MICHELANGELO e il suo tempo

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MICHELANGELO e il suo tempo
GLI ALLIEVI DEL LICEO SCIENTIFICO
“N. COPERNICO” DI UDINE
RACCONTANO
MICHELANGELO e il
suo tempo
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INTRODUZIONE
Personalità straordinaria di tutti i tempi che si è espresso in
almeno 4 arti: pittura, scultura, architettura, poesia. Quando
Michelangelo morì a 89 anni, qualcuno scrisse che non era morto
un solo uomo ma bensì quattro. Posto al vertice della storia
dell’arte da Giorgio Vasari e poi da tutti gli altri biografi,
sappiamo molto della sua vita perché tramandato dai documenti
e molto è stato scritto dallo stesso Michelangelo attraverso il suo
fedele allievo Ascanio Condivi.
Michelangelo nacque a Caprese (ora Caprese Michelangelo)una località vicino ad
Arezzo e dove il padre Ludovico era podestà, il 6 marzo 1475 da una colta famiglia
fiorentina.
A 12 anni andava a bottega presso il Ghirlandaio, uno dei pittori più rinomati della
Firenze del tempo. Suo padre non avrebbe voluto e cercò di scoraggiare questa
inclinazione precoce poiché agli occhi di Ludovico Buonarroti, sembrava che
dedicarsi ad un’arte materiale com’era la pittura e non ad una professione nobile
come poteva essere il notaio o il magistrato, fosse un modo per far declinare la
posizione sociale della famiglia che vantava antiche e nobili origini.
Michelangelo riuscì a far valere questa sua volontà così ferma e così ben indirizzata
ed imparò la pittura esercitandosi a copiare da Giotto a Masaccio, dagli affreschi
presenti nelle chiese fiorentine.
Imparato i fondamentali della pittura imparò la scultura che lo avrebbe
accompagnato per tutta la sua vita ed ebbe una grande possibilità, essere invitato
nella cerchia di Lorenzo il Magnifico, straordinario mecenate della famiglia Medici
del ‘400, a frequentare il Giardino di San Marco che era un luogo, appartenente alla
famiglia Medici, dov’erano riunite molte antichità e dove i giovani si esercitavano
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specialmente nel disegno e nella copia dall’antico sotto la guida di un anziano
scultore Bertoldo di Giovanni che era stato allievo di Donatello.
La frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico lo introdurrà nel raffinato
ambiente neoplatonico.
LA VITA E LE OPERE
La MADONNA DELLA SCALA è proprio il frutto della sua precocissima
inclinazione a scolpire il marmo.
Siamo tra il 1490 -1492 (nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico ponendo fine ad un’era
di mecenatismo artistico) e in questo rilievo, che si trova in casa Buonarroti a
Firenze, Michelangelo appare già, benchè quindicenne o poco più, padrone della
materia e della tecnica.
Il rilievo sottilissimo dello sfondo rappresenta una scala, quasi scala di un cortile
domestico, nel quale troneggia la Madonna seduta su un sedile cubico che porge il
seno al Bambino.
Il rilievo è di superba maestria ma anche pieno di misteri e di quesiti che non
riusciamo a risolvere: la Madonna rivolge il suo sguardo non al Bambino ma lontano,
quasi assorta in una visione profetica del destino del figlio; il Bambino,
rappresentato come un piccolo Ercole studiato nella scultura antica, ci volta le
spalle; questi fanciulletti sulla scala si affannano come se volessero piegare un
drappo…
E’ certamente un rilievo che alla bellezza unisce la componente del mistero e si
riconduce anche, come succede alle Madonne di Michelangelo, al suo personale
rapporto con la figura materna, poiché la madre Francesca morì che lui era infante e
dunque, soltanto nelle nutrici, Michelangelo potè trovare il suo riferimento per
l’elemento femminile.
Le prime opere rivelano una stupefacente maestria tanto che nel
1496, all’età di 21 anni, Michelangelo è chiamato a Roma dal
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cardinale Jean Bilheres il quale, volendo lasciare un ricordo di sé
in Vaticano, incarica il giovane ma già conosciuto Michelangelo,
di scolpire un gruppo marmoreo rappresentante la PIETA’.
Il tema della “Pietà”, allora molto diffuso nell’Europa centro-settentrionale, ma poco
in Italia, consiste nel rappresentare la Vergine Maria che tiene tra le braccia il corpo
senza vita del Figlio deposto dalla croce. Tale composizione ebbe forse origine come
riduzione della scena del “compianto sul Cristo morto” di cui esistono numerosi
esempi (vedi Giotto nella Cappella degli Scrovegni).
Questo gruppo statuario è certamente uno dei più celebri al mondo. Rappresenta
l’apice della fase giovanile di Michelangelo essendo stato scolpito tra il 1498 e il
1500, anno in cui fu installata forse proprio in coincidenza del Giubileo, nella
cappella dei Re di Francia nell’antica Basilica Vaticana. Il cardinale Jean Bilheres, che
commissionò la statua, non arrivò mai a vedere compiuta l’opera perché morì prima
che fosse terminata.
E’ un’immagine straordinariamente emozionante, ricca di valori artistici ma anche di
una profonda sostanza teologica, rappresenta infatti il momento della solitudine
della Madonna quando le viene deposto sulle ginocchia il figlio morto e madre e
figlio restano insieme soli in un’immagine connotata da una profonda e silente
tristezza.
E’ un’iconografia quella della Madonna con il figlio tornato quasi bambino nel suo
grembo nel sonno eterno della morte che era molto diffusa al di là delle Alpi, nella
cultura artistica e religiosa nordica delle Fiandre e della Germania, tanto da avere un
nome tedesco, si chiama “vesperbild” (immagine della sera), un’allusione al calare
della notte che coincide con la morte di Cristo.
Michelangelo ha conferito alla Madonna una straordinaria potenza nello sviluppo di
questa sua veste ricca di pieghe che si infittiscono sul petto e si espandono sulle
gambe ma anche una dolcezza virginale nell’ovale del volto.
Di questa gioventù qualcuno gli chiese conto facendo osservare la contraddizione
apparente tra l’età della madre che sembra coetanea al figlio ma la risposta di
Michelangelo fu che chi è vergine nei pensieri e nel corpo si mantiene giovane per
sempre.
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Mirabile è anche il corpo di Cristo abbandonato nella morte che la madre quasi
fatica a tenere in grembo per la totale rilassatezza delle membra. Il braccio piomba
giù, le gambe si abbandonano scendendo e scivolando quasi dalle ginocchia della
madre.
E’ anche molto indicativo e toccante, rispetto alle attenzioni che Michelangelo ha
riservato rispetto a questo tema, il particolare del sudario con il quale la Madonna
protegge il corpo di Cristo quasi non osando toccarlo con la propria mano per la
sacralità estrema che esso rappresenta; l’altra mano della Madonna è lievemente
aperta in un gesto dimostrativo che vuole catturare l’attenzione dei fedeli
mostrando quale è stato il sacrificio del figlio per la redenzione dell’Umanità.
La base sul quale il gruppo poggia è una sorta di roccia molto particolare, molto
lavorata, che rappresenta in sintesi la sommità del monte Calvario da cui è stata
ormai tolta la croce.
Si tratta di un’opera finita con la massima cura in ogni particolare, evidentemente
Michelangelo ha potuto dedicarvisi con ogni attenzione ed è anche l’unica opera
firmata. Secondo un aneddoto che viene riferito dai biografi, Michelangelo in origine
non vi aveva messo la propria firma ma una sera, essendo seminascosto nella
penombra della basilica a contemplare il proprio capolavoro ebbe l’occasione di
sentire un gruppo di lombardi che commentavano la statua e uno di loro diceva che
si trattava dell’opera di un loro conterraneo, quella notte, Michelangelo, nascosto
dentro la basilica, scalpellò nella cintura che passa attraverso il panneggio sul seno
della Madonna, orgogliosamente “Michelangelus florentinus faciebat”.
Nel 1972 un pazzo geologo ungherese di nome Laszlo Toth, armato di martello per
scavi, ha scavalcato la ringhiera di protezione nella Basilica di San Pietro per sferrare
dodici colpi contro la Pietà. Mentre colpiva la statua, gridava “Io sono Gesù Cristo”. Il
restauro venne condotto raccogliendo gli oltre 200 frammenti caduti a terra,
identificati nel corso di cinque mesi di dure analisi, utilizzando fotografie scattate in
precedenza, in un laboratorio di fortuna costruito attorno alla statua, che non fu
spostata di un centimetro. Da allora una teca in vetro antisfondamento protegge la
statua.
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Nel 1500 dunque, Michelangelo, con la Pietà del Vaticano aveva
raggiunto una notorietà ed una fama straordinarie in tutta la
penisola perché quindi tornò a Firenze nel 1501?
I biografi ci raccontano che alcuni amici gli dettero una notizia, cioè che l’Opera del
Duomo voleva dare ad uno scultore un grande blocco di marmo che era rimasto
abbandonato presso la Fabbrica di S. Maria del Fiore e che era stato iniziato a
scolpire da uno scultore (Agostino di Duccio) parecchi anni prima ma che poi era
rimasto grezzo.
L’idea che potessero dare ad un altro, presumibilmente ad un concorrente, un
bellissimo blocco come quello Michelangelo non la sopportò e, tornato a Firenze,
riuscì a farsi aggiudicare il blocco da cui avrebbe poi ricavato il DAVID.
In realtà il blocco era bello d’aspetto ma di qualità abbastanza discutibile infatti la
superficie stessa di questa straordinaria scultura ha dei piccoli fori che dimostrano la
qualità non eccelsa del marmo, tuttavia la dimensione era davvero maestosa perché
il blocco doveva essere destinato a ricavarne un gigante che stesse su uno degli
sproni altissimi di S. M. del Fiore.
Michelangelo evidentemente aveva capito le potenzialità di questo blocco e riuscì a
ricavarne una figura che è al tempo stesso frontale e ruotata su se stessa, pur
stando dentro i confini del blocco che gli era stato assegnato.
Chiamato fin da subito “il gigante” o “il colosso” il giovane che Michelangelo ricavò
da quel blocco era, in realtà, un pastorello, un adolescente: quel David di cui parla la
Bibbia che riuscì con le sue forze, ma soprattutto con l’aiuto di Dio, a sconfiggere
l’esercito dei Filistei che aveva a capo il gigante Golia.
La narrazione della Bibbia ci aiuta a capire come arriviamo al momento che
Michelangelo ha inteso fissare in questa eroica scultura.
Il re Saul, che teme per la sorte del giovane che si è offerto di andare contro i
Filistei, lo ricopre di armi affinchè sia ben difeso, ma impacciato da quel peso e da
quel metallo, il pastorello si libera delle armi e rimane praticamente nudo e si
procura, nel letto ghiaioso di un fiume, 3 ciottoli che userà con la sua fionda. Con
questa fionda roteante scaglia le sue pietre, colpisce in fronte il gigante Golia e,
dopo averlo abbattuto, con la stessa arma del gigante lo decapita.
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E’ così che, di solito, viene raffigurato David. Ci sono meravigliosi esempi nella
statuaria fiorentina del ‘400: il David bronzeo di Donatello e quello, sempre
bronzeo, del Verrocchio, sono giovani armati che hanno ai piedi la testa del gigante
abbattuto.
Qui siamo invece prima che l’eroico gesto abbia luogo. David sta osservando e
concentrandosi sul bersaglio che è Golia mentre stringe la fionda già caricata con i
sassi.
Ecco il momento che ha colto Michelangelo, un momento di stasi che si trasformerà
presto in energia violenta e liberatrice, un momento di quiete, di valutazione che
precede l’azione improvvisa e vittoriosa.
Un esempio unico nell’iconografia di questo soggetto.
Che simbolo era questo per Firenze? Un simbolo importantissimo perché nell’eroe
della Bibbia, Firenze riconosceva una proiezione di sé. Un’immagine della città stato
piccola, assediata da potenze più aggressive e più forti che tuttavia, grazie al proprio
coraggio ma anche all’aiuto di Dio, poteva sopraffare anche le forze degli eserciti
avversari. Dunque un simbolo repubblicano e civile che doveva essere posizionato
in un contesto sacro com’era il Duomo ma aveva anche motivo di stare in un
contesto civile com’era la Piazza del Signori e il Palazzo Vecchio.
Quando Michelangelo, nel 1503, scoprì questa statua, ancora nel cantiere, destò
meraviglia e stupore infatti era la prima volta che si vedeva un nudo eroico di
dimensioni colossali (altezza 410 cm), un’anatomia così ben bilanciata, un volto così
terribilmente bello e minaccioso al tempo stesso. Si comprese subito che la sua
collocazione doveva essere attentamente meditata e fu nominata una commissione.
Nella commissione c’erano architetti e pittori (Giuliano da Sangallo, Botticelli,
Perugino, etc.) e l’araldo della Signoria che rappresentava il potere politico. Dopo
aver esaminato varie collocazioni fu scelta la base del Palazzo della Signoria (ora
Palazzo Vecchio) e quindi la sede del massimo potere civile. Il simbolismo religioso
non era perduto ma la funzione di difesa della libertà repubblicana ne veniva
sottolineata.
La sua storia non è stata priva di traumi: nel 1527 durante un tumulto
particolarmente violento venne lanciato un mobile da una finestra di Palazzo
Vecchio sulla piazza e colpì il braccio che tiene la fionda. L’avanbraccio si staccò e
cadde a terra. Buttandosi tra le gambe dei contendenti, 2 ragazzi di circa 17 anni lo
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salvarono. I due ragazzi erano Giorgio Vasari e Francesco Salviati, due grandissimi
artisti, allora ancora in formazione, che nascosero questo pezzo e solo molti anni
dopo lo consegnarono al Duca di Firenze che lo fece rimettere a posto, così come
noi oggi lo vediamo.
E’ importante immaginare la forma del blocco originario e capire quello che
Michelangelo raccontava della sua capacità creativa quando affermava di vedere la
statua già formata dentro il blocco di marmo e di raggiungerla attraverso la
rimozione di ciò che lui chiamava “il soverchio” (il superfluo). La figura è già lì basta
toglierla… questo è il concetto che Michelangelo aveva della scultura che apprezzava
solamente se fatta per via di levare cioè togliendo quella porzione di materia che
nascondeva le forme della figura da lui desiderata.
Sappiamo, dai documenti, che c’erano delle parti dorate: il tronco che sorregge la
gamba destra, la fionda che scende anche lungo la schiena e c’era anche una
ghirlanda di foglie dorate in qualche parte della figura, probabilmente intorno alla
testa. Di questa doratura, nell’ultimo restauro avvenuto nel 2004, si sono trovate
piccole tracce dunque dobbiamo immaginare che la figura avesse dei punti di
splendore e di ricchezza materica che noi oggi possiamo soltanto ricostruire
virtualmente con elaborazioni grafiche.
E’ una statua che turba, che desta una ammirazione a volte estrema che subiscono
molti visitatori che oggi possono vederla nella galleria dell’Accademia di Firenze,
dove è stata collocata nel 1873. Alcune parti più esili, ad esempio le caviglie, oggi
vengono monitorate costantemente con dei sensori elettronici che ne evidenziano
ogni piccolo movimento o incrinatura.
Quello che folgora i visitatori è anche l’espressività dello sguardo, al di sotto di una
massa di capelli lo sguardo è accigliato, fisso, dobbiamo ricondurre questa
espressività a quel calcolo mentale che David sta facendo della traiettoria del sasso
da lanciare con la sua fionda. Michelangelo diceva che l’architetto, l’artista, deve
avere le “seste” negli occhi, cioè deve saper misurare con lo sguardo intuitivamente
senza disporre di strumenti metrici, dunque questo David è quasi la proiezione
dell’artista stesso che prende le misure per ottenere la sua vittoria.
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ROMA ALLA FINE DEL XV SECOLO
La Roma in cui Michelangelo arriva nel 1496 è una città animata
da decenni da un intenso fervore culturale ma è soprattutto tra il
1503 e il 1521 con i papati di Giulio II e Leone X che il
rinnovamento si trasforma in un vero e proprio programma
politico. L’obiettivo è rendere la Roma papale la diretta
continuazione della Roma imperiale. La città divenne un immenso
cantiere coinvolgendo nei nuovi progetti i più celebri artisti del
tempo: a Michelangelo viene affidata la volta della Cappella
Sistina, a Raffaello la decorazione delle Stanze Vaticane e, dopo
la morte di Bramante, la direzione dei lavori della nuova Basilica
di San Pietro.
Su questa cultura lussuosa e ricercata si abbatte il Sacco di Roma.
Nel 1527 le milizie mercenarie assoldate dall’Imperatore Carlo V
d’Asburgo penetrano nel cuore della cristianità. L’opera di
depredazione e saccheggio causa danni incalcolabili e, sommata
alla seguente pestilenza, uccide quasi 20.000 cittadini. L’evento
rappresenta la fine di un’epoca, termina per sempre l’ottimismo
che aveva caratterizzato il Rinascimento ed inizia un periodo di
forte inquietudine spirituale che culmina nella tragicità espressa
da Michelangelo nel Giudizio Universale affrescato dal 1536
durante il pontificato di Paolo III.
Prima della fine del ‘400 troviamo Michelangelo a Roma.
Come ci arrivò è quasi la trama di un romanzo: era rimasto in buoni rapporti con la
famiglia Medici, in particolare con il cugino di Lorenzo il Magnifico che si chiamava
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come lui Lorenzo, da questi ricevette un singolare consiglio. Avendo Michelangelo
scolpito un “Cupido dormiente”, tema ispirato dalla scultura romana antica, gli fu
consigliato di venderlo sul mercato come un originale antico e questo Michelangelo
effettivamente fece. Il “Cupido dormiente” fu acquistato dal cardinal Riario a Roma
ed accolto nella sua collezione come un pezzo di epoca romana. Ma il mondo era
piccolo anche allora, la voce si sparse rapidamente e questo cardinale da un lato fu
irritato d’aver comprato un falso ma dall’altro rimase ammirato dalla maestria di
questo giovane scultore che aveva saputo imitare così bene e forse perfino superare
l’antico e lo fece invitare a Roma dove Michelangelo fu accolto da una cerchia di
fiorentini e messo sotto la protezione di un banchiere, Iacopo Galli.
Il gruppo “Il bacco” con il satiretto che morde l’uva alle sue spalle fu creato appunto
a Roma nel 1495-96 circa, subito dopo che Michelangelo aveva avuto la
straordinaria emozione di vedere l’antichità di questa città, i grandi monumenti ma
anche la splendida statuaria che formava l’orgoglio dei tanti cortili e giardini delle
ville della “Città Eterna”.
Impressionato dalla potenza e dalla pienezza della scultura antica Michelangelo
crea, per la prima volta, una figura a grandezza naturale e dedica a questo dio del
vino tutta la sua bravura per poter permettere la visione da tutte le parti della
statua. Infatti non solo la figura del giovane dio è rifinita in ogni particolare da tutti i
lati, ma addirittura si può godere anche della parte retrostante del gruppo
attraverso la figura contorta e ridente del satiretto che ruba il grappolo d’uva dalla
pelle di pantera tenuta in modo blando dal dio ormai ebbro. Infatti il dio del vino
sembra avanzare barcollando e porgendo quasi all’osservatore, la coppa su cui tiene
fisso lo sguardo. E’ una statua di una straordinaria sensualità che nelle forme, come
scrisse il Vasari, presenta caratteri sia femminili che maschili, perché l’anatomia
piena e robusta del dio accoglie elementi di rotondità e morbidezza che sono propri
della figura femminile. E’ una statua pienamente consona al clima pagano della
riesumazione dell’antico che in quegli anni si respirava a Roma e che sarebbe
addirittura stato esaltato dalla generazione successiva del primo ‘500.
In tarda età, Michelangelo ebbe un po’ di pentimento, ricordiamoci che la sua
longevità gli consentì di arrivare in piena Controriforma e dunque anche di sentirsi a
disagio di fronte a sue creazioni così evidentemente sensuali e pagane e quindi,
attraverso le parole del suo biografo Condivi, accennò ad un intento morale che la
scultura poteva assumere, quello cioè di mettere in guardia contro i pericoli del vino
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perché chi indulge all’ebbrezza si trova poi esausto e svuotato come quella pelle di
pantera che il dio tiene in mano.
Michelangelo pittore, quand’è che l’artista comincia a mettere a
frutto la maestria appresa nella bottega di Domenico
Ghirlandaio?
Forse già negli ultimi anni del ‘400 a Roma perché si fanno risalire a quel periodo le
due tavole rimaste incompiute ora conservate alla National Gallery di Londra.
Certamente l’unico dipinto su tavola che esiste in Italia è il “Tondo Doni” conservato
nella Galleria degli Uffizi a Firenze e dipinto in un periodo che oscilla, secondo
quanto ci suggeriscono i documenti, tra il 1504 e il 1508. E’ un grande tondo (diam.
120 cm) e già in questo manifesta la sua appartenenza ad una tipologia che era stata
molto amata nella Firenze del ‘400 mentre del ‘500 sono presenti pochi esemplari.
Nel “Tondo Doni”, oltre alla tavola c’è una cornice intagliata e dorata della bottega
dei “Del Tasso”, grandi legnaioli dell’epoca, che amplifica la maestà di questa
immagine sacra. Il soggetto raffigurato è la Sacra Famiglia con la Madonna
inginocchiata in primo piano su un prato, alle sua spalle San Giuseppe e tra i due il
Bambino. Un muretto, dietro di loro, divide il primo piano dal piano retrostante e
addossato al muretto c’è San Giovanni Battista bambino un po’ più grande del
Bambin Gesù. Quasi un’esedra rocciosa accoglie un piccolo gruppo di giovani
seminudi intenti a scherzare fra loro tirandosi i panni in cui sono parzialmente
avvolti, dietro ancora un paesaggio con un’ampia vallata e una formazione
montuosa. Ci sono elementi di straordinaria bellezza ed elementi di mistero.
L’iconografia è unica ed in qualche misura inspiegabile perché mentre si arriva a
capire la presenza del Battista che è il precursore di Gesù, colui che battezzando
dava l’annuncio che sarebbe arrivato il Messia, ci sfugge completamente la ragione
del gruppo di nudi retrostante che sembra alludere, secondo un’interpretazione
abbastanza condivisa, all’umanità prima della redenzione; un’allusione a tutto il
genere umano che è nato prima di Cristo e che quindi non si è potuto salvare e non
ha vissuto l’epoca della Grazia. Giovanni a collegare i due mondi ed il mondo della
redenzione personificato proprio dalla Sacra Famiglia con l’arrivo di Gesù Bambino.
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Michelangelo ha concepito sia nell’iconografia sia nella composizione qualcosa che
era unico ed è rimasto unico in tutta la storia dell’arte.
Questa Sacra Famiglia è anche in una posizione singolare, in questa sorta di
passaggio del Bambino dall’uno all’altro della coppia che è stata definita talvolta
anche in modo critico come dal grande Roberto Longhi, uno dei più grandi critici del
‘900, che la definì “una Sacra Famiglia di giocolieri”.
Visto da vicino il quadro ha delle straordinarie finezze pittoriche e un disegno
controllato ed insieme complesso come dimostra lo svilupparsi del tessuto intorno
alle gambe della Vergine, i colpi di luce sul petto e sul ventre della Madonna dove la
tunica rosa sembra quasi sbiancarsi, trapassi e contrapposizioni di luci e di ombre, di
chiari e di scuri che dimostrano la padronanza totale del disegno e del colore da
parte di Michelangelo.
Giorgio Vasari ammirò soprattutto lo sguardo della Madonna: uno sguardo rivolto
verso il Bambino in un’affettuosa ammirazione che è quasi adorazione. Del Bambino
è da sottolineare la vivacità degli occhi che puntano quelli della madre in una
reciprocità di attenzione e di amore. E’ dunque un quadro che ci può coinvolgere a
tanti livelli, da quello artistico a quello degli affetti, ancora una volta un rapporto tra
la madre e il figlio che Michelangelo ha certamente vissuto con tratti autobiografici.
Da ricordare, per quanto riguarda la storia della pittura nell’espressione
michelangiolesca, che questo è un quadro perfettamente finito, condotto in ogni
sua parte con assoluta padronanza e anche la sottigliezza degli strati pittorici ci
rivela una consuetudine con la pittura che fa già di Michelangelo, alla vigilia della
Cappella Sistina, un grandissimo “colorista”.
Questa è una caratteristica che fino alla pulitura del “Tondo Doni” e fino alla
pulitura della “Cappella Sistina” non si era mai potuta apprezzare ma i grandi
restauri del ‘900 ci mettono nuovamente in contatto con quella tavolozza
sfolgorante e cangiante che Michelangelo ha saputo usare nelle sue opere
pittoriche.
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LA CAPPELLA SISTINA
La Cappella Sistina prende il nome da Papa Sisto IV della Rovere
che, a partire al 1477, promuove la costruzione e decorazione
dell’antica cappella del Palazzo Apostolico. Fu inaugurata il 15
agosto del 1483 e già negli ultimi anni del XV secolo, il suolo poco
compatto su cui poggiava cedeva. Non si trattava di un fenomeno
straordinario, infatti il colle Vaticano è fatto di sedimenti e ci sono
stati spesso dei cedimenti in passato. La C. Sistina, nel 1504, subì
il cedimento più grave e si creò un’enorme crepa che attraversava
la volta. La Sistina fu giudicata pericolosa quindi venne
sgombrata e chiusa per mesi. Papa Giulio II decise, insieme ai
suoi architetti, di intervenire rinforzando la volta con catene e
mattoni. Nell’ottobre 1504 la Cappella Sistina ricominciò ad
essere usata per le cerimonie religiose.
Le pareti vengono affrescate secondo una sobria struttura
simmetrica distribuita su fasce orizzontali dai più valenti pittori
attivi tra Umbria e Toscana. Su tre delle pareti dell’aula si
osservano ancora oggi le originali fasce affrescate sovrapposte: in
alto, a lato delle finestre, la teoria dei Papi a cui lavorarono, tra
gli altri, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rossetti; al centro i cicli
tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento; in basso lo zoccolo con
i finti tendaggi.
La volta era stata precedentemente affrescata con un cielo con
stelle dorate da Piermatteo d’Amelia ma, a seguito dei lavori, la
pittura era stata danneggiata in più parti.
Nel 1508 il pontefice Giulio II della Rovere, nipote di Sisto IV e passato alla storia
come il “Papa guerriero”, decide di modificare parzialmente la decorazione della
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Cappella e affida al genio di Michelangelo l’immenso affresco della volta, più di mille
metri quadrati di affresco.
All’inizio i rapporti tra i due furono problematici soprattutto per lo scontro fra il
carattere “forte” del Papa e quello altrettanto “battagliero” del grande artista.
Michelangelo era ormai un artista affermato, aveva lavorato nella Firenze dei de’
Medici e anche a Venezia e Bologna.
In un primo momento, Michelangelo si dimostrò restio ad accettare l’incarico di
dipingere la volta della Cappella che definì un “granaio”, una definizione che non
utilizzò per disprezzo ma perché aveva forti perplessità in quanto era consapevole
delle insidie che avrebbe incontrato nella realizzazione dell’opera. Innanzi tutto lui
era principalmente uno scultore e non era esperto nella tecnica dell’affresco.
Malgrado tanti dubbi, Michelangelo accettò… per nostra fortuna!
Il 10 maggio 1508 ebbero inizio i lavori. Michelangelo, all’inizio dei lavori, chiamò
degli aiutanti fiorentini ma alcuni incidenti turbarono questa collaborazione.
Fiorirono sugli intonaci delle muffe e Michelangelo, scoraggiato, voleva
abbandonare l’impresa e andò a rassegnare le sue dimissioni al Papa il quale non
volle intendere ragione e gli affiancò Giuliano da Sangallo che era esperto non solo
in architettura ma in molte altre arti e gli insegnò a dosare correttamente la miscela
di calce, sabbia e acqua in modo che assorbisse i colori e li fissasse per sempre.
Questo infatti è avvenuto, la materia pittorica della volta della Cappella Sistina è
meravigliosa, vista da vicino assomiglia ad una pietra dura levigata che ha
incorporato perfettamente il colore con quel processo di carbonatazione che è
proprio del “buon fresco” e lo ha reso praticamente indistruttibile, se non dove ci
sono state infiltrazioni e conseguenti perdite.
Quando arrivò il momento delle tensioni con i collaboratori. Michelangelo li
allontanò e li fece tornare a Firenze e preferì compiere da solo la grande impresa. In
soli 4 anni, dal 1508 al 1512, con una interruzione nell’estate del 1511 perché nella
Cappella si doveva tenere il Conclave. Quindi il ponteggio fu smontato e rimontato
e in quella occasione Michelangelo vide dal basso l’effetto che faceva e nell’ultima
parte, quella compiuta dopo il rimontaggio del ponteggio, aggiustare il tiro. Infatti il
progresso della visione ci conduce da scene affollate di figure relativamente piccole
a scene diradate di straordinaria potenza dove campeggia una
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sola figura o al massimo due. Sebbene l’ordine della narrazione comprenda all’inizio
le scene della Creazione, della separazione della luce dalle tenebre, della creazione
del Mondo e dell’Uomo e solo in fondo vi siano le scene dell’umanità primordiale
con Noè e l’episodio del Diluvio e dell’abbrezza successiva, Michelangelo cominciò a
dipingere da queste ultime scene e si vede come, per esempio nel Diluvio, che pure
ha una bellissima scena, abbia usato una proporzione forse troppo piccola per
quell’immensa volta che si poteva vedere soltanto dal basso e quindi si perdono un
po’, nella distanza, le figure più lontane.
Dobbiamo ricordare che lo sviluppo del Diluvio non è solamente prospettico in
senso spaziale, ma è prospettivo in senso cronologico, si passa dai primi giorni del
Diluvio in cui l’umanità spera ancora di salvarsi portando se stessa ed i propri beni
sulle cime più alte, agli ultimi giorni in cui ormai tutto è perduto e le barche cercano
di salvarsi dal mare che ricopre l’intera terra e lontano già Noè si appresta a lanciare
fuori dall’arca prima il corvo e poi la colomba e quindi a ritrovare la terra emersa.
Il registro proporzionale cresce via via che le storie si susseguono e quindi abbiamo
le grandi figure dei progenitori, nella scena della tentazione e della cacciata,
abbiamo la scena magistrale e famosissima della creazione del primo uomo in cui
Adamo prende vita dal tocco del dito del Creatore il quale trasvola attraverso l’aria
accompagnato da angeli e avvolto in un manto rosa-violaceo che si gonfia al vento
assumendo il contorno di un cervello umano simbolo di sapienza e razionalità. E’
interessante sapere che, durante il recente restauro, ci si è accorti che proprio tra i
due indici c’era stata una crepa e che il pittore Domenico Carnevali del XVI secolo fu
incaricato di ridipingere. Poi la grandezza straordinaria di Dio Padre mostrato nella
sua potenza creatrice che si vede in due sequenze distinte mentre separa luce e
tenebre e mentre volge le spalle e Giorgio Vasari, per primo, notò che Michelangelo
aveva permesso che si vedessero del Padre Eterno le piante dei piedi e non solo.
Infine l’immagine scorciata e di straordinaria efficacia del Padre Eterno ci riconduce
all’inizio della creazione. Le 9 storie sono disposte in ordine cronologico partendo
dalla parete dell’altare e, al lati di ciascuna di esse, vi sono 20 figure di “ignudi” che,
a coppie, sostengono 10 medaglioni con scene tratte dal Libro dei Re.
Di altrettanta potenza e maestà sono le grandi figure dei veggenti, Profeti e Sibille,
che paiono come compresse all’interno di studioli fatti di marmo come troni, che
sembrano pendere sopra gli osservatori, intenti a leggere o a scrivere quelle profezie
che anticipano la venuta del Messia.
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Nelle vele e nelle lunette, Michelangelo, dipinge gli antenati di Cristo, da Abramo a
Giuseppe, simboli della speranza dell’incarnazione e della redenzione.
Infine, nei pennacchi angolari, sono illustrate 4 scene bibliche che alludono alla
promessa del Messia.
Michelangelo, per compiere questa titanica impresa, ideò un’impalcatura in legno
fissata ai muri all’altezza delle finestre. Risolse il problema dell’altezza e della
mobilità ma non certo quella della comodità, infatti dipingeva quasi sempre in piedi
con la testa piegata indietro ed il braccio disteso in alto. Durante gli ultimi lavori di
restauro della volta, fu utilizzato un sistema di ponteggi quasi identico a quello
ideato da Michelangelo, sfruttando anche i fori alle pareti già presenti.
Michelangelo quindi compositore, disegnatore, pittore e colorista. Il restauro della
Cappella Sistina, avvenuto negli anni ’80, ha potuto rivelare, al di sotto di quello
strato di nero-fumo che si era accumulato nei secoli, la potenza straordinaria della
gamma cromatica di Michelangelo che non solo impiega tinte vivide e brillanti, ma le
accosta con audacia, ottenendo effetti di cangianza per cui l’ombra del giallo non è il
giallo scuro ma il verde, l’ombra del viola è il color lavanda etc. Sono, insomma,
contrasti e accostamenti molto arditi che, una volta di più, ci mettono davanti un
Michelangelo che non era soltanto scultore, come per altro lui stesso amava
definirsi e firmarsi anche nelle lettere, ma anche un sommo pittore.
IL MOSE’
Con la statua di Mosè entriamo in una vicenda che accompagnò Michelangelo, in
forma di preoccupazione e tribolazione, per quasi 40 anni, quello che lui definì “la
tragedia della sepoltura”. Di chi era la sepoltura? La sepoltura era di Giulio II. Il
Papa, di temperamento energico e volitivo, aveva sentito parlare della straordinaria
capacità di Michelangelo scultore e nel 1506 lo fece andare a Roma per affidargli la
propria sepoltura.
Sarebbe stato un progetto grandioso, il Papa lo ammirò perché si trattava di un vero
e proprio mausoleo con molte sculture. Cominciò ad ordinare i marmi e
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Michelangelo si impegnò da subito e con grande entusiasmo per realizzare quello
che, probabilmente, intravedeva come il capolavoro della sua vita.
In realtà, il Pontefice, cambiò rapidamente opinione ed occupò Michelangelo nella
pittura a fresco della volta della Cappella Sistina. Michelangelo all’inizio resistette
ma poi dovette cedere e cominciò ad occuparsi in modo marginale delle statue che
dovevano accompagnare la sepoltura del Papa.
Morto Giulio II cominciò a stipulare nuovi contratti con i suoi eredi, la famiglia della
Rovere, e solo 40 anni dopo arrivò alla conclusione. Quel monumento molto più
contenuto, rispetto alle intenzioni originarie, che vediamo in S. Pietro in Vincoli a
Roma.
In questo monumento grandeggia la figura di Mosè. Il meraviglioso marmo
realizzato bel presto da Michelangelo, poco dopo aver ricevuto la commissione, che
raffigura questo straordinario personaggio biblico in una posa seduta ma vibrante di
vita e di energia. Sembra che Mosè stia per alzarsi e, alcuni ripensamenti anche
nell’esecuzione della parte laterale fanno capire che Michelangelo è tornato ad
occuparsi di questa posizione che non è ne di seduta vera e propria ma neppure di
posizione eretta: non è di moto ma non è di stasi. E’ dunque un po’, come abbiamo
visto anche nel David, una posizione vigile, pronta a convertirsi in un movimento
rapido.
Mosè guarda di lato, come assorto in una sua visione ed ha gli attributi che gli sono
propri: le tavole della legge e quei due raggi, quasi piccole corna, che gli spuntano
sopra la fronte. Probabilmente assorto in una visione profetica, si prende la barba,
un gesto strano da un certo punto di vista, ma spiegabile come sintomo di profonda
riflessione e forse anche di incertezza perché Mosè è una figura potente ma anche,
se ci riflettiamo, infelice, guiderà il suo popolo verso la Terra Promessa ma non
riuscirà ad arrivarci, dovrà salire due volte a farsi dare le tavole della Legge, dovrà
sconfiggere l’idolatria del Vitello d’oro… Dunque una figura in cui Michelangelo
poteva anche riconoscere dei tratti che gli appartenevano come tormento interiore,
come ricerca della propria ammissione del proprio destino.
Mosè è straordinariamente possente e anche nelle braccia muscolose, nelle gambe
robuste, rivela la tendenza di Michelangelo ad espandere le forme, a dilatare e
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sottolineare il carattere eroico dei personaggi dipinti o scolpiti che caratterizzano la
fase della sua maturità.
LE CAPPELLE MEDICEE
Nel 1513 fu eletto Papa Giovanni de’ Medici, prese il nome di
Leone X. Era il figlio di Lorenzo il Magnifico, compagno
dell’adolescenza di Michelangelo che proprio in casa di Lorenzo e
dei suoi figli, era stato ospitato dal 1490 al 1492. Dunque il
Pontefice si rivolse immediatamente a lui per un’impresa che gli
stava molto a cuore: l’innalzamento della facciata della basilica di
San Lorenzo eseguita da Filippo Brunelleschi ma non portata a
termine.
Il progetto della facciata fu curato da Michelangelo in ogni particolare e si
immaginava di fare una parata di statue… quando il Pontefice cambiò idea, lo
distolse dalla facciata, con grande dispiacere di Michelangelo, e lo incaricò di
progettare la Sagrestia Nuova (Sagrestia Vecchia già esistente e progettata da
Brunelleschi) dove collocare le tombe dei Medici.
Dunque una grande cappella sepolcrale nella quale Michelangelo doveva esprimersi
come architetto e come scultore. Uno spazio controllato rigorosamente ma insieme
magnificamente rivestito di marmi che si alternano alla pietra serena in quella
bicromia che è così tipica dell’architettura fiorentina, membrature di grande rigore e
riferimento al mondo antico ma insieme portatrici di novità e di rivoluzionaria
invenzione.
L’apparato di statue che Michelangelo aveva progettato doveva essere ancora più
ricco di come sia giunto fino a noi, ma l’impresa era forse troppo ambiziosa e lui
stesso poi la interruppe poiché nel 1534 lasciò definitivamente Firenze con la
Sagrestia, tra le altre opere, ancora in corso.
Però già le statue eseguite e montate sui sarcofagi e nei prospetti sono di una forza
espressiva e simbolica coinvolgente.
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Il nucleo concettuale e religioso della cappella, che spesso è stata interpretata in
senso neoplatonico, risiede in realtà in una situazione che ha a che fare con la fede
cristiana e la speranza della salvezza ed è cioè in quel gruppo della Madonna, detta
“Madonna Medici” , che accosta il Bambino al proprio seno ed è affiancata dalle
figure dei santi Cosma e Damiano.
Le figure dei due santi non sono state eseguite da Michelangelo ma da due suoi
assistenti fedeli al suo linguaggio artistico: Raffaello da Montelupo e Giovanangelo
Montorsoli. Queste tre statue furono montate su quello che viene definito il
“cassone”, cioè quel sarcofago che contiene le salme di Lorenzo il Magnifico e
Giuliano de’ Medici. In questo luogo si svolge il percorso dell’intercessione: i santi
Cosma e Damiano essendo dei santi che esercitavano la professione medica sono
sempre stati i protettori della famiglia Medici e dunque sono coloro che
intercedono, per le anime dei defunti di tutta la casata, presso la Madonna avvocata
dell’Umanità la quale, con il proprio latte che nutre la forma umana assunta dal
figlio di Dio, intercederà presso Dio nel giorno del Giudizio così come Gesù, in nome
del proprio sangue, intercederà per l’Umanità.
Lorenzo e Giuliano sono rappresentati seduti all’interno di nicchie definite con
elementi architettonici ed hanno, ai loro piedi, le figure rappresentative delle
quattro parti del giorno: Crepuscolo, Aurora, Notte, Dì. Sono statue in parte finite,
lustrate e levigate (Notte) ed invece altre lasciate allo stato di “non finito” come le
figure maschili che, nelle loro rude modellatura, presentano ancora dei punti di
contatto con la materia grezza. Sono state montate sui sarcofagi ed entrambe le
coppie alludono alla ricorrenza del tempo e quindi all’eternità. In una riflessione
scritta a margine di un disegno Michelangelo stesso scrive che il giorno e la notte, il
crepuscolo e l’aurora, il passare del tempo, ha consumato la vita dei due giovani
Medici ma trionfando nell’eternità essi saranno i vincitori del tempo. La fama e la
notorietà delle dinastie può superare il tempo dell’uomo, il tempo della salvezza,
attraverso la religione garantisce la vita eterna.
Ogni particolare è degno della massima attenzione: il potenziale sensuale
dell’Aurora che, come ha scritto il Vasari “si sviluppa dalle piume” cioè si alza dal suo
materasso, oppure la Notte sprofondata in un sonno privo di coscienza e di
memoria.
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IL GIUDIZIO UNIVERSALE
Prima di morire nel 1534 il Papa Clemente VII de’ Medici affida a
Michelangelo, ormai stabilitosi a Roma, un nuovo incarico, la
raffigurazione del Giudizio Universale sulla parete dell’altare della
Cappella Sistina eseguito durante il pontificato del successore
Paolo III Farnese.
Vennero frantumati e polverizzati fino a scomparire molti affreschi già esistenti del
Perugino, alcuni ritratti di pontefici etc. Fu, inoltre, necessario murare due finestre e
questo ebbe ovviamente impatto sulla luminosità della Cappella. C’è poi un
dettaglio che sfugge a chiunque si trovi davanti al monumentale affresco. La parete
su cui fu dipinto non è perfettamente perpendicolare al pavimento, ma in leggera
pendenza. Michelangelo, infatti, impose un intervento strutturale sul muro perché
la parte superiore risultasse più sporgente rispetto a quella inferiore. Fu perciò
creato un aggetto di 24 centimetri. In effetti, l’affresco va impercettibilmente
“incontro” agli spettatori nella sua parte alta. Questo trucco, una grande astuzia di
Michelangelo, aveva lo scopo di evitare che la polvere lo ricoprisse spegnendo i suoi
colori e la luminosità delle scene dipinte. Quello che però non riuscì ad arrestare fu
la patina di fuliggine, sporcizia, colla animale e grasso che ricoprì inevitabilmente il
suo capolavoro, dovuto all’uso continuo e duraturo di candele e lumi. Questo strato
scuro fu poi rimosso con il laborioso intervento di restauro negli anni Ottanta e
Novanta del Novecento.
Dopo la fase di concezione dell’opera, Michelangelo inizia il
colossale affresco nel 1536, 24 anni dopo il completamento della
Volta.
L’artista toscano illustra il tema del Giudizio Universale con una
antologia di scene che coprono oltre 180 metri quadrati di parete
rappresentando più di 400 figure che, in parte, traggono spunto
dalla Divina Commedia di Dante Alighieri.
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La grandiosa composizione sebbene impostata senza la consueta struttura in ordini
sovrapposti può comunque essere suddivisa in 3 fasce, senza contare le due lunette
superiori. Nelle due lunette, angeli privi di ali recano i simboli della passione di
Cristo. Partendo dall’alto, la prima fascia è dominata dal maestoso Cristo giudice in
piedi sulle nubi, il braccio destro alzato imperioso e pacato insieme richiama
l’attenzione e placa l’agitazione circostante, esso avvia un ampio e lento movimento
rotatorio che coinvolge tutte le figure. Accanto a Cristo è la Vergine che volge
rassegnata il capo verso il basso in attesa di conoscere l’esito del Giudizio. Anche i
Santi e gli Eletti, disposti tutti in torno e collegati tra loro in una fitta serie di gesti,
attendono con ansia il verdetto di Cristo. Alcuni di essi sono facilmente riconoscibili
dai loro simboli: S. Pietro con le due chiavi, S. Giovanni Battista con il manto di pelle
di cammello, S. Lorenzo con la graticola, S. Caterina d’Alessandria con la ruota
dentata, S. Bartolomeo con la propria pelle in cui si suole riconoscere l’autoritratto
di Michelangelo, autoritratto ironico e amaro di se stesso come ridotto dal lavoro e
dalla prepotenza del Pontefice ad una sorta di guscio vuoto e pendente.
Nella fascia mediana Michelangelo affresca al centro gli angeli dell’Apocalisse con le
trombe che, secondo la Bibbia, suoneranno nel giorno del Giudizio Universale per
chiamare a raccolta tutti gli uomini. A sinistra colloca i risorti in ascesa verso il cielo,
a destra gli angeli e i demoni che spingono i dannati verso il fuoco infernale. Il
diradarsi dei corpi, rispetto alla fascia soprastante, fa sì che le figure si staglino più
drammaticamente sulla sfondo immenso.
Infine, nella terza fascia, al centro, è raffigurato un antro popolato da figure
diaboliche. A sinistra, Michelangelo illustra la resurrezione dei morti che recuperano
i loro corpi dopo la fine dei tempi. A destra, l’inferno con la barca di Caronte che
traghetta le anime dei dannati per condurle davanti a <Minosse, giudice infernale
con il corpo avvolto dalle spire di un serpente. Nel volto di Minosse molti
riconoscono il ritratto di Biagio da Cesena, il cerimoniere del Papa che aveva
criticato l’opera di Michelangelo. Secondo lui c’erano troppi nudi e l’affresco era
complessivamente molto volgare. Michelangelo quindi rispose immortalandolo con
le orecchie d’asino e una serpe che gli addenta i genitali.
L’opera, terminata 5 anni dopo, nel 1541, costituisce uno
spartiacque nella storia dell’arte e del pensiero. L’uomo forte e
sicuro del primo Rinascimento è sostituito dalla visione caotica e
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angosciata che travolge tanto i dannati quanto i beati e che
riflette, con drammatica forza, le insicurezze della nuova epoca.
La composizione non si avvale di una scansione fatta di finte architetture o di cornici
ma è fondata su gruppi di figure dei dannati, dei risorti, dei beati, degli angeli e della
corte celeste. Una visione densa, dal punto di vista compositivo, di figure di
proporzioni diverse a seconda della vicinanza al primo piano e addirittura alcune in
una illusionistica posizione di scorcio che sembrano fuoriuscire dal piano della
pittura e avanzare verso lo spazio fisico dell’osservatore.
Il grafico delle giornate di lavoro ha dimostrato che tutto comincia nel gruppo
centrale di angeli che suonano le trombe. Cristo è rappresentato in duplice veste di
giudice irato e di giudice misericordioso. Mentre il Vasari, uno dei più attenti
osservatori ed estimatori del Giudizio Universale, ha sempre sottolineato il gesto
irato di Cristo che respinge i dannati nel profondo degli inferi, diversamente Ascanio
Condivi, grande e stretto collaboratore di Michelangelo, ha voluto ricordare anche la
bontà, la misericordia in quel gesto della mano che dolcemente attira a se i buoni,
dunque il Giudice Divino, opera entrambe le azioni: la ripulsa dei reprobi e
l’attrazione dei buoni.
Una vicenda molto nota, legata al Giudizio Universale, è quella delle “brache”.
Infatti, appena scoperto, il Giudizio attirò delle critiche e anche Pietro Aretino, che
era stato un estimatore di Michelangelo lo attaccò violentemente sostenendo che
era una pittura piena di parti sconvenienti. Il Giudizio veniva dipinto negli anni in cui
veniva aperto il Concilio di Trento, dunque la Chiesa si avviava ad una spinta di
riforma moralizzatrice, di maggior severità nei costumi e principi. Il Giudizio
Universale fu sottoposto ad una censura attraverso l’intervento di Daniele da
Volterra e poi di altri pittori del tempo che aggiunsero le cosiddette “brache”, cioè
panneggi che velavano ed attenuavano le nudità. Nel restauro degli anni ’90 molte
delle “brache” più recenti sono state rimosse, quelle più antiche sono invece state
lasciate al loro posto.
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LA PIETA’ DI FIRENZE
Michelangelo fu anche architetto e negli ultimi anni della sua vita
a Roma si dedicò principalmente all’architettura, basta ricordare
la Piazza del Campidoglio, la cupola di San Pietro, la biblioteca
Laurenziana e Porta Pia per rendersi conto della enormità e della
vastità della sua opera in questo campo.
Due sole sculture appartengono agli ultimi anni della sua vita e
sono la Pietà di Firenze e la Pietà Rondanini.
La Pietà cosiddetta di Firenze, rimase a Roma fino a quando, in pieno ‘600, fu
acquistata da Cosimo III e portata nel Duomo fiorentino.
Rappresenta una nuova e ulteriore meditazione di Michelangelo sul tema della Pietà
cioè del dolore, dell’afflizione della Madonna anzitutto, ma anche della Maddalena e
di Nicodemo, un pio uomo che ebbe un ruolo nella sepoltura di Cristo, di fronte al
sacrificio estremo del Redentore. Il corpo di Cristo qui si piega in avanti
abbandonato ed attraversato proprio da linee spezzate e quasi disarmoniche che
contraddicono l’amore di Michelangelo per la bella forma umana.
Anche nel suo sonetto in cui esprime una sorta di rammarico per avere avuto
indulgenza e affetto per la figura umana si percepisce quasi il pentimento dell’artista
e la sua volontà di ritirarsi in forme più sobrie e più severe.
Il “non finito” michelangiolesco qui trova una delle sue più evidenti espressioni
perché sappiamo che la Pietà rimase incompiuta; alcune parti sono rimaste rustiche,
la Maddalena, invece, è stata completata da un allievo: Tiberio Calcagni.
Nella produzione scultorea di Michelangelo occorre distinguere quelle opere che
risultano “non finite”, cioè non portate a compimento, per cause accidentali da
quelle “non finite” ma da considerarsi portate a compimento dall’artista che così le
ha ideate e portate poeticamente a conclusione in modo, per lui, definitivo.
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LA PIETA’ RONDANINI
La struggente Pietà Rondanini (nome che deriva dal palazzo fiorentino dov’era
custodita) ora nel Castello Sforzesco di Milano, è la scultura alla quale Michelangelo
lavorò fino ai suoi ultimi giorni, infatti morì durante la sua lavorazione, all’età di 89
anni.
Scolpendo un marmo che egli stesso aveva trasformato da un’originaria bellezza del
corpo di Cristo, di cui sono testimonianza le gambe abbandonate nella calata verso il
sepolcro e il braccio rimasto isolato dal corpo ma compiuto in tutta la sua tornitura,
per arrivare poi, a furia di levare materiale, a queste forme scabre, sfinite, esauste
del Cristo ridotto ad un simulacro di sofferenza ormai sublimata nella morte e nella
Madonna che compie l’estremo sforzo di trattenere il corpo del figlio mentre cade
quasi a piombo all’interno di una cavità immaginaria che è quella del suo sepolcro.
La Madonna sorregge, per l’ultima volta il figlio, smagrito, come svuotato, il cui
corpo sembra quasi incastrarsi in quello della Madonna come fossero un’unica,
indissolubile persona. La sofferenza estrema della Madonna si traduce in un gesto di
affetto toccante che è quello di cercare il contatto fisico con la sua guancia fino a
fonderla nella capigliatura del figlio morto.
Il contatto di questi corpi ridotti all’essenziale è la testimonianza estrema di
Michelangelo che nel suo percorso così lungo e così vario è passato dalla bellezza
piena, fiorente, rigogliosa ed eroica delle prime sculture, a questa meditazione sulla
sofferenza di Cristo e sul suo sacrificio estremo per la redenzione dell’umanità che è
una sorta di preghiera scolpita con tormento e con intensità nell’ultimo marmo che
egli ha toccato.
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