LA COMMISSIONE KAHAN L`inchiesta israeliana sul

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LA COMMISSIONE KAHAN L`inchiesta israeliana sul
Mondo in fiamme
La tragedia libanese
1982: l’anno che cambiò la storia del medioriente
Il massacro di Sabra e Chatila
La commissione d’inchiesta israeliana
LA COMMISSIONE KAHAN
L’inchiesta israeliana sul massacro
di Sabra e Chatila
Il 24 settembre 1982, a neppure una settimana dai massacri nei campi profughi
palestinesi di Sabra e Chatila, il premier israeliano Menachem Begin decide di
affidare a una personalità indipendente il compito di condurre un inchiesta su quei tragici
fatti.
Viene scelto il giudice della corte suprema Yitzhak Kahan.
Ma la mossa di Begin, al di là delle apparenze, è solo un vile tentativo di insabbiare la
vicenda, evitando di formare - come la legge prevede - una vera commissione di
inchiesta ufficiale, dotata di pieni poteri.
Intanto l’opinione pubblica israeliana è nella sua maggioranza scandalizzata per quanto
accaduto. Secondo due quotidiani, il M aariv e il Jerus alem post, le responsabilità di
Israele nella tragedia dei campi di Beirut è evidente.
I due giornali scrivono che una relazione del comandante falangista a Chatila, secondo il
quale erano stati uccisi già “300 civili e bambini” venne trasmesso ai vertici militari
israeliani alle 23.11 del 16 settembre. Il che contraddice quanto affermato dal ministro
della Difesa Sharon che sostiene di aver avuto le prime notizie sul massacro solo nella
tarda mattinata del 17 e dal generale Rafael Eytan, capo di stato maggiore, solo nella
mattinata del 18.
L’atteggiamento di Sharon è fin da subito, come nel suo stile, quanto mai arrogante:
“Accetto la critiche, accetto il principio di una inchiesta - afferma - ma le critiche
hanno un limite che n on deve essere superato. Noi ci troviamo di fronte a un mondo
che ci minaccia e ad un ambiente che ci è ostile”.
Ed in modo altrettanto arrogante Sharon rilancia, chiedendo l’istituzione di una
commissione d’inchiesta anche sul ruolo avuto dal governo laburista in carica nel 1976
ai tempi del massacro di circa 3.000 profughi palestinesi nel campo di Tel-elZaatar da parte delle forze libanesi, quando il campo era accerchiato dall’esercito
siriano. “Ritengo mio dovere sollevare il problema di quando i labu risti dell’epoca
si eran o compiaciuti di una tragedia che era durata pe r mesi”.
Il 28 settembre - dopo una grande manifestazione popolare organizzata dalle
organizzazioni pacifiste e dai laburisti – Begin cede ed il governo israeliano istituisce una
commissione d’inchiesta con pieni poteri, con l’autorità di indagare l’operato dello stesso
governo.
Intanto due ministri del partito nazionale religioso, dell’Interno Yoseph Burg e
dell'Educazione Zevulum Hammer chiedono la sospensione dall’incarico del ministro
della Difesa Ariel Sharon, in attesa delle conclusioni della commissione di inchiesta.
La commissione ha ora il potere di ordinare ai testimoni di comparire e di fornire tutti i
documenti rilevanti, sotto pena di sanzioni penali. In caso di falsa testimonianza o di
riluttanza a comparire davanti alla commissione, sono applicabili le pene previste dalla
legge nel caso dei tribunali ordinari. Le conclusioni della commissione non avranno però
valore esecutivo ma soltanto di raccomandazioni.
Intanto sul massacro a Sabra e Chatila il corrispondente del quotidiano di Tel Aviv
Haare tz, Zeev Shiff, scrive che la strage sarebbe stata condotta dai falangisti, comandati
dal capo della sicurezza interna delle Falangi, Eli Hobeika al fine dichiarato di
terrorizzare i palestinesi residenti in Libano per costringerli ad abbandonare il paese. Eli
Hobeika, scrive il giornale - era una figura nota agli israeliani che nel 1976 lo avevano
espulso dal Libano meridionale “per atti di attrocità”.
Il 29 settembre il capo del partito laburista Shimon Peretz, in un’intervista al
quotidiano parigino Le monde afferma che il governo di Begin deve dimettersi perché ha
sbagliato tre volte: nell’essere andato fino a Beirut, nell’aver lasciato entrare i falangisti
nei campi palestinesi e nell’aver fornito, e con ritardo, spiegazioni contraddittorie al
popolo israeliano sui massacri.
Il 1 ottobre la commissione d’inchiesta è costituita. La presiede il presidente della corte
suprema israeliana Yitzhak Kahan e ne fanno parte Aharon Barak (ex-consigliere
giuridico del governo e membro della corte suprema) ed il generale della riserva Yona
Efrat.
In seno alle forze armate, nel frattempo, sta crescendo il malcontento. Monta un
profondo malessere nei confronti del ministro della Difesa Sharon sospettato di voler far
ricadere sulle sole forze armate le responsabilità per il massacro, esonerando da colpe il
potere politico.
Il 6 ottobre la commissione d’inchiesta comincia i suoi lavori, ma il giorno cruciale è
quello del 25 quando Sharon rivela che il governo israeliano aveva deciso, fin dai primi
giorni della guerra in Libano contro i guerriglieri dell’Olp, di far partecipare ai
combattimenti anche le forze libanesi. Pertanto - secondo il ministro della Difesa - la
decisione di far entrare il 16 settembre miliziani falangisti cristiani nei campi di Sabra e
Chatila rientra nell’attuazione di questa deliberazione presa dal governo il 15 giugno
1982, nove giorni dopo l’inizio della guerra.
Sharon aggiunge: “notoriamente i falangisti cristiani deside ran o allontanare i
palestinesi dal loro paese perché li consideran o un elemento straniero e
pertu rbatore”.
La prima notizia della strage Sharon l’apprese, a suo dire, alle 21.00 di venerdì 17
settembre dal capo di stato maggiore, il generale Rafael Eytan. Il generale gli riferì che i
falangisti avevano colpito anche civili, “andando al di là di quanto previs to”. Da tale
rapporto fu chiaro a Sharon che civili erano stati uccisi nei due campi, ma fu rassicurato
dal fatto che Eytan già aveva incontrato i gruppi falangisti dando loro ordine di cessare
qualsiasi operazione e di uscire dai campi entro le 05.00 dell’indomani, sabato 18,
capodanno del calendario ebraico.
Un commissario gli domanda il perché di tanto ritardo. “Nei campi erano in cors o
combattimenti e n on era possibile ai fal angisti riorganizz arsi e ritirarsi in un
tempo più breve”, cerca di spiegare il ministro della Difesa, facendo finta di ignorare che
in entrambi i campi profughi c’erano solo donne, vecchi e bambini, difficilmente
connotabili come combattenti.
Sharon racconta ancora che giovedì 16 settembre, mentre informava il governo
dell’ingresso dei falangisti a Sabra e a Chatila, il vice-primo ministro David Levy
aveva fatto notare l’eventualità di una possibile strage. Il commissario gli chiede allora se
questa notazione di Levy gli “avesse illumin ato la mente”. “No – è la risposta di Sharon
- perché Levy aveva espresso un’osservazione, ma non delle riserve o delle
contrarie tà all’ingresso dei falangisti nei c ampi profughi”.
Il 31 ottobre tocca al comandante del forze israeliane d'’invasione nel Libano, il
generale Amir Drori, il quale sostiene di aver espresso dubbi e ricordato “esperienze
del pass ato” quando il capo di stato maggiore Rafael Eytan aveva personalmente
incaricato i capi delle milizie falangiste cristiane di entrare nei campi profughi palestinesi.
Nella sua deposizione il generale Drori riferisce di aver invitato i falangisti, prima che
entrassero, a comportarsi umanamente (letterale in ebraico: “da esseri umani”) e a non
colpire donne, vecchi e bambini. E di essere venuto a conoscenza che qualcosa stava
accadendo nei campi profughi solo venerdì 17, a mezzogiorno e di aver dato istruzioni
ai falangisti di fermarsi, anche se è noto che i falangisti si ritireranno alle 5 del mattino
seguente.
Intanto le testimonianze sul doppio massacro si rincorrono anche fuori dall’aula dove la
commissione d’inchiesta tiene i suoi lavori. La televisione israeliana afferma che un
ufficiale israeliano aveva saputo del massacro almeno tre ore prima che il comandante
delle forze israeliane in Libano avvertisse che qualcosa stava accadendo. Si tratta del
tenente Avi Grabovski, già ascoltato dalla commissione, il quale dichiara di averlo
appreso alle 09.00 del mattino del 17 settembre.
Gabrovski aggiunge di aver visto miliziani falangisti uccidere a sangue freddo cinque
abitanti di un campo. Miliziani falangisti cristiani trascinavano uomini, donne e bambini
fuori dai campi. Stando sempre al racconto del tenente, il suo ufficiale comandante gli
disse di passare l'informazione di quanto aveva visto al comando di brigata, ma quando il
tenente fu ricevuto si sentì dire che erano già stati informati “e ci si stava occupan do
dell' accaduto”.
Il 1° novembre è la giornata dei racconti più sconvolgenti: emerge che soldati e ufficiali
israeliani sapevano che i falangisti stavano perpetrando una carneficina di palestinesi
inermi nei campi profughi di Beirut e - 48 ore prima dell' uscita dei falangisti dai campi ne avevano fatto rapporto ai loro superiori.
Nelle prime deposizioni pubbliche di testimoni stranieri - due chirurghi inglesi ed una
infermiera ebrea-americana - emerge anche che i falangisti disponevano di trattori
israeliani per seppellire sommariamente i cadaveri dei trucidati a sangue freddo.
A questo punto la commissione d’inchiesta - che a porte chiuse ha già ascoltato uomini
dei servizi segreti ed alti ufficaili - è già in grado di ricostruire cronologicamente gli
avvenimenti:
- martedì 14 settembre, pomeriggio. Bachir Gemayel, presidente eletto libanese
e capo delle milizie falangiste cristiane, è ucciso in un attentato contro la sede della
sua organizzazione a Beirut.
- martedi' 14 settembre, sera e nottata. Il premier Menachem Begin ed il
ministro della Difesa Ariel Sharon decidono di fare entrare le forze israeliane a
Beirut ovest, da poco evacuata dai guerriglieri dell’Olp e, successivamente, anche
dalla forza d'interposizione italo-franco-statunitense. In base ad una
precedente deliberazione del governo si decide di chiedere la collaborazione
militare delle Falangi per affidargli il rastrellamento dei campi profughi palestinesi.
Nel corso della notte il comandante delle forze israeliane in Libano, generale Amir
Drori, apprende, ascoltando il suo capo di stato maggiore Rafael Eytan che dà
istruzioni ai capi falangisti, che questi ultimi entreranno a Sabra e Chatila.
- mercoledi' 15. Gli israeliani si dispiegano nel settore occidentale della capitale e,
tra l’altro, circondano i campi.
- giovedì 16. I falangisti penetrano nei campi. Il tenente Avi Gabrovski ne vede una
quarantina addentrarsi in un campo.
- notte tra giovedì 16 e venerdì 17. Gabrovski sente spari e vede i soldati israeliani
lanciare razzi per illuminare i campi. I falangisti sgomberano i feriti.
- venerdì 17 mattina. Gabrovski vede uomini, donne e bambini condotti dai
miliziani fuori dai campi, in direzione dello stadio. Due uomini sono presi a calci e
schiaffi e riportati nei campi. Poco dopo il tenente vede un gruppo di 5 civili,
donne e bambini, fucilati a sangue freddo da due individui. A questo punto
Gabrovski si dirige al suo carro armato per telefonare ai superiori. I commilitoni
lo avvertono che poco prima avevano sentito - attraverso la rete di collegamento
radio delle unità dislocate nella zona - che si stavano ammazzando “persone”. Il
comandante del battaglione, al telefono, risponde a Gabrovski: “Noi lo
sappiamo, non è di nos tro gradimento ma non bisogna immischiarsi”. Non
lontano il tenente vede un falangista ammazzare un uomo che tentava di
opporglisi. A mezzogiorno giunge un falangista. Gli chiedono perché uccidano
civili e anche donne e bambini. “Le donne partoriranno terroris ti, quando i
bambini cresceranno diverranno te rroris ti”, risponde il falangista, secondo la
deposizione di Gabrovski. Intanto passa un trattore guidato da un miliziano che
spiega: “Serve per se ppellire i cadaveri”. Nella sua deposizione, il generale
comandante il corpo d’invasione israeliano, Amir Drori, spiega che il trattore era
stato fornito dalle sue unità che non conoscevano però il suo utilizzo. Secondo la
sua deposizione, il gen. Drori, dopo sospetti, dubbi e consultazioni, avverte la
necessità di invitare le milizie a cessare il fuoco, istruzione non eseguita. Drori
informa il capo di stato maggiore Rafael Eytan. Il comandante del battaglione,
intanto, avverte Gabrovski di parlare direttamente con il comandante del
reggimento che, in serata, così risponde all’innervosito tenente: “Lo s appiamo, ci
si sta occupando della cosa”.
- venerdi 17, ore 21.00. “Hanno es agerato”, dice al telefono il capo di stato
maggiore Eytan a Sharon che, nella sua deposizione, dice di avere appreso degli
eventi soltanto a quell’ora. Eytan ha concesso ai falangisti tempo fino alle 05.00
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del mattino successivo, capodanno ebraico, per ritirarsi dai campi. I miliziani
avevano bisogno di tempo per riorganizzarsi, spiega Sharon.
prime ore di sabato 18. Sono le ore peggiori, il massacro raggiunge punte più
barbare. Un’infermiera ebrea-americana, Ellen Segal, racconta che giovedì
pomeriggio molti palestinesi arrivano all’ospedale gridando terrorizzati che
c’erano falangisti, israeliani ed uomini del maggiore Saad Haddad, l’ufficiale
libanese mercenario, alleato di Israele.
la dottoressa Sue Tchai, britannica di origine cinese, riferisce che i primi feriti
vengono trasportati nell’ospedale giovedì mattina e poi nel pomeriggio. La gente
raccontava che gli aggressori entravano nelle case sparando all’impazzata contro
tutto e tutti. “Sono israeliani e d altri con l’accento di Baalbek”. Dopo una
notte di lavoro ossessivo, il venerdì mattina la dottoressa apprende che
l’amministratore dell’ospedale avrebbe chiesto protezione per i 22 stranieri del
personale sanitario alla croce rossa e agli israeliani: ma senza risultato. Tra gli altri
orrori, la Segal vede nell’obitorio una trentina di cadaveri, per la maggior parte
bambini.
il terzo teste, il britannico dottor Paul Morris, racconta di essere stato troppo
assorbito e preoccupato nell’assistenza e di non potere fornire particolari.
i tre testimoni dichiarano di aver visto buldozer nei campi, ma non sono in grado
di precisarne il numero che, secondo la loro versione, oscilla tra i due e i dieci.
Morris specifica di avere appreso da un brigadiere israeliano che responsabili del
misfatto erano gli uomini di Haddad.
Il 7 novembre il comandante delle forze israeliane Amos Yaron dichiara alla
commissione che, malgrado il sospetto che i falangisti cristiani stessero uccidendo civili
nei due campi profughi palestinesi, il capo di stato maggiore Rafael Eytan li elogiò
dicendo “avete fatto un bu on lavoro”.
Il racconto di Yaron è molto dettagliato: per precauzione e per seguire meglio le azioni
dei falangisti dispose soldati su posti di osservazione fuori da Sabra e Chatila, ordinando
di intercettare le comunicazioni fra i miliziani: “Ammonii i falangisti a non colpire la
popolazione civile o coloro che avessero al zato le mani in segno di resa. Conosco il
loro comportamento, diverso da quello praticato dai soldati is raeliani”.
In seguito a rapporti pervenutigli dalle sue unità, Yaron - dopo avere ordinato ai
falangisti di fermarsi - si rivolse al comandante Drori che a sua volta chiamò il generale
Eytan. Insieme i tre si recarono al comando falangista, nel pomeriggio di venerdì 17.
Fu in questa occasione che Eytan concordò con i falangisti l’ora di uscita delle milizie
cristiane dai campi: alle 05.00 del mattino seguente. “Ave te fatto un buon lav oro”, disse
Eytan ai capi falangisti.
Alla domanda della commissione se Eytan avesse permesso alle forze armate israeliane di
consentire ai falangisti di proseguire ancora la loro operazione nei campi, Yaron
risponde: “Così ho capito”.
Yaron, infine, sostiene di essersi fatto un primo quadro sulla “serietà” dell’accaduto
sabato sera, attraverso notizie di giornalisti che avevano visitato i luoghi delle stragi. La
realtà in tutta la sua atroce evidenza gli fu chiara soltanto il lunedì successivo.
L’8 novembre tocca al premier Begin. Cade in troppe contraddizioni, rispondendo alle
sottili e precise domande di Yitzhak Kahan e di Aharon Barak. Nega di avere ricevuto
avvertimenti da parte del Mossad e dei servizi segreti delle forze armate, elogia la
correttezza operativa del ministro della Difesa Sharon, e alla domanda se non era il caso
di riconsiderare il posto da assegnare ai cristiani negli avvenimenti, Begin, evitando una
risposta diretta, sostiene: “Rimanevano ancora 2.000 te rroristi da disarmare: e
questo dovevan o farlo i cristiani”. “Mai ci è venuto in mente che i falangisti, entrati
nei campi pe r combatte re contro i terroris ti, si sarebbero lasciati andare a orren de
atrocità, consideravamo le f alangi come unità militari disciplin ate”.
Il premier afferma di essere venuto a conoscenza della strage soltanto sabato 18
pomeriggio quando un’emittente straniera riferì di “un massacro di palestinesi in
campi profughi circondati da carri armati israeliani”.
Il 10 novembre a sedere davanti alla commissione è la volta del generale Rafael Eytan,
ma il suo interrogatorio avviene a porte chiuse. Il giorno dopo a deporre è il tenente
colonnello Avi Hebroni, capo di gabinetto del comandante dei servizi segreti delle
forze armate, il generale Yeoshoua Saguy. Hebroni rivela di aver passato notizia dei
massacri all’alba di venerdì 17 al consigliere di Sharon, il tenente colonnello Avi
Dudai il quale - interrogato - nega di avere ricevuto a quell’ora notizie sugli eventi.
E’ l’aiutante di Dudai, il tenente colonnello Reuven Gay, ad ammettere di aver
ricevuto la notizia da un assistente di Hebroni, ma di non averle dato peso perché non
confortata da conferme ufficiali.
Gay afferma di aver controllato la notizia presso l’ufficio operazioni delle forze armate,
ottenendo in risposta che nulla di eccezionale era segnalato da Beirut, dove invece dal
giorno prima si stavano massacrando centinaia di inermi civili.
Nella stessa giornate altre testimonianze alla commissione portano nuovi elementi
contraddittori ed accuse fra alti ufficiali che rivelano scollamenti, leggerezze ed
inefficienze nell’apparato militare e informativo delle forze armate dello stato ebraico.
Il vice - capo di stato maggiore, il generale Moshe Levy, afferma che mai le milizie
falangiste cristiane sono state invitate a non commettere “eccessi” durante la loro azione
nei campi di Sabra e Chatila, smentendo in questo modo le testimonianze del ministro
della Difesa Sharon e del capo di stato maggiore Eytan.
Ma non basta: un ufficiale dei servizi segreti delle forze armate riferisce alla commissione
che un assistente del ministro della Difesa sapeva del massacro almeno dieci ore prima di
quanto Sharon abbia dichiarato.
Il 17 novembre un testimone afferma che il premier Menachem Begin può essere stato
messo a conoscenza degli eventi 24 ore prima di quanto lui stesso abbia asserito.
“Voci” sulla carneficina arrivarono al vice-direttore generale del ministero degli
Affari Esteri, Hanan Bar'on, il quale afferma di averle girate al consigliere militare del
primo ministro.
Il 19 novembre tocca al “leader del Libano libero” - come egli stesso si definisce - il
maggiore Saad Haddad il quale smentisce la sua partecipazione e quella delle sue forze
nei massacri.
Il maggiore, mercenario degli israeliani, afferma che fra lui e gli israeliani, al tempo del
massacro, esisteva un accordo secondo il quale le sue milizie non dovevano varcare il
fiume Hawali, a nord di Sidone.
Il 21 novembre il rappresentante del ministro degli Esteri di Israele a Beirut,
Bruce Kashdan, racconta che l’inviato speciale degli USA Draper, venuto a
conoscenza nella giornata di venerdi 17 settembre del fatto che i falangisti erano entrati
a Beirut ovest, lo aveva avvertito che ciò avrebbe potuto provocare una tragedia. Gli
americani avrebbero avuto notizia dei massacri solo nella giornata di sabato, quando
Draper inviò il suo messaggio a Sharon, comunicato per telefono allo stesso Kashdan.
Draper era infuriato e sottolineava che gli israeliani si erano assunti la responsabilità della
zona. “Dovete far cessare i massacri - disse Draper - è una c osa oscena. Dov reste
vergognarvi. Stanno uccidendo dei bambini. Voi controllate la zon a e ne avete
dunque la responsabilità”.
Kashdan riferisce di aver trasmesso l’appello di Draper al quartier generale militare
israeliano a Beirut e al ministero degli Esteri.
Sempre secondo Kashdan, fonti americane e della croce rossa internazionale hanno
l’impressione che la maggior parte delle uccisioni avvennero durante la notte tra
venerdi e sabato, dopo cioè che gli israeliani, avendo già appreso che venivano uccisi
dei civili, avevano ordinato ai falangisti di cessare l'operazione. L’ordine fu impartito alle
11.30 di venerdì, ma il capo di stato maggiore israeliano Eytan permise ai falangisti di
restare nei campi fino alle 05.00 di sabato.
Il 25 novembre, sempre davanti alla commissione d’inchiesta, il ministro degli Esteri
Yitzhak Shamir è costretto ad ammettere di non aver dato particolare peso
all’informazione trasmessagli venerdì mattina 17 settembre dal ministro delle
Comunicazioni Mordechai Zippori, sul fatto che le milizie falangiste “si stavano
scatenando” nei campi palestinesi.
Ormai il quadro della situazione è chiaro.
La commissione di inchiesta avverte il premier Menachem Begin, i ministri degli Esteri e
della Difesa, Yitzhak Shamir e Ariel Sharon, il capo di stato naggiore, Raphael Eytan, il
capo del servizio informazioni militari, Yehoshua Saguy, il capo del Mossad (il cui nome
è coperto dal segreto di stato), il comandante militare della regione nord Amir Drori, il
comandante dei paracadutisti Amos Yaron, l’assistente personale del ministro della
Difesa Avi Dudai di avere quindici giorni di tempo per decidere se rettificare le loro
testimonianze, controinterrogare testimoni, esaminare il materiale raccolto dagli
inquirenti.
Il 7 febbraio 1983 la commissione di inchiesta israeliana su una possibile responsabilità
dello stato ebraico nel massacro dei campi profughi di Beirut presenta il suo rapporto
all’ufficio del primo ministro israeliano Begin.
Tra i principali provvedimenti suggeriti dalla commissione vi sono le dimissioni del
ministro della Difesa Ariel Sharon e del capo dei servizi segreti militari Yeoshoua Saguy.
Una conclusione tutto sommato soft, tenendo conto che gli inquirenti si limitano ad
attribuire “indifferenza” e “insensibilità” al capo del governo Menachem Begin.
Il capo di stato maggiore generale Rafael Eytan viene ritenuto responsabile: la sua
destituzione non viene suggerita soltanto perché è in procinto di concludere il suo
servizio nelle forze armate.
L’ex-comandante delle truppe israeliane a Beirut, generale Amos Yaron - uno dei
candidati a succedere a Eytan - viene di fatto bandito dall’esercito: la commissione,
infatti, suggerisce di non affidargli nessun compito di comando per tre anni.
Il ministro degli Esteri Yitzhak Shamir viene aspramente biasimato e criticato dalla
commissione per negligenza: essendo stato informato degli eventi non ha provveduto ad
intervenire per risparmiare la vita alla maggior parte delle vittime.
Al comandante della regione militare nord, generale Amir Drori, è attribuita una
semplice corresponsabilità, ma nessun suggerimento viene avanzato nei suoi confronti.
Nei fatti la commissione d’inchiesta mette in crisi l’intero establishment politico e militare
al potere in Israele, condannandone moralmente i comportamenti.
L’11 febbraio il ministro della Difesa Sharon si dimette dal suo incarico, ma
paradossalmente rimane nel governo. Continuerà a far parte del gabinetto Begin come
ministro senza portafoglio.
La prima dichiarazione di Sharon dopo le dimissioni è ancora una volta improntata alla
tracotanza. Afferma che il rapporto della commissione mette sotto accusa l’intero stato
ebraico, tutto il popolo israeliano, non lui soltanto: “Debbo chiarire - afferma - le
principali ragioni del mio comportame nto e le conseguenti decisioni dopo la
conclusione del rapporto. Non posso accettare neppure pe r un minuto....il capitolo
che esamina le indirette responsabilità di Israele per gli avvenimenti di S abra e
Chatila. Giu dicate da s oli come quel paragrafo su onerà alle orecchie di ogni
person a, in ogni lingua, dovunque sulla faccia della terra. Sarà il marchio di Cain o
sulla nostra fronte per le future generazion i”.
Il sapore della beffa sta nel fatto che il posto di Sharon viene assunto dall’ambasciatore
di Israele negli Stati Uniti Moshe Arens, considerato un “falco”, politicamente più
estremista di Sharon stesso.
Il 16 maggio 1983 altra beffa: il brigadiere generale Amos Yaron, già comandante delle
truppe israeliane a Beirut, censurato dalla commissione d’inchiesta, viene promosso capo
del personale grazie all’intervento diretto del premier Menachem Begin il quale
annuncerà le sue dimissioni da capo del governo nel settembre 1983, pochi giorni prima
del primo anniversario delle stragi di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi
divenuti il simbolo della crisi politica e morale aperta in Israele dopo l’inizio della guerra
in Libano.