un fragore tremendo, poi un gran dolore alla testa, centinaia di scatolette e statuine di metallo finivano
prima su di me poi sull’asfalto.
Non mi feci praticamente nulla, ma il frastuono rese spettacolare la scena.
Appena dissepolto la prima cosa che vidi fu il volto di Tamara. Sorrideva, in fondo lo spettacolo doveva
essere stato divertente.
- Cosa mi tocca fare per farmi notare – dissi massaggiandomi la testa alla ricerca di qualche bernoccolo.
Le sparì immediatamente il sorriso.
- Mi sentivo meglio quando sorridevi – notai.
- Mi sembra che tu non ti sia fatto male – mi rispose – spero non sia colpa mia.
No, del tuo fascino, che però nascondi molto bene – azzardai alzandomi e tastando i punti che mi
dolevano.
Ma non sentii la sua risposta, erano arrivati gli altri due, avevano visto l’ultima parte della scena dalla
terrazza e stavano ancora ridendo.
Tamara fece per risalire in bici. La fermai.
- Solo un bicchiere d’acqua. Anche naturale va bene – proposi.
Lei mi guardò, soppesò la risposta qualche secondo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Va bene – rispose, lasciandomi stupefatto.
Ci sedemmo ad un tavolino del bar accanto, gli avventori mi guardavano divertiti.
- Sono diventato una celebrità oggi pomeriggio – scherzai.
- Io invece la brava infermiera – aggiunse Tamara – sicuro di non esserti fatto male?
- Ci vuole ben altro per fermare Ettore Tartini.
Mi era sempre piaciuto il mio nome per esteso, mi dava una sensazione di importanza.
- E’ il tuo nome? Che buffo.
Era la prima volta che qualcuno trattava così il mio nome. Mi seccai e mi venne in mente una risposta sul
suo, di nome, ma mi trattenni.
- Puoi dirlo che da voi Tamara è un nome da puttana.
Mi lasciò interdetto ancora una volta. Sapeva leggere nel pensiero! Glielo dissi.
- Talvolta non avete molta fantasia – fu la sua risposta – eppoi è più facile intuire i cattivi pensieri che quelli
belli.
- Difficile che possano venire brutti pensieri con te.
- Non credere.
- Invece credo.
- Io in nulla.
- Io nei sogni.
- Fanno solo male, servono solo a fuggire dalla realtà.
- Ma non sono nocivi per la salute.
- Per quella cerebrale sì.
Apprezzai la sua proprietà di linguaggio.
- Parli bene italiano. Prima mi hai fatto capire di essere straniera.
- L’inflessione rimane sempre, anche se studio e parlo la tua lingua da cinque anni.
- Dove l’hai imparata?
- A scuola, come tutti voi.
- Mi sa che però, al contrario di me, avevi bei voti.
Sorrise.
- Avevo bei voti. Ho finito l’anno scorso il liceo linguistico.
- Quanti anni hai?
- 21. Ho perso un anno.
- Sembri più grande.
- In certe situazioni bisogna crescere in fretta. Tu invece dimostri meno dei tuoi 25.
Mi sorprese. E dalla gustosa risata che si fece credo me lo si leggesse in faccia.
- Hai un buon amico – mi spiegò.
- Sei andata dal Peti?
- Ieri sera, dopo che mi avevi seguito. Ti vuole bene.
- E’ un caro amico. E così ieri ti sei accorta di me, ora mi sento ancora più coglione. E non mi hai detto
niente. Sei sorprendente.
- E tu uno sfaticato. I tuoi colleghi ti aspettano.
Avevo dimenticato il trasloco.
Non sono colleghi, non è il mio lavoro, li sto solo aiutando, le mie riserve aurifere stanno finendo. Mi
piacerebbe raccontartelo con calma. Magari stasera, se non hai da fare.
- Non sono sicura.
- Se mi lasci il tuo numero ti chiamo più tardi.
- No, ti cercherò io.
- Dopo la spesa?
Stavolta fu lei a guardarmi sorpresa.
- L’ho immaginato. Se tu mi cerchi io mi farò trovare.
- Non mi piacciono le cose facili.
- Allora mi nascondo.
- Ma nemmeno quelle troppo difficili.
- In ogni caso sono una persona troppo importante per passare inosservata.
Sorrise. Solo allora notai che quando sorrideva il suo volto cambiava completamente espressione, le
infossature le scavavano le guance e gli occhi, quei grandi occhi, si riducevano a due fessure anch’esse
sorridenti.
Non era luminoso, era sfavillante.
Ne sarei rimasto innamorato per sempre. Tanto più che era raro vederlo, in lei prevaleva sempre
un’espressione seria, talvolta proprio contratta.
- Ciao – mi salutò salendo sulla bici. Poi partì.
Non avevo più nulla da dire. Mi avrebbe cercato lei.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
E così fu.
Ma non quella sera stessa, che passai assieme al Peti.
Me la trovai, uscendo, davanti al portone di casa, il mattino seguente.
- Che significa? – le chiesi.
- Solo tu puoi seguire gli altri?
Non risposi. Ero bloccato. Avevo intenzione di andare a correre, ero vestito con pantaloni corti e felpa. Sa,
Landi, a quell’epoca non facevo sport, ma da bambino e da ragazzo avevo sempre praticato qualcosa sicché
sentivo il bisogno di tenermi in forma. Inoltre, con la vita sregolata che conducevo un po’ di attività fisica non
poteva nuocermi. In seguito avrei benedetto questi miei piccoli allenamenti artigianali, ma ci arriveremo a
tempo debito.
Così quella mattina non andai a correre. Andammo a far colazione poi, essendo una bella giornata, proposi
un giro in moto.
Accettò di buon grado.
Fu una giornata felice, spensierata, ormai si coglieva nell’aria la briosità della primavera in arrivo. Non ci
annoiammo mai, avevamo sempre la parola pronta. Ma anche i momenti di silenzio non tradivano quella
tensione facilmente avvertibile tra due persone quando il discorso cade ed entrambi non riescono a
raccoglierlo.
Parlammo molto di noi. Delle nostre volontà e delle nostre speranze. Eravamo nell’età in cui si riesce a
travolgere il mondo con l’esuberanza e la vitalità che infiammano i giovani cuori.
Aveva una gran forza d’animo.
Era partita dal suo paese, il Kosovo, sei anni prima, per raggiungere il padre, uno dei primi immigrati anni ’90
che dopo cinque anni e mille fatiche era riuscito ad ottenere un regolare permesso di soggiorno. In Italia
aveva frequentato le superiori ed ora era italiana a tutti gli effetti. Aveva rinunciato all’università per andare a
lavorare ed aiutare la sua famiglia a crescere altri due figli, lei era la più grande. Lavorava da quasi un anno,
mi disse, faceva la cuoca in una fattoria-agriturismo della zona.
Ettore si interruppe improvvisamente.
Invece il suo ospite, fino a quel momento comodo sulla sedia, si stava ora sollevando su di essa, con le mani
sui poggioli, per raddrizzare la schiena.
Una volta sistemato, Ettore continuò imperturbabile.
- Quando la incrociammo in corriera stava proprio tornando da lì. Quando glielo chiesi non mi disse se il
suo lavoro le piaceva, solo corrugò lievemente la fronte. Allora toccò a me raccontarle tutta la mia vita, a
grandi linee ovviamente, i viaggi, le idee, le speranze.
- Dev’essere meraviglioso viaggiare – mi disse.
- Solo vedendo e conoscendo posti nuovi si può apprezzare la moltitudine di sfaccettature di cui è ricco il
mondo – spiegai – notare come gli usi e i costumi dei popoli in fondo si somiglino tutti, magari in un luogo è
vietata una cosa permessa invece in un altro, ma le dinamiche sono sempre le stesse, e sotto ogni decisione
c’è sempre una motivazione. Logica. Ho imparato che quando ti viene data una spiegazione tortuosa e
illogica allora stanno cercando di fregarti. In ogni caso hai ragione tu, viaggiare è una cosa meravigliosa.
Mi chiese di raccontarle qualche avventura.
Mai prima, nella mia vita, mi era capitato di provare un piacere tanto grande nel narrare a qualcuno le mie
avventure, tanto che quando guardammo l’ora e ci accorgemmo che erano le sette ebbimo un sussulto. Sia
per lo stupore del tempo passato sia e soprattutto perché ci aspettavano venti km di colline col gelo di fine
febbraio.
La accompagnai a casa, davanti al portone eravamo intirizziti.
per sdrammatizzare le dissi che mi ricordava la piccola fiammiferaia.
- Con la differenza che io non ho nemmeno un fiammifero – obiettò.
Mi buttai.
- Posso provare a scaldarti io col mio cuore che arde di passione – azzardai ridendo, e sperando di non
aver precipitato le cose.
Lei si avvicinò fin quasi a sfiorarmi, il profumo della sua pelle penetrava nitido nelle mie narici.
- La passione è una gran cosa, non bisogna sprecarla quando dopo ce ne sarà maggior bisogno – e mi
diede un bacio sulla guancia. Ciao – continuò – a presto, spero.
Sparì dietro il portone, e con lei svanì il magico e interminabile momento di felicità che avevo vissuto quel
giorno.
A letto, più tardi, riflettei sulle sue parole, non capivo se erano un segnale positivo o negativo.
O neutro, peggio ancora.
Non riuscivo a togliermi la sua immagine dalla testa. Mi rendevo conto ogni secondo di più che Tamara mi
aveva stregato.
Passai in rassegna tutta la giornata, alla ricerca di conferme sulla positività della situazione, ma faticai a
trovarne, ogni episodio poteva essere letto sotto entrambi i punti di vista, positivo ma anche negativo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Vaffanculo, fu la risposta, devi dormire.
4
In quel momento Ettore e il Landi erano rimasti gli unici clienti del bar, i turisti con la pancia piena erano
tornati sul bagnasciuga ad arrostirsi.
Il Landi attendeva la continuazione della storia. Era impaziente e gli interessava sempre più.
Il Tartini si era scusato per andare in bagno.
“Con tutto il rum che ha in corpo”, pensava con disprezzo il Landi, “può incendiare il cesso”.
Non poteva crederci, nel giro di due ore si era scolato una bottiglia intera e una volta alzato dalla sedia non
aveva dato grossi segni di cedimento come invece ci si poteva attendere.
Ma la seconda gli avrebbe dato il colpo di grazia, ne era certo.
Ancora più certo ne fu quando lo vide uscire dal bagno, sorridente, beato e, infine, barcollante.
Ettore si diresse verso Jim tornato dalla pausa pranzo.
- Tutto a posto, senor Ettore.
- Vieni un secondo con me – lo chiamò dietro al bar – Miguelito è in giro?
- E’ andato alla spiaggia della Costina con gli altri ragazzi.
- Riesci a chiamarlo? Ho un lavoro per loro, più o meno verso le otto di stasera.
- Certo senor.
- Comincia a far troppo caldo, dai una mano a Rosa a caricare il ghiaccio.
- Il suo ospite si lamenta del caldo? – domandò con un sorriso sarcastico Jim.
- Diciamo che non gli sono molto simpatico, eppure devo raccontargli una storia.
- La sua storia, a quanto ho capito. A noi del villaggio non l’ha mai narrata.
- Non era il momento giusto, Jim, ogni cosa a suo tempo.
- Non ho nessuna intenzione di entrare in fatti personali, senor, ma oggi lei è diverso, si sta incupendo.
- Sto pensando, è diverso. Non ti preoccupare, questa giornata è un’ulteriore occasione per arricchire la
mia vita.
- Non la capisco, del resto è sempre difficile comprendere le sue decisioni.
- Resta qui in giro, per favore, avrò sicuramente bisogno di te oggi.
Tornò al tavolo con un succo ghiacciato per il suo ospite, che nel frattempo si sventolava con la carta delle
bevande e dei gelati.
- Scusi, ho dovuto sistemare un paio di faccende.
- Immagino che lei abbia molto lavoro, qui – disse il Landi con un sorriso ironico – molto da fare!
Ettore non rispose. Lo guardò negli occhi. Poteva leggere ciò che l’altro stava pensando.
E cioè quanto il Landi lo odiava! Era certo che, all’accenno delle faccende, lo avrebbe strangolato.
“Cosa ne sapeva quello lì dei problemi”, pensava con disprezzo il suo ospite.
L’unico suo problema era avere una bottiglia di riserva – continuava il Landi nellasua cieca rabbia – non
uscire di galera al più presto per evitare di rimanere ucciso o, peggio ancora, sverginato, non trovare un
lavoro dignitoso una volta uscito, non essere continuamente rifiutato dalle donne per l’aspetto grottesco. Se
solo avesse avuto i soldi che gli erano stati rubati se ne sarebbe comprata una diversa ogni sera. Non
avrebbe dovuto sopportare umiliazioni quotidiane, non si sarebbe trovato a dover lavorare in mezzo a
albanesi o marocchini, o peggio ancora, rumeni. E questo qui si era innamorato e stava male per una povera
kosovara. A stento tratteneva la rabbia, solo il pensiero della conclusione della storia gli dava la forza per
resistere.
Constatò quanto era cambiato negli anni; da giovane, prima che accadesse tutto, ad un tipo così gli aveva
già fatto saltare i denti da un pezzo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Ma Ettore ricominciò, col tono sognante di chi ricorda i bei momenti passati.
- Finalmente arrivò il venerdì seguente, non l’avevo vista per tutta la settimana. La aspettai al varco, sul
davanzale del Peti.
Non sembrava felice di vedermi. Era scossa. Come le avevo detto, eravamo al piano terra, così scavalcai e
uscii in strada. Lei attraversò e cambiò marciapiede. Non capivo, ma non volevo essere trattato ancora a
pesci in faccia, l’orgoglio me lo impediva.
La raggiunsi, le agguantai il braccio e la girai, forse con troppa veemenza.
- Lasciami, che cazzo vuoi? – mi aggredì.
Aveva le lacrime. Lasciai la presa.
- Se possibile aiutarti.
- No – decisa.
- A volte le donne piangono per niente – le dissi, irritato.
Mi arrivò uno schiaffo sulla guancia sinistra.
Uno schiaffo notevole.
Mi guardò con vero e proprio odio, poi riprese a camminare.
Continuai a seguirla, ci avvicinavamo al suo portone, non doveva entrare. Pensavo che la battuta potesse
trattenerla ma evidentemente mi sbagliavo.
Poi lei si girò:
- Vuoi lasciarmi in pace? Non ho voglia di parlare né di stare con nessuno. Lasciami.
Eppoi sto piangendo per niente – aggiunse piano.
- Volevo che reagissi, l’ho detto per quello. Forse per te io non sono nessuno, ma tu per me no.
- Mi devi dimenticare.
- Non ci penso proprio. Perché dimenticare i bei momenti?
- Perché faccio del male. Sono sicura di questo. È meglio per te se mi stai lontano, te l’assicuro.
- Io posso solo stare vicino a te, almeno finché non mi spieghi cosa sta succedendo.
- La felicità è effimera.
- Ma va presa al volo, se te la lasci scappare sarà solo un rimpianto in più in punto di morte.
- Non capisci, ho le mie idee, le mie esperienze, non sono stupida, il mio cervello è in grado di elaborarle.
- Io invece sono stupido e non capisco perché mi rifiuti in malo modo.
Ci fu un attimo di silenzio. Poi ripresi:
- Anzi, lo so, tu pensi che io voglia solo farmi una storia di una sera, tanto sei straniera. Poi me ne parto
per la stagione e chi s’è visto s’è visto. No, cara mia, voglio solo farti sorridere.
- Il sorriso l’ho perso anni fa.
- E anni dopo l’hai ritrovato. Ascoltami, se non ti lanci non raggiungi nulla.
- Ci vuole la volontà per lanciarsi.
- Oppure qualcuno che te la tiri fuori, questa volontà.
Mi avvicinai e le diedi un bacio sulle labbra. Fui velocissimo.
- La felicità è effimera solo quando la si guarda con gli occhi del presente – aggiunsi staccandomi da lei.
Feci per allontanarmi ma mi disse:
- Se mi aspetti, mi faccio una doccia e arrivo.
Era il 21 marzo, primo giorno di primavera del mitico 200..
Quel fine settimana i miei erano via e il sabato organizzai una serata delle nostre. Eravamo in quindici,
compresa Tamara. La sera prima era finita tra baci ed effusioni, ma senza sesso. Fu Tamara a deciderlo, ma
devo dire che nemmeno io intendevo finire a letto quella sera, anche se detta così sembra un po’ la storia
della volpe e dell’uva.
Ma quel sabato successe una cosa strana. Io, dopo aver cucinato, ero sempre vicino a lei, avevo perfino
rinunciato a un paio di partite, il Peti aveva portato la consolle per attaccarla al televisore dei miei.
Sembrava andare tutto per il meglio, sebben fossimo un poco a disagio, tutti ci guardavano con occhi curiosi,
chiedendosi se stavamo insieme oppure no.
Io non avrei saputo cosa rispondere, la nostra situazione era ingarbugliata tra un “voglio e non voglio”,
bisognava che le cose facessero il loro corso.
Ma quando Tiziano chiese se avevamo sentito la notizia della tipa rinchiusa per quasi tutta la vita dal padre,
che oltretutto ne aveva abusato tanto da avere due figliastri, Tamara si chiuse decisamente in sé stessa.
Tutti gli altri intervennero, Fabiana, la ragazza di Tiziano, era la più accesa, chiedeva, in casi come questi, la
pena di morte, “noi donne siamo sempre perseguitate, sia fisicamente che psicologicamente”, diceva da vera
femminista convinta.
- Beh – disse il Peti scherzando – quel tipo era fuori, però se una va in giro con la minigonna un po’ se la
cerca.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Quelli come te vanno evirati ai quattordici anni – continuò a inveire Fabiana, che quando si parlava di
diritti femminili non riusciva più a distinguere tra il serio e il faceto – la violenza sulle donne va perseguitata,
sempre e comunque. Il problema è vostro che non riuscite a tenere a bada l’uccello, quando vi diventa duro
vi arriva fino al cervello, disturbandolo.
La discussione andava avanti tra mille battute, eravamo tutti su di giri, ma io non la seguii con particolare
interesse.
Osservavo Tamara che, sull’angolo del divano, sembrava volersi allontanare da quei discorsi. Guardava tutti
quelli che parlavano, fissandoli con attenzione mentre parlavano.
- Mai una volta che una donna mi violenti – si sentì ad un certo punto.
- Non si scherza su queste cose – intervenne Sabrina – smettetela, state esagerando.
All’improvviso si intromise Tamara:
- Il vero guaio non è tanto la violenza in sé, quanto quello che rimane dopo, un uomo libero e una donna
prigioniera dei suoi fantasmi. Credo ci voglia molta forza d’animo per tornare ad una vita normale. In più,
ragazzi, una donna violentata è una donna in meno per voi, passa molto tempo prima che si esponga
nuovamente.
Calò il silenzio, per la prima volta nella serata Tamara aveva parlato. In un lampo capii perché la sera prima
era stata così decisa nel suo rifiuto. Quella ragazza nascondeva mille segreti ed esperienze, mi attirava
sempre di più anche per questo.
Chi fa una partita? – urlò il Peti rompendo così quel silenzio carico di significati – e tu, Ettore, fai una
canna.
Non riuscii più a togliermi la sensazione di disagio che mi permeava. Davvero era come pensavo, Tamara
aveva subito qualche violenza? Prima o poi l’avrei saputo.
- Ho scelto questo posto perché è caldo, e io odio il freddo – spiegò ettore al suo ospite.
Infatti quegli ultimi giorni di marzo passarono felici e spensierati, le giornate si allungavano sensibilmente e il
cielo si accendeva di un azzurro sempre più vivo, che cancellava il bianco opprimente dell’inverno. Sugli
alberi, negli arbusti, nei cespugli si potevano notare, sempre più numerose, le gemme pronte a sbocciare in
un’esplosione di colori, colori che accoglievano il risveglio dei cuori degli uomini e degli animali dopo il lungo
sonno invernale.
Quasi ogni giorno, se le condizioni atmosferiche lo consentivano, andavo a raggiungerla alla fattoria dove
lavorava e insieme facevamo ritorno in città. Mi parlava raramente delle sue giornate, pensavo che il suo
lavoro le fosse pesante. Scoprii circa un mese dopo cosa generava la sua inquietudine.
Era un sabato assolato ma non caldo, e con la moto eravamo sulle langhe. Ci trovavamo nei pressi del fiume
Tanaro, conoscevo qualche accesso e li feci a mia volta conoscere anche a Tamara.
Quel giorno mi spiegò molte cose di lei.
- Tesoro – mi disse – è ora che tu conosca la mia storia.
- Ti ascolto, sarà una storia bellissima.
- Nacqui in Kosovo e lì vissi fino a 15 anni. Mio padre venne qui da voi quando io ne avevo 10, la guerra
era appena finita e lui ne approfittò. Visti i risultati ebbe ragione. Abitava in un paese presso Milano e aveva
trovato un posto da muratore. Devi sapere che in Kosovo praticamente chiunque sa costruire una casa,
dopo anni di bombardamenti, amici e nemici, lo impari per forza se vuoi dare un futuro alla tua famiglia. Vissi
un anno a Milano, e fu terribile. Non riuscivo ad ambientarmi, erano i primi anni in cui la lega da quelle parti
faceva man bassa di voti e il clima attorno a noi “extracomunitari” cominciava a farsi pesante. A scuola mi
andò abbastanza bene, ma non perché fossi riconosciuta come persona capace, bensì come “figa”.
Piacere agli altri valeva più che studiare e ottenere bei voti e passare talvolta i compiti ai miei compagni.
Altri ragazzi stranieri non furono così fortunati, specialmente quelli di colore.
Ma mi rendevo conto che se i ragazzi italiani si comportavano in maniera strafottente con noi, la
responsabilità era delle loro famiglie che instillavano in loro la paura del diverso, accendendo così l’odio e la
poca stima nei nostri confronti. Quante volte mi sono sentita trattata da puttana.
Abbassò la testa, poi, passato quell’attimo di incertezza, riprese l’argomento.
- Quattro anni fa ci trasferimmo da queste parti e solo da sei mesi viviamo nel condominio attuale. Qui si
sta bene, è una realtà più piccola e siamo maggiormente a contatto con gli altri abitanti italiani, cosicché
possono rendersi conto di potersi fidare di noi. Però è pesante vivere dovendo rendere conto a tutti delle
proprie azioni, siamo consci del fatto che appena avviene un furto, o un delitto, noi stranieri siamo sempre i
primi sospettati.
In ogni caso, qui si sta decisamente meglio che a Milano.
- Ti credo, hai conosciuto me!
- Stupido! I guai sono cominciati con il lavoro in fattoria.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Mi ero reso conto che qualcosa laggiù non andava.
Qui Ettore bloccò il racconto. Improvvisamente il suo ospite si era alzato per dirigersi in bagno.
“Probabilmente si svuota per poter ascoltare meglio, la storia entra nel vivo”, pensò Ettore. Che cominciò a
riflettere sul Landi.
Quel tipo lo inquietava, non riusciva a entrarci in sintonia. Non che la cosa gli dispiacesse, solo non
comprendeva questo slancio di apertura nei suoi confronti, non comprendeva perché sentisse il bisogno di
raccontargli la storia della sua partenza dall’Italia. O forse lo sapeva ma ancora non voleva svelare la verità
nemmeno a sé stesso. Quel tipo era lontano anni luce dal suo modo di vedere il mondo, eppure gli si
confidava.
Sorrise. A un occhio attento non sfuggivano i particolari.
Chiamò Rosa.
- Preparami un’altra bottiglia per favore, prevedo tempi lunghi.
- Lo stesso di prima?
- Sempre quello, ho bisogno di restare lucido.
Rosa sorrise.
Lo conosceva da due anni, ma già gli si era affezionata abbastanza da capire che odiava le scocciature, che
l’”hombre hector” sapeva essere deciso ma detestava doverlo essere, che era un gran simpaticone ma
conservava sempre nel volto e negli occhi un’indelebile patina di malinconia. Le piaceva lavorare lì,
raramente c’era tensione. Anche la sera, quando gli animi scaldati da litri di alcol rischiavano di infiammarsi,
Ettore interveniva e aveva sempre una parola per tutti, era sempre pronta una bottiglia in più per stemperare
gli animi, credeva nel chiodo scaccia chiodo.
Da quando era arrivato lì a Blanco Paraiso, in quel lembo di spiaggia le cose erano cambiate notevolmente.
Era un piccolo paese a pochissimi km da La Tortuga, la capitale, praticamente ne era la periferia. I turisti
stavano in città, a Blanco Paraiso andavano solo a spiaggiarsi. Poi Ettore aprì il bar e le cose cambiarono, i
turisti cominciarono a fermarsi anche dopo il tramonto, nei paesi limitrofi cominciava si sparse la voce di un
divertente locale sulla spiaggia poco lontano, e ora era un luogo di ritrovo rinomato e ricercato, non tanto
nella sostanza quanto dalle persone, che sapevano di potersi divertire senza eccessi. Più o meno.
Ricordava solo una sera in cui aveva avuto paura. Ettore aveva organizzato un contest di surf e per tutto il
fine settimana il bar era stato occupato da giovani e muscolosi surfisti, ricordava con piacere Rosa. Ma dove
ci sono i surfisti ci sono anche belle ragazze, e là dove s’incontrano belle ragazze e alcol si forma una
miscela esplosiva pronta ad infiammarsi al minimo sfrigolio. E fu così che una di loro, ubriaca e contesa da
due giovanotti alti due metri, sbronzi anch’essi, ebbe un’alzata d’ingegno, per decidere chi doveva essere il
prescelto, i due dovevano superare un prova di coraggio. Che consisteva nell’infilare una mano nell’acquario
dei pirana, regalato a Ettore da un cliente fisso, il dentista del paese, che l’aveva ricevuto come dono di
natale da una ditta farmaceutica. Costui amava gli animali e se ne era liberato dandolo a Ettore. Quella sera
era presente pure lui e, vedendo la scena, decise di intervenire.
Ma lo slancio lo portò a colpire inavvertitamente la ragazza contesa a cui nel frattempo era arrivato
l’hamburger che aveva ordinato e che cadde nell’acquario. Fu un attimo, due dei cinque pesci attaccarono
l’hamburger, gli altri tre la mano appena immersa del malcapitato, che non dimostrò particolare coraggio
cominciando a urlare a squarciagola per il bar saltellando e scuotendo freneticamente la mano per liberarsi
delle piccole belve. L’amico non trovò nulla di meglio che scagliarsi contro il dentista, mortificato per
l’accaduto. Ma i suoi due amici, molto meno dispiaciuti e molto più ubriachi di lui, lo soccorsero scatenando
una rissa che durò cinque minuti, prima che Ettore riuscisse a tranquillizzare tutti con le parole giuste:
- Se vi fermate offro da bere a tutti!
Lei se l’era proprio vista brutta, le sembrava di vivere uno di quei film western in cui il saloon veniva distrutto
in un batter d’occhio. Per fortuna, dopo il bicchiere offerto, Ettore chiuse e mandò tutti a casa, Rosa
compresa. Che si domandava quale dei due giovanotti sarebbe stato scelto come più coraggioso.
Il giorno dopo seppe che avevano vinto entrambi.
Con Ettore il paese si era ingrandito, e coinvolgendo i bambini e i ragazzi del paese aveva costruito, proprio
vicino al bar, un campo da calcio e uno di beach volley nei quali spesso venivano organizzati tornei.
Insomma, era benvoluto lì a Blanco Paraiso perché non era un turista chiassoso e nemmeno un cercatore di
gnocca, semplicemente aveva portato sorrisi e divertimento, gli ingredienti principali per la buona riuscita di
un sodalizio.
Ma per quanto fosse una fucina di idee e quindi sempre al centro di nuove proposte, si sapeva ben poco di
lui, della sua vita passata, sotto quel punto di vista era molto reticente. Nessuno gli aveva mai domandato
nulla, ma nemmeno lui si era mai lasciato sfuggire qualche frammento o ricordo, tutti lo conoscevano come
Ettore l’italiano dalla divertente tristezza, soprannome dovuto alla sua espressione facciale, soprattutto per
gli occhi.
Ora Rosa lo guardava mentre, stravaccato sulla sedia, col solito gesto prendeva una sigaretta, la sbatteva
due volte sul tavolo per impaccarla e infine l’accendeva.
Il suo ospite era tornato e mentre lei preparava la bottiglia, Ettore riprese il racconto.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Come le stavo dicendo quella fattoria non le piaceva. Però, prima di proseguire, forse è meglio chiarire la
mia relazione con Tamara. Fra noi non era successo nulla.
- Mi scusi – l’interruppe il Landi – vuol dire che lei e l’albanese non eravate andati a letto assieme?
Ettore guardò l’altro, furente.
Non tanto per l’appellativo su Tamara, quanto per il disprezzo che usciva da quelle parole, per il fastidio che
aveva provato nel suo animo all’udire quella vigliacca espressione, che metteva un popolo intero su un
gradino inferiore.
- Sì – rispose Ettore controllandosi – voglio dire proprio questo.
- Impossibile, quelle lì la danno a tutti, con tutto il rispetto per la sua Tamara.
- Ma Tamara era già italiana, se è questo che intende – gli diede corda Ettore sforzandosi sempre più di
restare calmo, ancora un attimo e questi discorsi l’avrebbero fatto saltare come una pentola a pressione.
- Intendo – disse il Landi abbassando la voce e sporgendosi verso Ettore – che le donne di quei popoli lì ce
l’hanno nel sangue di darla facile, di essere un po’ puttane, è questione di genetica.
- Dicono che anche il Q.I. di una persona sia genetico, suo padre dove lavorava?
Il Landi sembrò preso alla sprovvista.
- In … aveva un panificio – rispose in fretta, quasi improvvisando, venne da pensare a Ettore.
- Pensavo il politico.
Ettore aveva ben poca stima nei politici italiani.
- Non capisco.
- Appunto. Ma proseguiamo nella nostra storia, lasciamo perdere discorsi che non c’entrano.
Comunque no – continuò – non eravamo andati a letto insieme, se vuol saperlo, ed era Tamara a volerlo.
Avevo capito che non c’erano in gioco vocazioni strane o motivi religiosi, era una sua scelta, dovuta a una
causa molto forte, che non chiedevo per paura di poter toccare tasti dolenti. Da quando c’eravamo conosciuti
avevamo passato insieme la maggior parte del nostro tempo libero. Eravamo vicini a Pasqua, all’epoca,
quindi erano passati più o meno venti giorni dal nostro primo incontro serio. Mi rendevo conto che io avevo
bisogno di lei, avevo bisogno di passare il tempo con lei, la sua bellezza non mi stancava mai, i miei occhi
non erano mai sazi di quella splendida visione.
Allo stesso tempo ero attratto dalla sua espressione sempre seria, guardinga, quando riuscivo a farla
sorridere, o meglio ancora, a ridere, mi si apriva il cuore dinanzi a quei denti perfettamente allineati e
bianchi, leggevo nel fondo più fondo dei suoi occhi il divertimento che riuscivo a darle, anche solo per un
secondo, prima che i suoi bui pensieri tornassero a rannuvolarle l’animo.
Per lei era diverso, mi spiegò che le piacevo, ma una parte di lei diceva di non fidarsi. Non si fidava di
nessuno, per questo la sua reazione la prima volta che ci conobbimo. Le piacevo ma non mi voleva.
Fortunatamente ebbe la meglio la sua parte sana e anche lei, come me, passava il tempo per non pensare,
per divertirsi con una persona che le piaceva. Amava poco stare in mezzo alla gente sebbene fosse
abbastanza sciolta quando capitava, quindi la maggior parte del nostro tempo la passavamo soli, ogni tanto
scattava qualche bacio, ma nulla più, mi accorgevo che ai miei abbracci si irrigidiva.
La mia curiosità fu soddisfatta proprio quel giorno.
- La odio quella fattoria – mi disse.
- Non ti piace il tuo lavoro?
Oh sì, cucinare mi piace da morire, è l’ambiente che mi opprime – mi disse scurendosi sempre più in
volto.
Capii che eravamo giunti ad una meta importante.
- Stare in mezzo al verde non dev’essere molto opprimente.
- Non fare lo stupido, hai capito cosa intendo. Non sono i miei colleghi, è il figlio del padrone lo stronzo che
non mi lascia in pace, è un vero figlio di puttana.
Proprio così lo apostrofò – rimarcò Ettore guardando negli occhi il Landi, che non fece alcuna mossa.
- La fattoria è bellissima, soprattutto è enorme – continuò lei – possiedono tutta una collina, con pascoli e
vigne. Il proprietario è il signor Barbera, mai cognome fu più azzeccato, ma ormai comincia a essere anziano
e il figlio sta prendendo in mano l’azienda. Il problema è che è il classico figlio di papà. È orribile, ha la faccia
asimmetrica, le orecchie a sventola e una terribile e invasiva acne che gli devasta il viso, sembra che la
natura abbia deciso di donargli una bruttezza pari alla sua crudeltà.
- Crudeltà è una parola forte – la interruppi.
- Non puoi capire certe scene, se non le vivi.
Quel tipo è crudele, gode nel far soffrire le persone, glielo leggi negli occhi. Ma solo con i sottoposti. Appena
arriva il padre diventa un mansueto agnellino, per questo lo odiamo tutti. Ma ultimamente nemmeno il padre
riesce più ad avere ascendente su di lui.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
La madre è inutile, mi han detto che è preda di un esaurimento nervoso, è sempre chiusa in camera con
un’infermiera che la controlla giorno e notte, ti credo che abbia fatto quella fine con quei due. Perché
nemmeno il padre è uno stinco di santo, ma almeno conosce il termine rispetto.
Suo figlio no, più di qualche volta prese a calci il cane del custode della fattoria, che lavora lì da trent’anni,
solo per il gusto di vedere la faccia del vecchio, che non può reagire.
Per darti un’idea, quando arrivi in quel posto ti sembra di uscire dalla realtà e tornare al feudalesimo o al
tempo dei latifondisti, quando il padrone aveva diritto di vita e di morte sui suoi contadini. Con la differenza
che quel figlio di puttana di Giovanni, il figlio, ci prova gusto nella sofferenza degli altri, specialmente dei più
deboli.
- Perché come sempre è più facile prendersela con i deboli.
- La mia disgrazia è che il destino ha voluto che nella mia vita la mia parte fosse sempre quella – disse
Tamara, avvicinandosi e prendendomi la mano. Mi guardava negli occhi. La baciai.
- Ora ci sono io, sei passata dalla parte dei forti.
- Lo vorrei pensare ma non posso, ho solo vent’anni e ho visto cose che voi conoscete solo in parte, ve le
ha filtrate la televisione. I miei ultimi dieci anni sono stati un accumulo di esperienze negative, di emozioni
sgradevoli.
Tamara, considerala finita quell’epoca, si può cambiare quello che il destino ha deciso per la nostra
esistenza, perlomeno ci si può provare.
Mi abbracciò.
- Tu sei ottimista? – mi chiese.
- Penso di sì, chiunque voglia andare avanti nella vita deve esserlo, credo.
- Ecco, io no, eppure vado avanti lo stesso, come lo spieghi? Perché il mio destino è questo, sono sicura
che anche fra noi due finirà, magari mi renderai felice, ma sono sicura che succederà qualcosa che rovinerà
tutto.
Mi lasciò interdetto, aveva parlato con una tale convinzione e rassegnazione che non riuscii a far altro che
stringerla a me.
Sentii che faceva un profondo respiro.
Per quanto ancora resisterai senza far l’amore con me? – mi chiese – Non molto – continuò – e per
quanto tempo ancora io potrò restare vicino a te sapendo che non ti do una cosa importante per la vita di
una coppia?
Si liberò dell’abbraccio e mi guardò negli occhi, sistemandosi i capelli dietro l’orecchio, un gesto che adoravo
in lei.
Amore è comprendere e sopportare – le risposi, pensando a una frase d’effetto, in quel momento ero
mentalmente disorganizzato.
Sorrise.
- L’amore è una cosa difficile, non bisogna parlarne con leggerezza.
- So solo che quello che provo per te è una sensazione nuova e coinvolgente, per quello la chiamo amore.
- Anche io provo una sensazione nuova e coinvolgente, e per questo ho paura.
- Non vuoi provare belle sensazioni.
- Le belle sensazioni sono destinate a finire, dopo resta solo il ricordo.
- Ma se un fuoco viene sempre rifornito di combustibile non si spegne.
- Tu parli di fuoco e guarda caso l’acqua è l’elemento più presente in natura.
- Ma è anche quello che ci dona la vita, oltre alla nostra mamma.
- La mamma – mormorò. Poi alzò la testa, mi guardò negli occhi, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Fu
il bacio più bello tra noi che io ricordi, ne sentii l’intensità fino al midollo spinale, mai brivido mi arrivò così in
profondità.
Poi prese a raccontare il suo ricordo più terribile.
- Un giorno, durante la guerra, arrivarono dei soldati, serbi credo, ad occupare il nostro paese. Fummo fatti
radunare tutti in piazza, ci dissero che quello diventava uno dei loro quartieri generali, per quello non
distruggevano il paese. Ma noi dovevamo servirli in tutto e per tutto. Preparavamo il cibo, lavavamo uniformi,
vestiti e biancheria nemica, ma non succedeva nulla di terribile, al contrario di altri paesi. Poi una sera, un
sabato sera, sentimmo bussare alla porta. Per noi vigeva il coprifuoco, eravamo in cucina e ci spaventammo.
Entrarono cinque soldati serbi urlando e schiamazzando, erano ubriachi e avevano fame. Mia madre si alzò
e andò verso i fornelli. Uno di loro la afferrò per i capelli e disse che non avevano fame di cibo. Allora mio
padre si levò prontamente in piedi e fu immediatamente circondato da due che col calcio del fucile lo
colpirono al ventre. Cadde a terra e fu tempestato di calci.
Avevo sette anni all’epoca, mio fratello due e già dormiva nella culla in quella stanza. Ma i colpi lo
svegliarono e, forse perché anche a quell’età si percepisce la tensione, cominciò a piangere. Il soldato che
teneva mia madre per i capelli le ordinò di farlo smettere, ma lui non ne voleva sapere.
In quel momento ebbi paura, nonostante fossi una bambina avevo percepito l’odio che quegli uomini
provavano nei nostri confronti, per la prima volta nella mia vita pensai alla morte come a una presenza
indelebile nella vita dell’uomo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Mio padre era a terra, rantolante, perdeva sangue dal viso e dalla bocca, mia madre piangeva e mio fratello
strillava, solo io ero immobile e sentivo che bisognava fare qualcosa altrimenti sarebbe potuto succedere
l’irreparabile. Presi in braccio mio fratello e andai nell’altra stanza, la stanza da letto dei miei.
Mi sedetti, aspettando che se ne andassero.
Non so quanto tempo rimasi su quel materasso, immobile, le mani strette fra loro in grembo.
Ricordo solo le risate sguaiate di quegli uomini, e poi le urla, le implorazioni, i gemiti, le mutande di mia
mamma che volarono davanti alla porta della stanza dove mi trovavo, mio padre che a un tratto cerca di
urlare “lasciatela stare, bastardi”, il rumore di un fucile che viene caricato e mia madre che supplica “No!
Sono qui, fate quello che volete”.
Per tutto quel tempo io restai seduta sul letto nella stessa posizione, cullando mio fratello e tentando di non
ascoltare. Sapevo cosa stava succedendo.
A quel punto Tamara mi si buttò addosso, sprofondò la testa nel mio petto e cominciò a singhiozzare.
- Non l’ho mai raccontato a nessuno – mi disse fra i singulti.
Le accarezzavo i capelli, presuntuosamente pensando di comprendere tutto, e glieli baciavo, lei intanto
restava con la testa sul mio petto.
- Ora capisci? – mi chiese staccandosi da me e guardandomi mentre col polsino della felpa si asciugava
una lacrima.
- Ora capisco che questo Giovanni della fattoria sta risvegliando in te brutti ricordi.
- Ci prova con me, insistentemente, trattandomi come una puttana. Ma io in lui rivedo gli stessi occhi di
quei soldati.
- Lo sistemo io.
- Non scherzare. Ai torti non si risponde con altri torti.
- Sei troppo filosofica. Anzi, sei poco filoso e tanto fica!
Ritrovò il sorriso.
- Possibile che per te sia sempre tutto uno scherzo?
- Perché io sono uno scherzo della natura!
- No, tu sei dolce.
- Passerei le ore con te senza annoiarmi mai.
- Prima o poi ti capiterebbe.
- Sono sicuro di no. Troppo forte è il sentimento che produci in me.
- Ora sai perché sono così fredda.
- Ora so che devo scaldarti e renderti felice.
Quel giorno, signor Landi, tornai a casa e non potei fare a meno di riflettere su quella ragazza che meritava
molto di più di quello che aveva, insieme avremmo potuto scalare il mondo, mi sentivo invincibile e carico di
un entusiasmo che pensavo di aver perduto negli ultimi tempi.
Ma nella mia testa era tutto nebuloso.
Ancora non sapevo cosa aveva in serbo per me il destino.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
5
Dieci giorni dopo la mia vita cambiò – riprese Ettore.
Come le avevo detto avevo ormai finito i risparmi, era tempo di partire per la stagione. Ma quell’anno non ne
avevo nessuna voglia, volevo e dovevo stare vicino a Tamara. Quindi bisognava cercare un buon impiego
da quelle parti, ma non avevo idea di dove iniziare, solitamente facevo il bagnino nelle spiagge toscane o
liguri, ma mi rendevo conto che non era la professione più ricercata fra le colline.
Un fine settimana lo trascorremmo a Torino. Era un regalo per Tamara, avevo prenotato una stanza in un
piccolo hotel della città, per la prima volta saremmo rimasti insieme tutta la notte. Lei non aveva mai visitato
la città della Mole, così decisi di farle questa sorpresa.
Durante la cena il discorso verté sulla fattoria e mi disse che stavano cercando un nuovo giardiniere, il
vecchio ormai non ce la faceva più. In quell’anno e mezzo che gli restava per arrivare alla pensione avrebbe
insegnato a qualcuno la professione.
- Potrei venire io – esclamai.
- Non se ne parla – rispose secca Tamara – non te l’ho detto per questo.
- Staremmo ancora più vicino.
- Non posso portarti a lavorare in un posto di merda come quello.
Perché? In fondo sono solo otto ore della nostra vita da far passare il più in fretta possibile. In più,
secondo me, il giardiniere è un lavoro che mi piace.
- Ma non lì, te l’ho detto. È un inferno, non ti ci porto.
- Dai, non essere così intransigente. Ci posso provare, se poi non mi piace me ne vado, non serve che tu
dica nulla a loro, mi presento io domani.
Tamara rimase in silenzio, capivo che sarebbe piaciuto anche a lei, ma non aveva il coraggio di chiedermelo
direttamente.
Se lo viene a sapere il Peti – dissi – è finita. Pensa cosa si potrebbe fare, una coltivazione di maria
immensa. Deciso, domani vado lì.
- Possibile che pensi solo a queste cose? – mi chiese ridendo Tamara – ti ho detto che è un inferno e tu
pensi alla coltivazione che potrai fare. Sei un pazzo, me ne accorgo ogni giorno di più.
- Siamo due pazzi, ricordalo.
- Due bei pazzi.
- Su quello non c’è dubbio.
- E anche simpatici.
- E spigliati.
- E decisi.
- E innamorati.
Ci fermammo, potevamo proseguire per ore.
La mattina dopo mi presentai alla fattoria. Si trovava in un posto fantastico, ad almeno due km dalla strada
normale e dall’ultima casa. Ci si doveva inerpicare su un sentiero sterrato, quelli con la striscia verde d’erba
nel mezzo, attraverso vigneti, cespugli di robinia, rovi e quant’altro. Era stretta, ai lati correva un piccolo
fossato.
All’ultima curva apparve la casa, un vecchio podere ben tenuto, e i silos per il vino. Alcune bestie, che
interpretai come pecore, erano al pascolo. Mi fermai davanti all’ingresso.
Vecchie lampade ad olio erano appese in cima ad un cancello, che a sua volta presentava delle cime
aguzze che ricordavano le decorazioni dei guelfi.
Aveva ragione Tamara, mi aspettavo che da un momento all’altro uscisse un cavaliere corazzato diretto a
salvare qualche povera fanciulla.
Entrai, “FATTORIA AGRITURISMO BARBERA” annunciava un cartello all’ingresso.
Parcheggiai la moto e mi diressi verso quelli che sembravano uffici. Tutt’intorno si respirava il tipico odore
delle fattorie, quel miscuglio di sterco, paglia, fieno e profumi di piante selvatiche che non aggredisce il naso
ma vi entra con garbo e dopo cinque minuti già lo si è scordato. Mi trovai davanti a un ingresso sottolineato
da due colonnine laterali su cui erano posate due aquile di pietra con le ali spiegate.
Mi bloccai, perplesso.
Ma la porta era quella giusta.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Erano molto organizzati, c’era perfino una segretaria. Anziana, pensai, sui cinquantacinque, doveva saperne
di questo posto. Mi rivolsi a lei e nel giro di due minuti ero a colloquio col giardiniere.
- Che ne sai di piante? – mi chiese come prima cosa il vecchio.
Non potevo rispondergli che ne sapevo abbastanza solo su un tipo.
- Abbastanza da non far morire quelle di casa.
- Qui non si parla solo di piante da ornamento ma anche di vigne.
- Mi piace il vino.
- Per berlo buono ci vuole una buona vite.
- Allora voglio imparare da chi ne sa.
- Ce l’hai davanti.
Era un sessantino, il vecchio, ma sprizzava energia e simpatia, non capivo perché dicesse di non farcela più.
- Si comincia domani – mi disse.
- Ma per domani è previsto un tempo bruttissimo – provai ad obiettare.
- K-way e attrezzi, non ci si ferma mai.
L’indomani mattina ero lì, sotto il primo, caldo sole di maggio. Avevo scordato il cappello e il vecchio,
presumo apposta, mi fece lavorare tutto il giorno in mezzo al giardino, ben lontano dall’ombra.
- Le uova, se le lasci al sole, si cuociono e si rovinano – mi disse la sera – mi raccomando per domani.
Da quel giorno portai sempre il cappello.
A quel punto Ettore si interruppe e domandò al Landi:
- Anche qui comincia a far seriamente caldo, non trova?
- Il tetto e l’aggiunta del telone sono provvidenziali. Del resto sono le quattro.
- Di già? Passa il tempo, bisogna proseguire. Tre giorni dopo conobbi Giovanni. Era davvero brutto come
l’aveva descritto Tamara, fors’anche di più – aggiunse Ettore versandosi da bere. Il suo ospite lo guardava,
si era tolto il cappello per detergersi il sudore dalla fronte. “E lui non beve”, pensò con un sorriso Ettore,
ormai certo dei pensieri dell’ospite.
- Bere con questo caldo le può far male – disse l’altro, quasi leggesse nel pensiero.
- L’importante è avere sempre la situazione sotto controllo – rispose Ettore guardando il suo ospite.
- La lucidità potrebbe aiutarla di più. Ma non voglio intromettermi nei suoi affari.
- Ecco bravo. Come stavo dicendo era davvero brutto.
- Ho capito! – sbottò improvvisamente il Landi – non serve ripeterlo, vada avanti.
Ettore sorrise sotto i baffi, sebbene ancora corti.
Devo dire che con lui, per come l’ho conosciuto in seguito, madre natura è stata molto generosa in
crudeltà, ma molto parsimoniosa in bellezza e soprattutto in intelligenza – aggiunse quindi con rabbia.
Al mio terzo giorno stavo lavorando con Alfredo, il giardiniere, quando Giovanni si presentò col suo Pajero,
se li ricorda i fuoristrada? Mi disse di lasciare il lavoro e mi fece salire in macchina.
- Tu sei quello nuovo, vero? Ti porto a fare il giro della fattoria.
- Piacere, Ettore.
- Non me ne frega un cazzo del tuo nome, tu sei un sottoposto e basta. Devi solo lavorare, non rompere i
coglioni e fare quello che ti dico.
- A me hanno detto che devo fare quello che dice il signor Barbera, suo padre.
Inchiodò bruscamente, dovetti puntarmi con le mani sul cruscotto per non fracassarmi i denti.
- Sono io che comando qui, ormai, mio padre è alla fine. Quindi fai quello che ti dico e non avrai problemi.
Mi parlava con il viso a cinque centimetri dal mio, la fiatella all’aglio sparata con rabbia dalla sua bocca
entrava nelle mie narici, solleticandole negativamente.
- D’accordo.
- Bene, questo terreno che stiamo attraversando è tutto mio, tutta la collina è mia. Qui pascolano i cavalli e
le pecore, non ti riguarda, il tuo compito è quello di tenere in ordine le piante del giardino davanti alla casa e
di curarti di tutte le vigne e le piante da frutto nei campi. Alfredo ti spiegherà che per muoverti potrai usare
una vecchia moto senza la targa, se non ci sai andare peggio per te, ti arrangerai con le tue gambe.
- Ci so andare in moto.
- E’ tua quella parcheggiata in giardino?
- Sì.
- Per il resto si mangia a mezzogiorno, ma tu in questi sei mesi ti dovrai arrangiare, sei in prova.
- Non mi sembra molto giusto, cosa cambia un piatto in più?
Cambia. Innanzitutto è un costo, inoltre serve a farti capire bene chi comanda da queste parti, potrei
anche decidere di non darti il pranzo per sempre.
Scoppiò in una risata, nel frattempo mi guardava.
Non sapevo come reagire, ero a disagio. Non per le minacce che proferiva, ma perché mi rendevo conto di
aver a che fare con un coglione patentato.
Ci voleva pazienza.
- Allora hai capito bene? Si arriva alle otto e si finisce alle cinque, per i primi sei mesi sarai in nero poi si
vedrà, si potrebbe cominciare con un part-time fasullo, ma ne parleremo. Ora scendi e torna da Alfonso.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Ma da qui sarà un km.
- Regola numero uno: arrangiati.
Scoppiò in un nuovo fragoroso scoppio di risa e mi fece smontare dall’auto. Non potevo tagliare in mezzo ai
prati, due giorni prima aveva piovuto tutto il pomeriggio e c’erano sicuri trenta centimetri di fango, ero
costretto a seguire la strada.
Arrivai alle sei, gli altri erano partiti tutti, non c’era più nessuno. Ma il capanno degli attrezzi era ancora
aperto. Alfredo stava armeggiando con qualcosa che non vedevo, mi dava le spalle.
- Non vai a casa? – gli domandai.
Non rispose. Entrai, dovevo recuperare il mio zaino.
- Come mai non sei ancora andato via? – ridomandai.
- Potrei chiedere a te la stessa cosa.
- Ho bisogno di lavorare.
Si voltò, in mano teneva quella che sembrava una vecchia forbice arrugginita.
Quando sono arrivato qui, quarant’anni fa, il signor Barbera mi diede queste forbici e davanti a un
cespuglio di rose selvatiche mi disse: “Sono sicuro che quando torno questo cespuglio sarà perfettamente
sagomato”.
Era la prima volta che prendevo in mano le forbici da giardiniere, cercai di fare del mio meglio, ma sono
sicuro che il risultato fu abbastanza disastroso. Quando tornò osservò a lungo il cespuglio. “E’ potato
malissimo, ma si capisce che ci hai messo impegno. Imparerai in fretta.
Gli chiesi come aveva fatto a capire che mi ero impegnato. “Perché hai la camicia tutta sudata, significa che
sei stato a lungo sotto il sole. Inoltre, ho osservato tutto da quella collina”, concluse.
Invece il mese scorso è arrivato un apprendista stalliere, un ragazzo moldavo di sedici anni. Come compito
del primo giorno Giovanni gli diede da spalare tutto il letame e sistemarlo nel fienile, sopra la botola che, una
volta aperta, avrebbe fatto cadere tutto il suo maleodorante carico sul cassone del trattore parcheggiato in
corrispondenza. Il giovane lavorò tutto il giorno, alle cinque meno cinque si presentò Giovanni. Cominciò a
urlare che il lavoro era stato eseguito malissimo, che lui in metà tempo sarebbe riuscito a spalare il doppio,
che era un incapace e via discorrendo. Poi ordinò al giovane, completamente terrorizzato, di guardare sotto
la botola per notare l’errore che aveva fatto. Appena fu sotto, Giovanni azionò il congegno per l’apertura e
fece cadere il letame in testa al ragazzo che si ritrovò completamente ricoperto di merda di cavallo. Noi
assistevamo impotenti, per l’ennesima volta eravamo testimoni di una scena del genere, erano le cinque e
volevamo solo tornare a casa. Giovanni lo lasciò lì, a rifare tutto il lavoro, per tutta la notte.
Aveva parlato con lo sguardo sempre fisso sulle forbici, malinconicamente. Poi si alzò, prese la giacca e fece
per uscire.
- Alfredo – lo chiamai – è per questo che te ne vai?
Io sono come queste forbici, vecchio e arrugginito. Ricorda il mio consiglio, vattene al più presto. Sei
giovane e hai ben altre possibilità.
- Ho le mie ragioni per restare qui.
- Non lo metto in dubbio, ma qui ti spezzeranno l’animo.
- Non lavorerò qui per sempre, me ne andrò lontano, con la mia ragazza.
- Lo spero tanto. Per te.
Se ne andò lasciandomi solo in quell’immenso spazio verde, il sole delle sei e mezza non faceva male agli
occhi, era proprio davanti a me, sopra il cocuzzolo della collina. “In fondo c’è un bel panorama e penso di
avere abbastanza capacità di sopportazione”.
Non sapevo quanto mi sbagliavo.
I giorni di maggio passavano velocemente, con la mia mansione riuscivo a vedere Tamara di nascosto
almeno due volte al giorno.
Facevo finta di controllare il prato davanti alle cucine, e se lei poteva usciva fumavamo una sigaretta
insieme, poi ognuno tornava ai suoi lavori.
Mi ritenevo fortunato, con Giovanni mi incrociavo poco, quindi raramente avevo a che fare con lui.
La maggior parte del tempo la passavo con Alfredo, mi spiegava i trucchi e i segreti di tutte le piante, mi
rendevo conto ogni giorno di più della fortuna che avevo ad essere l’allievo di un’enciclopedia vivente.
Insegnava con la passione, non con la tecnica, sosteneva che una pianta è un essere vivente e come tale si
comporta, quindi come tale noi dobbiamo occuparcene.
“Da sempre ci si pone il quesito se le piante provano emozioni. Io, nonostante quarant’anni di lavoro, non
posso rispondere a questa domanda, ma nel dubbio mi son sempre comportato con loro come se le
provassero”. Ne fui contento perché anch’io, quando avevo coltivato col Peti, la pensavo allo stesso modo.
E a proposito di coltivazione, avevo cominciato a perlustrare la zona alla ricerca di un posto ottimale dove
sistemare qualche pianta. Il Peti si era procurato i semi, a me toccava trovare il posto e badare alle figliole.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Così alle cinque prendevo la moto della fattoria e con la scusa di dover familiarizzare con i luoghi mi gettavo
in lunghe e accurate perlustrazioni. La collina era immensa e, cosa importantissima, si trovava in una zona
decisamente isolata.
Per giungere al giogo si attraversavano pascoli racchiusi tra boschi secolari di roverella, pini silvestri, noccioli
e, ovviamente, vitigni. Ci trovavamo in pieno Roero, non so se ha presente, nell’Alta Langa.
Il paesaggio, dalla cima della collina, era spettacolare, predominava il colore verde, da qualsiasi parte mi
girassi, un vero paradiso.
Il sole di maggio, a quell’ora, era ancora alto e scaldava, mi sedevo su una pietra e restavo a contemplare le
macchie bianche dei bovini al pascolo, placidi e ignari del proprio destino.
Assieme a loro, ma in quantità minore, le pecore dal pelo lungo, tipiche della zona, venivano radunate dai
pastori per tornare all’ovile. Era dal loro latte che nella fattoria producevano e vendevano la robiola, la toma
e altri formaggi del luogo.
Sul versante della collina opposto a quello dove si trovava la casa si stendevano filari immensi di viti,
alternati anch’essi da boschi. A circa due km in linea d’aria, verso est, si intuiva il percorso del Tanaro, il mio
fiume preferito. La proprietà arrivava fino a lì. Ma gli ultimi cinquecento metri erano incolti, selvaggi. Una
foresta impenetrabile di rovi, robinie, edere e quant’altre piante invasive stonava con il resto del paesaggio,
perfettamente allineato e pulito. Un giorno vi andai in moto e potei notare quanto fosse impenetrabile. Era
un’area non troppo estesa e immaginai che finisse proprio sulle sponde del Tanaro.
Successivamente Alfredo mi spiegò che quarant’anni prima il vecchio Barbera, il padre di Giovanni, fece
allestire quella zona per coltivare more per la moglie che ne era ghiotta. Da quell’epoca, per ordine del
vecchio che voleva una coltivazione selvatica, nessuno vi mise mano nè piede, tutti dovevano tenersi alla
larga da lì, pena il licenziamento, solo lui e la moglie potevano visitarlo e raccogliere i frutti.
Mentre raccontava, una strana luce percorse gli occhi di Alfredo.
Solo in seguito, però, avrei compreso.
Dopo una quindicina di giorni potevo dire di conoscere abbastanza bene la tenuta e, quando non tornavamo
a casa immediatamente, prendevo Tamara e in moto le illustravo i luoghi più suggestivi che avevo scoperto,
fumavamo una canna, parlavamo e ci baciavamo.
Il mio stato d’animo, in quei giorni, non era però dei migliori.
Da qualche giorno provavo una sgradevole sensazione di incompiutezza, normalmente avrei dovuto essere
sulla costa a salvare vite in spiaggia o a servire piatti di pesce a stomaci affamati, invece mi ritrovavo ancora
a casa. Mi ronzavano nel cervello le parole di avvertimento di Alfredo, fino a quando avrei lavorato lì?
Quando mi ero proposto pensavo solo a star vicino a Tamara, ora però subentravano altre riflessioni, a cosa
mi serviva lavorare lì? Qual’era lo scopo? Effettivamente lì non albergava il mio futuro, nella mia testa l’idea
era un’altra.
Un giorno ne parlai a Tamara:
- Sai qual è il mio sogno? Aprire un bar in spiaggia, ma non una cosa ricercata, un bar semplice che dia
cibo e bevande e soprattutto divertimento. A me per primo, poi ai clienti. L’ideale sarebbe in un posto caldo.
- Sono sicura che verrebbe benissimo.
- Solo se ci sarai tu.
- Io sono troppo timida per stare in un bar.
- Ma sai cucinare benissimo. La mia idea è quella di fare due piatti al giorno, due ma squisiti.
- In un posto caldo?
Ovvio, ti piace l’inverno, forse? Io ai primi freddi devo subito pensare a coprirmi la pancia, altrimenti
marmellata di marroni per tutti!
- Fai schifo!
- Mi piace come lo dici – le risposi, lascivo.
- Quando mi parli così mi fai ancora più schifo.
- L’importante è suscitare emozioni.
- Tu sei un maestro per quelle negative.
- Ora sei troppo severa.
- Ho detto in quelle negative, non esclude le altre.
- Ora va meglio.
- No, va meglio se mi dai un bacio – mi disse avvicinando la sua bocca alla mia.
Ma ancora non conoscevo i suoi sogni.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
6
Tanto era incantevole l’ambiente esterno della fattoria, tanto era inquietante all’interno, la paura regnava
sempre sovrana. Venni a sapere che, prima che quel pessimo personaggio di Giovanni cominciasse a
prendere in mano le redini dell’azienda, quello era un ambiente piuttosto sereno dove si lavorava con la
necessaria tranquillità; il vecchio Barbera era duro ma giusto, mi dissero quasi tutti coloro che avevano
lavorato alle sue dipendenze. Notai che gli anziani, chiamiamoli così, erano tutti italiani, i più giovani
stranieri.
- Ormai è così – mi disse un giorno Lorenzo, uno dei due pastori, mentre ci cambiavamo alla fine della
giornata – sono pochi gli italiani che vogliono fare un lavoro così duro. Immagina, il sabato escono, trovano
una figa e cosa le dicono, faccio il contadino? No, ormai questi sono lavori per quelli come noi che abbiamo
cinquant’anni e ci manca poco alla pensione, oppure per schiavi. E se trovi uno come Giovanni diventi uno
schiavo perfetto. Metà dei ragazzi sono come te, assunti in nero, sottopagati e sfruttati. A loro va bene,
piuttosto che niente meglio piuttosto, e a Giovanni va benissimo. Col vecchio Barbera tutti avevamo il pasto
garantito, si lavorava sodo, lui era il capo ma sapeva essere giusto con noi.
- Ma non dice nulla al figlio? – chiesi.
- Non riesce più a tenerlo – si intromise Sandro, lo stalliere – l’altra sera stavano litigando e a momenti
Giovanni gli mette le mani addosso. Sta invecchiando in fretta e si rende conto che quella testa vuota
rovinerà tutto ciò che di buono era riuscito a costruire negli anni. Tutto questo terreno l’ha comprato lui subito
dopo la guerra grazie a un’eredità, non c’era nulla qui intorno, e ora guarda cosa ha creato.
- Sai che ha firmato? – lo interruppe Lorenzo.
- No!
- Me l’han detto in cucina oggi pomeriggio, pare sia notizia sicura.
Tutti si voltarono, anche i ragazzi. Non capivo cosa significasse quella notizia.
- Ora c’ha tutto in mano il figlio – mi spiegò Lorenzo – sai cosa vuol dire?.
- Posso immaginarlo.
- No, non immagini, è troppo poco tempo che sei qui. Se solo provi a chiedere a loro – concluse indicando i
ragazzi stranieri.
E’ un uomo di merda – disse uno di loro, Sergij mi pare si chiamasse. Giovanni ce l’aveva
particolarmente con lui, probabilmente perché le ragazze della cucina apprezzavano molto il suo modo di
fare, molto sovietico ma allo stesso tempo rispettoso e quindi sempre moderno, al contrario di quell’altro
buzzurro.
- Ci tratta di merda – continuò – noi dimostriamo buona volontà e lui ci sputa addosso. È una merda! –
terminò con disprezzo.
- E’ sempre così, mio padre era emigrato in Belgio e li trattavano come animali. Ora tocca a loro, gli schiavi
degli italiani. Solo che è una guerra fra poveri, anche la stragrande maggioranza di noi italiani è schiava ma
ci fanno credere di no e noi, vedendo ‘sti poveracci e le loro misere condizioni, ci caschiamo, come dei
coglioni. E ce l’hanno anche detto.
Chi aveva parlato era l’altro pastore, un signore anziano con dei lunghi capelli bianchi sempre sporchi di
paglia e di altri tesori dell’ovile. Era un solitario, era raro parlasse, lo chiamavano “ il muto “.
Io sono italiano – disse uno dei ragazzi con un lieve accento dell’est, mostrando la carta d’identità –
eppure sono e resterò sempre uno straniero.
- Spera per i tuoi figli – gli rispose “ il muto “ con un sorriso di pessimistica complicità.
Questo discorso mi colpì, portandomi a riflettere sulla condizione di Tamara.
Lungo la strada, in moto, le chiesi se aveva conosciuto il vecchio Barbera.
- Sì, una brava persona, in fondo.
- Oggi ne parlavano bene, in spogliatoio.
- E’ stato lui ad assumermi. Mi chiese se sapevo cucinare e quando gli risposi di sì mi disse di preparare
una pasta e fagioli. Fui fortunata, è uno dei miei piatti preferiti. Dopo mangiato mi fece i complimenti e iniziai
immediatamente.
- Sono curioso di conoscerlo, dev’essere una persona all’antica.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Bravo, è proprio una persona all’antica. Corre voce che addirittura abbia nascosto tutti i suoi averi nella
collina, sotterrandoli da qualche parte.
Sorrisi. Nel frattempo ci eravamo fermati al bar del parco con una bella birra davanti.
- Sottoterra? Ma esistono le banche.
- Mi hanno raccontato che una quarantina d’anni fa rapinarono la sua banca e da quel giorno, nonostante
l’assicurazione l’abbia ripagato, decise di ricorrere ai vecchi metodi, pare che in piena notte abbia preso pala
e piccone e, aiutato da sua moglie, sotterrò tutta la sua fortuna. Ora solo lui conosce il segreto, la moglie è
malata e Giovanni, pur essendo al corrente della storia, ignora il luogo preciso. Forse sono solo chiacchiere
e leggende, ma conoscendo il vecchio è probabile sia una storia vera.
- Quindi può essere che talvolta noi camminiamo sopra milioni di euro?
- Beh, sì.
- Soprattutto io che sono giardiniere. Pensa te! Scoprendo il luogo, potremmo diventare ricchissimi in un
colpo solo.
Tamara sorrise.
- In teoria sì, però il Barbera è una vecchia volpe, sicuramente avrà escogitato qualche sistema di difesa.
- Sotto il canile, allora.
Al Barbera piaceva la caccia, teneva tre setter in una grande gabbia, separati da tutti gli altri bastardini che
giravano liberi per lo sconfinato, per loro, territorio.
- Ci hanno già provato, nulla da fare. Le cuoche, molto più anziane di me, mi hanno raccontato un paio di
aneddoti.
Il primo a tentare fu un aiuto pastore, ma fu scoperto e cacciato. Poi fu la volta di un falegname, che per due
mesi aveva lavorato in fattoria. Pensava di aver scoperto il nascondiglio, il grande ulivo davanti alla casa,
così una notte di temporale si mise a scavare. Il vecchio se ne accorse quasi subito, si dice che dorma
pochissimo e che resti sveglio per sorvegliare la collina, ma lo lasciò scavare. Quando la buca fu abbastanza
profonda, con le sue tre guardie bloccò il ladro, lo fece entrare nella buca e lo ricoprì fino al collo,
lasciandogli fuori solo la testa.
Tutti capirono il messaggio, quella testa sporgente in mezzo al cortile aveva tentato il furto. Restò lì fino a
sera, senz’acqua né cibo.
- Uau, come gli Apaches.
- Che?
- Una tribù pellerossa, trattavano così i prigionieri con la differenza che loro li lasciavano agli avvoltoi. È un
vero duro il vecchio, non vedo l’ora di conoscerlo!
Sarebbe successo presto.
Erano le quattro a Blanco Paraiso. Il cielo completamente terso, il caldo opprimente, ma non sotto il telone e
i banani del bar di Ettore.
- In fondo – commentò il Landi – quel Giovanni non era una così brutta persona.
Ettore lo fulminò con lo sguardo.
- Voglio dire – continuò – quei pezzenti di extracomunitari vanno trattati come faceva lui. Non mi guardi
così, io non sono razzista, solo molto realista. Quelli lì arrivano da noi e cos’hanno? Niente. Cosa fanno
allora? Rubano. Lo farei anch’io nelle loro condizioni. L’unica differenza è che sarebbe la mia ultima carta,
prima penserei a cercarmi un lavoro. Loro no, come prima scelta rubare, poi lavorare. Così chi gli dà un
lavoro li tratta male perché sa che sono dei ladri.
- Non avevo mai visto la faccenda sotto questo punto di vista.
- Mi creda, forse lei è da tanto che manca dall’Italia, ma le assicuro che ormai è un disastro. Ladri, puttane
e spacciatori, questo arriva nei barconi. Solo ogni tanto qualche onesto lavoratore, anche lì non riescono a
essere perfetti! – esclamò il Landi, ridendo fragorosamente per la battuta. Notò essere l’unico, Ettore restava
serio.
Immagino che questi discorsi facciano male ad un animo hippie come il suo, ma sono la verità più
assoluta. Se loro sono poveri da sempre e noi no ci sarà un perché e questo perché si chiama intelligenza.
- Lasci stare – lo interruppe Ettore – devo andare in cesso.
- L’alcol stimola la vescica.
- E certe persone l’intestino – rispose alzandosi.
Il Landi lo osservava, gustandosi il momento. Era pure un comunista, quell’Ettore. O comunque uno di quelli
lì, visto che adesso faceva vecchio parlare dei comunisti. Fannulloni, li chiamava lui. Li combatteva, in prima
linea.
In Italia, dopo essere di nuovo riuscito a mettere via una piccola fortuna, grazie al papà e agli agganci giusti
al posto giusto al momento giusto, “Mitica Italia!” pensò in quel momento, aveva messo su una banda di
cinque elementi, ma con l’intenzione di accrescersi, che organizzava spedizioni punitive contro gli
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
extracomunitari con mazze, bastoni, talvolta molotov. Erano nel giusto, combattevano i criminali e chi
entrava in Italia senza documenti lo era. Nello stesso tempo davano un esempio a tutti. Provava una
straordinaria sensazione di onnipotenza ad ogni azione, la mazza da baseball era il suo attrezzo preferito,
leggero ma efficace. Era un lavoro semplice, si trattava di uscire a notte fonda, imbattersi in un qualche
poveraccio che dormiva all’aperto e riempirlo di botte, se reagiva lanciargli una molotov e filmare la torcia
umana. Solo una cosa gli dispiaceva, non averla avuta lui quest’idea geniale, l’aveva copiata da un politico, il
suo eroe, di cui però, pensa te, non ricordava il nome.
Si guardò intorno, meditando
“Questi sono negri bravi, se ne stanno a casa loro e non rompono i coglioni”.
All’improvviso si accese una musica sudamericana.
Il Landi si voltò verso il banco e vide Ettore che accennava qualche passo di danza con Rosa. Gli parve che
lei lo guardasse in modo strano, quasi a chiedergli cosa ci facesse lì e quando se sarebbe andato. Sorrise
educatamente, nonostante tutta quella finzione del bravo signore educato gli pesasse moltissimo.
Ettore gli face cenno di ballare ma lui negò. Non gli piaceva farsi vedere da un pubblico diverso dal suo, non
si sentiva sicuro.
Ettore lasciò la presa di Rosa e tornò al tavolo.
- Non le piace ballare, ma che italiano è?
- Mi piace, ma non con questa musica.
- Capisco.
- Cosa intende?
- Che questa è musica da negri.
Il Landi esplose in una grassa risata.
- Prima ho colto nel segno, eh? Ma lasciamo perdere questi discorsi, continui la storia, mi pare di capire
che ora inizia la parte avvincente.
- Come le stavo raccontando, qualche giorno dopo conobbi il Barbera. Quel giorno, nonostante fosse fine
maggio, c’era un tempo pessimo, per tutto il giorno grossi nuvoloni grigi e scuri avevano sorvolato le nostre
teste, senza mai minacciare pioggia. Ovviamente, alle cinque meno cinque si alzò un vento terribile, violento
e freddo, e le nuvole cominciarono ad ammassarsi e a girare vorticosamente. Tutti scapparono in fretta e
furia, Tamara compresa, ma io ero in moto e restai da solo ad aspettare che finisse il temporale. Mi riparai
sotto il portico del lato lungo della casa, quello dove si trovava l’ufficio. Che si aprì e ne spuntò un omino
vestito alla maniera contadina, con grossi calzoni marroni e un maglione verde, evidentemente per coprirsi
dal vento. Non si era accorto di me, avevo capito immediatamente di chi si trattava. Me l’ero immaginato più
alto, invece quel metro e sessanta scarso era riuscito a costruire quel piccolo paradiso. Rammentai le parole
di Sandro, il vecchio sapeva che il figlio avrebbe rovinato tutto, e provai a immaginare i pensieri di
quell’uomo ora che guardava la sua proprietà attraverso la pioggia. Ma evidentemente non stava pensando
a quello perché si girò e mi vide. Eravamo a dieci metri di distanza, mi si avvicinò.
- Che ci fai qui? Chi sei?
- Piacere, Ettore, sono il nuovo giardiniere.
Poi capì.
- E’ tua la moto?
- Sto aspettando che spiova.
- Vieni dentro, è un po’ più caldo.
Entrammo nel suo ufficio, una stanza dai colori molto caldi, bisogna riconoscere che aveva buon gusto. Alla
luce lo osservai un po’ meglio. Dimostrava un po’ meno dei suoi 65 anni e le occhiaie scavate e le rughe
della fronte facevano capire che quell’uomo nella sua vita ne aveva passate delle belle. Mi fece cenno di
sedermi su una poltrona. Notai che mancavano le sedie, c’erano solo poltrone.
- E allora, nuovo giardiniere, come ti sembra la fattoria? – esordì accendendo una sigaretta, cosa che feci
anch’io visto che si poteva.
–- Lavoro qui da un mese e devo dire che la trovo affascinante, ho anche avuto la fortuna di cominciare
nella stagione giusta.
- Decisamente, questa esplosione di colori primaverili mi scioglie il cuore ogni anno come se fosse la prima
volta. Qual è la tua stagione preferita?
- Proprio questa.
- Perché?
- Perché tutto rinasce, gli animali, le piante, noi stessi.
- Sei giovane e hai la speranza nel cuore. Un giorno capirai che in primavera non rinasce un bel niente, le
disgrazie capitano anche nelle belle stagioni.
- Forse però si reagisce meglio.
- Qual è stata la tua disgrazia più grande, figliolo?
Restai interdetto.
- In realtà non mi interessa – mi disse, sempre in piedi e guardando dalla finestra – mi bastano le mie, di
disgrazie.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Forse dovrebbe pensarci di meno.
Si voltò furioso.
- Che ne sai tu? Sai qualcosa, forse?
- Non serve arrabbiarsi – gli dissi alzandomi – Forse è meglio se me ne vado.
- Scusa, sono nervoso.
Sono appena arrivato e forse non sono affari miei, ma ho sentito che ha lasciato tutto in mano a suo
figlio, sono queste le sue preoccupazioni? – azzardai.
Sorrise. Mi guardò a lungo, in silenzio.
- Che vuoi fare, tu, nella vita?
- Il mio sogno è aprire un bar in spiaggia, possibilmente in un paese caldo.
- Quindi lontano dall’Italia.
- E dall’Europa, probabilmente.
- Dovrai abbandonare tutto.
- Però conoscerò le mie capacità. Vada come vada, bene o male, almeno ci avrò provato. Voglio avere
meno rimpianti possibile quando la morte verrà a prendermi. Ho paura della morte, meno rimpianti avrò e più
sarà possibile sorriderle nel momento estremo.
- Hai le idee chiare.
- Per nulla, sono proprio nebulose, a dir la verità. Ma pian piano mi accorgo che prendono forma.
- Quanti anni hai?
- 25.
- Dieci in meno di mio figlio, e possiedi uno spirito guerriero che a lui manca completamente. Forse è colpa
mia, non l’ho saputo educare bene.
- Probabilmente è vero.
Mi guardò, dubbioso e perplesso.
Anche adesso lo sta difendendo – continuai – dà la colpa a sé stesso, in realtà sono convinto che
ciascuno di noi conosce benissimo le conseguenze dei propri comportamenti e ne è pienamente
responsabile.
- Cosa ne pensi di Giovanni?
- Non è una bella domanda, lei è suo padre.
- Fuori piove e già conosco la tua risposta.
- Posso dire che non mi è simpatico. Invece ho sentito parlare molto bene di lei.
- Mi sono sempre considerato una persona fortunata – disse guardando e poi dirigendosi verso due enormi
foto appese alle pareti - avvicinati, guarda queste foto. Quella in bianco e nero è stata scattata il giorno in
cui ho acquistato questa proprietà. Quella a colori cinque anni fa. Tutte le differenze le ho apportate io con
l’aiuto di molti contadini, e ne sono fiero.
Io osservavo le due foto, cogliendo i notevoli cambiamento. Sostanzialmente riguardavano le coltivazioni,
nella seconda foto erano molto più numerose e ordinate. La casa invece era stata semplicemente restaurata
e ampliata, notai che anche il nostro capanno era stato costruito in epoca successiva. Mi piaceva il gioco
delle differenze, anche sulla Settimana Enigmistica lo risolvevo sempre.
- Ora che Giovanni gestirà tutto sono preoccupato – mi distolse dalle mie riflessioni il vecchio Barbera –
non ci sa fare con le persone.
- Per nulla, glielo assicuro.
- Io non posso farci più nulla, ormai è lui il capo. Ma tu che ci fai in questo posto, perché lavori qui?
- Non lo so bene nemmeno io – risposi, stando attento a non parlare di Tamara, avevamo deciso di tenere
segreta la nostra storia al lavoro – solitamente facevo la stagione per poi investire i soldi in viaggi, ma
quest’anno ho cambiato idea. Però non sono sicuro di aver fatto la scelta giusta, ho un sacco di dubbi, mi sa
che si sta avvicinando ogni giorno di più il momento dell’impresa utopica. Manca solo il coraggio di fare quel
passetto verso l’ignoto.
- Fallo ora che ne hai la forza e l’entusiasmo perché caleranno inesorabilmente anno dopo anno.
- Se lei ha costruito tutto questo non credo.
- Mi piaceva, la campagna è sempre stata la mia passione. Se la tua è la spiaggia vacci, non farai alcuna
fatica.
Pensai che aveva ragione. Riguardai le fotografie, quasi a cercare in quello che lui aveva fatto la forza per
reagire pure io a questa fase di stallo della mia vita.
A quella seconda occhiata mi sentii stranamente inquieto, qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco mi
aveva colpito.
- Ha smesso di piovere – annunciò con voce solenne il Barbera – e sta anche uscendo il sole. Approfittane
e parti.
Così feci.
Lungo la strada guidai piano, mi chiedevo il perché di quella sensazione di inquietudine, qualcosa nella foto
mi aveva colpito. Ma più ci pensavo e più mi sfuggiva il particolare. Talvolta sembravo riuscire a vederlo, ma
quando stava per diventare nitido si allontanava, nascondendosi nuovamente.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Eppure mi rendevo conto che era una cosa probabilmente importante.
Ci rinunciai, mi sarebbe tornato in mente in seguito, mi dissi.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
7
- Io adoro il mare, dev’essere perché sono cresciuto in collina – disse Ettore al Landi stendendo un braccio
in direzione dell’Oceano – appena ne ho la possibilità vado ad ammirarlo, come quel giorno a Genova.
Credo sia dovuto alla linea dell’orizzonte, in collina e in montagna non si vede e viene a mancare la
speranza nell’ignoto, in qualcosa di meglio lì dove non si arriva a vedere.
Era domenica, io e Tamara stavamo facendo l’ultima passeggiata di quel fine settimana genovese. Arrivati il
giorno prima, avevamo passato tutta la sera in camera, avevamo persino mangiato lì. Quella notte
dormimmo insieme, in una pensione fatiscente vicina al porto, molto affascinante dal mio punto di vista,
orribile dal suo.
Effettivamente molte facce da galera usavano il marciapiede sottostante le nostre finestre per vendere tutto
ciò che era illegale. Sporgendomi per osservare, vidi un gruppo di persone, bianche e di colore, che
servivano ragazzi di tutte le età, probabilmente vendevano fumo o coca, o tutt’e due. Poi uno di loro mi vide
e mi indicò agli altri, immediatamente richiusi le finestre. Da sotto cominciarono a urlarmi di tutto, ora non le
ripeto le parole perché è ininfluente, ma bastò perché Tamara esplodesse.
- Che posto di merda!
- Costa poco, però. E poi non ci fanno niente ‘sti qui.
- Non mi piace lo stesso.
- Che fai, la viziata?
- Sai che non sopporto quando mi dai della viziata. Io non so nemmeno cosa vuol dire esserlo.
- Allora ti puoi adattare a questo posto.
- Hai voglia di litigare?
- Tu, forse.
- Senti, ti ho semplicemente detto che questo è un posto di merda, e siccome è una cosa oggettiva, non mi
puoi rompere i coglioni.
- Ma siccome l’ho scelto io significa che ho scelto un posto di merda.
- Infatti! Ma ti da fastidio ammettere di aver sbagliato.
- Non ho sbagliato, ho solamente scelto male.
- Vabbè, hai scelto male.
- E tu sei viziata perché non ti va bene.
Prese una scarpa e me la scagliò contro.
Colpì in pieno il sopracciglio, è rimasta la cicatrice, vede? – Ettore col dito indicò un segno lungo circa un
centimetro, proprio sopra l’occhio destro – Cominciai a sanguinare ovunque, segnai la strada fino al bagno,
in quel momento ,con tutto quel liquido rosso sparso ovunque, la stanza si adattava perfettamente al
contesto esterno. Tamara disse “Oddio” e mi portò in bagno, entrai nella vasca a sciacquarmi.
Quando smise di sanguinare, mezz’ora dopo, mi guardai allo specchio. Servivano dei punti, ma ero troppo
codardo per correre in ospedale. Talvolta quando mi specchio la mattina mi pento ancora di quella scelta.
Ma non in quel momento, perché Tamara mi abbracciò e con una sincera stretta mi trasmise tutto il suo
dispiacere. Era raro che fosse lei ad abbracciare per prima, mi godetti appieno quel morbido frangente. Poi
ci stendemmo a letto.
Mi chiese scusa.
- E’ stata colpa mia, ti ho provocato - risposi.
- Sei un po’ stronzo a volte.
- Mi si illuminano gli occhi quando ti vedo arrabbiata, mi eccita un sacco.
- Sei ancora eccitato?
- No, devo farti arrabbiare di nuovo.
- Non ci provare, la prossima volta miro più in basso.
- Ma così rimani senza gioco.
- Giochino, vorrai dire – esclamò ridendo di vera allegria e buttando la testa all’indietro, i suoi capelli scuri
rimasero sospesi.
Non risposi, restai a guardarla in tutta la sua luminosa curvatura dal seno al mento.
Poi lei si rizzò e le dissi:
- Ti amo.
- Sss, ci sono cose che non vanno dette.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Dal primo momento, da quel davanzale.
- Quella sera avevo perso il pullman precedente, fu un caso che passassi di lì a quell’ora.
- Il caso, la casualità, senza di loro la vita sarebbe davvero noiosa.
- Tu ci credi nell’amore?
- Cosa ti viene in mente adesso?
- Che cos’è l’amore?
- Sei tu.
- Risposta sbagliata, siamo noi.
- Voglio passare tutto il mio tempo con te.
- Non è possibile.
- Ma io lo voglio lo stesso. Voglio regalarti viaggi, conoscenze, emozioni.
- Me le stai già facendo provare.
- Non abbastanza, non sarà mai abbastanza, voglio che tu sia la donna più felice del mondo, la regina del
mondo.
- Per ora mi accontenterei di essere una principessa.
- Sul pisello?
- Sì, ma non il tuo.
- Lo sapevo, hai un altro.
- Ci sei solo tu.
- Dimostramelo.
Anche in questo caso, e sempre per decenza, non le racconto la dimostrazione. Ma non facemmo l’amore,
non era ancora il momento.
Più tardi, stesi sul letto sfatto ma ancora vestiti e legati in uno stretto e morbido abbraccio, pensavo alla
nostra condizione, a quello che il futuro poteva riservarci. Mi accorsi con una punta di perplessa meraviglia
che stavo pensando per due.
- Dobbiamo partire – le dissi.
- Per dove, tesoro?
- Non lo so, da qualche parte.
- Ancora con quell’idea?
- Sì, quando sono felice mi si presenta sempre davanti agli occhi, evidentemente mi sorride.
- Come facciamo? Con che soldi?
- Lo so, ne abbiamo già parlato.
- Però, anche solo pensarci mi fa sentire meglio mi annunciò con un sospiro.
- Vieni qui, abbracciami forte, voglio sentirti.
- Così mi senti?
- Sì, amore, tu sei il mio amore.
A quelle parole il mio corpo si bloccò. Mi irrigidii.
- Cos’hai detto?
- Che sei il mio amore, che c’è di strano? – mi chiese, preoccupata.
Ma io avevo capito. Ora sapevo.
- Cos’hai? – chiese Tamara liberandosi e girandosi a guardarmi, turbata. – Stai bene?
Mi si era materializzato quel dettaglio che da qualche giorno mi sfuggiva. Chiaro come il sole.
- Le more! – dissi – Sei speciale! – le urlai abbracciandola e saltando sul letto.
Mi vuoi spiegare qualcosa, brutto imbecille che non sei altro? – mi rimproverò dopo che nella foga le
avevo pestato un piede.
Se è vero che il vecchio ha sepolto il suo patrimonio – le annunciai, frenetico – forse, anzi, quasi
sicuramente, ho scoperto il nascondiglio. Il roveto! Ecco quello che avevo notato ma non riuscivo a mettere a
fuoco. Il roveto! – ripetei, sempre saltando sul letto.
- Il roveto? Dove ci sono le more?
Ecco cosa mancava nella prima foto e invece c’era nella seconda! Quand’è che il vecchio ritirò i soldi
dalla banca a causa della rapina?
- Circa quarant’anni fa.
- E circa quarant’anni fa iniziò a coltivare il roveto. Personalmente. Quel luogo è inavvicinabile per tutti.
- Perché è una qualità speciale, ci ha spiegato, in più ha paura che gliele rubiamo.
- Ma perché ha deciso di metterlo in quella posizione, te lo sei mai chiesta? Se ci pensi è strategica.
- Non conosco bene la zona, sono sempre in cucina, l’unica volta che ci sono andata mi ci hai portato tu.
Già, mi ero sempre chiesto perché non l’aveva messo sotto casa, ora capisco. Dai tre lati scoperti è
impossibile accedervi, si viene sicuramente visti, il quarto lato invece è riparato naturalmente dal fiume.
- Secondo me ti stai immaginando tutto.
- Può essere, ma può anche essere che abbia ragione.
- Non pensarci, vieni qui a coprirmi di carezze.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Quella notte non riuscii a dormire, sebbene fosse un’idea assurda e ci fosse mezza possibilità su un milione
che avessi ragione, qualcosa nel mio modesto cervellino mi diceva che dovevo continuare a crederci, che
dovevo scavare, in tutti i sensi.
Più ci pensavo e più mi dicevo di aver ragione, di aver visto giusto, di aver avuto l’intuizione regina; Tamara
non era d’accordo, diceva che stavo vaneggiando e dovevo tornare coi piedi per terra. Ma il pensiero di quel
tesoro mi stava ossessionando. Terribilmente ossessionando, io lo vedevo, me lo immaginavo, lo sognavo
addirittura di notte, si rende conto, signor Landi?
- La capisco benissimo. Ma come faceva a essere così sicuro del nascondiglio? Possibile che il figlio non
ci avesse mai pensato?
- Gliel’ho detto – disse Ettore guardando l’ospite con un sorriso – il figlio era un cretino, non ci sarebbe mai
arrivato.
- Sicuro? Magari stava aspettando il momento propizio.
- Non credo, conoscendolo sono sicuro che, una volta entrato in possesso dei soldi, si sarebbe dato alla
pazza gioia dilapidando la fortuna.
Il Landi non ci vide più:
- Lei invece avrebbe saputo cosa farsene? – esplose, alzandosi e alzando anche il tono di voce, fino a quel
momento pacato – Anche lei si sarebbe dato al divertimento più sfrenato, cosa le fa pensare che la sua
scelta sarebbe stata la migliore?
Ettore si stupì per lo sfogo, restò allibito e la sbronza non lo aiutò certo a dissimulare la reazione.
- Mi sono lasciato trasportare un po’ troppo – si scusò subito il Landi tornando a sedere – è che davvero
mi è difficile pensare come lei. Se i soldi erano di quel Giovanni a lui dovevano restare e a lui toccava
spenderli come meglio credeva, non pensa?
Sono perfettamente d’accordo, però deve convenire che non è giusto che ad avere i soldi debbano
essere sempre le teste di cazzo.
Il Landi sbatté violentemente il pugno sul tavolo. L’ira gli aveva nuovamente agguantato l’animo.
- Continuo a ripeterle che lei non può giudicare le fortune degli altri.
- Devo pensare a me stesso.
- Esatto, gli altri penseranno a loro stessi.
- E sarà un mondo di individualisti.
- Embé? Più la gente si fa i cazzi suoi e meglio si sta.
- Allora deve sentire la continuazione della storia – disse Ettore con calma.
Come le stavo dicendo quei soldi diventarono un vero e proprio tormento, persino Tamara mi rimproverava
di pensarci troppo. Però – ed Ettore si sporse verso il Landi – lei sarebbe riuscito a vivere sapendo di
camminare e lavorare a diretto contatto con una fortuna? Più volte, in quei giorni, scoprii che la mia mente,
invece di tranquillizzarsi e pensare ad una vita normale, abbozzava piani di avvicinamento al roveto, mi
spingeva ad andare dalle parti di quella zona selvaggia, così, giusto per dare un’occhiata.
Deve capire che per me si trattava di un gioco.
Lo scopo?
Rubare un intero patrimonio.
Così mi immaginavo di scavare una galleria, di passare di soppiatto in mezzo al roveto, con le spine che mi
graffiavano la carne delle gambe e delle braccia e del viso, dove poi sarebbe rimasta una cicatrice in ricordo
del mio gesto. Immaginavo i luoghi dove potevamo fuggire io e Tamara, luoghi esotici, luoghi caldi, ma
anche freddi, con tutti quei soldi avremmo potuto girare il mondo, senza fermarci mai, alla ricerca della
felicità, della nostra felicità. Avremmo potuto decidere giorno per giorno il nostro futuro, nulla si sarebbe
interposto fra noi e la nostra spensieratezza, nulla avrebbe potuto intaccare il nostro amore, perché noi due
insieme potevamo costruire qualsiasi cosa, lo sentivo dentro di me.
Purtroppo, quando la mente tornava al quotidiano, queste mie fantasie si scontravano inevitabilmente con la
realtà, con le mille domande che si affannavano a trovare una risposta nel mio cervello. Era davvero quello il
nascondiglio? E se sì, come avvicinarsi senza essere scoperti? E lì in mezzo, dove cercare? Ma soprattutto,
Tamara era d’accordo con me?
Non trovavo le risposte, o forse non volevo trovarle, era un modo per tenermi tranquillo, perché dopo la
rivelazione di quelle due foto non ero più io, me lo diceva pure Tamara. Ma non potevo farci nulla, la mia
fantasia vinceva sempre, mi portava in alto, in volo, a sognare.
Finché un giorno Alfredo accese una luce nel mio tormentato buio.
Mi pare fosse inizio giugno o giù di lì perché faceva un bel caldo. Per tutta la mattina lavorammo ai vigneti
proprio a ridosso del roseto, una vera tortura per me, dovevo controllare le viti e invece mi sorprendevo
spesso con lo sguardo immerso in quell’oceano di spine.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Quando fu l’ora della pausa pranzo salimmo sul giogo e, stesi all’ombra di una quercia secolare,
mangiammo un panino osservando il panorama della fattoria. Alfredo mi guardava mentre addentava il suo
panino, ma non ci feci caso, stavo osservando il mio assillo, il roveto, era più forte di me. Con Alfredo,
sebbene ci conoscessimo da poco, eravamo riusciti a costruire un buon rapporto, era un responsabile
capace e organizzato, nella sua semplicità. Spesso si mangiava assieme, così c’era l’occasione di far
quattro chiacchiere. Capii che era affascinato dalla vita dei viaggiatori, mi aveva raccontato di essere uscito
solo due volte dall’Italia, entrambe con sua moglie, la prima per recarsi in pellegrinaggio a Santiago de
Compostela, la seconda per il matrimonio della figlia con un francese a Nantes. Probabilmente erano i miei
viaggi a rendermi particolarmente simpatico ai suoi occhi.
Ma quel giorno Alfredo mi stupì e mi prese in contropiede, facendomi capire quanto fosse sveglio quell’uomo
ormai prossimo alla pensione.
Cosa ci trovi di interessante in quell’intricato ammasso di spine? – mi chiese all’improvviso. Senza
motivo, e fu molto eloquente per me, mi sentii come i bambini che vengono sorpresi con le mani nel vaso
delle caramelle.
- Come? – domandai cercando di prendere tempo per pensare.
- Ho notato che da qualche giorno guardi sempre il roveto – continuò, girando lo sguardo alla sua destra,
fintamente disinteressato.
- Dici? No, non c’è nulla di interessante laggiù.
- Ti sbagli di grosso.
Non sapevo che dire, che gli prendeva ad Alfredo? Poi si girò verso di me, e avvicinandosi mi disse
sottovoce:
Ho fatto una scommessa con me stesso, ma l’ho persa a causa tua, ti avevo sopravvalutato. Mi ero
chiesto quanto ci avresti messo a scoprirlo e ti avevo dato un mese, un mese e mezzo. Invece tu ce ne hai
messi quasi due.
- Di che stai parlando? – continuai nella mia incredulità, falsa fino al midollo.
- Hai capito benissimo. Sei un ragazzo sveglio, Ettore, ce la puoi fare.
Non credevo alle mie orecchie, Alfredo mi stava suggerendo di tentare il colpo. Sempre che di questo
stessimo parlando, lui evitava in ogni modo di essere preciso.
- Ci ha già provato qualcun altro? – buttai lì.
- Sì, ma sempre nel posto sbagliato. Del resto a nessuno verrebbe in mente di cercare lì.
- A me e a te sì, a quanto pare.
Siamo i giardinieri, giriamo tutto il giorno per questo ambiente, a meno di non essere completamente
imbecilli prima o poi lo si capisce.
- Quanto ci hai messo tu?
- Conosco il segreto di quel posto da dieci anni.
- Perché non ci hai mai provato?
A 50 anni? Rischiare di perdere tutto? No, ho aspettato, sapevo che prima o poi quello che avevo
scoperto sarebbe venuto utile ad altri.
- Ma ci sarà una fortuna!
- Certo, ma mi ritengo più fortunato io. Sono in salute, sposato con una moglie che amo e che mi ama e fra
un anno e mezzo sarò in pensione. No, non fa per me. Ma tu hai la vita davanti, e sei un romantico, l’ho
capito dal primo momento che sei arrivato. Mi sei simpatico, sei un bravo ragazzo, magari un po’ più di
voglia di lavorare non ti farebbe male, ma sei onesto, non ti sei mai approfittato di me.
- Tu dici che si può fare?
Poi mi venne in mente che mi stavo allargando un po’ troppo, perché tutti questi complimenti? Cominciavo
già a non fidarmi delle persone.
- Certo, con un po’ di organizzazione può riuscire.
- E chi mi dice che in realtà non sei d’accordo con loro? Che forse mi stai spiando? Scusa, ma in questo
posto la diffidenza è d’obbligo.
Per questo ti spingo a farlo, ruba tutto e lasciali in braghe di tela, questa gente non merita altro. Poi
vattene, abbandona questo luogo e vai a viverti la vita altrove, non inquinarti l’animo da queste parti.
- E a te cosa te ne viene?
- La soddisfazione di aver fatto qualcosa per rovinarli.
- Ma mi hai detto che il vecchio era una brava persona.
- Ma da qualche giorno tutto quello che ruberai è di Giovanni, non ci avevi pensato?
Queste parole cambiavano tutta la prospettiva. Era vero, avrei derubato un furfante, un farabutto, uno che
quei soldi non se li meritava, mi sarei sentito meno colpevole, una volta riuscito il piano. Se riusciva.
Ma il dialogo con Alfredo aveva aperto nuovi scenari.
Avevo avuto la conferma dei miei sospetti e, soprattutto, era possibile il furto.
Mi scoprii sotto una luce diversa. Per la prima volta non ero solo nei miei piani, mi veniva automatico
pensare anche a Tamara. Se tutto questo fosse accaduto l’anno precedente, probabilmente avrei messo in
atto il mio piano da solo, ora sentivo il bisogno di coinvolgere Tamara.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
E se lei avesse rifiutato non sono sicuro, ancor’oggi, che avrei proseguito nella mia idea. Questo pensiero mi
turbava, era evidente che l’innamoramento per Tamara era ormai totale.
Ma anche la mia coscienza era messa a dura prova. Non sono mai stato uno stinco di santo, ma per la prima
volta nella mia vita mi trovavo ad avere la possibilità di infrangere le regole per ottenere una fortuna. Era
diverso dal rubare le caramelle o andarsene da un locale senza aver pagato, qui si trattava di
premeditazione, quindi di elaborare un piano e metterlo in pratica, significava trasformarsi in ladri
professionisti.
Ciò che più mi spaventava, riflettendoci, era che una volta fatto il colpo saremmo dovuti sparire per sempre e
chissà quando avremmo potuto fare ritorno in Italia, rivedere i nostri cari, i nostri amici, bisognava dare un
taglio netto per non essere scoperti. Così mi resi conto che nessuno doveva conoscere il mio piano, neppure
le persone più vicine a me dovevano conoscere la verità. Chissà se Tamara sarà disposta a questi sacrifici,
mi chiedevo.
Così mi trovavo a viaggiare sull’orlo di un burrone, restando dov’ero non cadevo, ma buttandosi la nostra vita
forse sarebbe migliorata. Oltre a questo c’era il piacere del gioco, mi sentivo l’eroe di un film, con la sola
differenza che in un film la sceneggiatura era già stata scritta; in questo caso ero io lo sceneggiatore e
chissà se avrei avuto la forza e la possibilità di portare a termine la mia avventura. Così restavo a crogiolarmi
nel possibile pensiero della rapina senza però decidermi a fare il passo decisivo, che in quel caso era
parlarne seriamente con Tamara.
Ma la classica goccia che fa traboccare il vaso stava arrivando, ancora non lo sapevo ma aveva le fattezze
di Giovanni.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
8
Eravamo in quell’epoca dell’anno in cui le giornate sembrano non finire mai e il caldo aumenta giorno dopo
giorno. Il paesaggio delle colline cambiava, da verde lussureggiante, almeno fino a una settimana prima, si
trasformava in giallo, il sole bruciava e seccava l’erba e le piante. Nel giro di qualche giorno quel colore,
tipico dei quadri di Van Gogh, sarebbe diventato predominante, segnando così l’ingresso nella stagione
calda, l’estate.
Tre giorni dopo la mia conversazione con Alfredo, Giovanni ci convocò, dopo le cinque ovviamente,
nell’ufficio che fino a poco tempo prima era del padre.
Allorché mi trovai nella stanza mi tornò alla mente il colloquio col vecchio Barbera nel giorno di pioggia, e la
sua idea del figlio.
Più guardavo Giovanni, vestito con un paio di jeans da lavoro e una camicia da boscaiolo stile Canada e più
compativo quel pover’uomo, costretto a cedere l’attività di una vita nelle mani di un incompetente che
probabilmente avrebbe rovinato tutto.
Giovanni ci invitò a sedere.
- Sarò breve – esordì – devo comunicarvi un paio di decisioni dell’azienda, quindi mie. Siamo in un difficile
periodo economico, ci sono pochi soldi. Di conseguenza dobbiamo ridurre le spese, a partire da voi. Voi
lavoratori costate troppo, lo Stato pretende troppe tasse da me e quindi sono costretto a licenziare alcuni di
voi.
- Ora, signor Landi, deve sapere che a me non importava granché di queste decisioni dal punto di vista
lavorativo, ma mettevano a rischio il mio piano.
Le espressioni di quasi tutti i miei colleghi erano invece un misto di attesa e terrore.
Giovanni proseguì.
- Ci ho pensato tanto e questa è la geniale idea: metà di voi, i più giovani e italiani resteranno alle nostre
dipendenze, gli stranieri in nero.
- E noi anziani? – domandò Alfredo.
- Avete sei mesi di tempo da ora per trovarvi un nuovo lavoro, questo è il preavviso che devo darvi per
legge.
- Non puoi fare questo – esclamò Alfredo – fra un anno e mezzo vado in pensione e con me anche loro
due – indicando i due pastori – chi ci vuole a questa età? Lasciaci qui ancora un anno e mezzo, poi ce ne
andiamo.
Giovanni sorrise. – E’ proprio questa la faccia che volevo vedervi fare. Siete stati bene con mio padre, anche
troppo, è ora di cambiare. Non me ne frega nulla della vostra pensione, non è un problema mio, ne ho già
abbastanza. Questo è deciso, signori, più avanti sarò più preciso. A proposito – stava uscendo e si voltò
verso di noi – aumenteranno le ore di lavoro ma non gli stipendi, mi ero dimenticato di avvisarvi.
E uscì ridendo. Noi restammo lì, vedevo l’angoscia nei volti di Alfredo e dei pastori.
- Una carognata – fu l’unico commento di Lorenzo.
I ragazzi stranieri cominciarono a parlare fra loro, notai che si erano formati tre gruppi, Alfredo e gli altri due,
vicini i ragazzi italiani e gli stranieri, tra cui anche Tamara. E poi io.
Ad un tratto Alfredo alzò lo sguardo e cercò il mio.
Vidi rabbia, disgusto, odio, pena, sorpresa; ma tanto bastò a farmi prendere una decisione. Me lo stava
chiedendo silenziosamente.
Io invece stavo pensando al perché una persona possa essere così malvagia, la risata finale mi aveva
inquietato moltissimo, sembrava uno di quei cattivi dei fumetti o dei film, ha presente?
- Beh – disse il Landi – anch’io sono imprenditore e posso capire, le difficoltà finanziarie portano a gesti
estremi. Del resto senza l’imprenditore non esisterebbero gli operai.
- Anche senza gli operai non esisterebbe l’imprenditore, da solo non potrebbe mandare avanti un’azienda
– rispose Ettore.
- Con l’unica differenza – continuò il Landi – che l’imprenditore rischia i suoi soldi, l’operaio no.
- Però gli operai, pur aiutandolo, otterranno comunque meno soldi, in proporzione.
- E’ tutta una questione di rischio, caro mio, io rischio e io ottengo di più. L’operaio non rischia e ottiene di
meno.
- Ma l’operaio non sarebbe operaio se avesse le possibilità economiche per aprire un’azienda.
- La smetta con sti discorsi pseudo - comunisti, ne ho già sentiti troppi – intimò il Landi con una smorfia che
esprimeva noia – e, se non sbaglio, anche lei è un imprenditore – concluse sardonico.
- Che fa, cambia discorso?
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Io resto dell’avviso che quel Giovanni ha fatto bene, a quel tempo gli extracomunitari si accontentavano di
un pezzo di pane e lui ne ha approfittato per risparmiare, un’ottima scelta, l’avrebbe fatta qualsiasi buon
imprenditore. E tenga presente che faceva un bene alla società, almeno quelle persone sarebbero rimaste in
fattoria a lavorare invece che a rubare o a spacciare per la strada.
Poi notò l’espressione di Ettore. – Scusi, mi ero dimenticato che a quel tempo lei stava con la Kosovara.
Ettore fece uno sforzo sovrumano per non rovesciare il tavolo sulla pancia del Landi e poi saltarci sopra, ma
qualcosa in quelle parole lo aveva colpito, l’annebbiamento dell’alcol però gli impediva di metterlo a fuoco. Si
ripromise di pensarci in seguito.
- Vada pure avanti – lo esortò il Landi – eravamo arrivati che …
- Me lo ricordo dov’eravamo – lo bloccò violentemente Ettore. Poi proseguì.
- E così quella sera parlai seriamente a Tamara del mio progetto. All’inizio non ne volle sapere, era
contraria a priori perché diceva che per quanto fosse giusto moralmente, restava comunque un furto. Lei non
voleva averci a che fare, che ci andassi io da solo, mi disse, ma sapevo che l’avrei persa.
Era però un’occasione imperdibile.
Ancora adesso, quando ripenso a quei momenti, non mi riconosco, il mio lato istintivo stava vincendo
nettamente la lotta con quello razionale. Pur essendone conscio, evitavo di riflettere sui rischi di tutta la
faccenda, per me esisteva solo la possibilità di un furto da film, di un futuro felice con la donna che amavo e
la possibilità di vendicarmi su un personaggio che tante ingiustizie creava. E così insistei a lungo finché
ottenni la promessa che ci avrebbe pensato a mente fredda.
Fortunatamente per me, Giovanni mi diede un inaspettato aiuto.
Un paio di mattine dopo, infatti, assistei a una scena disgustosa e che mi portò a conoscere il vero odio.
Stavo fumando una sigaretta vicino alla cucina, aspettando il momento propizio per salutare Tamara. Erano
all’incirca le undici, improvvisamente spuntò Giovanni, avvicinandosi a grandi passi.
Entrò in cucina senza vedermi, ero riparato da una siepe.
Mi accostai alle finestre e lo vidi mentre passava in rassegna i fornelli, interessato più alle cuoche che alle
pietanze.
Schiaffeggiò un paio di culi finché arrivò a Tamara.
La cinse da dietro e le diede un colpo col bacino.
Lei si scostò, ma lui le afferrò le braccia e la strinse a sé, cercando di baciarla.
Non ci vidi più, senza pensare entrai in cucina. Scoppiò il panico, le cuoche mi incitarono ad uscire, Giovanni
liberò la presa e Tamara corse da me.
- Lascia perdere – mi disse spingendomi – vattene.
- E tu che cazzo ci fai qui, non hai da lavorare? – mi apostrofò Giovanni. Poi si rese conto della situazione.
- E’ il tuo uomo? – chiese rivolto a Tamara.
- Sì – risposi io, ma non mi lasciò terminare.
- Sei così preso male da prenderti una kosovara?
Pronunciate da quell’essere orribile, quelle parole ebbero l’effetto di una scintilla in una raffineria.
Parla uno che per trombare deve probabilmente pagare il doppio del normale, dal momento che
nemmeno una kosovara ti lascia avvicinare – dissi andando verso di lui.
Fu un errore madornale, Giovanni arrossì di rabbia e, senza che me ne accorgessi, prese la pentola del
sugo bollente e me la scagliò contro. Riuscii ad evitare il grosso, ma una parte finì sulla spalla, ustionandomi.
Urlai e, nonostante il dolore mi avventai su di lui. Proprio in quel momento entrò suo padre, attirato
probabilmente dal mio urlo, a separarci.
Non volle sapere cosa fosse successo, semplicemente mi ordinò di andare a curarmi.
Ribollivo di rabbia, non tanto per l’ustione, ma per la prepotenza di quel bestione senza cervello.
Fu mentre mi allontanavo che presi la definitiva decisione.
Con o senza Tamara avrei tentato il furto, costasse quel che costasse dovevo vendicarmi e dare una lezione
a quell’imbecille.
E quella sera Tamara mi venne incontro.
Giunse a casa senza preavviso, cosa che non aveva mai fatto. Io ero a letto con un’abbondante fasciatura
sulla spalla. Quando entrò nemmeno mi salutò.
- Dimmi quando e sarò pronta – mi disse.
- Vieni qui.
Si avvicinò e si sedette sul bordo del letto.
- Lo fa da tanto?
Non disse nulla, ma lessi nei suoi occhi la verità
- Quella merda – sospirai – non si può uccidere come meriterebbe, ma gli daremo una lezione memorabile.
- Ho paura, Ettore, e se va male?
- Non può andare male, siamo noi due, la coppia infallibile.
Sorrise.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Sono convinto ci sia una giustizia da qualche parte – continuai – e ora ci sta guardando. Ma dobbiamo
fare in fretta, abbiamo poco tempo, fra poco suo padre gli svelerà il nascondiglio e sicuramente lui trasferirà
i soldi. E non so per quanto ancora lavorerò lì, dopo l’ultima scena.
- Grazie per oggi, anche dalle mie colleghe.
- Vedrai, rideranno tutti come matti, appena sapranno cos’abbiamo fatto.
Ma Tamara a quelle parole si incupì.
- Stavo pensando proprio a questo, se noi rubiamo tutto il patrimonio l’azienda chiuderà e tutti i lavoratori
verranno licenziati. Non credo saranno così contenti.
Io non ci avevo pensato, per molti di loro restare senza stipendio anche per un solo giorno significava
rivedere tutta la propria economia mensile. Avevo fatto i conti solo con la mia vita, senza pensare alle
conseguenze di quella degli altri.
- Prendi me – continuò Tamara - se resto senza stipendio per una settimana soltanto non arrivo a fine
mese e devo chiedere aiuto ai miei fratelli. Le due cuoche hanno due figli a carico, qui in Italia.
- A questo non avevo pensato, in effetti. Non smetterò mai di ammirare la tua sensibilità.
Non è questione di sensibilità, Ettore, credo sia solidarietà. Quando il tuo paese diventa povero le
persone povere tendono ad aiutarsi di più, l’ho notato a casa.
- Forse è perché tu hai dovuto sopportare queste esperienze e sofferenze che sei più sensibile di me.
Tamara mi guardò.
- Le sofferenze sono brutte per chiunque, tutto sta nel dove uscirà lo spermatozoo che ti genererà. Io sono
nata in Kosovo negli anni ’80 e ho dovuto vivere le mie sofferenze; tu sei nato in Italia e hai vissuto le tue. Se
io ti raccontassi le mie tu conosceresti, ma non arriveresti a comprendere appieno, così come succederebbe
a me se fossi tu a raccontare, sono esperienze troppo intime che hanno avuto significato solo per noi stessi.
L’importante è che siamo insieme a parlarne e ad amarci.
- Però le tue sono state più pesanti delle mie.
- Non vuol dire nulla, tutto dipende da come uno le vive e le elabora.
Mi accorsi che i dubbi di Tamara stavano frenando il mio entusiasmo.
- Ascolta, Tamara, io mi rendo conto che per loro sarà difficile, ma sarà difficile anche se resteranno con
quell’aguzzino, cosa ti sembra meglio? Liberarsene e cercare un altro lavoro o continuare a soffrire le
angherie di Giovanni? Andrà tutto bene, fidati, un giorno ti ringrazieranno per avergli dato l’opportunità di
sciogliere i legami con quel posto. Hai visto cos’ha fatto ad Alfredo e gli altri? Quando Alfredo mi ha guardato
ho letto nei suoi occhi un’implorazione, “provaci Ettore”, diceva. Glielo dobbiamo, Tamara, a lui e a tutti gli
altri.
Non disse nulla, solo mi scrutò negli occhi.
- Sei sicuro di quello che vuoi fare?
- Sì, ma non sono sicuro che riuscirà, bisogna mettersi subito al lavoro.
- Ettore, hai pensato alle conseguenze?
- Certo, saremo ricchi, felici e insieme per tutta la vita!
- Cretino, perderemo tutto, i nostri genitori, i nostri amici, le nostre cose, chissà quando potremo tornare in
Italia – disse preoccupata.
Fuggiremo in uno stato dove non c’è l’estradizione, poi aspetteremo che riducano ancora i tempi di
prescrizione ed è fatta – sorridendo al pensiero della giustizia italiana di quei tempi.
Mi guardò con odio.
Io osservai la delicatezza delle lentiggini che risaltavano sulle sue gote rosse dalla rabbia.
- Cosa ti devo dire? – provai ad aggiungere – Ogni scelta ha un prezzo, la nostra migliorerà la nostra vita e
quindi costa tanto.
- Sai cosa penso? Che per te sia solo un gioco, in qualunque modo finisca tu ti stai divertendo, stai vivendo
la tua avventura.
- E se anche fosse? Tamara, ci ho pensato anch’io a quelle conseguenze, ma non mi interessano, io mi
sto divertendo e per la prima volta nella mia vita ho la possibilità di fare un’azione fuori dal normale che nel
migliore dei casi mi darà la felicità, anche solo per la soddisfazione di averci provato. Non ci guadagno
solamente i soldi, c’è anche la vendetta, il gusto della sfida, dell’avventura, come dici tu. Ma di una cosa
sono sicuro: riuscirà, riuscirà perché ci sei tu e perchè lo faccio per te.
- Caro, io sono preoccupata, te lo dico subito, non sono sicura di dirti di sì.
Dalle rughe che si formarono sulla sua fronte capii che mi ero corrucciato in volto. E così arrivò la domanda
che tanto temevo.
- Se io ti dicessi di no, tu lo faresti anche senza di me?
Una miriade di pensieri diversi e contrastanti mi attraversarono la scatola cranica, scontrandosi ed
evitandosi. Dalla mia risposta dipendeva gran parte del nostro futuro. Così optai per la sincerità.
- Certo, senza alcun dubbio.
Rimase a osservarmi, imperturbabile, in silenzio.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- E ti aspetterei nel paese dove ci saremo dati appuntamento per raggiungermi – aggiunsi con un sorriso. Non voglio costringerti a far nulla contro la tua volontà, lo sai, posso fare tutto da solo e poi mi raggiungi,
questa è la mia idea. Da te voglio solo l’approvazione, nient’altro.
- Mi hai messo alla prova?
- In un certo senso sì.
- Mi sento stupida.
- Tu non sei stupida.
- Sì, perché voglio venire con te quando tu hai già pensato a come lasciarmi fuori per proteggermi.
- Vedi, tesoro, non mi ero mai sentito così, ogni giorno, fin da quando mi sveglio sento l’adrenalina che
scorre nelle vene, come posso rinunciare a quest’occasione? Farò tutto da solo così tu non dovrai fuggire e
mi raggiungerai da cittadina onesta. Perfetto, no?
- No, voglio essere al tuo fianco, sarà la nostra prima esperienza forte insieme, voglio seguirti sempre.
- Questa era la risposta che volevo, cara, perché io voglio stare sempre insieme a te.
Quella sera non tornammo a casa, prendemmo una stanza in una pensione in un paese vicino e, per la
prima volta da quando ci conoscevamo, dormimmo nudi e abbracciati per tutta la notte.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
9
Il sole calava sul mare, Ettore adorava guardarlo scomparire, inghiottito dall’orizzonte. Ma era ancora presto,
e osservare il sole direttamente, senza occhiali da sole, gli fece volgere repentinamente lo sguardo, ormai
inevitabilmente disturbato da un lampo nero che vagava nel suo campo visivo, saettando e valzereggiando,
non abbastanza però da impedirgli di vedere spiaggiofili di vario genere che, prima di tornare in città, si
stavano riversando nel suo bar desiderosi di rinfrescarsi la gola con una bevanda fredda.
Anche il campo da calcio si riempiva progressivamente di bambini e ragazzi pronti a sfidarsi con tutto
l’entusiasmo della loro età. Ettore li osservava, da qualche tempo rimpiangeva che il destino gli avesse
negato la gioia di avere dei figli, era convinto che sarebbe stato un buon padre.
- Lei ha figli? – domandò al Landi che stava guardando l’ora. Le cinque e trenta.
- No – rispose asciutto.
- Non ne vuole parlare?
- Non mi sono mai posto il problema di averne.
- Non è nemmeno sposato?
- Lo sono stato – rispose il Landi volgendo lo sguardo verso l’orizzonte marino – ma ho conosciuto anche
la trafila del divorzio.
- Mi spiace. Per i figli voglio dire. Devono essere una vera gioia per un genitore.
- A dir la verità io li ho sempre visti come un peso, una difficoltà in più in un rapporto di coppia.
La discussione venne troncata da un urlo.
- Hector, soy aqui.
I due uomini si voltarono, Ettore aveva riconosciuto quella voce di bambino.
- Miguelito, siete tornati?
- Sì, Hector, stiamo andando a giocare a calcio.
- Miguel, vieni qui, ti presento el senor Landi.
- Piacere – disse il ragazzo. “O forse bambino”, pensò il Landi, sapendo che da quelle parti dimostravano
più della loro età.
- Mi ha detto Jim che mi cercavi, Hector.
- Sì, devo chiedere un piacere a te e ai tuoi amici.
Improvvisamente al campo di calcio scoppiò il putiferio, i ragazzi cominciarono a litigare.
- Scusi – disse Ettore al Landi – devo andare a vedere che succede. Ma alzandosi inciampò col piede sulla
gamba del tavolino e crollò rovinosamente in avanti, trascinando con sé il tavolo e tutto il suo contenuto.
Miguelito scoppiò in una grassa risata e si piegò con le mani sulle ginocchia, il resto degli avventori
osservarono la scena con divertito distacco, per una volta tanto non toccava a loro rimediare una figuraccia.
Il Landi si vergognò per Ettore, in quel momento il suo più grande desiderio era essere lontano km da quel
disgraziato di un alcolizzato. L’unica fortuna era che i suoi amici non potevano vederlo e quindi giudicarlo.
Nel frattempo Ettore, alquanto barcollante, si era alzato con un gran sorriso e, aiutato da Miguelito, si stava
allontanando.
Arrivati al campo di calcio, Ettore entrò e fece da paciere tra gli animi surriscaldati dei ragazzi. Gli piaceva
stare lì in mezzo, solitamente lui faceva l’arbitro-giocatore nelle partite.
- Oggi ci arbitri? – domandò uno di loro.
- Non posso, sono con un amico. È venuto da lontano, non posso trascurarlo. A proposito, Miguelito, vieni
qui che ti spiego una cosa.
Il Landi nel frattempo attendeva, sempre più insofferente. Ordinò a Rosa un succo per sé e un’altra bottiglia
di rum per Ettore. “Sarà contento lui e sarò contento io” pensò fra sé. Si godeva quel momento di calma e
tranquillità, per quanto glielo permettessero la confusione di voci e risa che lo circondavano.
Ettore tornò, riuscendo a schivare senza danni persone e tavolini. Si sedette massaggiandosi la spalla
sinistra.
- Una bella botta – commentò il Landi.
- Sono abituato, non è un problema! Vedo che ha ordinato un’altra bottiglia, sono fiero di lei.
- Sapevo di farle un piacere.
- Gliel’ha portata Rosa?
- Certo.
- Gran donna – esclamò Ettore.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Nonostante la confusione Rosa lo sentì e si girò. Si strizzarono l’occhio a vicenda, il Landi non poté non
notare la complicità fra i due e una punta d’invidia lo colse, non gli era mai riuscito, in tutta la sua vita, di
raggiungere un simile grado di complicità con un essere umano. Eppure dentro il suo cuore lo avrebbe tanto
desiderato. Si accorse che si stava abbandonando a facili romanticismi e decise di darci un taglio netto:
- Eravamo arrivati che lei e Tamara avevate concluso di mettere in pratica il vostro piano.
- Ah sì, è vero, complimenti per la memoria. Ma … ha visto Miguelito? E’ un ragazzino fantastico,
conosciuto quando sono arrivato qui. In modo piuttosto poco ortodosso, a dire la verità, visto che tentò di
rapinarmi.
Il Landi osservava Ettore, interrogativamente. Ma quello proseguì.
- Lui e la sua banda provenivano da La Tortuga, la città qui vicino, e qui cercavano vacanzieri da
ripulire. Con me, però, capitarono male, quella sera non avevo nemmeno un soldo, me li ero bevuti tutti. Mi
circondarono, in un vicolo buio, in tre con il coltello in mano.
- Dacci i soldi – mi intimarono.
- Non ne ho, bambini.
Non avevo ancora capito bene in chi mi ero imbattuto.
- Non siamo bambini, e tu hai i soldi.
- Io sono triste, ragazzi, e me li sono bevuti tutti – replicai.
Si avvicinarono, minacciosi. Sebbene fossero davvero bambini, nei loro occhi non c’era nulla, né paura, né
divertimento, né senso di colpa.
Mi spaventai, pensai che per loro accoltellarmi non significava nulla se non togliere di mezzo un turista
qualsiasi.
Svuotai le tasche, esibendo la desertificazione avvenuta al loro interno durante la serata.
- A casa ne avrai, andiamoci – mi ordinarono.
- Va bene, ma mettete via i coltelli, mi fanno impressione.
I tre si guardarono e io, approfittando di quel loro attimo di disattenzione, fui rapidissimo e afferrai proprio
Miguelito. Gli tolsi l’arma, lo feci cadere e gliela puntai al collo, salendogli sopra in modo da bloccarlo. Non
durò più di due secondi.
I suoi amici ora erano spaventati, si notava benissimo.
E ora che facciamo? – domandai – Ti rendi conto – rivolgendomi a Miguelito – che potrei ucciderti in
questo istante?
Non rispose, voleva sembrare coraggioso ma lo sentivo tremare, sotto di me.
- Come ti chiami? – gli chiesi.
- Miguelito – rispose, cercando di sfoggiare la voce più sicura che poteva per quell’occasione.
Lo ammiravo, aveva un gran sangue freddo.
- Caro Miguelito, che devo fare con voi? O vi uccido, così non avrò più rogne con voi, o vi lascio liberi, ma
prima o poi ci rincontreremo. Che fare? Che terribile dilemma, forse è meglio scegliere la prima ipotesi.
Impugnai saldamente il coltello e feci il gesto di alzarlo.
Gli altri due urlarono “No!”, poi scapparono.
- C’è solidarietà fra voi, vedo – feci notare al mio piccolo prigioniero.
- E’ la regola – rispose Miguelito – chi è così stupido da farsi beccare viene lasciato al suo destino.
- Io, invece, i miei amici li ho sempre aiutati. Ma forse loro non sono tuoi amici.
- Sono la mia banda, io sono il capo.
- Lo eri, visto che fra cinque minuti sarai morto – gli risposi, fingendo crudeltà.
Ora era spaventato veramente, ma resisteva, non mi chiedeva di lasciarlo andare.
- Non hai paura di morire? – proseguii.
La morte la conosco da quando ho cinque anni, non c’è problema. Nella mia vita è una presenza
costante.
Lo capivo, in tutti quegli anni avevo visto le condizioni dei bambini in quei paesi, e non potevo che essere
d’accordo con lui.
- Non potrai più giocare – continuai – né ridere e scherzare.
- Non l’ho mai fatto.
- Però potresti farlo, tempo ne avresti.
- Sbrigati, uccidimi o liberami.
Non ne poteva più.
- Facciamo un patto. Io ho intenzione di stabilirmi qui, per un po’. Ma ho delle idee che sono incompatibili
con la vostra presenza. Come facciamo?
Era una domanda retorica, avevo già deciso tutto.
- Facciamo così, io ti libero e voi lascerete in pace non solo me, ma anche i turisti. Ti va?
Ci pensò un attimo.
- Equivale a morire, noi viviamo di rapine.
- Da oggi non più. Avete due scelte, o cambiate voi, oppure cambiate città.
- Ma tu chi sei?
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Uno che non ha voglia di perdere tempo con queste stupidaggini, voglio stabilirmi qui e non avere rogne,
semplice.
Aveva capito di aver perso.
- D’accordo, ci sto.
Misi il coltello in tasca e lo liberai.
Cominciò a correre a perdifiato e si voltò a guardarmi una sola volta.
Non seppi più nulla di loro fino all’estate successiva, quando furono richiamati dall’arrivo dei turisti.
Ma ebbero una brutta sorpresa quando mi videro al bar. L’avevo appena preso in gestione, e stavo
cominciando a costruire il campetto qui dietro. Molti bambini del posto già mi conoscevano e le mamme
sapevano che quando venivano a giocare vicino al bar erano sicuri, li controllavo io, talvolta dal locale, poco
distante, talvolta giocando con loro.
Mi piaceva osservare Miguelito e la sua banda che, da lontano, ci guardavano divertirci. Era troppo anche
per i loro animi induriti da anni di vita di strada.
Giorno dopo giorno tendevano ad avvicinarsi sempre più, io li guardavo ma non intervenivo, volevo che
fossero loro a venire da me.
Così, un giorno, fu proprio Miguelito, in qualità di capo, a chiedermi se potevano aiutarci nella costruzione
del campetto.
Da allora, che io sappia, non hanno più toccato un’arma, e sono diventati i piccoli aiutanti di Jim e Rosa, loro
ci aiutano e noi procuriamo loro due pasti al giorno e un ricovero per la notte. Devo dire che sono molto
soddisfatto di questo, anche se sono sicuro che Tamara avrebbe fatto di meglio. In ogni caso, ora Miguelito
è uno dei miei più fidati collaboratori.
Ma torniamo a noi e alla nostra storia.
Da quella sera con Tamara la mia vita era cambiata definitivamente, il piano prese il sopravvento su tutto.
Ero giunto alla conclusione che l’unico lato da cui potevo entrare nel roveto era quello del fiume.
Perciò il sabato mattina seguente, alle sei, dopo una serata col Peti e gli altri, mi recai da solo sulla sponda
opposta a quella del roveto.
Era l’alba, e la rugiada, nonostante il mio sforzo di alzare i piedi, mi bagnò tutta la punta delle scarpe nel
tragitto fino alla riva.
La trovai senza difficoltà, conoscevo bene quei posti. Il problema era attraversare il fiume, che in quel punto,
facendo il calcolo, arrivava a circa metà busto, ma scendeva velocemente, la corrente poteva travolgermi.
Mi sedetti su un sasso sulla riva, mi feci una canna e, fumandola, elaborai il piano definitivo. È incredibile
come il nostro cervello, se sollecitato positivamente, risponda prontamente e con estrema sicurezza. Il solo
pensiero di me e Tamara felici con tutti i soldi creò un disegno che io considerai perfetto.
Mi servivano solo due informazioni fondamentali, una me l’avrebbe data il Peti, l’altra, molto più delicata,
forse la conosceva Alfredo.
Telefonai così al Peti, sperando che non fosse già a letto.
Invece mi rispose la sua voce insonnolita.
- Ho bisogno del tuo computer – gli dissi – adesso arrivo.
- Ma cosa …
Avevo già riattaccato e infilato il casco. Dieci minuti ed ero a casa sua.
- Ti pare il momento?
- Mi serve assolutamente il tuo computer.
- Non potevi aspettare oggi pomeriggio?
- No, ora – dissi entrando e togliendomi la giacca.
- Mi spieghi?
- Prima il computer.
Mi assalì un pensiero. Non avevo pensato che piombare a quell’ora in casa altrui avrebbe comportato delle
spiegazioni. Era uno sbaglio, mi ero lasciato trasportare dalle emozioni. Non potevo spiegare nulla, il piano
doveva restare segreto. Però il Peti era il mio migliore amico, non potevo tenergli nascosto il mio tumulto.
“Cazzo”, pensai, “aveva ragione Tamara, bisogna pensare a tutto”. Ma lui era il Peti, e così decisi di
spiegargli tutto.
- Non sei normale – fu il suo commento – quella tipa ti ha tolto quel poco di cervello che ti ritrovavi.
- Non ti rendi conto? Scapperemo, e saremo felici per tutta la vita.
Mentre pronunciavo quelle parole avevo l’esatta sensazione che non mi capisse affatto.
Ma mi sbagliavo.
- Quello che stai facendo è giusto, anche se tecnicamente è un furto. Mio padre dice sempre: “Se non ci
fossimo noi ricchi non esisterebbero i ladri”. Ma lui è sempre stato una brava persona, in fondo, e non gli è
mai successo nulla. Se tu hai preso questa decisione devi portarla fino in fondo. Sai, sapevo che sarebbe
successo, non pensavo così presto, ma lo sapevo. E sono fiero di te – concluse.
Queste parole, dette da un ragazzo che dalla vita aveva avuto tutto senza difficoltà, quasi mi commossero,
ma non potevo darlo a vedere. Lo abbracciai, poi andammo al computer e seppi quello che dovevo sapere.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Beata la tecnologia e i ricchi che possono permettersela, la risoluzione del computer del Peti era altissima e
precisissima.
Quando feci per andarmene il Peti mi fermò.
- E’ l’ultima volta che ci vediamo?
Mi si strinse il cuore, per la prima volta toccavo con mano quelle conseguenze che mi si erano prospettate
solo nella mia immaginazione. Allora domandai al Peti, nonostante conoscessi già la risposta:
- Vuoi unirti? Sei il benvenuto, sarei contentissimo.
- Perché mi fai delle domande di cui conosci già la risposta?
- Perché non bisogna mai smettere di sognare e di sperare.
- Bisogna anche cominciare, e io non l’ho mai fatto, mi è sempre stato impedito. Tu sei quello che avrei
sempre voluto essere, per questo spero che vi vada tutto bene.
Ci abbracciammo.
- Non è detto che non ci sentiremo più. Ti farò sapere dove siamo e ci verrai a trovare.
- Sai cosa mi dispiace, oltre alla tua partenza? Le piante, col tuo lavoro le avresti accudite meglio che una
figlia.
Sorrisi.
- Ti spiego dove sono, puoi raggiungerle anche senza entrare in fattoria.
- Sarebbe stato più bello fumarle in due, ma va bene lo stesso.
Glielo spiegai e gli disegnai una mappa.
Purtroppo ancora non sapevamo che non le avrebbe mai fumate, quelle piante, sarebbero servite a ben
altro.
Il giorno seguente, il lunedì, parlai con Alfredo. Le giornate stavano diventando molto calde, luglio si
avvicinava con il suo sole caldo e le giornate lunghe, binomio perfetto per la buona riuscita del piano.
Durante la mattinata mi fu spiegata parte delle informazioni che desideravo.
Da Alfredo venni a sapere che il vecchio Barbera aveva sistemato l’entrata sul lato scoperto, quello più lungo
che dava sulla fattoria. Il perimetro del roveto era rettangolare, i lati corti davano sulla parte scoperta, quella
visibile dall’agriturismo, per intenderci, i due lunghi davano uno sul lato scoperto, l’altro sul fiume. Io avevo
deciso di entrare da questo, sebbene fosse impenetrabile, anche alla vista.
- Fai bene – mi spiegò Alfredo – l’unico tuo accesso possibile è quello.
- L’ho perlustrato ieri mattina, sarà molto complicato.
- E’ l’unica via, dovrai farti largo fra i rovi.
- Ci ho già pensato, è tutto a posto.
- Quando entrerai?
- Mercoledì o giovedì notte. Tu sai se sono effettivamente sepolti, i soldi, o sistemati diversamente? Te lo
spiego perché dal satellite, col computer di un amico, ho visto che lì in mezzo c’è una specie di costruzione.
- Mi dispiace, non ne ho idea, non te lo so proprio dire. Cos’è questa storia della costruzione?
- Lì in mezzo c’è una specie di capanna, magari sono custoditi lì.
- Può darsi, in ogni caso sappi che dovresti trovare anche i libri mastri di questi quarant’anni. Ti ammiro,
Ettore, avessi vent’anni di meno sarei con te.
- Mi farebbe molto comodo, un complice. Ma anche così sei più che utile. Sai cosa ho pensato? Prima di
andarmene ti lascio un po’ di soldi in un luogo che possiamo concordare adesso, anche tu ci devi
guadagnare da questa storia.
- No, lascia perdere, tienili e goditeli tutti.
- Almeno quelli per coprire i contributi di quest’anno e mezzo, così vai diretto in pensione.
Sorrise, poi mi pose una mano sulla spalla.
- Sei un caro ragazzo, fidati che il vecchio, qui, riuscirà a cavarsela in ogni caso.
- Per qualche ragione non vuoi sporcarti le mani con questi soldi.
Lo faccio per mia moglie, non approverebbe. Nella nostra vita ci siamo sempre arrangiati, ne verremo
fuori anche stavolta, ne abbiamo passate di peggio.
- L’hai già detto, come vuoi tu. Ma così mi fai sentire sporco e illegale.
- Non avere rimorsi, fallo e basta. Sono certo che quando sarai ricco e al sicuro non ci penserai più, la tua
coscienza verrà placata dai divertimenti che potrai concederti. Io sono vecchio, non ho più il coraggio per
queste cose, ma ho l’esperienza per aiutarti fin dove possibile.
Gli strinsi la mano, era una brava persona.
Finito di lavorare andai a casa, feci una doccia e passai a prendere Tamara. Dovevamo comprare il
necessario per attuare il piano. Era deciso, avremmo agito nella notte tra mercoledì e giovedì, lo sapevamo
solo noi.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
La sera di martedì, ventiquattrore al colpo, la passammo con i rispettivi genitori, poi uscii e andai dal Peti. Ma
non mi diressi subito da lui, feci un lungo giro, dovevo schiarirmi le idee. Nemmeno a farlo apposta a cena i
miei mi avevano chiesto cosa pensavo di fare della mia vita, “E’ ora che metti la testa a posto” affermarono
entrambi. Dissi che pensavo di partire l’indomani per le ferie e che ci avrei riflettuto, per la prima volta nella
mia vita stavo mentendo loro, e non fu facile. Erano sempre stati dei bravi genitori, con loro non ero mai
dovuto ricorrere a una bugia, erano riusciti a comprendermi persino durante l’adolescenza, il periodo più
turbolento nella vita di un essere umano. Quella sera mi sentii – scusi il termine – una vera merda dovevo
riflettere e convincermi di essere sulla strada giusta. Mi assalirono i primi dubbi, ero davvero sicuro di quello
che volevo fare? Mi accorsi che in quell’istante, per la prima volta, stavo pensando seriamente alle
conseguenze della mia impresa. Prima o poi sarebbero venuti a conoscenza del mio gesto, sarebbe stato un
duro colpo per loro che mi avevano educato per essere un bravo cittadino del mondo. A loro non sarebbe
interessato nulla del carattere di Giovanni, ai loro occhi sarei diventato un ladro e basta, ne ero sicuro,
avrebbero cominciato a chiedersi dove avevano sbagliato, perché se avevo compiuto quel gesto doveva per
forza essere causa loro. E fu allora che mi resi conto della cosa più terribile. Deve sapere che io a quel
tempo ero figlio unico, mio fratello, di quattro anni più grande, era mancato in un incidente stradale, cinque
anni addietro un camion l’aveva travolto mentre si recava al lavoro in bici. Sarebbero rimasti senza figli, uno
strappato dal destino e l’altro dal suo stesso egoismo. Senza riuscire a trattenerle, dai miei occhi sgorgarono
due piccole lacrime che però non arrivarono a rigarmi le guance. Con un gesto secco della mano le asciugai,
e assieme a loro speravo si dissipassero anche i dubbi. Ma non fu così, nella mia testa si accalcavano mille
incertezze e insicurezze che rischiavano di minare seriamente il mio entusiasmo fin lì genuino e incrollabile.
Dovevo stare attento a non lasciarmi intaccare l’animo. E così mi diressi, davvero per l’ultima volta, dal Peti,
sperando di cancellare e dimenticare momentaneamente queste maledette preoccupazioni.
Il giorno dopo non andai a lavorare, dovevo organizzare la logistica. Tamara invece si comportò
normalmente, ci saremmo visti alle cinque.
Il piano era semplice, ma allo stesso tempo complesso.
Mi recai sul Tanaro, sulla riva dirimpetto al roveto e mi misi in costume come un bagnante in cerca di
solitudine e tranquillità. Nessuno mi aveva visto, era fondamentale. In quella stagione si riesce a guadare il
fiume senza problemi e riuscii a raggiungere un piccolo isolotto equidistante dalle rive. Per quella notte
sarebbe stato il nostro quartiere generale, non aveva una grande estensione, ma una volta in mezzo alla
vegetazione si era invisibili.
Nascosi uno dei due zaini che mi ero portato appresso, mi accertai che fosse quello giusto, quello con gli
attrezzi per il furto, perché, conoscendomi, ero in grado di confonderli e la sera mi sarei ritrovato una
sgradita sorpresa.
A quel punto rientrai in acqua e mi lasciai trasportare dalla corrente cinquecento metri più in basso, dove
sapevo esserci un piccolo arcipelago che si sviluppava longitudinalmente al fiume. La fortuna del Tanaro, e
mia in quel momento, è che cambia conformazione ogni anno, sicché non dà punti di riferimento.
Scelsi l’isolotto più nascosto, accostai e uscii dall’acqua. Ero congelato, per fortuna quella notte avremmo
avuto un canotto per compiere il tragitto.
Piantai la tenda che ci avrebbe dato rifugio per un paio di giorni. L’idea era quella di nascondersi per tre o
quattro giorni, attendendo che si calmassero le acque per poi uscire e fuggire. Immaginavo che i Barbera
avrebbero chiamato la polizia o i carabinieri, bisognava far credere loro che eravamo fuggiti quella stessa
notte. Per confondere meglio tutti quanti, la sera prima avevo prenotato, in un internet point, due biglietti
aerei per l’Olanda, due biglietti ferroviari per Dresda e una macchina a noleggio a Torino, pagando tutto con
la mia posta pay. Non ci avrebbero messo molto a scoprire che non avevamo usato nulla di tutto quello, ma
forse la confusione ci avrebbe aiutato a guadagnare tempo.
All’interno della tenda depositai lo zaino che conteneva i viveri e tutto il necessario per sopravvivere una
settimana.
Poi uscii e guardai il cielo.
Sereno.
Le previsioni chiamavano bel tempo per tutta la settimana successiva. Inspirai a fondo e trattenni il respiro.
Tutto era pronto, mancava solo Tamara.
Il cuore già mi batteva a mille, immaginavo l’adrenalina che si sarebbe scatenata nel mio corpo dandomi
quella splendida sensazione di iperattività che mi avvolgeva. Cominciai a immaginare il futuro che ci
aspettava. Ma in quel momento stranamente non ci riuscii, il pericolo che stavamo per correre cominciò a
farsi strada nella mia testa. E se ci avessero scoperti? Saremmo finiti in prigione entrambi, magari non per
molto, ma ci saremmo finiti. Mi rifiutai di pensare oltre ma era impossibile, vedevo il volto di Tamara
sconvolto, quello di mia madre in lacrime, quello comprensivo del Peti, mi immaginavo la cella, la vergogna
dei miei conoscenti nell’incrociarmi una volta libero. In quel momento pensai che la pena di morte era
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
davvero inutile, chi compie un reato deve per forza essere ottimista. Io, nonostante sapessi a cosa andavo
incontro in caso di malriuscita del piano, non ci pensavo, o forse rifiutavo una simile eventualità. Il pensiero
della felicità futura aveva una forza tale da spingermi all’estremo passo, a fregarmene anche della mia
coscienza. Capii che in quel preciso istante l’onestà innata in ciascuno di noi e che i miei genitori avevano
aiutato ad accrescere mi stava parlando, un ultimo tentativo per indurmi a tornare sui miei passi. Mi stavo
rendendo pienamente conto dell’enormità della mia decisione, delle conseguenze che si sarebbero
scatenate, e per la prima volta ebbi realmente paura. Non mi riconoscevo, era davvero Ettore quello che
aveva deciso e organizzato quell’azione?
Mi voltai verso la tenda, e la guardai con occhi diversi. Il fatto che fosse piantata significava che mi ero già
messo in moto, che avevo alzato il piede per iniziare quel passo che ci avrebbe fatto cadere nel vuoto. Stava
a noi riuscire a cadere in piedi senza farci male.
Ripensai agli ultimi sette mesi che avevano sconvolto la mai vita, dissipato le mie poche certezze, innestato
nuovi dubbi. Come avevo fatto ad arrivare a quel punto? E’ vero, ero sempre stato una testa calda e talvolta
mi ero cacciato in grossi pasticci, ma sempre nell’incoscienza dell’età, sempre nello slancio di un avventato e
scriteriato istante. Ora invece avevo pianificato tutto, si trattava di premeditazione, c’erano un ragionamento
e delle scelte sotto ogni decisione. Mi accorsi che avevo più paura di me stesso, di quello che ero diventato
che non delle conseguenze negative in caso di insuccesso. “Sarei qui se quella sera il Peti non avesse
scoreggiato e non avessi visto e conosciuto Tamara? No, ora sarei a fare la stagione. Allora è colpa di
Tamara? No, sono io che ho preso le mie decisioni, odio che qualcuno mi spinga a far qualcosa, voglio
essere responsabile delle mie azioni, Tamara non c’entra nulla. E se Giovanni non fosse così stronzo?
Probabilmente ora sarei ad aiutare Alfredo. Allora è colpa di Giovanni? No, lui mi ha solo portato alle
estreme conseguenze, attenuando i sensi di colpa”. Gira e rigira tornavo sempre a me, alla mia
responsabilità. “Ettore”, sentii dire da una voce nella mia testa, “sei sull’isolotto che ti fornirà un rifugio nei
prossimi, difficili giorni, non devi perderti in inutili esami di coscienza, porta avanti la tua idea fino in fondo, è
la tua possibilità, non ne capiteranno più”.
A parlare era il famoso cattivo diavoletto che tutti noi possediamo, quello con le orecchie a punta, il vestito
rosso, il forcone in mano e il diabolico, affascinante sorrisetto sul volto.
Ancora una volta, nella mia vita, mi feci sedurre e convincere da quel pestifero ma seducente personaggio.
Ettore si fermò, aveva notato lo sguardo rapito del Landi e capì che qualcosa alle sue spalle lo attirava. Si
voltò e vide Ramona, unanimemente considerata la ragazza più bella del paese, che si stava avvicinando al
loro tavolo. Quando camminava Ramona attirava a sé tutti gli sguardi, anche quelli femminili, colmi di
invidiosa ammirazione. Era alta sul metro e ottanta, ma ciò che più colpiva erano le sue gambe perfette, i
seni prorompenti e la giovane pelle venticinquenne, oltre al viso principesco e allo sguardo magnetico.
In paese correva voce che lei ed Ettore fossero stati amanti per qualche mese, me nessuno dei due aveva
mai confermato o smentito, l’unica cosa certa era che i due erano molto amici.
- Hola, Hector – lo salutò.
- Ciao Ramona – fece Ettore alzandosi barcollante.
Ramona sorrise.
- Sei ubriaco? Dopo ieri sera?
- Diciamo che non ho mai smesso.
- Bella festa, ieri, peccato che sono dovuta andar via presto.
Per Ramona, presto significava come minimo le cinque e mezzo, diceva sempre che andarsene da una festa
prima dell’alba era come non avervi partecipato.
- A proposito, ti presento el senor Landi, italiano come me.
- Encantado – farfugliò lui, senza staccarle gli occhi di dosso.
- Rischia di diventare cieco, signor Landi – lo ammonì Ettore.
L’altro si riscosse e lo guardò con odio, non sopportava essere messo in cattiva luce.
- Sono ammirato dalla sua bellezza – aggiunse il Landi, troppo cerimonioso.
Lei non lo badò minimamente.
- E’ tutto pronto per stasera? – chiese invece rivolgendosi a Ettore.
- Manca ancora qualche dettaglio, ma fra poco arriva Jim e gli spiego tutto. Deve sapere, signor Landi, che
stasera è la festa del patrono, tutto il mondo è paese, quindi ci saranno grandi festeggiamenti.
In effetti il Landi aveva notato sulle strade, sulle porte dei negozi, sul campanile della chiesa, luci e festoni
innegabilmente legati a qualche festosa ricorrenza.
- Ci vediamo qui alle nove, Ramona, ora devo finire un racconto.
- Vado a bere qualcosa.
- Non esagerare.
- Hai gli occhi delle grandi occasioni.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- E tu il vestito.
- Stasera c’è festa.
- Devi sedurre qualcuno?
- Sì, ma lui lo sa già.
- Troppo facile, anche se per te è sempre troppo facile.
- Non credere, c’è chi mi tiene testa.
- Impossibile, sei troppo bella.
- Mai fidarsi di chi fa troppi complimenti.
- Dipende dallo scopo.
- O da chi li fa.
- Conosco uno che fa un sacco di complimenti e le donne impazziscono per lui.
- Conosco uno che fa un sacco di complimenti ma non capisco dove vuole arrivare.
- Forse non dove credi tu.
- Allora ci capisco ancora meno.
- Probabilmente presto lo scoprirai.
- Spero. A dopo, tesoro. Arrivederci anche a lei – concluse con un cenno al Landi. Che ancora rimaneva
incantato a guardarla.
- Che pezzo di fi…
- Ehi, ehi, ehi, è mia amica, e come ha sentito le piacciono sì i complimenti, ma quelli galanti. A proposito,
stasera c’è la festa del patrono, ovviamente è invitato anche lei, se desidera rimanere.
Ettore buttò l’occhio all’orologio, doveva sbrigarsi, erano le sei meno un quarto.
- Torniamo a noi, al nostro racconto. Scusi, non mi ricordo più, dov’eravamo arrivati? Mamma mia, che mal
di testa.
- Ci credo, con tutto quello che ha bevuto!
- Che c’è, non le va?
Si figuri – disse il Landi con un gran sorriso di soddisfatto compiacimento – mi stava dicendo che
sull’isolotto lei dava ascolto al diavoletto.
Ah sì. Dunque, attesi Tamara per tutta la giornata. Alle cinque e un quarto, puntuale, arrivò
all’appuntamento, il solito bar lungo la strada. Quando, dietro la curva, comparve l’autobus che trasportava il
mio amore, ordinai due birre, volevo festeggiare con un brindisi.
Ma non appena scese capii che per il brindisi ci sarebbe voluto qualche minuto.
- Che c’è? – le chiesi, il suo volto era una maschera di odio.
- Giovanni. Stamattina mi ha toccato, “Il tuo damerino oggi non c’è, cos’è, ha paura di me dopo l’ultima
volta?” mi ha detto nell’orecchio. Io sono scoppiata a piangere ma lui mi ha rincorso e urlato di tutto, non sto
qui a ripetertelo.
Non ci vidi più, avrei voluto salire in moto e andare a dargli una lezione. Con le donne e con i più deboli, se
la prendeva quello, ancora oggi mi prudono le mani a pensarci. Io non ero e non sono mai stato un violento,
eppure quell’essere lì riusciva a farmici diventare.
Poi però comparve il diavoletto, con un’espressione soddisfatta che diceva “visto che hai fatto la scelta
giusta?”, e mi calmai.
Spiegai a Tamara che era tutto pronto,
- E tu, sei pronta? – le domandai.
Non rispose, restò a guardarmi con i suoi grandi occhioni fissi sul mio viso come sempre faceva quando la
risposta era delicata.
- Sì, amore, sono pronta.
- Allora un brindisi. E non pensare più a quell’energumeno. Mi dispiace solo che non potremo vedere la
sua faccia, domani.
- Però vedremo le nostre
- Felici e sorridenti.
- Speriamo. Io so una cosa, caro, che con te verrei ovunque.
- Cara, io so che con te possiamo conquistare il mondo.
- E allora diamoci da fare, che aspettiamo?
- Il tramonto, la notte ci proteggerà.
- Vieni qui, abbracciami e stringimi forte.
In quell’abbraccio c’erano tutta la nostra forza e tutta la nostra paura.
Ma saremmo andati avanti comunque.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
10
Quando il sole calò e l’oscurità si fece fitta entrammo in azione. L’ultimo autobus della sera ci portò a
qualche centinaio di metri dalla sponda da cui saremmo partiti, dovevamo muoverci con i mezzi pubblici, la
moto l’avevo nascosta per la fuga vera e propria. Durante il viaggio restammo in completo silenzio, ognuno
assorto nei propri pensieri.
Arrivammo al Tanaro, Tamara controllò l’orologio, le dieci. Solo la luna ci era testimone. Ci spogliammo ed
entrammo in acqua, il tutto in estremo silenzio, si udiva solo lo sciacquio dell’acqua gelida che le nostre
gambe spostavano passo dopo passo.
Giunti sull’isolotto ci asciugammo e gonfiammo il canotto.
Qualche giorno prima avevo controllato che non fosse bucato, poi l’avevo dipinto di nero.
Alle due entrai in azione.
Baciai Tamara, un bacio che mi spinse ad andare e mi infuse fiducia. Dovevo convincermi di essere nel
giusto. Ricordo ancora la trasformazione che fece il mio animo quando, con l’acqua alla cintola, il freddo lo
svegliò, ricordando a me stesso ciò che stavo per fare e, soprattutto, che dovevo stare all’erta. Gli occhi si
erano ormai abituati all’oscurità, le orecchie pronte a cogliere ogni minimo rumore.
Giunsi sulla sponda del roveto, aprii lo zaino ed estrassi la pila, la forbice e il coltello per farmi largo fra i rovi.
Secondo un mio calcolo il nascondiglio si trovava a un centinaio di metri da dove mi trovavo, mi aspettava un
lavoro lungo e intenso.
Nonostante il caldo, indossai una tuta che avevo provveduto a foderare con uno strato di gommapiuma per
difendermi dalle spine, fu un vero inferno.
L’unica cosa buona era che le zanzare non potevano mangiarmi. Affrontai un intrico di rami spinosi
spaventosamente folto e fitto.
Mi ci volle un’ora e mezza di intenso lavoro, sudavo peggio che in una sauna e pesavo il doppio a causa
della gommapiuma intrisa di sudore. Per evitare troppo lavoro tagliavo i rami più bassi in modo da formare
una specie di galleria che percorrevo strisciando e inginocchiandomi per terra.
E ad un tratto, dopo un deciso colpo di forbice, notai un’ombra, immobile.
Mi fermai ad osservare.
Era la costruzione che avevo visto dal computer del Peti, un tuffo al cuore sconvolse il mio equilibrio
sanguigno.
Ero arrivato.
Notai che tutt’intorno al capanno di legno, perché di quello si trattava, di un semplice capanno di legno, lo
spazio era libero, qualcuno lo teneva curato.
Mi alzai in piedi e girai intorno alla costruzione finché trovai quello che cercavo.
La porta.
Chiusa con tre lucchetti, grossi ma non abbastanza per me. Evidentemente il Barbera riteneva quel posto
abbastanza sicuro da risparmiare sulla sicurezza.
Estrassi dallo zaino il trapano a batteria, montai la punta da quattro, e, infilandola nella serratura, li feci
saltare tutti e tre con facilità estrema. Sorridendo trionfante tra me e me provai ad aprire la porta.
Non si mosse di un millimetro.
Spinsi e tirai, ma non c’era nulla da fare, sembrava sprangata.
Non riuscivo a capire il perché. Il capanno non aveva finestre, sicché non potevo nemmeno vedere che cosa
la bloccava.
Sopraffatto dall’ansia e dalla rabbia presi a tempestarla di calci e spallate, ma facevo troppo rumore.
In compenso sentii che una specie di cornice sul perimetro ne impediva l’apertura, ma la porta al centro dava
su uno spazio vuoto.
Nuovamente sorrisi trionfante, ma stavolta a ragione, avevo portato con me una fresa applicabile al trapano.
E, mentre senza alcuna difficoltà la fresa tagliava il legno facendomi capire che nel giro di un minuto sarei
stato all’interno, mi diedi del genio per la mia previdenza,.
Stavo ascoltando il frastuono del trapano che contrastava sensibilmente con il silenzio della notte, quando mi
parve di udire un rumore all’interno. Istintivamente mi bloccai, fiutando il pericolo.
Poi più nulla.
Forse mi ero sbagliato.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Attesi un paio di minuti, ma niente si fece sentire.
Ricominciai il lavoro, ormai ero alla fine, avevo creato un’apertura dal basso verso l’alto di circa mezzo
metro, sicché per entrare dovetti chinarmi sulle ginocchia.
Quando fui dentro non credetti ai miei occhi.
In mezzo alla stanza, alla rinfusa, si trovavano cinque grandi casse di legno e altrettante borse da tennis.
Queste ultime erano bellissime, alcune risalivano agli anni settanta e avevano delle fantasie curiose e
ridicole.
Mi avvicinai.
E fu allora che capii che il rumore che avevo sentito non me lo ero sognato.
Sentii un ringhio davanti a me e fui improvvisamente assalito da un cane, un rottweiler.
Era rimasto acquattato, nascosto dalle borse e dall’oscurità.
Non c’avevo minimamente pensato a questa eventualità, come potevo?
Cercò di azzannarmi alla gola, io balzai di lato, lo evitai ma inciampai su un filo all’altezza delle caviglie.
Un fischio assordante, e fastidiosamente continuo, squarciò e alterò il silenzio della notte.
Evidentemente era una specie di allarme casalingo.
Per terra, con il cane girato verso di me, ringhiando e abbaiando come un ossesso, non sapevo che fare.
Nella caduta mi era scivolato di mano il trapano, lo vedevo a un metro da me. Ma se mi fossi mosso il cane
mi avrebbe assalito.
Dovevo in qualche modo uscire da quella drammatica situazione e trovare i soldi.
L’allarme continuava a suonare, imperterrito.
Allora mi alzai e, ancora adesso non so con che coraggio feci quello che ho fatto, esortai la belva
azzannarmi apposta l’avambraccio sinistro protetto dalla gommapiuma.
Non sentii dolore, appena mi ebbe bloccato sollevai il braccio col cane attaccato e gli infilai due dita della
mano destra negli occhi.
Lui si liberò, io riuscii ad afferrare il trapano e lo colpii alla gola, al torace, ovunque.
Ero terrorizzato e le forze mi si erano centuplicate.
Lasciai il cane a rantolare in terra, dovevo trovare i soldi e portarli via prima che arrivasse qualcuno.
Una terribile e spaventosa frenesia mi prese, le mani, le ginocchia, tutto il mio corpo era scosso da fremiti di
paura ed eccitazione. Affannosamente aprii le borse, ma nonostante fossero piene di soldi, il sangue per un
secondo smise di scorrere.
Lire!
Lire e non euro!
Tutte le borse che aprivo erano piene di lire!
Poi un rumore alla mia destra mi fece sussultare e alzai il trapano, manco fosse una pistola.
Dalla porta intravvidi un’ombra che stava per entrare.
Mi accoccolai, pronto ad aggredirla, in quel momento la necessità di farla franca vinceva su qualsiasi
principio, mi rifiutavo di aver perso.
Ma quando entrò tirai un sospiro di sollievo, era Tamara.
- Che succede, cos’è sto casino? – domandò, la voce rotta dalla preoccupazione.
Quando risposi ebbi difficoltà a riconoscere la mia, di voce, tremava ma aveva un tono perentorio e un suono
che usciva dal profondo del mio corpo.
- Per sbaglio ho attivato l’allarme, credo. Dobbiamo aprire queste casse – dissi mettendomi al lavoro con la
fresa – le borse sono piene di lire.
Ma le casse no!
Appena feci saltare il primo coperchio li vidi!
Erano piene di euro, di biglietti verdi da cento euro!
Sistemati in barattoli di vetro, quelli con la guarnizione rotonda in gomma arancione, per capirci.
Esultammo e ci abbracciammo, poi mi accorsi che Tamara era stata un genio, aveva con sè i tre zaini da
montagna da riempire coi biglietti. Credo ci mettemmo trenta secondi ad aprire le casse restanti e a svuotare
i vasi negli zaini.
Nell’ultima trovai dei libri, probabilmente i libri mastri di cui mi aveva parlato Alfredo.
Presi tutto e uscimmo, ma prima diedi un’occhiata al cane. Era morto, non si muoveva più.
Ma proprio in quel momento mi accorsi che non me ne fregava assolutamente nulla e per un attimo ebbi
paura di me stesso, e di quello che sarei potuto diventare.
Poi udimmo delle voci, urlavano.
- Svelta – dissi a Tamara, spingendola nel cunicolo fra i rovi – dobbiamo scappare.
Evidentemente la strada dall’altra parte era molto più agevole, sentivo le voci avvicinarsi sensibilmente.
Poi, dei latrati.
Mi spaventarono, avevano dei cani, per cercarci.
Senza mai fermarmi entrai nel fiume, mi arrestai nel mezzo e mi feci lanciare le borse da Tamara, io poi le
scagliavo dall’altra parte.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Fummo perfetti, Tamara mi raggiunse sull’altra sponda, misi il canotto in acqua, lo riempii con gli zaini e
partimmo, lasciandoci trasportare dalla corrente.
Tempismo perfetto, due cani e tre uomini, a cui poco dopo se ne aggiunse un altro, si affacciarono sulla
sponda del roveto, ma eravamo già troppo lontani perché ci potessero scorgere.
Ma la fortuna non era dalla nostra.
Un improvviso schianto sul fondo del gommone ci fece sobbalzare e cambiare traiettoria, allontanandoci
dall’isolotto che avrebbe dovuto fornirci rifugio.
Ma non bastava, il canotto si era lacerato, uno squarcio sul fondo ci sorrideva beffardo e il peso degli zaini li
trascinava verso l’acqua.
- Aiutami a tenerli – urlai a Tamara.
Ma era tardi, uno era già immerso per metà.
- Dobbiamo fermarci – mi rispose.
La corrente ci stava spingendo verso la sponda, quella però dal lato del roveto e degli uomini che ci
cercavano.
- Lanciali sulla riva! – le dissi.
Ci riuscimmo, avevamo salvato il nostro preziosissimo carico, ma noi eravamo ancora in mezzo al fiume.
- Aggrappati a me – le presi la mano – andiamo anche noi.
- Il canotto, lo scopriranno.
- Non importa, salviamoci noi, prima.
Giunti a riva la risalimmo fino agli zaini.
- Svelta, dobbiamo rientrare in acqua.
- Sei pazzo?
- E’ l’unico modo per confondere i cani, altrimenti ci metteranno un attimo a trovarci.
In effetti i latrati si avvicinavano, era questione di minuti.
Ma gli zaini cominciavano a essere fastidiosi.
- Io non ce la faccio – mi disse Tamara.
- Dai, un ultimo sforzo.
- Davvero, Ettore, non ce la faccio.
Già, per tornare all’isolotto con la tenda e i viveri bisognava risalire la corrente, anche per me era
estremamente faticoso.
- Merda – imprecai – merda!
- Lascia perdere, pensiamo ad uscirne sani e salvi.
Aveva ragione, dovevo pensare ma i latrati dei cani mi agghiacciavano, ero completamente terrorizzato.
Il mio piano faceva acqua, in tutti i sensi.
Poi vidi un tronco adagiato sulla riva.
Lo toccai e si mosse.
Lo trascinammo fino a metterlo in acqua, vi feci salire Tamara e le indicai l’isolotto che doveva raggiungere.
- Arrivo anch’io.
Aspettai che approdasse, diedi un’ultima occhiata alle mie spalle, non si vedeva ancora nessuno, e mi tuffai.
In quei momenti ringraziai la mia voglia di tenermi in forma, probabilmente senza allenamento sarei affogato
in quei concitati istanti, il peso dei due zaini inzuppati d’acqua sulle spalle era insopportabile.
Arrivai a riva, stremato.
Vomitai per la fatica e lo spavento mentre mi trascinavo al coperto in mezzo agli arbusti.
Poi svenni.
Mi svegliò Tamara qualche minuto dopo.
- Sono sulla riva, li vedo.
In effetti stavano perlustrando la zona dove ci eravamo fermati. Potevamo sentire le loro voci.
- Sono entrati in acqua qui, i cani hanno perso le tracce.
- Maledizione. Siete degli incapaci, perché cazzo vi paghiamo?
Riconobbi lo stile di Giovanni, c’era anche lui. Mi dispiacqui di non riuscire a distinguerne il volto.
- Dobbiamo trovarli – continuò – hanno rubato tutto, tutto!
- Non sono distanti, con quel peso non possono andare veloci.
- Non me ne frega un cazzo, trovateli!
Si divisero, solo Giovanni restò sulla riva, a scrutare l’altra sponda. Strinsi la mano di Tamara. Nonostante
fossimo nascosti sentivo la nostra paura, era tangibile.
Penseranno che abbiamo guadato il fiume, non verrà in mente a nessuno di cercarci qui – le dissi,
cercando di infondere coraggio a me più che a lei.
- Ne sono sicura – mi rispose.
In effetti poco dopo Giovanni si allontanò.
Era ormai l’alba, e dopo poco, con la luce, sarebbe scattata la caccia grossa. Cominciai a sentirmi molto
meno sicuro di qualche ora prima, tutti gli imprevisti avevano complicato la nostra fuga. Feci mente locale e
potei arrivare a un solo punto.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Non abbiamo niente, a parte una fortuna in denaro frusciante – le comunicai – I vestiti, i viveri, l’acqua, è
tutto sull’altro isolotto.
- Anche l’acqua? – domandò preoccupata.
- Sì, sarà dura oggi.
Ci aspettava una giornata di luglio sotto il sole e senz’acqua, almeno fino a sera, quando finalmente avrei
potuto tentare di recuperare qualcosa.
- Non importa, caro, ci baceremo tutto il giorno, ti piace il programma?
Sorrisi, non troppo convinto.
- Che ti succede? – mi chiese – Sei tu che devi scoppiare d’entusiasmo, non io.
Aveva ragione, dovevo riprendermi.
- Un grande generale – insistette – non si arrende mai, perché sa di aver fatto la scelta giusta per arrivare
alla vittoria.
Aveva di nuovo ragione, la guerra era appena iniziata, e nessuno aveva vinto la prima battaglia.
Inoltre mi venne in mente che avevo tralasciato una cosa importante, perché il piano, già duramente provato,
potesse ancora funzionare.
- Devo allontanarmi mezz’oretta – annunciai a Tamara – devo fare una cosa.
- No, non lasciarmi qui, non adesso.
- Devo andare di là e arrivare alla fermata dell’autobus, se i cani non troveranno le nostre tracce capiranno
che siamo ancora qui.
Mi rendevo conto che per lei non era per niente facile restare lì dopo i concitati momenti trascorsi, ma non
potevamo abbandonare gli zaini.
- Vengo con te – mi disse – hai visto che me la cavo.
- Ma non possiamo lasciar soli i soldi.
- E se anche rimango? Cosa potrei fare da sola?
Ci pensai, come al solito mi superava in brillantezza.
- Va bene, vieni.
Le spiegai come dovevamo procedere.
Il gioco continuava, insieme.
Durante quella camminata invidiai tantissimo i felini e la loro silenziosa capacità di muoversi, molteplici fruscii
e scricchiolii sottoboschivi accompagnavano i nostri passi.
Arrivammo alla fermata senza problemi, il difficile venne al ritorno, eravamo costretti a compiere il percorso a
ritroso in modo che per i cani le nostre tracce finissero alla fermata.
Ma gli uomini di Giovanni erano arrivati alla strada, li vidi un po’ più in basso, si avvicinavano a bordo di un
SUV.
Guardai l’ora, le cinque meno cinque, il primo autobus per Torino era passato da venticinque minuti.
- Corriamo – dissi a Tamara – dobbiamo rientrare nel bosco prima che quella macchina arrivi. Il buio ci
coprirà ancora per mezz’ora, alle cinque e trenta bisogna essere sull’isolotto.
Tamara era già avanti, io mi attardai un attimo, volevo capire chi erano quegli uomini.
Le feci cenno di proseguire e mi acquattai dietro un cespuglio, pronto a scappare.
Riconobbi le divise in lontananza, una nota ditta di vigilanza privata del luogo.
Mi allontanai definitivamente, raggiunsi Tamara e quando arrivammo al nostro rifugio era l’alba, e il
cinguettio degli uccelli si mescolava al latrare dei cani.
Fu una giornata terribile, la vegetazione dell’isolotto, bassa e spontanea, ci regalava pochissima ombra, il
caldo e il sole furono insopportabili.
E insopportabile era anche ciò che non accadeva.
Avevo riflettuto a lungo su cosa sarebbe successo dopo il furto, ma nulla di tutto quello che avevo previsto
avveniva. Mi aspettavo pattuglie di polizia e carabinieri a perlustrare le sponde del fiume, elicotteri sopra le
nostre teste, notizie alla radio. Sì, signor Landi, perché mi ero munito di una radiolina portatile per conoscere
le notizie che, per quanto filtrate dalla polizia, sarebbero state pur sempre informazioni utili.
Invece nulla, I barbera non si erano rivolti alle forze dell’ordine.
- Meglio per noi – fu il commento di Tamara quando le esposi le mie riflessioni.
- Vuol dire che hanno qualcosa da nascondere, ma cosa? – mi domandavo.
- Forse non vogliono che la polizia entri in fattoria, potrebbero scoprire tutte le irregolarità con i dipendenti.
- Non credo, dovrebbero essere più importanti i soldi.
- A proposito, non è meglio se mettiamo ad asciugare quelli bagnati?
Ci eravamo dimenticati di loro, del nostro obiettivo.
La paura e la preoccupazione erano ancora troppo forti nei nostri cuori per poterci rallegrare.
Aprimmo gli zaini.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Quello trasportato da Tamara era asciutto, visto che l’aveva appoggiato sul tronco, i miei invece avevano
disegnato due enormi cerchi scuri e bagnati sull’argilla dov’erano appoggiati.
Li aprimmo.
Erano pieni zeppi di verdi banconote da cento euro.
Fu solo allora che ci guardammo e, per la prima volta in quelle ore, cominciammo a ridere, a ridere come
dei pazzi, dapprima solo abbozzando un sorriso, poi cominciando a sbellicarci, appoggiando le mani alle
ginocchia fino a scivolare a terra.
Una evidente reazione nervosa a tutti i timori sopportati nella notte e una dichiarazione di vittoria dopo la
prima battaglia.
Li rovesciammo al suolo, la visione di tutte quelle mazzette da cento sparpagliate ci lasciò ancor più senza
parole.
Se ce l’avessimo fatta, saremmo stati a posto per tutta la vita.
Li sistemammo in file ordinate e Tamara aprì il terzo zaino.
Vi infilò le mani, poi le braccia fino ad arrivare a toccare le banconote con le spalle.
Assunse un’espressione interrogativa e cominciò a darsi da fare per estrarre qualcosa dal fondo.
I libri contabili.
- Forse sono questi che non vogliono vengano ritrovati – suggerì.
Era probabile, pensai.
Ci sedemmo e passammo le ore successive a cercare di interpretare tutte le cifre e le sigle con cui erano
compilati. Di tutti e cinque i libri non riuscimmo a decifrare un granché, non ci capivamo nulla.
- Sono solo un peso inutile, lasciamoli qui – disse lei.
- No, potrebbero servirci.
- A cosa? Non capiamo nulla.
- Però potremmo scambiarli, la nostra fuga in cambio di quelli.
- E secondo te Giovanni ci lascerà fuggire? Impossibile, il suo orgoglio glielo impedisce. No, Ettore,
ascoltami, lasciamo perdere, evitiamo qualsiasi contatto e scappiamo quando sarà il momento opportuno.
Che spero arrivi presto – aggiunse.
In effetti erano le due del pomeriggio e la fame, ma soprattutto la sete, non ci davano tregua.
Mai come in quel giorno ho sognato una bella birra fresca e frizzante scendere nella mia gola.
Quasi a riprovare quelle emozioni, Ettore finì in un sorso il fondo della bottiglia, chiedendo a Rosa di
portargliene un’altra.
Il Landi lo guardava, allibito.
- Lo so, è la quarta – disse Ettore che aveva notato l’espressione dell’ospite – ma non ci faccia caso, oggi
è una giornata speciale e io l’alcol lo reggo bene.
Talmente bene che, quando tentò di aprire la bottiglia, questa gli scivolò dalle mani e rotolò per tutto il
tavolino senza però cadere in terra, il Landi, con un prontissimo riflesso, la prese al volo proprio sul bordo del
tavolo.
Bravissimo – fece Ettore con voce incrinata dall’alcol – bravissimo. Un applauso al nostro giocoliere –
disse poi ad alta voce, sollevando le braccia in segno di trionfo e indicando il Landi.
Questi si schernì col braccio, odiava essere al centro dell’attenzione in quelle situazioni.
Ettore cominciava a lanciare i primi segnali di sbornia seria, l’euforia galoppava in lui.
- Lasci perdere, prosegua con la storia, mi piace sempre più – lo esortò il Landi.
- Già, la storia. Allora… cosa dicevamo? Ah sì, l’isolotto, i soldi.
Non aveva chiamato la polizia, strano, no? Ah sì, i libri.
Il Landi lo guardava mentre blaterava parole senza senso, sembrava non reggere più al rum. Avrebbe dato
qualsiasi cosa, in quel momento, per potersi alzare, girargli alle spalle e sbattergli la testa sul tavolo, con
violenza, due, tre, quattro volte, poi gli avrebbe voltato la testa all’insù tirandolo per i capelli e sputato in
faccia. O forse si sarebbe limitato a gettarlo a terra e prenderlo a calci, sullo stomaco e in viso, fino a
renderlo irriconoscibile.
Ma dall’altro lato doveva aver pazienza, ancora un po’. Poi la storia sarebbe finita, e allora l’alcol avrebbe
giocato un ruolo decisivo per la vittoria. Doveva solo pazientare.
Nel frattempo Ettore aveva ripreso il racconto.
- Quando arrivò il tramonto, verso le nove, eravamo esausti, non vedevamo l’ora di recuperare le nostre
scorte.
Nel pomeriggio per quattro volte erano passati i vigilantes sulle sponde, da quello che riuscimmo a udire
pareva che il nostro piano avesse funzionato, i cani avevano perso le nostre tracce.
- Io gliel’ho detto – diceva una di quelle voci – hanno preso il primo autobus e sono partiti.
- Ma secondo te sono stati il ragazzo e la ragazza come ha detto Giovanni?
- Beh, è strano che oggi manchino proprio loro due. Inoltre lui era giardiniere, era sempre a contatto con il
roveto.
- Posso dirti una cosa? Per me potrebbero anche scappare, aver fottuto quegli stronzi dei Barbera li rende
simpatici, gli sta bene a quelli lì.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Io e Tamara sorridemmo a quelle parole, attenuavano il nostro inutile senso di colpa.
- Sai che il capo ha scoperto che a nome del ragazzo erano stati prenotati dei biglietti aerei e ferroviari?
Ormai, sono ai Caraibi, a godersi sole mare e tranquillità, te lo dico io!
Dunque il piano per il momento funzionava, Tamara per farmelo capire mi strinse la mano mentre, distesi
dietro gli arbusti dell’isolotto, ascoltavamo queste buone notizie.
Così, con il cuore colmo di speranza, alle dieci mi alleai al buio e mi avviai a raggiungere le nostre scorte.
Decisi di camminare in acqua, per ingannare i cani, e vicino alle sponde, così avrei faticato di meno. Salutai
Tamara e partii, in un’ora al massimo sarei andato e tornato, le assicurai.
In effetti arrivai senza problemi sull’isolotto, sebbene si trovasse a un cinquecento metri dal nostro quartier
generale, più del doppio di quanto ricordassi.
Recuperai lo zaino, lo misi in spalla e partii, sempre con i piedi nel fiume.
Mentre sciabordavo nell’acqua, ascoltavo i rumori della notte, i pioppi che frusciavano ad ogni minimo alito di
vento, rapaci notturni che tradivano gutturalmente la loro presenza.
I suoni, nell’oscurità, si propagavano a lungo.
Poi, improvvisamente, un trillo che non c’entrava nulla.
Un telefonino.
- Dimmi, papà.
Giovanni!
A sinistra, sulla riva, a qualche decina di metri da me! Evidentemente nessuno dei due aveva notato la
presenza dell’altro.
Mi immobilizzai all’istante e, come i gatti quando vengono sorpresi da un rumore, anch’io tenni sollevata la
gamba che aveva interrotto la sua falcata. Il cuore mi batteva a mille, dovevo decidere in fretta che fare.
Ancora nulla, papà – continuò la voce di Giovanni – ma sono sicuro che sono ancora qui, non sono
andati via.
Mi stava sorprendendo, in quella situazione si dimostrava più intelligente di tutti gli altri, forse il pensiero dei
soldi svaniti risvegliava in lui un ingegno sopito. Intanto non potevo muovermi, se avessi fatto un solo rumore
sarebbe finito tutto.
Decisi di distendermi sul letto del fiume in modo che con l’aiuto della corrente mi sarei spostato nel mezzo
per poi lasciarmi scivolare via.
Ma attesi il più possibile, mi interessava, quella telefonata.
Non possiamo chiamare gli sbirri, papà, farebbero troppe domande, per non parlare dei libri mastri –
stava dicendo Giovanni – se finiscono nelle loro mani chiudiamo. No, loro due per fortuna non possono
conoscere tutto questo, ma non possiamo rischiare che quei libri finiscano nelle mani sbagliate.
Dunque – pensavo – noi possedevamo una “ricchezza”.
Ma se anche li avessimo portati agli sbirri chissà quanto tempo sarebbe passato prima che li decifrassero e
prendessero provvedimenti, avremmo fatto in tempo a diventare concime per il Tanaro.
No, non era questa la strada giusta per uscire dalla situazione.
- Stanotte non torno – continuò l’idiota – starò qui in giro, sento che sono ancora qui. No, lascia perdere
papà, tu resta pure lì, basto io per loro due. Sì, lo so che hanno preso i biglietti, ma secondo me è stata una
mossa per confonderci, loro sono ancora qui, ti dico, ne sono sicuro!
Concluse la telefonata e sbuffò. Cominciai a sentire dei passi. Veniva verso il fiume, dovevo nascondermi.
L’acqua, fredda, mi arrivava alle cosce, le caviglie e le ginocchia mi dolevano fastidiosamente e lo zaino era
un serio problema.
Dovevo liberarmene, nel giro di qualche secondo Giovanni sarebbe stato sulla sponda e mi avrebbe scorto.
Lo feci scivolare via dalla schiena e dovetti liberarlo in acqua, appena in tempo per non essere scorto.
Tenevo emersa solo la testa e pian piano mi facevo spostare dalla corrente in mezzo al fiume.
Ormai lo zaino era andato, non lo vedevo più, e con lui se n’era andata la nostra preziosa riserva di acqua
potabile.
Ci aspettava, se fossi riuscito ad uscire da questa situazione, un’altra giornata sotto il sole senza idratazione.
Ma i problemi andavano risolti uno per volta, e mi rendevo conto che la nostra era una circostanza ridicola, ci
trovavamo a una quindicina di metri e nessuno dei due riusciva a scorgere l’altro, Giovanni era sparito dalla
mia visuale.
Ma non potevo muovermi, magari era entrato in acqua poco più avanti e spostandomi gli sarei finito
addosso.
E cominciavano i crampi alle gambe, l’acqua gelata stava mettendo a dura prova i miei tessuti e le mie
articolazioni.
A complicare il tutto c’era anche il pensiero di Tamara, era sola e le avevo detto che sarei tornato entro
breve. Chissà se avrebbe fatto la cosa giusta, e cioè aspettato nonostante le mille preoccupazioni per il mio
ritardo.
Poi notai di nuovo Giovanni, era uscito allo scoperto.
Gli arbusti sulla riva me ne impedivano la vista appena si allontanava di un metro, ma ora, sulla riva, era
visibile e stava scrutando il fiume. Immersi la testa, tenendomi con una mano su un sasso nel fondo.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Sembrava che Giovanni sentisse la mia presenza, non si staccava da quel luogo nonostante avesse ettari
da perlustrare. Mi resi conto che quel tizio aveva una sola qualità, fiutare i soldi, tipico dei truffatori.
Quando riemersi, con la testa che mi scoppiava per la mancanza d’ossigeno e la gelida temperatura che
attanagliava le tempie, Giovanni non c’era più.
Ma non sapevo dove fosse, non potevo muovermi, mi ripetei.
Mi resi conto che se la situazione fosse andata avanti a lungo non avrei resistito, dovevo spostarmi da lì e
uscire dall’acqua.
Da cinque minuti ormai, per riscaldarmi, ero costretto a battere i denti.
Così presi in mano la situazione, mi staccai dal sasso e, spingendomi con i piedi, mi spostai verso il centro
del fiume. Toccavo il fondo e la corrente, non impetuosa, mi permetteva di decidere la rotta.
Miracolosamente, e senza far rumore, arrivai al primo isolotto, mi aggrappai a un cespuglio e mi trascinai
sulla terra solida.
Appena uscito mille aghi pungenti assalirono le mie gambe, il sangue si stava riscaldando.
Mi distesi al riparo della vegetazione, esausto e preoccupato.
Non avevo l’orologio, altra leggerezza, e secondo i miei calcoli mancava meno di un’ora all’alba, il limite
entro il quale non avrei più potuto muovermi.
Ero terrorizzato, ma per Tamara.
Per la prima volta consideravo nella giusta dimensione le conseguenze del mio gesto, della mia decisione.
Avevo coinvolto Tamara, era stato giusto? Per carità, era stata una scelta sua, indipendente, quella di
accompagnarmi, ma era stato giusto proporglielo, sapendo quali fossero i nostri sentimenti? In fondo un suo
no sarebbe stata una possibilità remota, ero stato io il motore di tutto.
Dovevo smettere di pensarci, a Tamara, con lei nella testa i miei pensieri non potevano essere liberi di
trovare una soluzione.
Ero troppo stanco, continuavo a battere i denti e tremare per il freddo. Nonostante la temperatura fosse sui
venti gradi, l’umidità mi impediva di asciugarmi e provare quel po’ di sollievo che mi avrebbe permesso di
ragionare.
Mi abbandonai, disteso, con la testa sulle braccia conserte sul suolo. Credo di aver dormito, qualche minuto,
non di più.
Quando mi svegliai e alzai il capo, il cielo attorno a me non era più scuro, qualche sfumatura di azzurro
chiaro lo stava invadendo, preannunciando l’imminente alba.
Il pensiero andò in automatico al dolcetto d’Alba, un vino rosso di pregevole fattura che si produceva anche
in fattoria.
Avevo assolutamente bisogno di liquidi. E come me anche Tamara.
Ma non dovevo pensarci.
Cominciai allora a mettere a fuoco le colline che mi circondavano, poi la mia posizione, il mio nascondiglio.
Non potei fare a meno di pensare ai partigiani, che in quelle colline avevano contribuito alla causa della
libertà d’Italia. A scuola ci avevano fatto leggere “Il partigiano Johnny”, Fenoglio aveva ambientato il libro
proprio nei luoghi dove io e Tamara vivevamo da fuggiaschi, da sole ventiquattrore, per giunta.
Che diversità di motivazioni.
Sessant’anni prima delle persone, dei civili che avevano scelto di abbandonare la vita civile per combattere
in montagna, avevano perso la vita, senza che nessuno glielo chiedesse, semplicemente per degli ideali.
Sessant’anni dopo, negli stessi luoghi, un ragazzo e una ragazza dovevano nascondersi per evitare di
essere scoperti dopo un furto.
In fondo erano anni differenti, generazioni differenti – mi dissi.
Sebbene il sacrificio dei primi permettesse il mio.
Se l’Italia non fosse stata liberata noi non ci saremmo trovati in quella situazione, a lottare per dei soldi non
nostri invece di ideali.
Forse il progresso non è quello che normalmente viene inteso.
O forse il progresso non coincide con l’evoluzione.
“O forse sono riflessioni che vanno risolte più avanti” – mi dissi, era l’alba e dovevo sbrigarmi e trovare un
modo per tornare da Tamara.
Mi spostai strisciando sul letto a sud dell’isolotto, tentando inutilmente di scorgere il nostro quartier generale.
Era nascosto, il fiume faceva una curva a destra impedendomene la vista.
Buttai gli occhi al cielo e al suo azzurro sempre più intenso.
Ora o mai più, dovevo tornare da lei, rassicurarla e assicurarmi che fosse ancora lì, che non le fosse saltato
in mente di venirmi a cercare per aiutarmi.
Lo zaino era perso, perlomeno ero libero di muovermi.
Il pensiero di gettarmi in acqua mi bloccò, anche se solo per una frazione di secondo. Poi mi resi conto che
non ero in gita, buttarsi era un obbligo.
Le gambe protestarono al contatto col liquido, ma la forza di volontà le vinse, obbligandomi anche a
immergere il busto.
Ma prima di partire mi accorsi di un piccolo canneto.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
“Vediamo se funziona come nei fumetti” – mi dissi.
Presi una canna, ne tagliai le estremità e mi immersi con la testa, usandola come cannuccia.
Come su Tex, un ottimo boccaglio naturale.
Riuscendo a restare sott’acqua ed estraendo il mio attrezzo di tanto in tanto, per respirare, riuscii ad arrivare
al nostro isolotto.
Emersi e con rapidità mi inoltrai alla ricerca di Tamara.
La trovai seduta nella stessa posizione di quando l’avevo lasciata.
Mi vide.
- Dove cazzo sei stato?
- Scusa, sono …
- Una merda, ecco cosa sei! – esplose, mostrando rabbia, non disperazione.
- Cazzo, ho avuto dei problemi – le risposi risentito.
Non mi aspettavo questa accoglienza.
- E lo zaino dov’è?
Lo sapevo, meglio affrontarle subito le cose.
- Ho dovuto abbandonarlo.
- Con l’acqua? Col cibo? E adesso?
Esplosi.
- Sai cosa cazzo ho fatto lì in mezzo? Sono stato due ore con le gambe a mollo, c’era Giovanni. Sono stato
costretto a lasciare lo zaino, a nascondermi in mezzo al fiume – le urlai rabbioso.
- E io? – mi interruppe – Io dovevo restare qui, ad aspettarti? Un’ora al massimo, poi torno, mi avevi detto –
urlando pure lei.
- Ma qui non siamo in centro a Mondovì, stiamo scappando.
- Per il tuo piano? Funziona bene il tuo piano!
- Tu l’hai accettato!
- E quindi posso sopportare tutti i tuoi errori? No, caro mio, siamo in due e da adesso si agisce in due.
- Va bene, ma tu non puoi accusarmi di essere stato via troppo tempo.
Ti posso accusare di tutto, dov’è l’acqua? Nel tuo piano c’era, io mi sono fidata e ora rischiamo la
disidratazione. Complimenti.
- Non sempre i piani possono funzionare.
- Mi sono fidata di un approssimativo.
Non ci vidi più. Mi avvicinai a lei, i nervi tesi allo spasimo.
Non so cosa mi prese, ma il mio cervello impartì l’ordine di un ceffone, non violento, però.
Il gesto fu violento.
Restai con la mano e il braccia a mezz’aria. Ciò che di più sbagliato potevo fare l’avevo fatto.
Me ne vergognai immediatamente. Ma per certi gesti è sempre troppo tardi.
Lei non aveva girato la testa, aveva sempre sostenuto il mio sguardo. Nel suo non c’era cattiveria, solo pura
e semplice determinazione.
Abbassai il braccio. Poi la testa.
Lei si girò e in silenzio andò a sedersi vicino a un cespuglio, lontano da me ma con il viso in mostra. Due
occhiaie erano spuntate a segnarne gli occhi, ma più di tutto impressionavano le labbra, screpolate e
secche.
Mi sedetti anch’io, esausto, i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani.
Non era giusto.
Avevo messo in conto che quei giorni di fuga sarebbero stati difficili, che la tensione sarebbe salita a mille.
Ma mai avrei immaginato tutto questo.
Tamara mi osservava, quasi a mettere a nudo le mie incapacità, lo leggevo nel suo sguardo. E tutto ciò
aumentava la mia irritazione, fino a trasformarla in ira, un’ira che mai avevo provato e conosciuto in tutta la
mia vita.
Intanto il sole e il calore aumentavano proporzionalmente alla tensione, da un paio d’ore non ci parlavamo,
ma soprattutto non prendevo iniziative per risolvere la difficile situazione in cui ci eravamo cacciati.
In cui io ci avevo cacciato, riflettevo.
Tamara ogni tanto si alzava e si chinava dietro un cespuglio.
Poi tornava, sempre tenendo lo sguardo fisso su di me.
Io invece ero immobile, non vedevo vie d’uscita oltre la sopportazione.
Avevo una sete tremenda.
Improvvisamente lei, con la sua voce, tagliò e ruppe la tensione.
- Beh, che pensi di fare?
- E tu? – risposi, già contrariato per il tono di voce. Mi rendevo conto che se fosse dipeso da me il dialogo
sarebbe stato già finito.
- Non rispondere a una domanda con un’altra domanda. Che si fa? Ho sete – disse perentoria.
- Ce la teniamo, almeno fino a stasera. Poi fuggiamo – fu la mia risposta.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- E dove? Perlustrano ovunque, conosci qualche strada invisibile?
- Col sarcasmo non si va da nessuna parte.
- Nemmeno con l’approssimazione.
- Gli imprevisti sono ovunque.
- Allora perché tirarmi uno schiaffo?
Per la prima volta notai un’incrinatura nella sua voce.
La guardai, un raggio di sole le illuminava la parte sinistra, rendendo i capelli scuri di un marrone dorato, e
accarezzava l’occhio sinistro abbastanza da illuminare l’iride verde.
Mi accorsi di quanto era bella, proprio come la prima sera in cui l’avevo vista per la prima volta, quando quel
lampione aveva messo in risalto i suoi lineamenti dolci e spigolosi allo stesso tempo, facendomene
innamorare all’istante.
Feci per avvicinarmi, ma lei mi bloccò con un gesto della mano.
- Perché mi hai coinvolto in tutto questo? – mi chiese.
- Perché ti volevo con me.
- Perché sei egoista, siccome il Peti non veniva allora hai detto “Ma sì, chiediamo a Tamara, tanto quella
dice di sì”.
- Io volevo stare con te, godermi questi soldi con te.
- Tu volevi compagnia, non volevi stare solo, avresti avuto paura.
- Io volevo te, Tamara, te e nessun altro. Piuttosto da solo, pensavo quando mi chiedevo se coinvolgerti o
no.
- E tu ci avresti anche pensato?
- Sì, a lungo anche.
- Tamara è stupida, sono riuscito a carpirle la fiducia, è fatta. Questo hai pensato.
- Tamara è diversa da tutte le altre, ho pensato. Tamara sta un gradino sopra a tutte, ho pensato. Tamara
è intelligente, ha voglia di sognare. Questo ho pensato. Ma forse sbagliavo.
E per la prima volta nella giornata Tamara abbassò lo sguardo.
Poi si girò e si avviò mestamente verso un cespuglio.
Sentivo che eravamo al limite, non si poteva andare oltre.
La guardai chinarsi ed estrarre qualcosa dal cespuglio.
E restai senza parole.
Lo zaino con i viveri era davanti a me!
Il suo sguardo e la susseguente risata mi fecero capire di aver assunto un’espressione comica e ridicola.
- L’ho recuperato mentre passava, stupidone, sono stata brava?
- Allora … hai recitato fino ad adesso?
- Ti ricordi quando ho deciso di venire con te in quest’impresa?
- Mi hai messo alla prova?
- Bello, vero? Sì, ti ho messo alla prova, come tu hai fatto con me.
- E com’è andata?
Si avvicinò a me, mi abbracciò e ci baciammo.
E per la prima volta nella nostra vita, proprio su quell’isolotto, stesi sulla nuda terra, facemmo l’amore.
Poi, sdraiati, le chiesi scusa per lo schiaffo.
- Mi dispiace, caro, ma con tutto l’amore che ho per te quel gesto non potrò mai dimenticarlo.
Era sincera.
La abbracciai, dormimmo di un sonno caldo e riposante come mai mi era successo in tutta la mia vita.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
11
- Finalmente si tromba – esplose il Landi alzando le braccia al cielo – ce ne ha messo, di tempo!
Ettore lo guardava perplesso.
- Quanto c’è voluto? Due mesi, tre mesi? Per una Kosovara? – e riesplose in una sonora risata – I miei più
sinceri complimenti – aggiunse, in tono beffardo.
Ettore lo guardava con un misto d’odio e compassione, sembrava che la sbronza gli impedisse di reagire.
Il Landi se ne accorse e continuò:
- Com’era? Voglio dire, era una bella porca? Perché dicono che da quelle parti sono porcelline, sanno fare
lavoretti niente male.
Ettore scattò, alzandosi afferrò il Landi per il bavero.
Poi ricordò, allentò la presa e tornò a sedersi.
- Non so che ragazze abbia conosciuto lei, Tamara non era una di quelle, in ogni caso.
- Ne dubito – buttò lì il Landi, facendosi serio in volto e accennando ad alzarsi.
- Conobbi un tipo, una volta – iniziò Ettore – che a furia di andare a puttane ormai conosceva tutte quelle
della sua città. Decise allora di sconfinare nel paese vicino, ma la prima sera ebbe una sgradita sorpresa. In
quel luogo battevano solo i viados. Ma quando se ne accorse fu troppo tardi, per due settimane non riuscì a
stare seduto a lungo.
Il Landi sorrise, per nulla colpito.
E’ solo questione d’esperienza, è come in una fattoria, basta scegliere gli animali migliori. Mi scusi –
aggiunse – mi ero alzato per fare una telefonata.
Mentre si allontanava componendo il numero, Ettore si rese conto di aver reagito in modo sbagliato.
Guardò l’ora, le sette e mezza.
Vide Jim saettare fra i tavoli. Lo chiamò e parlottò con lui.
Dopo pochi minuti Miguelito era lì.
- Tutto a posto, senor Hector, stasera vinciamo noi.
- Lo spero, so di potermi fidare di voi.
- Abbiamo vinto tutti i tornei con te allenatore, non ti preoccupare. Ci siamo tutti, è la festa del patrono,
stasera. Sei un vero capo – concluse – avevi ragione su quegli strani uomini, ce ne siamo accorti tutti.
Ettore vide tutta la squadra di bambini e ragazzi e li abbracciò con lo sguardo, ricevendone in cambio un
gran sorriso.
“Se solo Tamara fosse qui” – si scoprì a pensare.
Poi un tipo gli fece un cenno, al quale rispose.
Si alzò, traballando, e si diresse verso la spiaggia, lì dove stavano seduti tre ragazzi.
Hola Hector – lo salutò quello che lo aveva chiamato, un giovane con il pizzetto incolto e un gran
cappello di lana a strisce gialle, nere e verdi – todo bien?
- Tutto bene – rispose Ettore sedendosi con loro.
- Quand’è che ci fai suonare ancora? – chiese ancora il tipo.
- Presto, non ti preoccupare. Oggi non è serata. – concluse.
- Mi fate ridere, voi bianchi, siete sempre preoccupati – rispose con una risata “cappello”.
- Le preoccupazioni ci fanno sentire vivi.
- E vi portano alla tomba.
- Lo dici in una canzone.
- Allora le hai ascoltate!
- Certo, mi hai dato il disco, che dovevo fare?
- Avete sentito, hombres? Le ha ascoltate. Hai sentito che artisti?
- Col flauto a pelle suonereste meglio.
Il tipo si accigliò, scherzosamente.
- Non scherzare col metallo, fratello.
- Cosa vorresti fare?
Il ragazzo si allontanò di qualche passo, armeggiò nello zainetto che portava con sé ed estrasse un plettro.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Suonare, Hector, suonare tutta la notte, ecco cosa vogliamo – esclamò il giovane sollevando le braccia al
cielo.
- Allora andate a prendere gli strumenti – disse Ettore alzandosi – stasera festa, suonerete per il patrono,
tutta la notte.
“Viva Hector” senti echeggiare alle sue spalle mentre si allontanava, col cervello in piena funzione dopo la
canna.
“Andrà tutto bene, Ettore, la serata funzionerà”, si disse avvicinandosi al tavolino e guardando Rosa al
banco. Era indaffarata, tanti clienti, troppi per una persona, affollavano il banco.
Cambiò direzione e andò al bar, doveva darle una mano.
Gettò un’occhiata al Landi, era ancora al telefono, sembrava il classico dirigente quando impartisce ordini.
Sorrise compiaciuto, il suo ospite da un lato lo irritava, dall’altro lo faceva scompisciare dalle risate. Ma non
era ancora giunto il momento, bisognava aiutare Rosa.
- Lascia stare – gli disse lei – chiama Jim, piuttosto.
- Ti aiuto io.
- No, risolvi le tue questioni, prima. Guarda, ha finito la telefonata.
Il Landi aveva appena richiuso e si guardava intorno, aveva notato la mancanza di Ettore al tavolo.
- Sono qui – lo chiamò – ora vengo al tavolo.
Scambiò altre due parole con Rosa, avvisò Jim e tornò dal suo ospite.
- Mi scusi, ci sono sempre un sacco di complicazioni quando bisogna organizzare una serata – si scusò
Ettore, ben sapendo l’effetto che quelle parole avrebbero avuto sul suo ospite.
- Lo immagino – rispose infatti il Landi, sarcastico.
- Questa è la serata del patrono.
- Me l’ha già detto. Continui con la storia, piuttosto.
- La festa del patrono è importante – proseguì Ettore incurante delle parole dell’altro – è il primo anno che il
paese ne organizza una di queste dimensioni, e il mio bar è stato scelto come luogo di ritrovo. Tutto deve
funzionare al meglio.
- Credevo che lei non fosse un imprenditore.
- Infatti. Non ci guadagno nulla, io.
- Ah no? E le bevande? E il cibo? – domandò ridendo il Landi. Poi aggiunse:
Siete tutti uguali, voi comunisti. Anzi no, ex-comunisti e ora imprenditori. Mi fate schifo – si infervorò
improvvisamente – prima a parlare di diritti, a metter bombe, e ora su un’isola, a godervi soldi che arrivano
chissà da dove, a fare gli imprenditori con le persone che noi sfruttavamo anni fa, a quanto dicevate voi. È
comodo, vero? Se ne accorge adesso di quanto sia comodo pagare poco e ottenere tanto? Lasci stare, so
già cosa mi risponderà, che lei ha investito qui per dare una possibilità a questa gente. Tutte balle, tutte
stronzate!
- Se ha finito – gli disse Ettore, serafico – continuerei con la storia.
Era riuscito ad ottenere una reazione, il Landi ora sembrava più sicuro di sé.
- E’ proprio vero che a stomaco pieno si ragiona meglio – esordì Ettore nel proseguio del suo racconto –
avevamo mangiato e bevuto a sazietà e ci sentivamo decisamente più sicuri, in quel momento. Proprio come
aveva detto, Giovanni si fece vedere sulle sponde più volte, con la vigilanza e i cani.
- Non ne posso più, tesoro quand’è che ci muoveremo? – mi chiese Tamara
- Stanotte – le risposi, togliendo il braccio da sotto le sue spalle, eravamo ancora abbracciati.
- Come facciamo ad andarcene?
Ci ho pensato. Riempiremo gli zaini piccoli, il più possibile, saranno il nostro bagaglio a mano. Ora
costruirò una specie di zattera, solo per loro e i nostri vestiti. La faremo scendere per un paio di chilometri
poi prenderemo la sponda, arriveremo alla fermata, ci cambieremo gli abiti e saliremo in autobus. Una volta
arrivati all’aeroporto dovremo solo stare attenti al nostro bagaglio a mano. Sarà preziosissimo – conclusi con
un sorriso
- Sei sicuro?
- Non ti preoccupare, cara, andrà tutto bene.
- Se solo avessimo una canna – sospirò lei – ora sarei più tranquilla.
- Cos’hai detto? – le domandai, quasi aggredendola.
- Stai tranquillo – mi rimproverò.
- Le canne? Cos’hai detto?
- Se ci fosse una canna ora saremmo più tranquilli, non credi?
- Sei un genio – esclamai saltellando di gioia – l’ho sempre pensato, sei un genio.
Mi guardava, stupita e incredula.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Le piante – le suggerii – nel campo di Giovanni ci sono venti piante, basta avvisare la polizia e lo
arrestano, seduta stante.
Tamara continuava a guardarmi, incredula.
- Ora vado a telefonare, se mi credono e arrivano entro oggi siamo salvi.
- Eh no, caro mio, vengo con te.
Era giusto.
La baciai e ci avviammo.
La fortuna stava con noi, la cabina, come ricordavo, si trovava ancora alla fermata dell’autobus, quella dove
ci eravamo recati due sere prima per confondere le nostre tracce.
Riuscimmo ad arrivarci in tutta tranquillità e ad essere abbastanza convincenti, ci spacciammo per vicini che
odiavano lo spaccio – Ettore rise al gioco di parole, al contrario del Landi – e riuscimmo a tornare al nostro
posto, il tutto senza complicazioni.
Erano le due del pomeriggio.
Alle quattro sentimmo in lontananza un insistito latrare di cani. Proveniva da lontano, dalla fattoria.
Alle sette ascoltammo il notiziario alla radio.
La prima notizia annunciava che la famiglia Barbera, proprietaria di una nota fattoria delle Langhe, era stata
arrestata per coltivazione illegale di marijuana. L’ipotesi di reato era che l’unico figlio, ora responsabile
dell’azienda, aveva deciso di coltivare la droga per aumentare i profitti del’agriturismo.
Esultammo, ci baciammo e facemmo di nuovo l’amore.
Eravamo liberi, nessuno ci avrebbe dato la caccia, a meno che Giovanni non si fosse deciso a raccontare la
verità.
Cosa che fece, il giorno dopo, ma troppo tardi.
Il seguito delle notizie lo conoscemmo in Thailandia, una settimana dopo.
La polizia aveva ricevuto, in un pacco spedito delle poste di Malpensa, i libri mastri della fattoria sotto
inchiesta per coltivazione di marijuana, dai quali aveva rilevato numerose irregolarità, sia fiscali che nella
gestione del personale. Tutti i beni della famiglia Barbera erano stati confiscati, in attesa di riscontri. Gli
indagati restavano in carcere, custodia cautelare, l’azienda era stata momentaneamente chiusa, gli impiegati
e gli operai godevano dei benefici sindacali, anche quelli assunti in nero.
Sembrava che la notizia avesse assunto carattere nazionale proprio per le condizioni dei lavoratori.
I Barbera, stando alla loro tesi difensiva, erano stati incastrati da due presunti ex dipendenti, al momento
irreperibili. Ma i loro appelli di innocenza restarono inascoltati.
Non potemmo che sorridere, dinanzi a queste notizie, lette all’ombra di una palma e in compagnia di un
cocktail thailandese.
I soldi erano già stati depositati in banca, in un paradiso fiscale, e noi avevamo previsto un giro del mondo in
tutti gi stati dove non era stato stipulato un trattato di estradizione con l’Italia.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
12
Furono tre anni di passione e amore.
Girammo il mondo, concentrandoci sul Sud America, il nostro sogno.
Non sto qui a enumerarle le numerose nazioni che visitammo, aprimmo i nostri occhi al mondo.
Potevamo spendere cifre inusuali per noi, non ne eravamo abituati.
Nel primo anno dormimmo in tutti gli hotel più lussuosi dei luoghi dove capitavamo, conoscemmo persone
incredibili, dai missionari ai criminali incalliti, fuggiti come noi dal loro paese.
Spesso ci domandavamo se avevamo fatto la scelta giusta.
Poi, guardandoci intorno, qualsiasi fosse la scenografia che ci ospitava, rispondevamo affermativamente,
senza parole perchè bastava uno sguardo.
Ma un giorno capii che Tamara si stava stancando di quella vita da ricchi vagabondi.
- Quand’è che costruiamo qualcosa? – mi domandò un giorno a bruciapelo, all’ombra di una frasca, dopo
pranzo, su una montagna in Cile.
- Cosa vuoi costruire? – le chiesi.
- Un posto dove le persone stiano in concordia fra loro.
- Nulla, hai detto – esclamai.
Si può fare, hai visto che posti abbiamo visitato e conosciuto? Il Kosovo è New York in confronto.
Sarebbe bello creare uno spazio dove le persone possano incontrarsi sapendo che entrano con un’idea e
nessuno cercherà di convincerle del contrario, dove i bambini possano divertirsi fra loro senza timidezze, i
ragazzi possano esprimere la loro tensione e creatività.
- Praticamente il paradiso – commentai scherzoso, sorseggiando erva mate comodamente disteso.
- Guardati, sei lì, spaparanzato, senza obiettivi. Hai ventotto anni, mettiamo che vivi fino a settanta, cosa
farai nei restanti quarantadue? Nulla, come finora? – mi rimproverò scherzosamente.
Si insinuò in me il dubbio di dover fare qualcosa di positivo. Ma non sapevo cosa, a me stava benissimo di
bighellonare per il mondo.
- Con i soldi altrui? – intervenne, scontroso, il Landi.
Tamara andò avanti per un paio di mesi con la sua idea – continuò Ettore senza curarsene – nel
frattempo eravamo arrivati in Brasile, in un paese sul Rio delle Amazzoni, presso Belém. Un luogo
meraviglioso che ogni giorno esploravo, meravigliandomi in continuazione per le bellezze naturali che
continuamente scoprivo, potevo perlustrare ambienti fluviali e marini, dipendeva solo dalla direzione che
prendevo al mattino quando uscivo di casa.
Ero però solo nelle esplorazioni, da qualche giorno Tamara usciva la mattina presto, quando ancora
dormivo, per rientrarne solo a tarda sera. Quando le chiedevo spiegazioni, la sua risposta era:
- Vieni con me e vedrai.
Ma l’alzarmi dal letto a quell’ora mi faceva passare ogni curiosità.
Sicché restavo a vegetare, in quel posto dove la natura dominava aveva un senso, mi dicevo scherzando.
Ero convinto che prima o poi Tamara mi avrebbe spiegato tutto.
Ma non avevo fatto i conti con il carattere e l’orgoglio di quella splendida ragazza.
Non mi raccontò mai nulla, e una mattina fui costretto, dopo che lei era uscita a seguirla. Non volevo darle
soddisfazione.
Ciò che scoprii mi fece vergognare di me stesso.
Tamara era diventata una volontaria di un’associazione del luogo che aiutava bambini e indigenti.
Quando mi vide, in quella spiaggia, circondata dai bambini, mi chiamò a giocare con loro.
Più tardi mi spiegò che una mattina, un mese prima, era andata in spiaggia e, vedendo dei bambini in riva al
mare, si era avvicinata, cominciando a giocare con loro. Che a loro volta, a mezzogiorno, la portarono nella
sede dell’associazione, cantandone le lodi alla responsabile.
Divenne una volontaria, poteva permetterselo.
Ettore, ora mi sento viva, sto facendo qualcosa di buono. Che ne dici di fare una donazione
all’associazione?
Accettai, di buon grado.
Il Landi storse la bocca.
- Soldi buttati, quella gente li usa e basta. Senza investirlo, quel denaro è inutile.
- Parla l’imprenditore – sorrise Ettore.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- Parla uno che i soldi li sa usare.
Cominciai a frequentare anch’io l’associazione – continuò Ettore – ma Tamara iniziava ad esagerare.
Usciva il mattino prestissimo, andava a fare il bucato agli anziani infermi, a cucinare, insomma, non la
vedevo mai.
- Non sei mai con me, cara, mi manchi – le dissi una sera, a letto.
- Ora siamo insieme – mi rispose.
- Ma solo per dormire, io ti vorrei con me anche durante il giorno.
- Ma io sto bene così.
- Io no, siamo ricchi, possiamo dedicarci tutto il tempo che vogliamo. Ma forse a te non interessa.
- A me interessa, come interessa a te. Ma non voglio restare ferma, devo muovermi.
- Allora senti la mia idea. Apriamo un bar, un locale frequentabile da anziani, bambini, gente di tutte le età,
a seconda dell’orario. Intorno costruiamo un parco con giostre, animali, spazi enormi e di libero accesso.
- Anche dei campi da calcio e da basket – suggerì.
- E anche da hockey su ghiaccio, se vuoi, possiamo permettercelo.
Rise e mi baciò.
- Ma qui non possiamo – mi disse – è un posto fin troppo turistico e saturo.
- Lo troveremo.
Partimmo, alla ricerca del nostro Eldorado. Ma, ripensandoci ora, forse era meglio fermarsi lì dov’eravamo –
si incupì Ettore.
Il Landi lo notò, e notò che anche il giorno si stava incupendo, la notte si stava avvicinando a grandi falcate.
Ci trovavamo in Ecuador, era il ventotto di giugno – proseguì Ettore, con un’espressione sempre più
cupa.
- Come oggi – fece notare il Landi.
- Già, come oggi – confermò mesto – Avevamo cenato in una trattoria di Quito, la capitale.
Durante la notte, in albergo, Tamara accusò dolori addominali, sempre più forti.
La portai in ospedale, fu ricoverata d’urgenza.
Restai con lei per tutta la giornata, era assistita amorevolmente da tutti.
- Guarirò, non ti preoccupare – mi diceva.
Io non sapevo che pensare, per me era un’influenza intestinale.
Ero sempre nella sua stanza accanto al suo letto. Ci trovavamo nella miglior clinica ecuadoregna.
Ma, minuto dopo minuto, la situazione peggiorava, Tamara perdeva secondo dopo secondo il suo colorito,
che diventava sempre più sul giallastro.
Chiedevo notizie e tutti mi rassicuravano.
Per la prima volta consideravo la salute come un nemico. Avevamo superato ostacoli insormontabili,
affrontato difficoltà a prima vista insuperabili, e ora, in questo edificio bianco e asettico, le nostre speranze
erano appese a un filo, in tutti i sensi.
Provai a immaginarmi la vita senza Tamara.
Per lei avevo costruito un piano, insieme avevamo abbandonato la nostra vita precedente per costruirne
un’altra, più lontano, più felice, solo per noi due. Se lei fosse morta tutto questo sarebbe precipitato nel
vuoto, assieme a me e alle nostre speranze di felicità.
- So a cosa stai pensando – mi disse ad un tratto, con un filo di voce.
- Tamara! – esclamai.
- Non ti lascerò, caro, saremo sempre insieme.
- Sempre. Io ti amo.
Alzò faticosamente il braccio per posarmi delicatamente l’indice sulle labbra.
- Certe cose non si dicono, tesoro, bastano i gesti. E tu ne hai fatti tanti per me – affermò, stringendomi
nuovamente la mano. Era gelata.
- Te la scaldo io – le dissi.
- Tu mi scaldi il cuore, me l’hai scaldato da subito, da quella gelida serata di gennaio.
- Pensa a quanto te lo scalderò ancora, invece.
- E dove saremo?
- In riva al mare, nella casa vicina al nostro locale.
- Distesi o seduti?
- Distesi, su un asciugamano tutto blu.
- Il mio colore preferito.
- E stiamo guardando le stelle.
- Che mese è?
- Luglio.
- Fa caldo.
- Ma c’è una brezza leggera, e la tua pelle è fresca.
- Allora tu che fai?
- Ti abbraccio, voglio passarti il mio calore.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
- E le stelle?
Le stelle ci guardano e sorridono, siamo belli e loro sono contente di farci compagnia. Ad un tratto
vediamo anche una stella cadente.
- Io ho già espresso un desiderio.
- Anch’io. Che di quei momenti ce ne siano a migliaia nella nostra vita.
Mi sorrise, faticosamente.
- Ce ne saranno, tesoro – cercai di rassicurarla. Poi proseguii.
- Eh sì, perché dopo, su quella spiaggia, ti costruirò una barca, bellissima e coloratissima, che quando si
vedrà fra le onde tutti sapranno che la donna più bella del mondo sta navigando. E poi ti costruirò una reggia
sulle colline, perché in quel posto le colline scendono verdeggiando, lasciando solo la striscia gialla della
sabbia tra loro e il mare.
Ma fui costretto a fermarmi.
Stavo parlando per nulla.
Erano le due del pomeriggio, e Tamara aveva perso conoscenza.
Alle sette, le macchine da cui dipendeva, con un sibilo continuo e fastidioso che ancora adesso odio,
annunciarono la sua morte.
Io ancora le tenevo la mano, nel momento supremo mi parve addirittura di sentire l’ultimo fiotto di sangue
faticosamente pompato da un cuore in estrema difficoltà.
Ero disperato.
Mai, da quando l’avevo conosciuta, avevo considerato questa eventualità.
Ero solo.
A Quito.
Con un sacco di soldi da spendere e un sacco di speranze andate in fumo, che annullavano il valore di quei
soldi.
Tutto ciò che avevamo fatto era finito, miseramente.
Trascorsi un anno terribile, permeato di incubi e paure.
Non sapevo che fare, vagavo da un paese all’altro, sbronzandomi qua e là.
Tentavo di dimenticare, nel modo più semplice che l’uomo conosca.
- Una donna si dimentica facilmente – intervenne il Landi.
E fu allora che Ettore si alzò lanciando con violenza la sedia alle sue spalle.
- Lei non vuol capire – urlò al Landi, impassibile in quel frangente – io Tamara l’amavo!
Capisco benissimo, lei si era fatto infinocchiare da una figa dell’Est – rispose l’altro caricando di
disprezzo le sue parole.
Ettore fece volare un’altra sedia.
- Caro Landi, lei non può proprio sapere cos’ho passato io, ora glielo spiego.
Il Landi si alzò, una persona ubriaca come Ettore è ingestibile, pensava, si stava mettendo sulla difensiva.
Ma si rese immediatamente conto che le intenzioni di Ettore non erano bellicose.
Era semplicemente un ubriacone disperato, in quel momento, un disperato che rivangava ricordi spiacevoli.
- E’ stato il destino – continuava Ettore urlando – bastardo il destino!
Urlava, e nel frattempo lacrime copiose inondavano le sue guance.
- Io l’amavo, era la donna della mia vita! – continuava imperterrito – Perché il destino è così tremendo? E
se esiste un Dio, perché è così crudele? La mia vita, senza lei, non ha più senso.
Sembrava che Ettore non si rendesse conto, o forse sì, ma non gliene fregava nulla, che le sue urla avevano
attirato l’attenzione dell’intero locale, Rosa compresa.
- Stia calmo – gli ripeteva il Landi – sta dando spettacolo.
- Che cazzo me ne frega a me – continuava Ettore – è ora che tutti sappiano che Ettore Tartini è stato
colpito dal destino nei suoi più profondi sentimenti.
Si sedette, esausto.
Sperava che la scena madre fosse riuscita ad hoc.
Tutto il bar li stava guardando, e il Landi ne era notevolmente infastidito.
- Continui la storia e si calmi, la prego – quasi lo supplicava.
- La storia. La storia è triste! – continuava Ettore nella sua litania.
Le lacrime rigavano il suo viso.
- Arrivai qui – proseguì finalmente più calmo – e mi stabilii. Decisi che qui avrei coronato i sogni di Tamara.
Il Landi lo guardava, carico d’odio.
- Tamara voleva un luogo … ma le ho spiegato che cosa voleva, secondo lei sono riuscito a realizzarlo? –
domandò Ettore alzando lo sguardo, ora sicuro, sull’ospite.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Il Landi si guardò intorno a lungo poi, ancora nascosto dagli occhiali da sole, rispose:
- Lei non ha fatto un bel niente, non erano soldi suoi.
Ettore lo fissò, nella sua testa, nonostante il suo piano, c’era confusione e doveva mettere ordine.
- Perché dice questo? A lei che gliene frega?
- Perché, nonostante la sua sia una bella storia, io sto dalla parte dei perdenti, stavolta.
- Non avevo dubbi, lei è il classico tipo che sta sempre dalla parte sbagliata, signor Landi – disse Ettore –
o devo chiamarti Giovanni? – aggiunse trionfante.
Il Landi restò in silenzio, la sua bocca disegnò un sorriso crudele e beffardo.
- Quando l’ha capito? – chiese dopo un paio di minuti che i loro sguardi si sostenevano.
- Stamattina, dopo il primo bicchiere di rum. E nonostante la sua plastica facciale, o sbaglio?
Il Landi gli lanciò un altro sorriso, stavolta malizioso e ironico.
- Addirittura?
- Già. Fin da subito mi è sembrato strano incontrare un italiano sulla spiaggia, o meglio, incontrare uno che
subito mi parla italiano.
Complimenti, allora. Sono due anni che sono sulle sue tracce e solo una settimana fa ho avuto la
conferma che era lei colui che cercavo.
- Ma durante la storia, infatti, ho sempre messo in dubbio la sua intelligenza.
Il Landi, o meglio, Giovanni, si rabbuiò.
- Non scherzare col fuoco, caro Ettore, ti ho in pugno.
- Ho i miei seri dubbi.
- E invece no – rispose sicuro l’altro – li vedi quegli uomini agli angoli del perimetro del bar? Sono armati e
ti tengono sotto tiro.
- Li vedo, ma non mi tengono sotto tiro.
Giovanni rise di gusto, ma quando si guardò intorno la sua espressione cambiò.
I suoi uomini erano al posto stabilito, ma seduti e disarmati, ciascuno circondato da tre bambini dal fare
minaccioso.
Miguelito ed Ettore si lanciarono uno sguardo d’intesa, il piano era riuscito, per il momento.
Devi sapere – iniziò Ettore passando al più sbrigativo e meno cerimonioso “tu” – che quando arrivai,
questo era un sobborgo povero della città. Tutto quello che vedi l’ho praticamente costruito io. Io sono
l’allenatore della squadra di calcio e basket, e quelli sono i miei atleti. Te l’ho detto, lo dovevo a Tamara.
Questo era un paese di quattro baracche e nulla più, è stata praticamente lei a costruirlo, tramite me.
Giovanni era disorientato. Non sapeva più che fare.
Ti ricordi il dialogo di qualche ora fa con Miguelito? – incalzò Ettore – Avevo notato quegli strani
personaggi che, seduti strategicamente ai tre angoli del bar, non bevevano e non guardavano le ragazze.
Troppo strano, mi hanno insospettito. Poi ho fatto due più due e, come vedo, non avevo sbagliato.
Evidentemente la tua telefonata serviva a metterli in guardia. A proposito, consiglia loro di stare tranquilli,
Miguelito e gli altri non hanno dimenticato il loro passato.
Giovanni restava in silenzio, le sue labbra disegnavano un sorriso arcaico.
Tamara aveva chiesto un posto dove tutti potessero esprimersi e vivere la vita liberamente e io l’ho
costruito. Per lei – concluse Ettore.
Ma Giovanni si era ripreso.
- Aspetta a cantare vittoria. Non hai vinto, caro Ettore, c’è una pistola puntata su di te. Sotto il tavolo.
Effettivamente Giovanni teneva entrambe le mani sotto il tavolo.
- Lascia perdere, è troppo tardi, troppi anni sono passati – disse Ettore, quasi con spossatezza.
- La vendetta è un piatto che va servito freddo, dicono. Alzati, senza insospettire nessuno.
Ettore obbedì.
- E adesso? – domandò.
- Usciamo dal bar e andiamo verso la mia macchina, è nel parcheggio al campetto di calcio.
Proprio quello che ho costruito per Tamara e per i bambini – disse Ettore, sospirando e alzandosi verso
l’uscita.
- Quello che hai costruito con i miei soldi – si inalberò Giovanni – non dire stronzate. Dove sono il resto dei
soldi?
Ettore si bloccò, guardò l’avversario e cominciò a ridere, di gusto.
- Che c’è da ridere? Rivoglio i miei soldi!
- Guardati attorno.
- E allora?
- Tutti i tuoi soldi sono qui attorno. La scuola, l’ospedale, le strade, il bar, questi sono i tuoi soldi.
Giovanni si girava attorno, guardava gli edifici, poi Ettore, poi gli edifici.
- Non dire stronzate, dove sono i soldi?
- Sono finiti – disse ancora ridendo Ettore – o meglio, sono stati investiti tutti per ampliare questo paese.
- Non è vero, li hai nascosti – urlava Giovanni, la pistola bene in vista, adesso.
Ora gli astanti si allontanavano, lasciando campo libero ai due.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Solo i bambini restavano al loro posto, avevano disarmato e tenevano sotto tiro, con le loro stesse armi, gli
scagnozzi di Giovanni, che non osavano muoversi.
Caro Giovanni, mi dispiace che tu non possa capire. Tutto questo l’ho fatto per Tamara. Sono andato
contro i miei principi, ho rubato, ho trascinato con me la donna che amavo e che è morta con me nel
coronamento del sogno. Glielo dovevo.
- Tu, a quella puttana, non dovevi nulla – esplose Giovanni, puntando la pistola alla testa di Ettore.
I bambini, Rosa e Jim, gli astanti, tutti ebbero un brivido, in quel momento, la tensione andava aumentando.
Ma rimasero immobili, seguivano gli ordini di Ettore che faceva chiari cenni di calma e tranquillità.
- La vedi questa gente? – chiese Ettore, calmo, indicando il “pubblico” – La maggior parte di loro sta con
me.
- Perché cammini dritto? – gli domandò Giovanni – Non sei ubriaco?
Si rendeva conto, dagli sguardi che lo circondavano, di essere solo, in quel momento.
Sei proprio stupido! Le bottiglie le ha riempite Rosa, su mio ordine. Un terzo rum, il resto acqua, non hai
notato il colore smorto?
- Allora, anche …
- Anche le scene di ubriachezza erano false. Sono un bravo attore? Del resto – concluse ridendo di gusto
– tra Ettore e attore c’è solo una lettera di differenza, sono attento a queste cose.
Giovanni capiva di essere in trappola, invece di sorprendere era stato sorpreso. E fu velocissimo.
Afferrò Ettore e gli passò il braccio sotto il collo, la pistola alla tempia.
- Fermi tutti! – urlò – questo è un affare fra noi due, e noi due ce lo risolveremo. Diglielo anche tu, Ettore.
Che vuoi fare? – disse lui, preoccupato.
Questo non l’aveva messo in conto, pensava sarebbe stato tutto più semplice.
Andare via di qui e ammazzarti come un cane! – cominciò a sbraitare – È quanto ti meriti per avermi
rovinato la vita.
- Te la sei rovinata tu!
- Sono io che mi sono rubato il patrimonio?
Per un attimo la furia ebbe il sopravvento e col calcio della pistola colpì Ettore sulla fronte.
Miguelito fece per alzarsi.
- Resta lì – gli gridò Ettore – è tutto a posto.
Dal sopracciglio un rivolo di sangue si faceva strada zigzagando sulla sua guancia.
- Suvvia – disse al suoimprovvisato aguzzino – lascia perdere, stai rovinando la festa del patrono.
Giovanni non ci vide più e gli sferrò un altro colpo alla testa.
Ettore non perse conoscenza, ma un dolore lancinante prese possesso di metà del suo cervello.
- Pagherai per quello che hai fatto, i ladri vanno uccisi – gli urlò Giovanni.
- Ma io ho rubato a un pezzo di merda – tossì Ettore – non a dei poveracci.
- Un furto è un furto, cazzo, tu stesso hai detto che sei andato contro i tuoi principi.
- Non mi è costato nulla, non dopo come ci hai trattati!
Ora anche Ettore urlava.
- Erano cazzi miei! Tu non hai e non avevi nessun diritto di rubarmi i soldi, se non ti andavo bene me lo
venivi a dire in faccia, codardo che non sei altro.
- Così avresti potuto licenziarmi e goderti il tuo potere. No, caro mio, saperti sofferente per la rapina mi
dava molta più soddisfazione.
Ma non c’è solo quello, brutto ladro bastardo. Io sono stato in galera, per delle piante che non avevo
piantato io. Cinque anni, hai capito? Cinque anni della mia vita passati in mezzo a detenuti comuni, a pulire
cessi, a sognare donne che non avrei potuto avere, a combattere per la mia dignità.
Ettore rise.
– Cinque anni ti sei fatto. Per niente, oltretutto! Io e Tamara siamo stati due geni!
Ma anche Giovanni rise:
E io sono contento perché quella puttana è morta, lasciandoti solo come un cane – gli rispose
guardandolo dritto negli occhi, uno sguardo carico d’odio, di ferocia e di scherno che fece scattare Ettore.
Che gli assestò, o meglio, provò ad assestargli un calcio in mezzo alle gambe con il tallone, ma la mossa
non riuscì, scivolò e Giovanni lo trattenne per il collo.
Cominciò a stringere.
- Riprovaci – gli sussurrò all’orecchio – e ti faccio fuori qui, davanti a tutti. Ora andiamo alla mia macchina.
- No! – esclamò Ettore sussultando – andiamo con la mia – continuò con la voce soffocata dalla pressione
del braccio di Giovanni.
Quel bestione era decisamente più forte di lui.
- E perché con la tua? Che altro scherzetto hai preparato? No, caro, si va con la mia.
- No! – insisteva Ettore, scalciando con le gambe e i piedi per impedire di essere trascinato alla macchina.
Per convincerlo e portarlo a più miti consigli, Giovanni lo colpì nuovamente alla testa, aprendogli una ferita
anche sull’altro sopracciglio.
- Con queste ferite sarai più affascinante all’inferno – commentò.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Ettore faticava per mantenere la concentrazione, quest’ultima botta lo aveva tramortito, troppi colori
sgargianti saettavano davanti ai suoi occhi. Non oppose più resistenza fino alla macchina.
- Sali! – gli ordinò Giovanni, liberandolo dalla presa.
- Ascolta, anche per il tuo bene, andiamo con la mia.
- Sali! – ripeté l’altro, impassibile.
Ettore fece il giro della macchina, sempre seguito dall’occhio nero della canna della pistola.
Guardò verso il bar.
Miguelito lo osservava trepidante, i grandi occhi marroni ne tradivano la tensione, non l’aveva mai visto così,
nemmeno prima della partita che valeva la finale contro i primi in classifica. Teneva ancora il fucile in mano.
Ettore non poté fare a mano di pensare che ancora una volta, a causa sua, delle persone si trovavano
coinvolte in faccende a loro completamente estranee.
Guardò anche Rosa, immobile al banco. Gli parve strano, lei era sempre affaccendata, anche quando non
c’era nessuno da servire o il bar era vuoto Rosa era sempre in movimento.
Anche lei lo guardò, e gli sorrise sinceramente come sempre aveva fatto lui con lei.
Poi un gesto a sinistra richiamò la sua attenzione, con la coda dell’occhio vide una mano e udì la voce di
Jim:
- Per i festeggiamenti è tutto a posto!
- Non hanno ancora capito che li faranno senza di te, i festeggiamenti – disse Giovanni – forza, sali!
Ettore invece aveva capito.
Io non sono solo – disse entrando in auto, lasciando la porta aperta – io non sono come te. Tu hai
seminato odio intorno a te, avevi la possibilità di capire, ma l’hai gettata al vento. Ora pagherai per questo.
Ne riparleremo quando sarò davanti a te, con la pistola carica in mano – rispose Giovanni – e chiudi
quella porta! – concluse, impugnando la chiave.
Ma, quando la infilò e la girò, Ettore era già balzato fuori, cercando di allontanarsi il più possibile.
Conoscendo Jim, ex artificiere dei ribelli, era certo che avesse abbondato col tritolo.
Giovanni ebbe appena il tempo di vedere il suo avversario gettarsi fuori dall’auto.
Poi un’esplosione squarciò il buio del campetto, illuminando i canestri e le porte.
Ettore fu scagliato a un paio di metri di distanza.
Il fragore risvegliò tutti dagli attimi di passione e paura che avevano provato.
Jim accorse verso Ettore, anche Miguelito sarebbe voluto andare con lui ma non poteva, doveva eseguire gli
ordini del senor Hector. Ma quando si accorse che non si alzava, si lanciò verso l’amico.
E lo vide supino, il codino, evidentemente per lo spostamento d’aria, gli cadeva sulla testa invece che sulla
nuca e la faccia sprofondava nel suolo.
Tutti si chinarono, nell’atmosfera aleggiava un silenzio surreale.
Finché, e furono sorrisi di gioia per tutti, Ettore si mosse, alzando la testa e muovendo una mano, il pollice
alzato.
Stava bene.
E proprio in quel preciso istante i fuochi d’artificio per il patrono cominciarono a solcare e ad attraversare il
cielo, disegnando scie luminose e congedandosi con allegre e sonore esplosioni.
La festa del patrono era cominciata.
- Stasera offro tutto io! – annunciò Ettore, alzandosi e controllando che tutte le parti del suo corpo fossero
al loro posto – Da domani una nuova vita comincerà.
La gente esultava, un’allegria pirotecnica aveva invaso tutti.
Si diressero verso il bar.
Solo Miguelito rimase ad osservare, immobile e incantato, la macchina in fiamme.
Era saltata per aria, capovolgendosi nella caduta.
Quelle ruote sollevate avevano risvegliato in lui un ricordo fino a quel momento sopito nei meandri del suo
magazzino dei ricordi.
Proprio come quella sera quando, a La Tortuga, lui e Juan, il suo migliore amico, avevano tentato di rapinare
un passante.
Ma questi, sfuggito al tentato furto, aveva chiamato la polizia.
Erano fuggiti, inseguiti dai lampeggianti e dal rombo di un’auto.
Da cui ad un tratto spararono.
Fu così che morì Juan.
Quando udì l’urlo di dolore dell’amico il cuore di Miguelito si strinse fino a diventare piccolo come un fagiolo,
strizzando gran parte della sua ingenua età.
Poi lo vide cadere.
E quei bastardi dei poliziotti, non contenti, gli passarono sopra con l’auto, due volte.
Poi ripresero l’inseguimento.
Dovevano essere gli squadroni della morte, aveva pensato con terrore Miguelito correndo a perdifiato.
E quando era ormai convinto di essere stato raggiunto, udì uno schianto.
L’auto si era ribaltata, aveva colpito un cassonetto e poi un’altra macchina, incendiandosi e capovolgendosi.
131
132
Nome Autore
Titolo Libro
Era un quartiere povero quello, dove tutti si facevano gli affari propri.
Miguelito si fermò e si avvicinò cautamente alla macchina dei poliziotti.
Quello che guidava era ancora vivo, incastrato tra la porta e il tetto, il fuoco ormai lo lambiva.
Allungava una mano, chiedendo disperatamente aiuto con le urla e con gli occhi.
Miguelito gli si avvicinò fino a quando fu troppo caldo.
Allora si sedette sull’asfalto e lo guardò morire come era morto il suo amico. Fissò negli occhi il poliziotto,
finché le fiamme e il calore divennero insopportabili.
Non provava alcun sentimento. In quel preciso istante aveva avuto la percezione del suo futuro, che quella
sarebbe stata la sua vita, non vedeva speranza.
Invece, lì a Blanco Paraiso, la sua giovane vita era cambiata, aveva conosciuto.
E oggi quel fuoco risvegliava in lui emozioni che da tempo non provava, si era perfino dimenticato di Juan.
Decise che avrebbe dovuto raccontare al Senor Hector le loro avventure di un tempo.
Così si voltò e corse anche lui al bar, nuovamente acceso e carico di luminosa allegria.
131
132