I working poor e le politiche del lavoro in Europa

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I working poor e le politiche del lavoro in Europa
I working poor e le politiche del lavoro in Europa Un’analisi comparativa dei sistemi di welfare europei di Maria Luisa Aversa Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 Maria Luisa Aversa -­‐ sociologa ISFOL -­‐ Istituto per la formazione professionale dei lavoratori -­‐ Corso Italia, 33 -­‐ 00198 Roma Tel. 06.85447-­‐ 081 Cell. 338-­‐3419438 e-­‐mail [email protected] Sessione: nr. 12 Evoluzione del mercato del lavoro, working poor e politiche di sostegno alle basse
remunerazioni.
Abstract
Le trasformazioni in atto nel mercato del lavoro hanno mutato la tipologia dei rischi e dei
bisogni sociali, contribuendo da un lato a rendere più fluido il confine tra inclusione ed esclusione e
dall’altro ha dato vita a nuove forme di povertà, meno visibili ma di certo consistenti. La crisi
economica mondiale iniziata a fine 2008 ha evidenziato e in certi casi esasperato situazioni border
line.
Quello che in questo contesto esamineremo sono le forme intermedie di marginalizzazione: i
nuovi rischi sociali, i nuovi disagi, le nuove forme di vulnerabilità.
Nel presente lavoro analizzeremo le politiche del lavoro ponendole in relazione con i dati
europei relativi ai working poor in alcuni paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno
Unito) per gli anni 2005-2009. L’analisi e la comparazione negli anni ci permetterà di evidenziare le
differenze delle performance dei diversi paesi a seconda dei sistemi di welfare europei.
I cosiddetti working poor - In work at risk of poverty rate, il loro reddito è al di sotto del
60% del reddito mediano equivalente disponibile individuale (Eurostat – EU SILC – Statistics on
income and living conditions 2009), così come dimostrato dall’evidenza empirica di numerosi e
differenziati studi, sono identificabili per lo più in lavoratori che possiedono basse qualifiche
professionali associate a bassi titoli di studio e riconducibili prevalentemente al lavoro operaio.
Negli ultimi anni, per effetto della flessibilità lavorativa, sempre più spesso e sempre più numerosi,
sono riconoscibili all’interno di tale categoria, anche giovani che svolgono lavori precari e mal
retribuiti.
La crisi economica ha evidenziato la necessità di sostenere e promuovere l’occupazione e
l’inclusione sociale. Alcuni paesi per il sostegno del reddito e per contrastare la povertà hanno
adottato politiche di reddito minimo (tale strumento non è in vigore in Italia, in Grecia e in
Ungheria). In tale ambito, esamineremo in chiave comparativa, le innovazioni più recenti adottate
nelle politiche di reddito minimo in Europa: Revenue de Solidarité Active in Francia; Employment
and Support Allowance e la revisione dei programmi di Jobseekers Allowance nel Regno Unito.
Parole chiave: esclusione – povertà – politiche del lavoro – welfare - working poor
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Premessa
Le trasformazioni in atto nel mercato del lavoro hanno mutato la tipologia dei rischi e dei
bisogni sociali, contribuendo da un lato a rendere più fluido il confine tra inclusione ed esclusione e
dall’altro ha dato vita a nuove forme di povertà, meno visibili ma di certo consistenti. La crisi
economica mondiale iniziata a fine 2008 ha evidenziato e in certi casi esasperato situazioni border
line.
Le istituzioni come il lavoro, un tempo considerate solide, nella modernità liquida si
sciolgono, e le strutture sociali che offrivano certezze agli individui tendono ad assomigliare a
categorie zombie ed a istituzioni zombie (Barman 2002).
Nonostante le innovazioni tecnologiche e tutte le riforme che sono state realizzate negli
ultimi decenni nel mercato del lavoro, la disuguaglianza sociale appare costante nel tempo. «I
contrasti innescati dalla disuguaglianza sociale affiorano, nell’ambito di una biografia, come
contrasti tra singoli capitoli dell’esistenza. I sentieri che la vita percorre si fanno via via più
pittoreschi, più frammentati, più eteronomi, più stratificati, e questo comporta che, almeno
saltuariamente, una quota crescente della popolazione debba fare i conti con la disoccupazione e la
povertà» (Beck 2008, p. 64).
Appare necessario dunque individuare le situazioni di insicurezza nella biografia degli
individui, per differenziarle da quelle ancora calcolabili - biografie a rischio - e quindi recuperabili
da quelle che non lo sono più - biografie in pericolo - (Beck 2008).
Quello che in questo contesto esamineremo sono le forme intermedie di marginalizzazione: i
nuovi rischi sociali, i nuovi disagi, le nuove forme di vulnerabilità. Chiara Saraceno individua
«nelle disuguaglianze (di genere, di reddito, di istruzione e occupazionali) e nelle trasformazioni
socio-demografiche le strade principali dai quali vengono prodotti nuovi rischi sociali» (Saraceno
1990, p. 249). Gli individui in oggetto «non sono identificabili nelle categorie residuali dei
disagiati e dei poveri, sono coloro che si collocano nei punti di snodo tra i diversi sottosistemi
sociali, sul confine mobile e incerto che distingue, non in modo definitivo, l’integrazione
dall’esclusione» (Ranci 2002, p. 331).
Nella società dell’insicurezza, del rischio, diviene centrale come sostiene Castel (2003) “che
per coloro che non dispongono di altri capitali, non solo economici, ma anche culturali e sociali, le
protezioni, o sono collettive, o non lo sono” e ancora, “se si può parlare di insicurezza è in larga
misura perché esistono frange della popolazione ormai convinte che saranno lasciate lungo la
strada, impotenti a padroneggiare il loro avvenire, in un mondo di sempre più rapidi cambiamenti
“ (p. 51).
3
Nel presente lavoro analizzeremo le politiche del lavoro ponendole in relazione con i dati
europei relativi ai working poor in alcuni paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno
Unito) per gli anni 2005-2009. Seppur nella media comunitaria il rischio di povertà per chi lavora si
riduce di circa la metà rispetto alla popolazione complessiva (Eurostat 2010), ciò nonostante i
“lavoratori poveri” rappresentano una quota consistente della popolazione e la scomposizione delle
sue caratteristiche ci fornirà ulteriori spunti per comprendere meglio le esigenze e i bisogni di tale
segmento di popolazione a rischio di marginalizzazione.
L’analisi e la comparazione negli anni ci permetterà di evidenziare le differenze delle
performance dei diversi paesi a seconda dei sistemi di welfare europei.
La crisi economica ha evidenziato la necessità di sostenere e promuovere l’occupazione e
l’inclusione sociale. Alcuni paesi per il sostegno del reddito e per contrastare la povertà hanno
adottato politiche di reddito minimo (tale strumento non è in vigore in Italia, in Grecia e in
Ungheria). In tale ambito, esamineremo in chiave comparativa, le innovazioni più recenti adottate
nelle politiche di reddito minimo in Europa: Revenue de Solidarité Active in Francia; Employment
and Support Allowance e la revisione dei programmi di Jobseekers Allowance nel Regno Unito.
Alcuni dati di contesto
La riduzione della povertà e la promozione dell’inclusione sociale costituisce uno dei 5
obiettivi al centro della nuova Strategia europea - Europa 2020 - 1 che si propone di ridurre di un
quarto - 20 milioni di persone - il numero di persone in condizione e a rischio povertà. La povertà è
anche oggetto di una delle “flagship initiativies” (Iniziative comunitarie lanciate dalla Commissione
Europea per l’attuazione della Strategia Europa 2020) a conferma dell’impegno promosso
dall’Unione europea per contrastare tale fenomeno.
Nel 2010, anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, i paesi dell’Unione
europea hanno dovuto rimettere al centro dell’attenzione il fenomeno “povertà”, mai del resto
completamente estinto, ma che si è acuito con la crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007
negli Stati Uniti e propagatasi poi nei paesi europei.
L’esclusione sociale e la povertà, come affermato nella Strategia di Lisbona, sono fenomeni
complessi e multidimensionali (riguardano aspetti di natura economica, occupazionale e sociale)
che investono la tematica dei diritti e della cittadinanza.
Quando si parla di povertà non si intende soltanto la povertà materiale ed economica, ma la
mancanza di accesso dell’individuo ad una serie di diritti: il non poter usufruire dei servizi minimi,
la precarietà del quotidiano, la privazione di un’adeguata educazione scolastica, il non aver accesso
1
Gli altri obiettivi della strategia sono: incremento all’occupazione, investimenti in ricerca e sviluppo, innalzamento dei
livelli di istruzione e riduzione delle emissioni del gas serra.
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al servizio sanitario, il non poter fruire di un alloggio. Tale approccio comporta che spesso il
concetto di povertà venga sovrapposto e/o associato a quello di esclusione.
L’Employment and Social Affairs Commitee del Parlamento europeo nel giugno del 2010 ha
convalidato l’approccio di contrasto alla povertà in termini di diritto umano fondamentale
indipendentemente dallo status di occupazione (CIES Commissione d’indagine sull’esclusione
sociale 2010). Quando si parla di tutela non si intende soltanto quella su taluni rischi sociali ma
anche di tutela dei nuovi bisogni primari quali la formazione, la salute, la partecipazione sociale e il
reddito ecc., al cui centro vi è l’individuo come portatore dei propri diritti di cittadinanza.
Il crescente spostamento da concetti e teorie unidimensionali a multidimensionali di povertà
ha portato il Consiglio di Laeken del 2001 ad adottare un complesso sistema di misura volto ad
individuare la dimensione e il profilo della povertà e dell’esclusione sociale nei Paesi dell’Unione.
Il sistema prevede un set di 18 indicatori collegati alle dimensioni inclusione/esclusione secondo gli
obiettivi dell’UE: occupazione, protezione sociale, edilizia abitativa, istruzione, sanità,
informazione, comunicazione, mobilità, sicurezza, giustizia, tempo libero, cultura.
I dati – EU SILC - diffusi da Eurostat nel 2009 mostrano che in Europa sono 80 milioni le
persone che vivono in condizione di rischio di povertà (al di sotto del 60% del reddito mediano
equivalente disponibile individuale) il 16,6% del totale dei residenti nell’UE. In Italia il valore
dell’indicatore è superiore alla media UE e pari al 18,7%. Questo fa sì che l’Italia si trovi in una
situazione molto critica (quart’ultimo posto nella graduatoria) seguita solo dalla Lettonia (21%),
dalla Bulgaria (22%) e dalla Romania (25%) (CIES – Commissione d’indagine sull’esclusione
sociale 2010).
I dati Eurostat (Tab.1) riferiti al 2009 evidenziano che nell’Unione europea a 27 ad essere a
rischio povertà sono soprattutto i bambini e i ragazzi (0-15), gli individui anziani con più di 65 anni,
le donne e tutti coloro che sono in possesso di un titolo di studio basso. L’Italia, rispetto agli altri
paesi europei oggetto di analisi del presente studio, mostra valori percentuali piuttosto alti in tutte le
fasce di età, superando di fatto anche la media europea: 24,6% 0 -15; 16% 15 -64; 20,9% oltre i 65.
Le donne nell’EU27 hanno un’incidenza di povertà pari al 17,4% contro il 15,6% degli
uomini; in Italia con il 20,1% le donne superano di fatto la media europea, mentre l’incidenza più
bassa spetta alle donne francesi (13,7%).
I dati riferiti al livello di istruzione avallano la tesi che investire nello studio garantisce un
futuro, in termini lavorativi e sociali, sicuramente migliore. Del resto l’importanza delle risorse
umane qualificate costituisce un fattore preponderante per la crescita economica e, non solo, nella
5
società post-fordista (Political economy).2 “L’istruzione rappresenta un investimento in competenze
umane, che contribuisce allo sviluppo personale e sociale e che in teoria può aiutare a ridurre le
ineguaglianze” (Checchi, Lucifora, 2005).3
All’aumentare del livello di istruzione diminuisce dunque l’incidenza di povertà.
Nell’Europa a 27 chi possiede soltanto la licenza media ha il 23,8% di essere povero contro il
13,1% dei possessori del diploma secondario e il 6,4% di coloro che possiedono il diploma di
laurea. In particolare, in Italia i laureati hanno il 6,6% di incidenza di povertà rispetto a coloro che
sono in possesso del diploma di licenza media (22,8%) e il 12,1% di chi possiede la licenza di
diploma superiore.
Tab. 1 Incidenza delle persone a rischio di povertà per età, genere e titolo di studio, Anno 2009 (%)
Classi di età
Genere
Titolo di studio
Fino alla
licenza
Scuola
Tit.
media
superiore universit. Totale
23,8
13,1
6,4
16,5
20,3
11,1
5,9
12,9
24,1
14,9
8,1
15,5
22,8
12,1
6,6
18,7
23,3
14,6
8,4
19,5
0-15
16-64 65 anni e
anni
anni
più
Uomini
Donne
EU-27*
20,1
15
18,9
15,6
17,4
Francia
16,7
12,3
10,7
12,6
13,7
Germania
14,6
15,9
15
14,7
16,3
Italia
24,6
16,6
20,9
17,1
20,1
Spagna
23,3
17,2
25,2
18,3
20,6
Regno
Unito
24,4
15,1
27,8
17,5
20,1
31,6
15,2
6,4
18,8
*I dati si riferiscono al anno 2008; Il reddito si riferisce, per la maggior parte dei Paesi, all’anno precedente l'anno di
indagine.
Fonte: Eurostat (2010)
I nuovi poveri: working poor
“Non sono i poveri del passato, del Terzo Mondo, sono poveri qui e oggi, relativamente a
quel che il paese potrebbe offrire. Vivono su un nuovo confine, al margine dell’affluenza dei beni,
leggono le stesse riviste, guardano gli stessi film, e il messaggio che l’America opulenta gli
trasmette è che loro sono gli esuli eterni”, così Harrington M. (1962) nell’inchiesta “The other
America” tratteggiava il fenomeno dei working poor.
La globalizzazione e l’internalizzazione delle economie se da un lato hanno generato una
maggiore competitività tra le imprese, dall’altro hanno causato una riduzione degli occupati per
unità produttiva e il contenimento del costo del lavoro e delle relative retribuzioni, penalizzando di
fatto i lavoratori meno qualificati e con un basso titolo di studio.
I cosiddetti working poor - In work at risk of poverty rate, il loro reddito è al di sotto del
60% del reddito mediano equivalente disponibile individuale (Eurostat – EU SILC – Statistics on
2
La political economy comparata e della sociologia dello sviluppo è una delle due linee su cui si è sviluppato il dibattito
sociologico sulli’istruzione, l’altra è quella della mobilità sociale e del mercato del lavoro.
3
Checchi D., Lucifora C: (2000), Education, Mobility and Poverty, in “International Journal of Manpower”, n. 3-4, pp.77-91
6
income and living conditions 2009), così come dimostrato dall’evidenza empirica di numerosi e
differenziati studi, sono identificabili per lo più in lavoratori che possiedono basse qualifiche
professionali associate a bassi titoli di studio e riconducibili prevalentemente al lavoro operaio.
Negli ultimi anni, per effetto della flessibilità lavorativa, sempre più spesso e sempre più numerosi,
sono riconoscibili all’interno di tale categoria, anche giovani che svolgono lavori precari e mal
retribuiti ma dotati spesso anche di un buon bagaglio conoscitivo. Soltanto per coloro che protetti
dalla provenienza culturale ed economica della famiglia di origine la loro condizione di stabilità
lavorativa ha effetti temporanei, per tutti gli altri le ripercussioni sono invece a lungo termine ed
influenzeranno le loro scelte di vita, familiari e sociali.
I dati relativi all’andamento negli anni del numero dei working poor nel contesto europeo
offrono ulteriori spunti di riflessioni (Tab. 2).
L’Italia, con un’incidenza del rischio di povertà dei working poor del 10% nel 2007 si
colloca al di sopra della media europea (tanto dell’Europa a 15 che di quella a 27) inferiore solo alla
Spagna (11%). Piuttosto basso il valore dell’incidenza del rischio povertà dei working poor della
Francia seguito da quelli della Germania. Il Regno Unito si caratterizza per la vicinanza alla media
europea nel 2007. Nel 2008, rispetto al 2007, sale la percentuale dei working poor a rischio povertà
in Francia e nel Regno Unito, mentre il valore rimane stabile sia in Germania che in Spagna mentre
diminuisce in Italia (da 10% al 9%) Il valore della media europea risulta fermo nell’Unione europea
sia dell’Europa a 27 che a 15.
Tab. 2 – Rischi di povertà nell’occupazione (working poor)
2005
2006
2007
Francia
6
6
6
Germania
5b
5
7
Italia
9
10
10
Spagna
10
10
11
Regno Unito
8b
8
8
EU27
8b
8
8
EU15
10b
9
8
Fonte: Eurostat (2009)
Nota:b=rottura serie
2008
7
7
9
11
9
8
8
Osservando l’incidenza della povertà dei working poor negli anni distribuita per sesso (cfr.
Tab. 3) è possibile affermare che essa è prevalentemente maschile in tutti i paesi europei e anche
nella media europea, con l’eccezione della Germania dove le donne working poor a rischio povertà
sono in maggioranza, così come nel Regno Unito ma soltanto nel 2008.
Questo è sicuramente attribuibile al tipo di lavoro svolto (prevalentemente operaio) e al
livello di istruzione (è notorio infatti che le donne in media sono più istruite degli uomini).
7
L’Italia si caratterizza per l’elevata incidenza del rischio di povertà per la componente
maschile in tutti gli anni in oggetto (supera in percentuale gli altri paesi), mentre la Spagna si
distingue per la percentuale femminile più alta di rischio di povertà rispetto agli altri paesi.
Tab. 3 – Rischi di povertà nell’occupazione (working poor) per sesso
2005
2006
2007
M
F
M
F
M
Francia
7
5
6
6
7
Germania
5b
6b
5
6
7
Italia
10
6
11
7
12
Spagna
11
9
11
8
12
Regno
9b
8b
8
7
8
Unito
EU27
9b
7b
8
7
9
EU15
11b
10b
10
9
9
Fonte: Eurostat (2009)
2008
F
6
8
7
9
8
M
7
6
11
12
8
F
6
7
6
9
9
7
8
9
8
8
7
Nota:b=rottura serie
Gli occupati con contratto di lavoro a tempo determinato hanno una maggiore incidenza del
rischio povertà rispetto a quelli con contratto a tempo indeterminato come mostrano i dati rilevati da
Eurostat nel 2009. Nei paesi dell’EU a 27 la media dell’incidenza del rischio di povertà monetaria
per i lavoratori con contratto a tempo determinato è del 13,4% contro il 5% dei lavoratori con
contratto a tempo indeterminato. Stessa tendenza si registra in tutti i paesi oggetto della presente
analisi. In particolare in Italia il valore per i lavoratori a tempo determinato si attesta al 15,8%
mentre per i lavoratori a tempo indeterminato si ferma al 5,6%.
Nello specifico della situazione italiana è possibile delineare la tipologia dei lavoratori a basso
reddito dai dati Istat - gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2005 (cfr. Tab. 4). La
diffusione di lavoratori a basso reddito da lavoro sono collocati nel sud del paese (24,5 per cento
dei lavoratori contro il 14,5 per cento di quelli residenti al Nord e il 16,5 per cento di quelli residenti
al Centro). Inoltre, anche tra gli occupati sono le donne ad essere più a rischio povertà (25,7%
contro il 12,5% degli uomini) i giovani con meno di 25 anni d’età – 40% contro il 20,2 della fascia
di età immediatamente successiva e tra gli individui con un livello di istruzione basso, il 28,7 % di
individui senza titolo di studio o con al massimo la licenza elementare e il 20,7 % individui con solo
la licenza media e tra i lavoratori con basse qualifiche professionali (37,1%).
Il tipo di contratto aggiunge un ulteriore fattore di rischio, così come già evidenziato in
precedenza: il 36,9 per cento dei lavoratori con contratto a tempo determinato ha un salario al di
sotto della soglia definita, contro il 10,8 per cento di coloro che hanno un contratto a tempo
indeterminato.
8
Tab. 4 - Percettori di bassi redditi da lavoro per ripartizione geografica, sesso, classe d'età e titolo di studio - Anno
2005
Percettori di bassi
Percettori di bassi redditi da
Percettori di bassi redditi da
redditi da lavoro
lavoro dipendente
lavoro autonomo
In
migliaia
%
In
migliaia
RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE
Nord
1732 14,5
Centro
785 16,5
Mezzogiorno
1618 24,5
SESSO
Maschio
1763 12,5
Femmina
2373 25,7
CLASSI DI ETÀ
15-24 anni
658
40
25 - 34 anni
1209 20,2
35 - 44 anni
1115 15,2
45 - 54 anni
754 13,2
55 - 64 anni
322 13,8
65 anni e più
77 24,4
TITOLI DI STUDIO
Senza titolo, licenza elementare
611 28,7
Media inferiore
1951 20,7
Media superiore
1269 15,5
Laurea
304
8,5
Totale
4135 17,7
Fonte: Istat, Indagine sul reddito e le condizioni di vita. Anno 2006
In
migliaia
%
%
1256
555
1000
13,5
15,4
19,6
476
230
618
17,8
19,7
24,8
973
1838
9,4
24
790
534
21
33,9
596
873
731
448
140
23
40,2
18
13
10,2
9,1
27,0 (a)
62
336
384
306
183
54
38,3
29,4
22,5
23,6
22,7
23,4
388
1376
870
177
2811
27,2
18,8
13,5
6,4
15,6
224
575
399
127
1324
31,6
27,6
23,1
15,3
24,8
(a) Dato statisticamente poco significativo, perché corrispondente a una numerosità campionaria compresa tra 20 e 49
unità.
Per completare il puzzle è necessario esaminare il contesto familiare in cui sono collocati gli
individui che percepiscono un basso reddito da lavoro; non sempre percepire un basso reddito di
lavoro si associa ad una situazione di disagio economico, tale condizione dipende infatti da un
insieme di fattori (il ruolo che si occupa all’interno della famiglia, la presenza di altri membri che
percepiscono un reddito e la numerosità della famiglia).
La probabilità per una famiglia di vivere una situazione di povertà aumenta quando
all’interno della famiglia vi è un unico percettore di reddito (71,7%) mentre questa diminuisce
quando vi sono almeno due percettori di reddito (20,2%). In questo modo si compensa la scarsità
del basso reddito da lavoro di un singolo percettore.
A tale proposito dall’ultimo Rapporto Istat (diffuso nel 2010) sulla povertà riferito all’anno
2009 si evince che è cresciuta l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie operaie, per le quali
il tasso di povertà è passato dal 5,9% al 6,9%, la povertà relativa tra i lavoratori dipendenti, in
9
particolare operai e assimilati, aumenta al 14,9%, nel sud il valore si avvicina al 30%.4 Oggi in
Italia sono le famiglie con figli quelle che mostrano maggiori difficoltà. La povertà relativa delle
famiglie numerose nel 2009, come evidenzia l’Istat, si attestava al 24,9%, e al sud raggiungeva
livelli di percentuale superiori al 37%.
Il contesto geografico riveste un’importanza fondamentale nel determinare situazioni di
disagio, di esclusione dei singoli individui e degli stessi nuclei familiari. Soltanto attraverso lo
studio approfondito dei singoli territori si possono individuare le politiche più efficaci (interventi
integrati e multilivello) per risolvere e/o migliorare le condizioni di vita dei soggetti che vi
risiedono. Di fatto la crisi economica iniziata a fine 2008 ha colpito “ in modo differenziato per
aree territoriali, a seconda delle diverse specializzazioni produttive, del grado di coesione sociale,
della infrastrutturazione e della qualità dei servizi disponibili; e, all’interno di ogni area, per
caratteristiche dei nuclei familiari, per collocazione lavorativa dei loro membri, per caratteristiche
generazionali, per disponibilità di risorse culturali e per dimensione del rispettivo capitale
sociale”. (Revelli 2010)
Al riguardo, interessante appare la sperimentazione condotta dall’Isfol (2009) sulla verifica
di applicabilità al nostro paese di un indice multivariato di povertà.5 L’indicatore misura la povertà
in termini di assenza di alcune dimensioni del benessere.6 Poiché il grado di rilevanza delle varie
dimensioni di benessere cambia a seconda dell’importanza data ad esse dai policy maker, viene
attribuito un peso diverso a ciascuna di esse. I risultati ottenuti confermano da un lato ancora una
volta la forte differenziazione tra il Nord e il Sud d’Italia e dall’altro permettono di evidenziare le
carenze di natura strutturali specifiche, presenti in ogni singola regioni italiana (Isfol 2009).
Politiche del lavoro e modelli di welfare europei
In Europa prima della crisi economica mondiale del 2008 si stava discutendo di una
possibile rivisitazione delle politiche del lavoro. Il dibattito in Italia si era focalizzato soprattutto su
il possibile rilancio dei Servizi pubblici per l’impiego e sulla riforma degli ammortizzatori sociali.
Tale processo è stato però interrotto dalla crisi economica che ha di fatto orientato l’asse delle
politiche del lavoro verso un sistema di sicurezza sociale e di politiche attive del lavoro (CNEL
2010).
4
La povertà relativa – «che viene calcolata sulla base di una soglia convenzionale che individua il valore di spesa per
consumi al di sotto del quale una famiglia viene considerata povera in termini relativi – e la povertà assoluta - che
viene calcolata sulla base di un valore che corrisponde alla spesa minima necessaria per l’acquisto di un paniere di
beni e servizi selezionati» (Istat 2009).
5
La sperimentazione si basa sul modello proposto da Bossert, Chakravarty e D’ambrosio nel 2009.
6
L’indicatore prende spunto dal lavoro di Atkinson del 2003
10
Vecchiaia, malattia e disabilità, famiglia e infanzia, disoccupazione, abitazione e esclusione
sociale sono i maggiori rischi sociali su cui i paesi dell’Unione concentrano le spese per la
protezione sociale (insieme di erogazioni e prestazioni volte a tutelare gli individui e le famiglie).
All’interno dell’Unione europea estremamente diverse sono le risorse destinate a tali
categorie di spese, esse variano a seconda dell’importanza data nei singoli paesi ai rischi sociali e al
ruolo attribuito a ciascun attore. In tal senso i diversi modelli di welfare ci aiutano meglio a
focalizzare il quadro in un’ottica unitaria.
I paesi scandinavi (Danimarca, Finlandia e Svezia) e continentali (Germania, Austria,
Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) sono quelli che spendono di più in risorse destinate ai
rischi sociali, mentre quelli dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) e dei paesi
anglosassoni (Regno Unito, Irlanda) si posizionano agli ultimi posti in termini di spesa destinata
alla protezione sociale (Mazza 2008).
Nei paesi scandinavi, dove l’accesso alle prestazioni è un diritto di cittadinanza, la spesa
sociale (i due principali erogatori di risorse sono lo Stato e gli individui) è indirizzata verso
un’ampia offerta di servizi alla famiglia e all’infanzia, nonché è rivolta a tutelare i soggetti più
svantaggiati; tali paesi investono molto nel settore dell’istruzione e nelle politiche per l’occupazione
e da più parti sono indicati come esempio di tipo ideale di welfare. L’ampia rete di sostegno al
reddito, la differenziata offerta di servizi di cura alle famiglia fanno sì che tale sistema si caratterizzi
per l’elevata efficienza degli atti di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.
La spesa sociale nei Paesi dell’Europa continentale è finanziata prevalentemente dai
contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e funge da protezione alla disoccupazione, alla salute
alla disabilità e alla vecchiaia; seppur il destinatario principale delle risorse in questi sistemi è la
famiglia non si raggiungono risultati soddisfacenti in tutti i paesi in termini di tasso di occupazione
femminile e di tasso di fecondità. Per supportare l’occupazione in tali paesi vengono finanziate
misure di sostegno al mercato del lavoro, come per i disoccupati di lunga durata in Germania; a
differenza dei paesi mediterranei (come l’Italia e la Spagna) che invece mancano di un sistema di
tutela universale di protezione minima per i disoccupati di lunga durata; i sistemi mediterranei
garantiscono infatti i sussidi di disoccupazione e forniscono programmi di inserimento/sostegno
solo a coloro che hanno perduto un lavoro dipendente.
Rispetto agli altri paesi quelli dell’area mediterranea hanno un sistema di spesa sociale
contenuta e la distribuiscono in modo differente tra i diversi settori (l’Italia sicuramente si
caratterizza per il rilievo dato alla misura pensioni). Per far fronte al basso livello di fecondità e ad
una elevata disoccupazione femminile la Spagna e il Portogallo hanno investito risorse aggiuntive
all’occupazione e alle politiche di sostegno al mercato del lavoro.
11
I paesi del sistema anglosassone hanno come obiettivo principe quello di ridurre le povertà
estreme, il sistema si denota per aver messo a punto programmi di assistenza sociale e per
l’erogazione di sussidi (prima verificano la reale condizione di bisogno) a soggetti disagiati. Il
Regno Unito, che ha un sistema di protezione universalistico come quello dei paesi scandinavi, si
denota per una scarsa offerta di servizi destinati all’istruzione, alla salute e per quelli rivolti al
sostegno dell’infanzia e alla famiglia. Inoltre, non tutti gli inglesi possono fruire di tali servizi ma
soltanto quelli che mostrano di vivere in condizioni reali di bisogno. In tali paesi i disoccupati per
avere diritto al sussidio pubblico devono attivarsi per trovare un lavoro, accettare anche un impiego
con bassa retribuzione e sono obbligati a partecipare a programmi di sostegno alla ricerca di
impiego oppure a programmi di riqualificazione professionale (work to welfare).
In media, comunque, la maggior parte dei paesi dell’Unione privilegiano le spese connesse
all’invecchiamento della popolazione (pensioni, malattia/disabilità), come l’Italia che destina
precipuamente le proprie risorse alle pensioni di invalidità/superstiti, in Spagna, invece, privilegiano
le spese destinate alle indennità di disoccupazione, mentre nel Regno Unito la spesa è devoluta in
modo predominante all’abitazione e all’esclusione sociale.
La maggior parte dei paesi dell’UE ha adottato politiche di reddito minimo a sostegno del
reddito, nel paragrafo successivo vedremo, in dettaglio, alcuni esempi di paesi (Francia e Regno
unito) che hanno recentemente rivisto e aggiornato tale misura.
Ora illustreremo la distribuzione delle spese nei vari paesi europei prima della crisi
economica del 2008.
Come si evince dalla tabella 5 i paesi europei in oggetto investono di più in spese di
sostegno (misure passive che includono i sistemi di sostegno al reddito quali trattamenti di
disoccupazione), anche se osservando il trend si nota che tali spese diminuiscono in tutti i paesi.
Negli corso degli anni la Germania, la Francia e la Spagna superano in investimenti in politiche del
lavoro (misure attive e di sostegno) la media europea, mentre il Regno Unito è il paese che investe
di meno seguito dall’Italia.
La Francia e la Spagna aumentano le spese in politiche attive (ossia tutti i servizi di
assistenza e formazione destinati a favorire l’occupabilità delle persone, come per esempio, solo per
citarne alcune la formazione, rotazione e condivisione del lavoro, incentivi all’occupazione,
integrazione dei disabili, creazione diretta dei posti di lavoro, incentivi all’auto-impiego); il Regno
Unito è il paese che investe di meno in politiche attive, ma anche in quelle di supporto seguito
dall’Italia.
12
Tab. 5 - Spese per le politiche del mercato del lavoro (LMP) in percentuale sul PIL (GDP)
Misure
2005
2006
2007
Sostegno
2005
2006
2007
attive
Francia
0,664e
0,681e
0,702
e
Francia
1,592
1,394e
1,257
Germania
0,615s
0,611e
0,507
Italia
0,470
0,446s
0,372
Spagna
0,581
0,629
0,629
Regno
Unito
EU27
0,055s
0,046s
0,516s
EU15
0,534s
s
Germania
2,343
2,094
1,625
Italia
0,813
0,793
0,716
e
Spagna
1,450e
1,433
1,449
0,049
s
0,186
0,187
0,159
0,511s
0,473
s
Regno
Unito
EU27
1,334s
1,196s
1,025
s
0,531s
0,491
s
EU15
1,387s
1,247s
1,077
s
e
Fonte: Eurostat (2009)
Nota: le misure attive includono le categorie LMP da 2 a 7 (tra queste abbiamo la formazione, rotazione e condivisione
del lavoro, incentivi all’occupazione, integrazione dei disabili, creazione diretta dei posti di lavoro, incentivi all’autoimpiego); i sostegni al reddito includono le categorie LMP da 8 a 9 (misure passive quali trattamenti di disoccupazione
e pensionamenti anticipati)
La Francia nel 2005 è il paese che investe di più in politiche del mercato del lavoro
procapite per persone in cerca di lavoro, seguito dalla Germania, poi dalla Spagna, dall’Italia e
infine dal Regno Unito (cfr. Tab. 6). Soltanto la Francia e la Germania superano la media europea.
Per lo più la Francia devolve in spese di “sostegno”, così come la Germania, Italia e Spagna.
Soltanto il Regno Unito investe di più in spese per “servizi” (i servizi pubblici per le politiche del
mercato del lavoro che comprendono le attività di orientamento e ricollocamento dei servizi
pubblici per l’impiego) e meno in spese “misure” e spese “di sostegno”. Molto basso invece
l’investimento italiano in spese per “servizi”.
Tab. 6 - Spesa in politiche del mercato del lavoro procapite per persone in cerca di lavoro. Suddivisione per
servizi, misure attive e passive – Anno 2005
Spese servizi
Spese misure
Spese sostegno
Totale spese in
politiche mercato del
Lavoro
Francia
1.101,10
e
7.460,30
11.663,90
E
1.618,00
s
6.931,50
9.405,40
S
3.529,50
Germania
855,80
Italia
102,80
1.268,10
2.158,50
Spagna
243,60
1.541,90
3.850,60
Regno Unito
e
3.102,50
1.835,30
s
257,30
s
874,40
EU27
673,40
s
1.472,40
s
3.931,50
EU15
839,40
s
1.824,30
s
4.896,20
13
E
S
5.636,10
E
2.967,00
S
6.077,30
S
7.559,95
S
Fonte: Eurostat (2009)
Nota: Spese servizi (comprendono i servizi pubblici per le politiche del mercato del lavoro). Le spese sono espresse in
PPS allo scopo di eliminare i differenziali di prezzo.
S stima Eurostat
- non applicabile o zero reale o zero per default
0 o 0.00 meno della metà dell’unità usata
Nel 2006 i paesi diminuiscono il totale delle spese in politiche del mercato del lavoro
procapite per persone in cerca di lavoro (con l’eccezione della Spagna e della Germania) (cfr. Tab.
7). La Francia, la Germania
e la Spagna sono al di sopra della media europea. In Italia
diminuiscono ulteriormente le spese per i “servizi”. Mentre nel Regno Unito scendono le voci per
spese “misure” e spese “di sostegno”.
Tab. 7 - Spesa in politiche del mercato del lavoro procapite per persone in cerca di lavoro.
Suddivisione per servizi, misure attive e passive – Anno 2006
Spese servizi
Spese misure
Spese sostegno
Totale
spese
in
politiche
mercato
del Lavoro
Francia
1.147,0
e
3.216,4
e
6.577,0
Germania
875,9
e
1.794,5
e
Italia
39,0
Spagna
291,9
Regno
Unito
EU27
1.280,5
s
197,9
634,7
s
EU15
775,9
s
e
10.940,3
E
6.884,4
9.554,7
E
1.131,7
2.182,5
3.353,3
1.933,8
4.404,6
6.630,4
s
844,7
2.323,1
S
1.579,4
s
3.847,8
e
6.061,9
S
1.931,1
s
4.733,6
e
7.440,6
S
Fonte: Eurostat (2009)
Nel 2007 la Francia e la Spagna aumentano le spese in politiche del mercato del lavoro
procapite per persone in cerca di lavoro (cfr. Tab. 8). L’aumento è piuttosto consistente in Spagna
che sale ulteriormente rispetto al 2006, mentre gli investimenti scendono (dal 2006 al 2007) per la
Germania. Per l’Italia continuano a diminuire così come per il Regno Unito. Con l’eccezione del
Regno Unito che investe di più in “servizi”, gli altri paesi investono per lo più in spese di
“supporto”. Ancora basso l’investimento italiano in spese per “servizi”.
14
Tab. 8 - Spesa in politiche del mercato del lavoro procapite per persone in cerca di lavoro.
Suddivisione per servizi, misure attive e passive – Anno 2007
Spese servizi
Spese misure
Spese sostegno
Totale
spese
in
politiche
mercato
del Lavoro
Francia
1.184,5
e
3.666,4
e
6.568,7
11.419,5
E
Germania
1.024,5
e
1.946,8
s
6.239,0
9.210,4
S
Italia
39,9
s
1.068,0
2.056,0
3.163,9
S
Spagna
341,8
8.137,5
E
Regno
Unito
EU27
1.301,4
2.282,9
S
EU15
2.361,5
e
5.434,3
e
s
232,1
s
749,3
704,3
s
1.739,3
s
3.770,1
s
6.213,7
S
836,9
s
2.061,4
s
4.515,8
s
7.414,1
S
Fonte: Eurostat (2009)
Politiche di reddito minimo in Francia e nel Regno Unito
La crisi economica ha evidenziato la necessità di sostenere e promuovere l’occupazione e
l’inclusione sociale. Alcuni paesi per il sostegno del reddito e per contrastare la povertà hanno
adottato politiche di reddito minimo (tale strumento non è in vigore in Italia in Grecia e in
Ungheria).
L’Italia ha comunque testato, grazie all’istituzione del Decreto legislativo n. 237 del 18
luglio 1998 e Legge 328/20007, il Reddito Minimo di Inserimento (RMI). La sperimentazione che
ha coinvolto 39 comuni nel 1999/2001 e 307 nel 2002 e che è stata riconosciuta come Buona pratica
nel Piano nazionale per l’Inclusione sociale presentato a Bruxelles nel giugno 2001, è poi cessata
con la legge finanziaria del 2003.
Un ruolo fondamentale nella progettazione dei sistemi di protezione sociale è rivestito dai
modelli di welfare di riferimento. Universalità e selettività sono i concetti che hanno animato negli
anni il dibattito dei policy maker sulle scelte da compiere nel campo delle politiche pubbliche di
spesa. Lo schema che si è imposto prevalentemente nei vari paesi è stato quello di natura selettiva.
Tra le varie misure utilizzate vi è anche il reddito minimo di inserimento.
I modelli di reddito minimo adottati nei paesi europei, seppur differenti tra di loro (spesso
variano anche i destinatari degli interventi), hanno in comune l’obiettivo di garantire uno standard
minimo del livello delle condizioni di vita e sono rivolti sia a coloro che non svolgono una attività
7
La legge prevede all’art. 23 l’estensione del reddito minimo di inserimento come misura generale di contrasto della
povertà, alla quale ricondurre anche gli altri interventi di sostegno al reddito.
15
lavorativa (disoccupati e/o inabili) sia a coloro che hanno un lavoro ma che percepiscono uno
stipendio basso, al di sotto della soglia di sussistenza. Per ridurre fenomeni di “trappola della
povertà” (un soggetto può scegliere, pur di usufruire del sussidio, di non lavorare) diversi paesi
hanno cercato di accrescere l’appetibilità finanziaria del lavoro rispetto alla non occupazione
attraverso le in work policies, programmi di sussidio connessi alla partecipazione al mondo del
lavoro. Mentre l’integrazione al reddito per i working poor agisce sia sul lato della domanda che
dell’offerta di lavoro (come ad esempio sulla riduzione di contributi sociale alla concessione di
crediti d’imposta alle imprese in proporzione agli occupati e sui crediti d’imposta per i lavoratori).
In questo contesto analizzeremo alcuni esempi di paesi (come la Francia e il Regno Unito)
che hanno messo in piedi una articolata rete di schemi differenti, a volte anche sovrapposti e/o
rivolti a determinati target di popolazione.
Recenti innovazioni nelle politiche di reddito minimo in Europa sono state adottate in
Francia (Revenue de Solidarité Active) e nel Regno Unito (Employment and Support Allowance e la
revisione dei programmi di Jobseekers Allowance).
In Francia la proposta di Revenue de Solidarité Active (RSA) presentata nel 2005 nel
rapporto AU possible, nous sommes tenus, aveva come obiettivo principe l’unificazione dei
numerosi e diversificati trasferimenti assistenziali, come il Reveu Minimum d’Insertion (RMI),
l’Allocation de solidarité spécifique, allocazione di solidarietà per i disoccupati a cui è scaduta
l’indennità di disoccupazione contributiva (ASS), l’Allocation de parents isolé, allocazione per
genitori soli (API) e la Prime pour l’emploi, credito di imposta per i lavoratori poveri (PPE). Dopo
una sperimentazione di due anni, nel 2009 il RSA diventa legge, mantenendo in vita l’ASS e la
PPE.
Per usufruire del RSA oltre al requisito del reddito - la soglia è calcolata sui redditi familiari
- a differenza del PPE che tiene conto sia del reddito da lavoro del lavoratore che del reddito
familiare complessivo, è necessario avere più di 25 anni a meno che si ha già un figlio, mentre per
accedere al PPE è necessario avere 18 anni, non essere in età pensionabile, essere in buone
condizioni fisiche (l’RSA non è indirizzato ai disabili per cui è prevista una misura specifica
l’Allocation adultes handicappé) e avere la residenza stabile in Francia. I destinatari del RSA
usufruiscono anche di ulteriori benefici: esenzione dalle imposte sull’abitazione, la copertura della
malattia e altre riduzioni come sulle tariffe del telefono, sui trasporti ecc.
Il ricorso ai due parametri del PPE, reddito da lavoro e reddito familiare, è più efficace
nell’individuare il disagio economico personale da quello familiare, inoltre poiché i limiti reddituali
individuali variano proporzionalmente alla prestazione lavorativa annua, permette di individuare
coloro che si trovano in vere situazioni di svantaggio da quelli che invece mostrano un minore
16
impegno lavorativo. Il PPE è stato oggetto di varie modifiche: nel 2003 è stata
potenziata
l’efficacia nei riguardi dei lavoratori part-time, mentre nel 2006 la legge finanziaria ha rivalutato la
PPE del 50% da dividere in due anni, il valore previsto per il 2007 è stato poi ulteriormente
innalzato.
Il rischio insito sia nel PPE che nel RSA è rintracciabile negli evidenti benefici ricavati dai
datori di lavoro dovuti all’integrazione dei salari dalla fiscalità, inoltre la gestione di
amministrazione diverse evidenzia difficoltà nei passaggi da uno schema all’altro, potenziata questa
anche dall’aumento esponenziale della flessibilizzazione nei rapporti di lavoro (CIES, 2010).
Nel Regno Unito le politiche sociali di impianto workfarista hanno una lunga storia. Nel
1999 è stato introdotto il Working Family Tax Credit (WFTC), dove viene affinato il sistema di taxbenefit, specificando il sostegno alle famiglie con figli (Child Tax Credit) dal contrasto alla
povertà/inoccupazione (Working Tax Credit – WTC). Lo scopo del WTC è quello di rafforzare
l’efficacia delle in-work policies per i lavoratori working poor contrastando da un lato la povertà e
dall’altro incentivando il lavoro.
Nel 2008 in Gran Bretagna è stato inserito un nuovo sostegno per i soggetti disabili,
l’Employment and Support Allowance (ESA) in sostituzione dell’Incapacity Benefit (IB). Per
usufruirne si tiene conto del reddito e del patrimonio. L’ESA rispetto all’IB introduce un nuovo
Work Capability Assessment volto ad appurare le possibilità di lavorare invece dei vincoli al lavoro
causati dalla disabilità. Dopo di che tutti coloro ritenuti in grado di svolgere un’attività lavorativa
diventano beneficiari di Jobseekers Allowance (JSA) indennità di disoccupazione/trasferimento per
chi è in cerca di lavoro, coloro che sono in grado di lavorare in misura parziale sono inseriti nel
Work Related Activity Group e sono tenuti a svolgere un percorso personalizzato di interviste e di
preparazione al lavoro volto all’attivazione.
I principali cambiamenti apportati ai programmi Jobseekers Allowance riguardano i
beneficiari e le modalità del processo di attivazione. È stato ridotto il periodo di tempo in cui i
genitori soli accedono all’Income Support – sostegno al reddito senza vincolo di lavoro (dal 2010
fino a che il bambino ha 7 anni). Riassumendo i percettori del JSA per percepire l’aiuto devono
dichiararsi disponibili a lavorare, devono essere genitori soli (con figli di età compresa tra i 7 e i 12
anni), non devono usufruire dell’ESA e, infine sono persone di età compresa tra i 16 - 64 abili a
lavorare.
Per quanto riguarda il processo di attivazione nell’aprile del 2009 è stato inserito il Flexible
New Deal (FND) che introduce due importanti cambiamenti: la realizzazione di un circuito privato
di centri per l’attivazione che vengono pagati in base alla quantità di persone che sono riuscite ad
occupare e che quindi escono dal programma; l’obbligo per i beneficiari della JSA entrati nella
17
seconda fase del programma, ad effettuare un minimo di 4 settimane di lavoro continuativo a tempo
pieno retribuito, pena l’esclusione dalla fruizione dei benefici.
Per contrastare la crisi economica sempre nel 2009 sono stati realizzati due nuovi
programmi, il Support for the Newly Unployed (SNU) che prevede l’erogazione di servizi di
sostegno alla ricerca di lavoro dal primo giorno in cui si usufruisce dello JSA e rivolto ai
disoccupati a seguito della crisi e il Six Month Offer (SMO) che prevede un potenziamento degli
uffici pubblici del lavoro delle misure di sostegno all’attivazione dello scadere dei primi sei mesi di
disoccupazione. Inoltre, insieme ai SMO sono stati introdotti alcuni programmi volontari composti
da un recruitment subsidy, sussidio ai datori di lavoro che concedono un contratto di lavoro ai
beneficiari di JSA, disoccupati da un minimo di sei mesi.
Quale modello di welfare?
I profondi cambiamenti che stanno attraversando molti aspetti della vita sociale, economica
e culturale del paese (l’invecchiamento della popolazione e il relativo abbassamento del numero di
soggetti attivi nel mercato del lavoro, le trasformazioni in atto nella famiglia e l’accresciuta
presenza nel mercato del lavoro delle donne, i cambiamenti avvenuti nei processi produttivi e nella
struttura dell’occupazione ecc.) ci spingono sempre più urgentemente ad interrogarci sul modello di
welfare più appropriato. Tutto muta e diviene fluido nella società liquida e in questo precario
contesto aumentano le differenziazioni tra gli individui e le difficoltà nella realizzazione dei propri
sogni e bisogni. Da più parti le indicazioni sembrano orientate verso un sistema di welfare nonassistenzialistico e dinamico o ancora di un welfare che combatte la povertà «per promuovere una
società attiva, sostenendo la creazione dei posti di lavoro, costruendo strumenti di orientamento e
di accesso al lavoro personalizzati, valorizzando un sistema retributivo che incoraggi la produzione
di ricchezza» (Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche sociali 2008, p. 9).
Quello che si sta imponendo è dunque un modello di welfare di impianto universalistico
basato sulla realizzazione dei diritti dei cittadini oltre che naturalmente su misure di tutela
economica. Un welfare di servizi che sia in grado di proteggere gli individui dai maggiori rischi
sociali ma anche in grado di sostenerli nell’attivazione delle loro capacità fornendogli un insieme di
strumenti integrati.
L’attivazione viene quindi associata al concetto di “empowerment così come inteso nelle
moderne politiche sociali, ossia come partecipazione dei cittadini alla produzione del welfare sulla
base di processi di cittadinanza attiva” (Ministero del Lavoro, ANCI, CITTALIA, 2010).
A. Sen (2010) sostiene che “ciò che conta nei moderni sistemi di protezione sociale non
sono le utilità (come sostengono i welfaristi) ne i beni principali (come sostiene Rawls), ma le
libertà sostanziali o capacitazioni, di scegliersi una vita cui si dia valore”.
18
L’uguaglianza delle capacità rappresenta un principio distributivo innovativo: chi è
interessato a misurare la povertà/disuguaglianza e a contrastarla non può limitarsi alla verifica
della mera difficoltà dei mezzi. Al contrario deve tener conto dell’accesso ai risultati (Granaglia
2007).
Si parla quindi di un welfare universale destinato a tutti i cittadini ma che sia in grado di
tutelare gli individui più svantaggiati (con meno risorse e capacità) fornendo loro una serie di
strumenti atti a garantire una maggiore fruibilità dei servizi.
In Italia nel corso degli anni diverse sono state le strategie che i soggetti sociali e politici
hanno messo in campo per l’affermazione e la tutela dei diritti dei cittadini e delle categorie sociali
più svantaggiate.
La scoperta e la denuncia dei fenomeni di povertà ed esclusione nonché l’apporto
dell’intervento pubblico hanno caratterizzato l’approccio al problema negli anni settanta; mentre la
nascita della cooperazione sociale e degli interventi verso il basso sono propri degli anni a cavallo
tra gli anni ottanta e i novanta. Per far fronte alla scarsità delle risorse economiche provenienti dal
pubblico si è giunti infine ad una configurazione di un modello di welfare basato oltre che sulla
pluralità degli attori coinvolti nel sistema di erogazione dei servizi sociali anche sulla gestione
mista delle funzioni e delle responsabilità (welfare mix). Quando si parla di welfare mix si intende
l’integrazione tra gli attori pubblici e privati, for profit e non profit attivi nel campo dei servizi alla
persona.
Tale passaggio tra un sistema di welfare state ad uno di welfare mix è stato favorito da un
elemento fondante della Costituzione europea: il principio della sussidiarietà basato sul
decentramento e sul pluralismo.
Un ruolo determinante nelle dinamiche territoriali e nella costruzione dei sistemi di welfare
locali sembra rivestito dal Terzo settore.8
Dall’analisi di Ranci (2003), integrata da Kazepov (2004) emergono 4 modelli di
partecipazione del Terzo settore nei sistemi di welfare locale in Europa:
• corporativo sussidiario (es. Germania);
• familistico con dominanza del Terzo settore (Italia);
8
I sistemi di welfare locale europeo che emergono dall’analisi di Kazepov:
• welfare locali sud europei, con un alto livello di frammentazione di istituzioni, attori, politiche e pratiche di
attivazione, inserito in un contesto dove la famiglia riveste una importanza strategica.
• Welfare Europa continentale, dove a fronte di istituzioni relativamente omogenee si riscontra una certa
diversità delle pratiche di attivazione locale, dove un ruolo chiave viene giocato dalla famiglia e dallo Stato.
• Welfare liberale dell’Inghilterra, che affianca la frammentazione istituzionale alla differenziazione delle misure
di attivazione, in un contesto di forte individualizzazione.
•
Welfare locale scandinavo, dove accanto ad istituzione omogenee si dispiegano una varietà di pratiche di attivazione, e
dove è lo Stato a rivestire un ruolo di rilievo.
19
• universalistico a dominanza statale (es. Danimarca);
• liberale di mercato (Inghilterra).
Ogni modello appena esposto rappresenta «una specifica modalità di governance del
welfare locale e in quanto tale si manifesta negli esiti del funzionamento istituzionale attraverso la
produzione e riproduzione sociale di profili del disagio, che dipendono in larga parte dal sistema
dei diritti e di bisogni riconosciuti a livello territoriale più ampio». (Lucciarini 2008, p. 6)
Nel nostro paese un tentativo di mettere ordine è stato dato con l’emanazione delle leggi di
recepimento della L.328/2000 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi
e servizi sociali, la quale ha proposto una ridefinizione sistematica ed unitaria del settore e dalla
riforma del Titolo V della costituzione (Legge Costituzionale 3/01) che ha trasferito alle Regioni la
potestà legislativa in materia di politiche sociali.
L’indicazione per il futuro è di giungere alla realizzazione di strategie territoriali integrate:
piani di azione a lungo termine puntando sulle specificità, le caratterizzazioni e le risorse attivabili a
livello territoriale, abbandonando la logica dell’emergenza degli interventi.
L’importanza degli interventi locali nella realizzazione di una efficiente rete di welfare è
molto sentita anche a livello europeo. Nel Rapporto sulla riforma delle politiche di coesione
europee (2009) viene sottolineato il bisogno di predisporre interventi sinergici tra i pacchetti di beni
e servizi con una politica di inclusione sociale “place-based”, sottolineando così da un lato il ruolo
fondamentale del territorio in termini di influenza che ha sulla condizione di esclusione sociale,
nonché sul grado di efficienza degli interventi che mirano a contrastarla e, dall’altro, mette in
evidenza la forza propulsiva del contesto locale per le sue capacità di mobilitazione di tutti gli attori
coinvolti.
20
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