MICHELANGELO e il suo tempo
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MICHELANGELO e il suo tempo
GLI ALLIEVI DEL LICEO SCIENTIFICO “N. COPERNICO” DI UDINE RACCONTANO MICHELANGELO e il suo tempo 1 INTRODUZIONE Personalità straordinaria di tutti i tempi che si è espresso in almeno 4 arti: pittura, scultura, architettura, poesia. Quando Michelangelo morì a 89 anni, qualcuno scrisse che non era morto un solo uomo ma bensì quattro. Posto al vertice della storia dell’arte da Giorgio Vasari e poi da tutti gli altri biografi, sappiamo molto della sua vita perché tramandato dai documenti e molto è stato scritto dallo stesso Michelangelo attraverso il suo fedele allievo Ascanio Condivi. Michelangelo nacque a Caprese (ora Caprese Michelangelo)una località vicino ad Arezzo e dove il padre Ludovico era podestà, il 6 marzo 1475 da una colta famiglia fiorentina. A 12 anni andava a bottega presso il Ghirlandaio, uno dei pittori più rinomati della Firenze del tempo. Suo padre non avrebbe voluto e cercò di scoraggiare questa inclinazione precoce poiché agli occhi di Ludovico Buonarroti, sembrava che dedicarsi ad un’arte materiale com’era la pittura e non ad una professione nobile come poteva essere il notaio o il magistrato, fosse un modo per far declinare la posizione sociale della famiglia che vantava antiche e nobili origini. Michelangelo riuscì a far valere questa sua volontà così ferma e così ben indirizzata ed imparò la pittura esercitandosi a copiare da Giotto a Masaccio, dagli affreschi presenti nelle chiese fiorentine. Imparato i fondamentali della pittura imparò la scultura che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua vita ed ebbe una grande possibilità, essere invitato nella cerchia di Lorenzo il Magnifico, straordinario mecenate della famiglia Medici del ‘400, a frequentare il Giardino di San Marco che era un luogo, appartenente alla famiglia Medici, dov’erano riunite molte antichità e dove i giovani si esercitavano 2 specialmente nel disegno e nella copia dall’antico sotto la guida di un anziano scultore Bertoldo di Giovanni che era stato allievo di Donatello. La frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico lo introdurrà nel raffinato ambiente neoplatonico. LA VITA E LE OPERE La MADONNA DELLA SCALA è proprio il frutto della sua precocissima inclinazione a scolpire il marmo. Siamo tra il 1490 -1492 (nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico ponendo fine ad un’era di mecenatismo artistico) e in questo rilievo, che si trova in casa Buonarroti a Firenze, Michelangelo appare già, benchè quindicenne o poco più, padrone della materia e della tecnica. Il rilievo sottilissimo dello sfondo rappresenta una scala, quasi scala di un cortile domestico, nel quale troneggia la Madonna seduta su un sedile cubico che porge il seno al Bambino. Il rilievo è di superba maestria ma anche pieno di misteri e di quesiti che non riusciamo a risolvere: la Madonna rivolge il suo sguardo non al Bambino ma lontano, quasi assorta in una visione profetica del destino del figlio; il Bambino, rappresentato come un piccolo Ercole studiato nella scultura antica, ci volta le spalle; questi fanciulletti sulla scala si affannano come se volessero piegare un drappo… E’ certamente un rilievo che alla bellezza unisce la componente del mistero e si riconduce anche, come succede alle Madonne di Michelangelo, al suo personale rapporto con la figura materna, poiché la madre Francesca morì che lui era infante e dunque, soltanto nelle nutrici, Michelangelo potè trovare il suo riferimento per l’elemento femminile. Le prime opere rivelano una stupefacente maestria tanto che nel 1496, all’età di 21 anni, Michelangelo è chiamato a Roma dal 3 cardinale Jean Bilheres il quale, volendo lasciare un ricordo di sé in Vaticano, incarica il giovane ma già conosciuto Michelangelo, di scolpire un gruppo marmoreo rappresentante la PIETA’. Il tema della “Pietà”, allora molto diffuso nell’Europa centro-settentrionale, ma poco in Italia, consiste nel rappresentare la Vergine Maria che tiene tra le braccia il corpo senza vita del Figlio deposto dalla croce. Tale composizione ebbe forse origine come riduzione della scena del “compianto sul Cristo morto” di cui esistono numerosi esempi (vedi Giotto nella Cappella degli Scrovegni). Questo gruppo statuario è certamente uno dei più celebri al mondo. Rappresenta l’apice della fase giovanile di Michelangelo essendo stato scolpito tra il 1498 e il 1500, anno in cui fu installata forse proprio in coincidenza del Giubileo, nella cappella dei Re di Francia nell’antica Basilica Vaticana. Il cardinale Jean Bilheres, che commissionò la statua, non arrivò mai a vedere compiuta l’opera perché morì prima che fosse terminata. E’ un’immagine straordinariamente emozionante, ricca di valori artistici ma anche di una profonda sostanza teologica, rappresenta infatti il momento della solitudine della Madonna quando le viene deposto sulle ginocchia il figlio morto e madre e figlio restano insieme soli in un’immagine connotata da una profonda e silente tristezza. E’ un’iconografia quella della Madonna con il figlio tornato quasi bambino nel suo grembo nel sonno eterno della morte che era molto diffusa al di là delle Alpi, nella cultura artistica e religiosa nordica delle Fiandre e della Germania, tanto da avere un nome tedesco, si chiama “vesperbild” (immagine della sera), un’allusione al calare della notte che coincide con la morte di Cristo. Michelangelo ha conferito alla Madonna una straordinaria potenza nello sviluppo di questa sua veste ricca di pieghe che si infittiscono sul petto e si espandono sulle gambe ma anche una dolcezza virginale nell’ovale del volto. Di questa gioventù qualcuno gli chiese conto facendo osservare la contraddizione apparente tra l’età della madre che sembra coetanea al figlio ma la risposta di Michelangelo fu che chi è vergine nei pensieri e nel corpo si mantiene giovane per sempre. 4 Mirabile è anche il corpo di Cristo abbandonato nella morte che la madre quasi fatica a tenere in grembo per la totale rilassatezza delle membra. Il braccio piomba giù, le gambe si abbandonano scendendo e scivolando quasi dalle ginocchia della madre. E’ anche molto indicativo e toccante, rispetto alle attenzioni che Michelangelo ha riservato rispetto a questo tema, il particolare del sudario con il quale la Madonna protegge il corpo di Cristo quasi non osando toccarlo con la propria mano per la sacralità estrema che esso rappresenta; l’altra mano della Madonna è lievemente aperta in un gesto dimostrativo che vuole catturare l’attenzione dei fedeli mostrando quale è stato il sacrificio del figlio per la redenzione dell’Umanità. La base sul quale il gruppo poggia è una sorta di roccia molto particolare, molto lavorata, che rappresenta in sintesi la sommità del monte Calvario da cui è stata ormai tolta la croce. Si tratta di un’opera finita con la massima cura in ogni particolare, evidentemente Michelangelo ha potuto dedicarvisi con ogni attenzione ed è anche l’unica opera firmata. Secondo un aneddoto che viene riferito dai biografi, Michelangelo in origine non vi aveva messo la propria firma ma una sera, essendo seminascosto nella penombra della basilica a contemplare il proprio capolavoro ebbe l’occasione di sentire un gruppo di lombardi che commentavano la statua e uno di loro diceva che si trattava dell’opera di un loro conterraneo, quella notte, Michelangelo, nascosto dentro la basilica, scalpellò nella cintura che passa attraverso il panneggio sul seno della Madonna, orgogliosamente “Michelangelus florentinus faciebat”. Nel 1972 un pazzo geologo ungherese di nome Laszlo Toth, armato di martello per scavi, ha scavalcato la ringhiera di protezione nella Basilica di San Pietro per sferrare dodici colpi contro la Pietà. Mentre colpiva la statua, gridava “Io sono Gesù Cristo”. Il restauro venne condotto raccogliendo gli oltre 200 frammenti caduti a terra, identificati nel corso di cinque mesi di dure analisi, utilizzando fotografie scattate in precedenza, in un laboratorio di fortuna costruito attorno alla statua, che non fu spostata di un centimetro. Da allora una teca in vetro antisfondamento protegge la statua. 5 Nel 1500 dunque, Michelangelo, con la Pietà del Vaticano aveva raggiunto una notorietà ed una fama straordinarie in tutta la penisola perché quindi tornò a Firenze nel 1501? I biografi ci raccontano che alcuni amici gli dettero una notizia, cioè che l’Opera del Duomo voleva dare ad uno scultore un grande blocco di marmo che era rimasto abbandonato presso la Fabbrica di S. Maria del Fiore e che era stato iniziato a scolpire da uno scultore (Agostino di Duccio) parecchi anni prima ma che poi era rimasto grezzo. L’idea che potessero dare ad un altro, presumibilmente ad un concorrente, un bellissimo blocco come quello Michelangelo non la sopportò e, tornato a Firenze, riuscì a farsi aggiudicare il blocco da cui avrebbe poi ricavato il DAVID. In realtà il blocco era bello d’aspetto ma di qualità abbastanza discutibile infatti la superficie stessa di questa straordinaria scultura ha dei piccoli fori che dimostrano la qualità non eccelsa del marmo, tuttavia la dimensione era davvero maestosa perché il blocco doveva essere destinato a ricavarne un gigante che stesse su uno degli sproni altissimi di S. M. del Fiore. Michelangelo evidentemente aveva capito le potenzialità di questo blocco e riuscì a ricavarne una figura che è al tempo stesso frontale e ruotata su se stessa, pur stando dentro i confini del blocco che gli era stato assegnato. Chiamato fin da subito “il gigante” o “il colosso” il giovane che Michelangelo ricavò da quel blocco era, in realtà, un pastorello, un adolescente: quel David di cui parla la Bibbia che riuscì con le sue forze, ma soprattutto con l’aiuto di Dio, a sconfiggere l’esercito dei Filistei che aveva a capo il gigante Golia. La narrazione della Bibbia ci aiuta a capire come arriviamo al momento che Michelangelo ha inteso fissare in questa eroica scultura. Il re Saul, che teme per la sorte del giovane che si è offerto di andare contro i Filistei, lo ricopre di armi affinchè sia ben difeso, ma impacciato da quel peso e da quel metallo, il pastorello si libera delle armi e rimane praticamente nudo e si procura, nel letto ghiaioso di un fiume, 3 ciottoli che userà con la sua fionda. Con questa fionda roteante scaglia le sue pietre, colpisce in fronte il gigante Golia e, dopo averlo abbattuto, con la stessa arma del gigante lo decapita. 6 E’ così che, di solito, viene raffigurato David. Ci sono meravigliosi esempi nella statuaria fiorentina del ‘400: il David bronzeo di Donatello e quello, sempre bronzeo, del Verrocchio, sono giovani armati che hanno ai piedi la testa del gigante abbattuto. Qui siamo invece prima che l’eroico gesto abbia luogo. David sta osservando e concentrandosi sul bersaglio che è Golia mentre stringe la fionda già caricata con i sassi. Ecco il momento che ha colto Michelangelo, un momento di stasi che si trasformerà presto in energia violenta e liberatrice, un momento di quiete, di valutazione che precede l’azione improvvisa e vittoriosa. Un esempio unico nell’iconografia di questo soggetto. Che simbolo era questo per Firenze? Un simbolo importantissimo perché nell’eroe della Bibbia, Firenze riconosceva una proiezione di sé. Un’immagine della città stato piccola, assediata da potenze più aggressive e più forti che tuttavia, grazie al proprio coraggio ma anche all’aiuto di Dio, poteva sopraffare anche le forze degli eserciti avversari. Dunque un simbolo repubblicano e civile che doveva essere posizionato in un contesto sacro com’era il Duomo ma aveva anche motivo di stare in un contesto civile com’era la Piazza del Signori e il Palazzo Vecchio. Quando Michelangelo, nel 1503, scoprì questa statua, ancora nel cantiere, destò meraviglia e stupore infatti era la prima volta che si vedeva un nudo eroico di dimensioni colossali (altezza 410 cm), un’anatomia così ben bilanciata, un volto così terribilmente bello e minaccioso al tempo stesso. Si comprese subito che la sua collocazione doveva essere attentamente meditata e fu nominata una commissione. Nella commissione c’erano architetti e pittori (Giuliano da Sangallo, Botticelli, Perugino, etc.) e l’araldo della Signoria che rappresentava il potere politico. Dopo aver esaminato varie collocazioni fu scelta la base del Palazzo della Signoria (ora Palazzo Vecchio) e quindi la sede del massimo potere civile. Il simbolismo religioso non era perduto ma la funzione di difesa della libertà repubblicana ne veniva sottolineata. La sua storia non è stata priva di traumi: nel 1527 durante un tumulto particolarmente violento venne lanciato un mobile da una finestra di Palazzo Vecchio sulla piazza e colpì il braccio che tiene la fionda. L’avanbraccio si staccò e cadde a terra. Buttandosi tra le gambe dei contendenti, 2 ragazzi di circa 17 anni lo 7 salvarono. I due ragazzi erano Giorgio Vasari e Francesco Salviati, due grandissimi artisti, allora ancora in formazione, che nascosero questo pezzo e solo molti anni dopo lo consegnarono al Duca di Firenze che lo fece rimettere a posto, così come noi oggi lo vediamo. E’ importante immaginare la forma del blocco originario e capire quello che Michelangelo raccontava della sua capacità creativa quando affermava di vedere la statua già formata dentro il blocco di marmo e di raggiungerla attraverso la rimozione di ciò che lui chiamava “il soverchio” (il superfluo). La figura è già lì basta toglierla… questo è il concetto che Michelangelo aveva della scultura che apprezzava solamente se fatta per via di levare cioè togliendo quella porzione di materia che nascondeva le forme della figura da lui desiderata. Sappiamo, dai documenti, che c’erano delle parti dorate: il tronco che sorregge la gamba destra, la fionda che scende anche lungo la schiena e c’era anche una ghirlanda di foglie dorate in qualche parte della figura, probabilmente intorno alla testa. Di questa doratura, nell’ultimo restauro avvenuto nel 2004, si sono trovate piccole tracce dunque dobbiamo immaginare che la figura avesse dei punti di splendore e di ricchezza materica che noi oggi possiamo soltanto ricostruire virtualmente con elaborazioni grafiche. E’ una statua che turba, che desta una ammirazione a volte estrema che subiscono molti visitatori che oggi possono vederla nella galleria dell’Accademia di Firenze, dove è stata collocata nel 1873. Alcune parti più esili, ad esempio le caviglie, oggi vengono monitorate costantemente con dei sensori elettronici che ne evidenziano ogni piccolo movimento o incrinatura. Quello che folgora i visitatori è anche l’espressività dello sguardo, al di sotto di una massa di capelli lo sguardo è accigliato, fisso, dobbiamo ricondurre questa espressività a quel calcolo mentale che David sta facendo della traiettoria del sasso da lanciare con la sua fionda. Michelangelo diceva che l’architetto, l’artista, deve avere le “seste” negli occhi, cioè deve saper misurare con lo sguardo intuitivamente senza disporre di strumenti metrici, dunque questo David è quasi la proiezione dell’artista stesso che prende le misure per ottenere la sua vittoria. 8 ROMA ALLA FINE DEL XV SECOLO La Roma in cui Michelangelo arriva nel 1496 è una città animata da decenni da un intenso fervore culturale ma è soprattutto tra il 1503 e il 1521 con i papati di Giulio II e Leone X che il rinnovamento si trasforma in un vero e proprio programma politico. L’obiettivo è rendere la Roma papale la diretta continuazione della Roma imperiale. La città divenne un immenso cantiere coinvolgendo nei nuovi progetti i più celebri artisti del tempo: a Michelangelo viene affidata la volta della Cappella Sistina, a Raffaello la decorazione delle Stanze Vaticane e, dopo la morte di Bramante, la direzione dei lavori della nuova Basilica di San Pietro. Su questa cultura lussuosa e ricercata si abbatte il Sacco di Roma. Nel 1527 le milizie mercenarie assoldate dall’Imperatore Carlo V d’Asburgo penetrano nel cuore della cristianità. L’opera di depredazione e saccheggio causa danni incalcolabili e, sommata alla seguente pestilenza, uccide quasi 20.000 cittadini. L’evento rappresenta la fine di un’epoca, termina per sempre l’ottimismo che aveva caratterizzato il Rinascimento ed inizia un periodo di forte inquietudine spirituale che culmina nella tragicità espressa da Michelangelo nel Giudizio Universale affrescato dal 1536 durante il pontificato di Paolo III. Prima della fine del ‘400 troviamo Michelangelo a Roma. Come ci arrivò è quasi la trama di un romanzo: era rimasto in buoni rapporti con la famiglia Medici, in particolare con il cugino di Lorenzo il Magnifico che si chiamava 9 come lui Lorenzo, da questi ricevette un singolare consiglio. Avendo Michelangelo scolpito un “Cupido dormiente”, tema ispirato dalla scultura romana antica, gli fu consigliato di venderlo sul mercato come un originale antico e questo Michelangelo effettivamente fece. Il “Cupido dormiente” fu acquistato dal cardinal Riario a Roma ed accolto nella sua collezione come un pezzo di epoca romana. Ma il mondo era piccolo anche allora, la voce si sparse rapidamente e questo cardinale da un lato fu irritato d’aver comprato un falso ma dall’altro rimase ammirato dalla maestria di questo giovane scultore che aveva saputo imitare così bene e forse perfino superare l’antico e lo fece invitare a Roma dove Michelangelo fu accolto da una cerchia di fiorentini e messo sotto la protezione di un banchiere, Iacopo Galli. Il gruppo “Il bacco” con il satiretto che morde l’uva alle sue spalle fu creato appunto a Roma nel 1495-96 circa, subito dopo che Michelangelo aveva avuto la straordinaria emozione di vedere l’antichità di questa città, i grandi monumenti ma anche la splendida statuaria che formava l’orgoglio dei tanti cortili e giardini delle ville della “Città Eterna”. Impressionato dalla potenza e dalla pienezza della scultura antica Michelangelo crea, per la prima volta, una figura a grandezza naturale e dedica a questo dio del vino tutta la sua bravura per poter permettere la visione da tutte le parti della statua. Infatti non solo la figura del giovane dio è rifinita in ogni particolare da tutti i lati, ma addirittura si può godere anche della parte retrostante del gruppo attraverso la figura contorta e ridente del satiretto che ruba il grappolo d’uva dalla pelle di pantera tenuta in modo blando dal dio ormai ebbro. Infatti il dio del vino sembra avanzare barcollando e porgendo quasi all’osservatore, la coppa su cui tiene fisso lo sguardo. E’ una statua di una straordinaria sensualità che nelle forme, come scrisse il Vasari, presenta caratteri sia femminili che maschili, perché l’anatomia piena e robusta del dio accoglie elementi di rotondità e morbidezza che sono propri della figura femminile. E’ una statua pienamente consona al clima pagano della riesumazione dell’antico che in quegli anni si respirava a Roma e che sarebbe addirittura stato esaltato dalla generazione successiva del primo ‘500. In tarda età, Michelangelo ebbe un po’ di pentimento, ricordiamoci che la sua longevità gli consentì di arrivare in piena Controriforma e dunque anche di sentirsi a disagio di fronte a sue creazioni così evidentemente sensuali e pagane e quindi, attraverso le parole del suo biografo Condivi, accennò ad un intento morale che la scultura poteva assumere, quello cioè di mettere in guardia contro i pericoli del vino 10 perché chi indulge all’ebbrezza si trova poi esausto e svuotato come quella pelle di pantera che il dio tiene in mano. Michelangelo pittore, quand’è che l’artista comincia a mettere a frutto la maestria appresa nella bottega di Domenico Ghirlandaio? Forse già negli ultimi anni del ‘400 a Roma perché si fanno risalire a quel periodo le due tavole rimaste incompiute ora conservate alla National Gallery di Londra. Certamente l’unico dipinto su tavola che esiste in Italia è il “Tondo Doni” conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze e dipinto in un periodo che oscilla, secondo quanto ci suggeriscono i documenti, tra il 1504 e il 1508. E’ un grande tondo (diam. 120 cm) e già in questo manifesta la sua appartenenza ad una tipologia che era stata molto amata nella Firenze del ‘400 mentre del ‘500 sono presenti pochi esemplari. Nel “Tondo Doni”, oltre alla tavola c’è una cornice intagliata e dorata della bottega dei “Del Tasso”, grandi legnaioli dell’epoca, che amplifica la maestà di questa immagine sacra. Il soggetto raffigurato è la Sacra Famiglia con la Madonna inginocchiata in primo piano su un prato, alle sua spalle San Giuseppe e tra i due il Bambino. Un muretto, dietro di loro, divide il primo piano dal piano retrostante e addossato al muretto c’è San Giovanni Battista bambino un po’ più grande del Bambin Gesù. Quasi un’esedra rocciosa accoglie un piccolo gruppo di giovani seminudi intenti a scherzare fra loro tirandosi i panni in cui sono parzialmente avvolti, dietro ancora un paesaggio con un’ampia vallata e una formazione montuosa. Ci sono elementi di straordinaria bellezza ed elementi di mistero. L’iconografia è unica ed in qualche misura inspiegabile perché mentre si arriva a capire la presenza del Battista che è il precursore di Gesù, colui che battezzando dava l’annuncio che sarebbe arrivato il Messia, ci sfugge completamente la ragione del gruppo di nudi retrostante che sembra alludere, secondo un’interpretazione abbastanza condivisa, all’umanità prima della redenzione; un’allusione a tutto il genere umano che è nato prima di Cristo e che quindi non si è potuto salvare e non ha vissuto l’epoca della Grazia. Giovanni a collegare i due mondi ed il mondo della redenzione personificato proprio dalla Sacra Famiglia con l’arrivo di Gesù Bambino. 11 Michelangelo ha concepito sia nell’iconografia sia nella composizione qualcosa che era unico ed è rimasto unico in tutta la storia dell’arte. Questa Sacra Famiglia è anche in una posizione singolare, in questa sorta di passaggio del Bambino dall’uno all’altro della coppia che è stata definita talvolta anche in modo critico come dal grande Roberto Longhi, uno dei più grandi critici del ‘900, che la definì “una Sacra Famiglia di giocolieri”. Visto da vicino il quadro ha delle straordinarie finezze pittoriche e un disegno controllato ed insieme complesso come dimostra lo svilupparsi del tessuto intorno alle gambe della Vergine, i colpi di luce sul petto e sul ventre della Madonna dove la tunica rosa sembra quasi sbiancarsi, trapassi e contrapposizioni di luci e di ombre, di chiari e di scuri che dimostrano la padronanza totale del disegno e del colore da parte di Michelangelo. Giorgio Vasari ammirò soprattutto lo sguardo della Madonna: uno sguardo rivolto verso il Bambino in un’affettuosa ammirazione che è quasi adorazione. Del Bambino è da sottolineare la vivacità degli occhi che puntano quelli della madre in una reciprocità di attenzione e di amore. E’ dunque un quadro che ci può coinvolgere a tanti livelli, da quello artistico a quello degli affetti, ancora una volta un rapporto tra la madre e il figlio che Michelangelo ha certamente vissuto con tratti autobiografici. Da ricordare, per quanto riguarda la storia della pittura nell’espressione michelangiolesca, che questo è un quadro perfettamente finito, condotto in ogni sua parte con assoluta padronanza e anche la sottigliezza degli strati pittorici ci rivela una consuetudine con la pittura che fa già di Michelangelo, alla vigilia della Cappella Sistina, un grandissimo “colorista”. Questa è una caratteristica che fino alla pulitura del “Tondo Doni” e fino alla pulitura della “Cappella Sistina” non si era mai potuta apprezzare ma i grandi restauri del ‘900 ci mettono nuovamente in contatto con quella tavolozza sfolgorante e cangiante che Michelangelo ha saputo usare nelle sue opere pittoriche. 12 LA CAPPELLA SISTINA La Cappella Sistina prende il nome da Papa Sisto IV della Rovere che, a partire al 1477, promuove la costruzione e decorazione dell’antica cappella del Palazzo Apostolico. Fu inaugurata il 15 agosto del 1483 e già negli ultimi anni del XV secolo, il suolo poco compatto su cui poggiava cedeva. Non si trattava di un fenomeno straordinario, infatti il colle Vaticano è fatto di sedimenti e ci sono stati spesso dei cedimenti in passato. La C. Sistina, nel 1504, subì il cedimento più grave e si creò un’enorme crepa che attraversava la volta. La Sistina fu giudicata pericolosa quindi venne sgombrata e chiusa per mesi. Papa Giulio II decise, insieme ai suoi architetti, di intervenire rinforzando la volta con catene e mattoni. Nell’ottobre 1504 la Cappella Sistina ricominciò ad essere usata per le cerimonie religiose. Le pareti vengono affrescate secondo una sobria struttura simmetrica distribuita su fasce orizzontali dai più valenti pittori attivi tra Umbria e Toscana. Su tre delle pareti dell’aula si osservano ancora oggi le originali fasce affrescate sovrapposte: in alto, a lato delle finestre, la teoria dei Papi a cui lavorarono, tra gli altri, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rossetti; al centro i cicli tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento; in basso lo zoccolo con i finti tendaggi. La volta era stata precedentemente affrescata con un cielo con stelle dorate da Piermatteo d’Amelia ma, a seguito dei lavori, la pittura era stata danneggiata in più parti. Nel 1508 il pontefice Giulio II della Rovere, nipote di Sisto IV e passato alla storia come il “Papa guerriero”, decide di modificare parzialmente la decorazione della 13 Cappella e affida al genio di Michelangelo l’immenso affresco della volta, più di mille metri quadrati di affresco. All’inizio i rapporti tra i due furono problematici soprattutto per lo scontro fra il carattere “forte” del Papa e quello altrettanto “battagliero” del grande artista. Michelangelo era ormai un artista affermato, aveva lavorato nella Firenze dei de’ Medici e anche a Venezia e Bologna. In un primo momento, Michelangelo si dimostrò restio ad accettare l’incarico di dipingere la volta della Cappella che definì un “granaio”, una definizione che non utilizzò per disprezzo ma perché aveva forti perplessità in quanto era consapevole delle insidie che avrebbe incontrato nella realizzazione dell’opera. Innanzi tutto lui era principalmente uno scultore e non era esperto nella tecnica dell’affresco. Malgrado tanti dubbi, Michelangelo accettò… per nostra fortuna! Il 10 maggio 1508 ebbero inizio i lavori. Michelangelo, all’inizio dei lavori, chiamò degli aiutanti fiorentini ma alcuni incidenti turbarono questa collaborazione. Fiorirono sugli intonaci delle muffe e Michelangelo, scoraggiato, voleva abbandonare l’impresa e andò a rassegnare le sue dimissioni al Papa il quale non volle intendere ragione e gli affiancò Giuliano da Sangallo che era esperto non solo in architettura ma in molte altre arti e gli insegnò a dosare correttamente la miscela di calce, sabbia e acqua in modo che assorbisse i colori e li fissasse per sempre. Questo infatti è avvenuto, la materia pittorica della volta della Cappella Sistina è meravigliosa, vista da vicino assomiglia ad una pietra dura levigata che ha incorporato perfettamente il colore con quel processo di carbonatazione che è proprio del “buon fresco” e lo ha reso praticamente indistruttibile, se non dove ci sono state infiltrazioni e conseguenti perdite. Quando arrivò il momento delle tensioni con i collaboratori. Michelangelo li allontanò e li fece tornare a Firenze e preferì compiere da solo la grande impresa. In soli 4 anni, dal 1508 al 1512, con una interruzione nell’estate del 1511 perché nella Cappella si doveva tenere il Conclave. Quindi il ponteggio fu smontato e rimontato e in quella occasione Michelangelo vide dal basso l’effetto che faceva e nell’ultima parte, quella compiuta dopo il rimontaggio del ponteggio, aggiustare il tiro. Infatti il progresso della visione ci conduce da scene affollate di figure relativamente piccole a scene diradate di straordinaria potenza dove campeggia una 14 sola figura o al massimo due. Sebbene l’ordine della narrazione comprenda all’inizio le scene della Creazione, della separazione della luce dalle tenebre, della creazione del Mondo e dell’Uomo e solo in fondo vi siano le scene dell’umanità primordiale con Noè e l’episodio del Diluvio e dell’abbrezza successiva, Michelangelo cominciò a dipingere da queste ultime scene e si vede come, per esempio nel Diluvio, che pure ha una bellissima scena, abbia usato una proporzione forse troppo piccola per quell’immensa volta che si poteva vedere soltanto dal basso e quindi si perdono un po’, nella distanza, le figure più lontane. Dobbiamo ricordare che lo sviluppo del Diluvio non è solamente prospettico in senso spaziale, ma è prospettivo in senso cronologico, si passa dai primi giorni del Diluvio in cui l’umanità spera ancora di salvarsi portando se stessa ed i propri beni sulle cime più alte, agli ultimi giorni in cui ormai tutto è perduto e le barche cercano di salvarsi dal mare che ricopre l’intera terra e lontano già Noè si appresta a lanciare fuori dall’arca prima il corvo e poi la colomba e quindi a ritrovare la terra emersa. Il registro proporzionale cresce via via che le storie si susseguono e quindi abbiamo le grandi figure dei progenitori, nella scena della tentazione e della cacciata, abbiamo la scena magistrale e famosissima della creazione del primo uomo in cui Adamo prende vita dal tocco del dito del Creatore il quale trasvola attraverso l’aria accompagnato da angeli e avvolto in un manto rosa-violaceo che si gonfia al vento assumendo il contorno di un cervello umano simbolo di sapienza e razionalità. E’ interessante sapere che, durante il recente restauro, ci si è accorti che proprio tra i due indici c’era stata una crepa e che il pittore Domenico Carnevali del XVI secolo fu incaricato di ridipingere. Poi la grandezza straordinaria di Dio Padre mostrato nella sua potenza creatrice che si vede in due sequenze distinte mentre separa luce e tenebre e mentre volge le spalle e Giorgio Vasari, per primo, notò che Michelangelo aveva permesso che si vedessero del Padre Eterno le piante dei piedi e non solo. Infine l’immagine scorciata e di straordinaria efficacia del Padre Eterno ci riconduce all’inizio della creazione. Le 9 storie sono disposte in ordine cronologico partendo dalla parete dell’altare e, al lati di ciascuna di esse, vi sono 20 figure di “ignudi” che, a coppie, sostengono 10 medaglioni con scene tratte dal Libro dei Re. Di altrettanta potenza e maestà sono le grandi figure dei veggenti, Profeti e Sibille, che paiono come compresse all’interno di studioli fatti di marmo come troni, che sembrano pendere sopra gli osservatori, intenti a leggere o a scrivere quelle profezie che anticipano la venuta del Messia. 15 Nelle vele e nelle lunette, Michelangelo, dipinge gli antenati di Cristo, da Abramo a Giuseppe, simboli della speranza dell’incarnazione e della redenzione. Infine, nei pennacchi angolari, sono illustrate 4 scene bibliche che alludono alla promessa del Messia. Michelangelo, per compiere questa titanica impresa, ideò un’impalcatura in legno fissata ai muri all’altezza delle finestre. Risolse il problema dell’altezza e della mobilità ma non certo quella della comodità, infatti dipingeva quasi sempre in piedi con la testa piegata indietro ed il braccio disteso in alto. Durante gli ultimi lavori di restauro della volta, fu utilizzato un sistema di ponteggi quasi identico a quello ideato da Michelangelo, sfruttando anche i fori alle pareti già presenti. Michelangelo quindi compositore, disegnatore, pittore e colorista. Il restauro della Cappella Sistina, avvenuto negli anni ’80, ha potuto rivelare, al di sotto di quello strato di nero-fumo che si era accumulato nei secoli, la potenza straordinaria della gamma cromatica di Michelangelo che non solo impiega tinte vivide e brillanti, ma le accosta con audacia, ottenendo effetti di cangianza per cui l’ombra del giallo non è il giallo scuro ma il verde, l’ombra del viola è il color lavanda etc. Sono, insomma, contrasti e accostamenti molto arditi che, una volta di più, ci mettono davanti un Michelangelo che non era soltanto scultore, come per altro lui stesso amava definirsi e firmarsi anche nelle lettere, ma anche un sommo pittore. IL MOSE’ Con la statua di Mosè entriamo in una vicenda che accompagnò Michelangelo, in forma di preoccupazione e tribolazione, per quasi 40 anni, quello che lui definì “la tragedia della sepoltura”. Di chi era la sepoltura? La sepoltura era di Giulio II. Il Papa, di temperamento energico e volitivo, aveva sentito parlare della straordinaria capacità di Michelangelo scultore e nel 1506 lo fece andare a Roma per affidargli la propria sepoltura. Sarebbe stato un progetto grandioso, il Papa lo ammirò perché si trattava di un vero e proprio mausoleo con molte sculture. Cominciò ad ordinare i marmi e 16 Michelangelo si impegnò da subito e con grande entusiasmo per realizzare quello che, probabilmente, intravedeva come il capolavoro della sua vita. In realtà, il Pontefice, cambiò rapidamente opinione ed occupò Michelangelo nella pittura a fresco della volta della Cappella Sistina. Michelangelo all’inizio resistette ma poi dovette cedere e cominciò ad occuparsi in modo marginale delle statue che dovevano accompagnare la sepoltura del Papa. Morto Giulio II cominciò a stipulare nuovi contratti con i suoi eredi, la famiglia della Rovere, e solo 40 anni dopo arrivò alla conclusione. Quel monumento molto più contenuto, rispetto alle intenzioni originarie, che vediamo in S. Pietro in Vincoli a Roma. In questo monumento grandeggia la figura di Mosè. Il meraviglioso marmo realizzato bel presto da Michelangelo, poco dopo aver ricevuto la commissione, che raffigura questo straordinario personaggio biblico in una posa seduta ma vibrante di vita e di energia. Sembra che Mosè stia per alzarsi e, alcuni ripensamenti anche nell’esecuzione della parte laterale fanno capire che Michelangelo è tornato ad occuparsi di questa posizione che non è ne di seduta vera e propria ma neppure di posizione eretta: non è di moto ma non è di stasi. E’ dunque un po’, come abbiamo visto anche nel David, una posizione vigile, pronta a convertirsi in un movimento rapido. Mosè guarda di lato, come assorto in una sua visione ed ha gli attributi che gli sono propri: le tavole della legge e quei due raggi, quasi piccole corna, che gli spuntano sopra la fronte. Probabilmente assorto in una visione profetica, si prende la barba, un gesto strano da un certo punto di vista, ma spiegabile come sintomo di profonda riflessione e forse anche di incertezza perché Mosè è una figura potente ma anche, se ci riflettiamo, infelice, guiderà il suo popolo verso la Terra Promessa ma non riuscirà ad arrivarci, dovrà salire due volte a farsi dare le tavole della Legge, dovrà sconfiggere l’idolatria del Vitello d’oro… Dunque una figura in cui Michelangelo poteva anche riconoscere dei tratti che gli appartenevano come tormento interiore, come ricerca della propria ammissione del proprio destino. Mosè è straordinariamente possente e anche nelle braccia muscolose, nelle gambe robuste, rivela la tendenza di Michelangelo ad espandere le forme, a dilatare e 17 sottolineare il carattere eroico dei personaggi dipinti o scolpiti che caratterizzano la fase della sua maturità. LE CAPPELLE MEDICEE Nel 1513 fu eletto Papa Giovanni de’ Medici, prese il nome di Leone X. Era il figlio di Lorenzo il Magnifico, compagno dell’adolescenza di Michelangelo che proprio in casa di Lorenzo e dei suoi figli, era stato ospitato dal 1490 al 1492. Dunque il Pontefice si rivolse immediatamente a lui per un’impresa che gli stava molto a cuore: l’innalzamento della facciata della basilica di San Lorenzo eseguita da Filippo Brunelleschi ma non portata a termine. Il progetto della facciata fu curato da Michelangelo in ogni particolare e si immaginava di fare una parata di statue… quando il Pontefice cambiò idea, lo distolse dalla facciata, con grande dispiacere di Michelangelo, e lo incaricò di progettare la Sagrestia Nuova (Sagrestia Vecchia già esistente e progettata da Brunelleschi) dove collocare le tombe dei Medici. Dunque una grande cappella sepolcrale nella quale Michelangelo doveva esprimersi come architetto e come scultore. Uno spazio controllato rigorosamente ma insieme magnificamente rivestito di marmi che si alternano alla pietra serena in quella bicromia che è così tipica dell’architettura fiorentina, membrature di grande rigore e riferimento al mondo antico ma insieme portatrici di novità e di rivoluzionaria invenzione. L’apparato di statue che Michelangelo aveva progettato doveva essere ancora più ricco di come sia giunto fino a noi, ma l’impresa era forse troppo ambiziosa e lui stesso poi la interruppe poiché nel 1534 lasciò definitivamente Firenze con la Sagrestia, tra le altre opere, ancora in corso. Però già le statue eseguite e montate sui sarcofagi e nei prospetti sono di una forza espressiva e simbolica coinvolgente. 18 Il nucleo concettuale e religioso della cappella, che spesso è stata interpretata in senso neoplatonico, risiede in realtà in una situazione che ha a che fare con la fede cristiana e la speranza della salvezza ed è cioè in quel gruppo della Madonna, detta “Madonna Medici” , che accosta il Bambino al proprio seno ed è affiancata dalle figure dei santi Cosma e Damiano. Le figure dei due santi non sono state eseguite da Michelangelo ma da due suoi assistenti fedeli al suo linguaggio artistico: Raffaello da Montelupo e Giovanangelo Montorsoli. Queste tre statue furono montate su quello che viene definito il “cassone”, cioè quel sarcofago che contiene le salme di Lorenzo il Magnifico e Giuliano de’ Medici. In questo luogo si svolge il percorso dell’intercessione: i santi Cosma e Damiano essendo dei santi che esercitavano la professione medica sono sempre stati i protettori della famiglia Medici e dunque sono coloro che intercedono, per le anime dei defunti di tutta la casata, presso la Madonna avvocata dell’Umanità la quale, con il proprio latte che nutre la forma umana assunta dal figlio di Dio, intercederà presso Dio nel giorno del Giudizio così come Gesù, in nome del proprio sangue, intercederà per l’Umanità. Lorenzo e Giuliano sono rappresentati seduti all’interno di nicchie definite con elementi architettonici ed hanno, ai loro piedi, le figure rappresentative delle quattro parti del giorno: Crepuscolo, Aurora, Notte, Dì. Sono statue in parte finite, lustrate e levigate (Notte) ed invece altre lasciate allo stato di “non finito” come le figure maschili che, nelle loro rude modellatura, presentano ancora dei punti di contatto con la materia grezza. Sono state montate sui sarcofagi ed entrambe le coppie alludono alla ricorrenza del tempo e quindi all’eternità. In una riflessione scritta a margine di un disegno Michelangelo stesso scrive che il giorno e la notte, il crepuscolo e l’aurora, il passare del tempo, ha consumato la vita dei due giovani Medici ma trionfando nell’eternità essi saranno i vincitori del tempo. La fama e la notorietà delle dinastie può superare il tempo dell’uomo, il tempo della salvezza, attraverso la religione garantisce la vita eterna. Ogni particolare è degno della massima attenzione: il potenziale sensuale dell’Aurora che, come ha scritto il Vasari “si sviluppa dalle piume” cioè si alza dal suo materasso, oppure la Notte sprofondata in un sonno privo di coscienza e di memoria. 19 IL GIUDIZIO UNIVERSALE Prima di morire nel 1534 il Papa Clemente VII de’ Medici affida a Michelangelo, ormai stabilitosi a Roma, un nuovo incarico, la raffigurazione del Giudizio Universale sulla parete dell’altare della Cappella Sistina eseguito durante il pontificato del successore Paolo III Farnese. Vennero frantumati e polverizzati fino a scomparire molti affreschi già esistenti del Perugino, alcuni ritratti di pontefici etc. Fu, inoltre, necessario murare due finestre e questo ebbe ovviamente impatto sulla luminosità della Cappella. C’è poi un dettaglio che sfugge a chiunque si trovi davanti al monumentale affresco. La parete su cui fu dipinto non è perfettamente perpendicolare al pavimento, ma in leggera pendenza. Michelangelo, infatti, impose un intervento strutturale sul muro perché la parte superiore risultasse più sporgente rispetto a quella inferiore. Fu perciò creato un aggetto di 24 centimetri. In effetti, l’affresco va impercettibilmente “incontro” agli spettatori nella sua parte alta. Questo trucco, una grande astuzia di Michelangelo, aveva lo scopo di evitare che la polvere lo ricoprisse spegnendo i suoi colori e la luminosità delle scene dipinte. Quello che però non riuscì ad arrestare fu la patina di fuliggine, sporcizia, colla animale e grasso che ricoprì inevitabilmente il suo capolavoro, dovuto all’uso continuo e duraturo di candele e lumi. Questo strato scuro fu poi rimosso con il laborioso intervento di restauro negli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Dopo la fase di concezione dell’opera, Michelangelo inizia il colossale affresco nel 1536, 24 anni dopo il completamento della Volta. L’artista toscano illustra il tema del Giudizio Universale con una antologia di scene che coprono oltre 180 metri quadrati di parete rappresentando più di 400 figure che, in parte, traggono spunto dalla Divina Commedia di Dante Alighieri. 20 La grandiosa composizione sebbene impostata senza la consueta struttura in ordini sovrapposti può comunque essere suddivisa in 3 fasce, senza contare le due lunette superiori. Nelle due lunette, angeli privi di ali recano i simboli della passione di Cristo. Partendo dall’alto, la prima fascia è dominata dal maestoso Cristo giudice in piedi sulle nubi, il braccio destro alzato imperioso e pacato insieme richiama l’attenzione e placa l’agitazione circostante, esso avvia un ampio e lento movimento rotatorio che coinvolge tutte le figure. Accanto a Cristo è la Vergine che volge rassegnata il capo verso il basso in attesa di conoscere l’esito del Giudizio. Anche i Santi e gli Eletti, disposti tutti in torno e collegati tra loro in una fitta serie di gesti, attendono con ansia il verdetto di Cristo. Alcuni di essi sono facilmente riconoscibili dai loro simboli: S. Pietro con le due chiavi, S. Giovanni Battista con il manto di pelle di cammello, S. Lorenzo con la graticola, S. Caterina d’Alessandria con la ruota dentata, S. Bartolomeo con la propria pelle in cui si suole riconoscere l’autoritratto di Michelangelo, autoritratto ironico e amaro di se stesso come ridotto dal lavoro e dalla prepotenza del Pontefice ad una sorta di guscio vuoto e pendente. Nella fascia mediana Michelangelo affresca al centro gli angeli dell’Apocalisse con le trombe che, secondo la Bibbia, suoneranno nel giorno del Giudizio Universale per chiamare a raccolta tutti gli uomini. A sinistra colloca i risorti in ascesa verso il cielo, a destra gli angeli e i demoni che spingono i dannati verso il fuoco infernale. Il diradarsi dei corpi, rispetto alla fascia soprastante, fa sì che le figure si staglino più drammaticamente sulla sfondo immenso. Infine, nella terza fascia, al centro, è raffigurato un antro popolato da figure diaboliche. A sinistra, Michelangelo illustra la resurrezione dei morti che recuperano i loro corpi dopo la fine dei tempi. A destra, l’inferno con la barca di Caronte che traghetta le anime dei dannati per condurle davanti a <Minosse, giudice infernale con il corpo avvolto dalle spire di un serpente. Nel volto di Minosse molti riconoscono il ritratto di Biagio da Cesena, il cerimoniere del Papa che aveva criticato l’opera di Michelangelo. Secondo lui c’erano troppi nudi e l’affresco era complessivamente molto volgare. Michelangelo quindi rispose immortalandolo con le orecchie d’asino e una serpe che gli addenta i genitali. L’opera, terminata 5 anni dopo, nel 1541, costituisce uno spartiacque nella storia dell’arte e del pensiero. L’uomo forte e sicuro del primo Rinascimento è sostituito dalla visione caotica e 21 angosciata che travolge tanto i dannati quanto i beati e che riflette, con drammatica forza, le insicurezze della nuova epoca. La composizione non si avvale di una scansione fatta di finte architetture o di cornici ma è fondata su gruppi di figure dei dannati, dei risorti, dei beati, degli angeli e della corte celeste. Una visione densa, dal punto di vista compositivo, di figure di proporzioni diverse a seconda della vicinanza al primo piano e addirittura alcune in una illusionistica posizione di scorcio che sembrano fuoriuscire dal piano della pittura e avanzare verso lo spazio fisico dell’osservatore. Il grafico delle giornate di lavoro ha dimostrato che tutto comincia nel gruppo centrale di angeli che suonano le trombe. Cristo è rappresentato in duplice veste di giudice irato e di giudice misericordioso. Mentre il Vasari, uno dei più attenti osservatori ed estimatori del Giudizio Universale, ha sempre sottolineato il gesto irato di Cristo che respinge i dannati nel profondo degli inferi, diversamente Ascanio Condivi, grande e stretto collaboratore di Michelangelo, ha voluto ricordare anche la bontà, la misericordia in quel gesto della mano che dolcemente attira a se i buoni, dunque il Giudice Divino, opera entrambe le azioni: la ripulsa dei reprobi e l’attrazione dei buoni. Una vicenda molto nota, legata al Giudizio Universale, è quella delle “brache”. Infatti, appena scoperto, il Giudizio attirò delle critiche e anche Pietro Aretino, che era stato un estimatore di Michelangelo lo attaccò violentemente sostenendo che era una pittura piena di parti sconvenienti. Il Giudizio veniva dipinto negli anni in cui veniva aperto il Concilio di Trento, dunque la Chiesa si avviava ad una spinta di riforma moralizzatrice, di maggior severità nei costumi e principi. Il Giudizio Universale fu sottoposto ad una censura attraverso l’intervento di Daniele da Volterra e poi di altri pittori del tempo che aggiunsero le cosiddette “brache”, cioè panneggi che velavano ed attenuavano le nudità. Nel restauro degli anni ’90 molte delle “brache” più recenti sono state rimosse, quelle più antiche sono invece state lasciate al loro posto. 22 LA PIETA’ DI FIRENZE Michelangelo fu anche architetto e negli ultimi anni della sua vita a Roma si dedicò principalmente all’architettura, basta ricordare la Piazza del Campidoglio, la cupola di San Pietro, la biblioteca Laurenziana e Porta Pia per rendersi conto della enormità e della vastità della sua opera in questo campo. Due sole sculture appartengono agli ultimi anni della sua vita e sono la Pietà di Firenze e la Pietà Rondanini. La Pietà cosiddetta di Firenze, rimase a Roma fino a quando, in pieno ‘600, fu acquistata da Cosimo III e portata nel Duomo fiorentino. Rappresenta una nuova e ulteriore meditazione di Michelangelo sul tema della Pietà cioè del dolore, dell’afflizione della Madonna anzitutto, ma anche della Maddalena e di Nicodemo, un pio uomo che ebbe un ruolo nella sepoltura di Cristo, di fronte al sacrificio estremo del Redentore. Il corpo di Cristo qui si piega in avanti abbandonato ed attraversato proprio da linee spezzate e quasi disarmoniche che contraddicono l’amore di Michelangelo per la bella forma umana. Anche nel suo sonetto in cui esprime una sorta di rammarico per avere avuto indulgenza e affetto per la figura umana si percepisce quasi il pentimento dell’artista e la sua volontà di ritirarsi in forme più sobrie e più severe. Il “non finito” michelangiolesco qui trova una delle sue più evidenti espressioni perché sappiamo che la Pietà rimase incompiuta; alcune parti sono rimaste rustiche, la Maddalena, invece, è stata completata da un allievo: Tiberio Calcagni. Nella produzione scultorea di Michelangelo occorre distinguere quelle opere che risultano “non finite”, cioè non portate a compimento, per cause accidentali da quelle “non finite” ma da considerarsi portate a compimento dall’artista che così le ha ideate e portate poeticamente a conclusione in modo, per lui, definitivo. 23 LA PIETA’ RONDANINI La struggente Pietà Rondanini (nome che deriva dal palazzo fiorentino dov’era custodita) ora nel Castello Sforzesco di Milano, è la scultura alla quale Michelangelo lavorò fino ai suoi ultimi giorni, infatti morì durante la sua lavorazione, all’età di 89 anni. Scolpendo un marmo che egli stesso aveva trasformato da un’originaria bellezza del corpo di Cristo, di cui sono testimonianza le gambe abbandonate nella calata verso il sepolcro e il braccio rimasto isolato dal corpo ma compiuto in tutta la sua tornitura, per arrivare poi, a furia di levare materiale, a queste forme scabre, sfinite, esauste del Cristo ridotto ad un simulacro di sofferenza ormai sublimata nella morte e nella Madonna che compie l’estremo sforzo di trattenere il corpo del figlio mentre cade quasi a piombo all’interno di una cavità immaginaria che è quella del suo sepolcro. La Madonna sorregge, per l’ultima volta il figlio, smagrito, come svuotato, il cui corpo sembra quasi incastrarsi in quello della Madonna come fossero un’unica, indissolubile persona. La sofferenza estrema della Madonna si traduce in un gesto di affetto toccante che è quello di cercare il contatto fisico con la sua guancia fino a fonderla nella capigliatura del figlio morto. Il contatto di questi corpi ridotti all’essenziale è la testimonianza estrema di Michelangelo che nel suo percorso così lungo e così vario è passato dalla bellezza piena, fiorente, rigogliosa ed eroica delle prime sculture, a questa meditazione sulla sofferenza di Cristo e sul suo sacrificio estremo per la redenzione dell’umanità che è una sorta di preghiera scolpita con tormento e con intensità nell’ultimo marmo che egli ha toccato. 24