sulla figura dell`eroe nel cinema italiano degli anni

Transcript

sulla figura dell`eroe nel cinema italiano degli anni
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione periodica
coordinatore
FRANCESCO LO MONACO
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
Segreteria di Redazione
STEFANIA CONSONNI
Università degli Studi di Bergamo
P.za Rosate 2, 24129 Bergamo
email: [email protected] - web: www.unibg.it/paragrafo
webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE
La veste grafica è a cura della Redazione
La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoli
è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-96333-02-0
Sestante Edizioni / Bergamo University Press
Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo
tel. 035-4124204 - fax 035-4124206
email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it
Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
V (2009)
Sommario
VISIONI
§1. MASSIMILIANO FIERRO, L’intervallo. Cuciture del visibile
7
§2. CHIARA BORRONI, Il loner. Sulla figura dell’eroe nel cinema italiano
degli anni Sessanta e Settanta
33
§3. MAURO GIORI, “Una rivista equilibrata per spettatori intelligenti”.
Appunti per una storia di Films and Filming (1954-1990)
57
SPETTACOLI
§4. GENNARO DI BIASE, Dalla struttura scissa all’inversione. Commento
a Natale in casa Cupiello
91
§5. EMANUELA MARZOLI, Il Casino di campagna di Pietro Ruggeri
da Stabello
115
IMMAGINARI
§6. MASSIMILIANO VAGHI, Dall’indomanie all’Inde des savants. L’idea
dell’India in Francia (secc. XVIII-XIX)
145
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
167
NUMERI ARRETRATI
169
§
2
Chiara Borroni
Il loner
Sulla figura dell’eroe
nel cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta
Nella complessa rete di relazioni che intreccia cinema e identità nazionale
italiana nel periodo compreso fra il boom economico e gli anni di piombo, i cosiddetti “generi di profondità”1 rivestono un ruolo significativo e
ancora non adeguatamente approfondito. L’etichetta si riferisce a quei
film, prodotti per una distribuzione nelle sale di seconda e terza visione,
attraverso i quali il sistema industriale italiano, fra gli anni Cinquanta e la
fine degli anni Settanta, cioè fino all’avvento delle tv private, si garantisce
dei ricavi a lungo termine da convertire in altre produzioni.2
La riflessione intorno al formarsi dell’identità nazionale italiana nei
decenni in questione ha sempre attribuito alla commedia all’italiana un
ruolo determinante:3 la messa in scena di maschere e tipi sociali, l’atten1
Cfr. Stefano Della Casa, “I generi di profondità”, in Sandro Bernardi (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. IX: 1954-1959, Venezia: Marsilio, 2004, p. 294.
2
Alla base di questo sistema virtuoso stanno alcuni fattori di ordine economico-finanziario e produttivo-distributivo come il reperimento dei capitali attraverso un sistema di
finanziamenti anticipati, il redditizio reimpiego sistematico di apparati scenografici, costumi e perfino di materiale girato, e lo sfruttamento di un circuito distributivo che si organizza gerarchicamente in sale di prima, seconda e terza visione garantendo lo sfruttamento sul lungo periodo. Cfr. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico
in Italia, 1945-1965, Milano: Bompiani, 1974, pp. 165-75; Lorenzo Ventavoli, Pochi, maledetti e subito, Torino: Museo Nazionale del Cinema, 1992, pp. 104-09.
3
“Possiamo pensare alla ‘commedia all’italiana’ come ad un’epopea comica del dopoguerra, che raccoglie nei suoi generi e sottogeneri, nei suoi filoni e nella sua gamma tematica un certo modo di guardare alla realtà sociale, morale, psicologica, culturale dell’Italia
della Ricostruzione […] un grande magazzino di tematiche ricorrenti, di figure sociali e di
intrecci narrativi, che trovano nella comicità la forma di espressione più appropriata e diretta, oppure più esasperata e stralunata, surreale e grottesca, per rappresentare ‘da vicino’
la vita quotidiana degli italiani e le caratteristiche peculiari dei nuovi ceti usciti dalla guerra”. Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Roma: Bulzoni, 2003, p. 43.
PARAGRAFO V (2009), pp. 33-55
34 /
CHIARA BORRONI
zione al dato storico-sociologico e la struttura mitografica dei film hanno
offerto un’imprescindibile chiave di analisi del fenomeno.4 Tuttavia, rispondendo a logiche produttive differenti e sfumando la funzione ‘specchio’ tipica della commedia, i generi di profondità attivano dinamiche riflessive meno eclatanti ma forse proprio per questo ancor più profonde.
Nel periodo preso in considerazione, tre generi di profondità si impongono sugli altri per ragioni quantitative e di longevità storica: lo storico-mitologico, la cui presenza si riscontra tra 1957 e il 1964, il western
che si sviluppa negli anni tra il 1964 e il 1978, e il poliziesco che caratterizza invece gli anni compresi tra il 1972 e il 1978.5 Si tratta di tre formule narrative che monopolizzano il mercato popolare accompagnando,
con un curioso controcanto di storie metaforicamente assai suggestive, il
brusco passaggio del paese dalla sua fase ancora pre-industriale alla repentina modernizzazione, e infine all’altrettanto fulminea crisi di questo
stesso sistema.
Le dinamiche culturali cui alludiamo possono essere chiarificate richiamando la nozione di visibile introdotta da Pierre Sorlin.6 Secondo Sorlin,
il film è uno strumento di organizzazione dello sguardo sociale: un mezzo
di determinazione che regola la visibilità sociale ma nello stesso tempo assorbe le sollecitazioni del tessuto di riferimento.7 Scrive: “le fluttuazioni
del visibile non hanno niente di aleatorio: rispondono ai bisogni, o al rifiuto di una formazione sociale. Le condizioni che influenzano le metamorfosi del visivo, e il campo stesso del visivo, sono strettamente legati: un
4
Cfr. Gianni Canova, “Forme, motivi e funzioni della commedia” in Sandro Bernardi
(a cura di), op. cit., pp. 98-110, e Aldo Viganò, “La commedia all’italiana” in Giorgio De
Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X: 1960-1964, Venezia: Marsilio, 2001,
pp. 235-52.
5
Gli altri tre generi che si affermano i questo periodo, cioè il film di spionaggio, la fantascienza e il film musicale, ebbero una vita molto più breve, benché singolare, incidendo
meno sull’immaginario. L’horror, invece, segue un percorso molto più duraturo e articolato, sopravvivendo alla crisi degli anni Settanta e prolungandosi – caso unico nella cinematografia italiana – fino ad oggi, legandosi meno dunque ai decenni in oggetto.
6
“Il visibile di un’epoca è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo, e ciò che gli spettatori accettano senza stupore. […] Il visibile è quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un’epoca data”. Pierre Sorlin, Sociologie du
cinéma (1977), trad. it. di Luca S. Budini, Sociologia del cinema, Milano: Garzanti, 1979,
p. 68.
7
Per tessuto sociale di riferimento si intende quel che Michel Serceau (in Étudier le cinéma, Paris: Éditions du Temps, 2001, p. 33) definisce “mondo di referenza” ovvero “mondo
della cultura e del vissuto dello spettatore, senza i quali le finzioni e le rappresentazioni non
funzionano, non acquisiscono significato”.
IL LONER
/ 35
gruppo vede ciò che può vedere, e ciò che è capace di percepire definisce il
perimetro entro il quale esso è in grado di porre i propri problemi”.8
Queste osservazioni sembrano particolarmente pertinenti all’analisi di
una produzione cinematografica come quella di genere che si diffonde capillarmente, interessando larghe fasce della popolazione per periodi lunghi, e assumendo, pertanto, un ruolo emblematico rispetto a quei processi negoziali che governano l’esperienza cinematografica.9 In questo senso
il genere acquisisce quella doppia funzione rituale e culturale che assume
un ruolo chiave se letta nella sua relazione con le pratiche sociali esistenti.
Quando Cawelti introduce il termine formula per definire il genere, scrive: “le formule sono prodotti culturali collettivi che a turno […] diventano mezzi convenzionali per rappresentare e riferire certe immagini, simboli, temi e miti”.10
La reiterazione narrativa, formale, iconografica, e insieme produttiva e
fruitiva, tipica del sistema di profondità, può dunque diventare uno strumento privilegiato di lettura del visibile sociale. E ciò anche in quanto
specifica espressione del ‘popolare’, di una cultura cioè che si può definire
come “tutto ciò che non risulta marcato dal modo di produzione, ciò che
si autoenuncia come privo di marche di enunciazione, ed entra nel circuito della ‘proprietà comune’ che amministra i clichè collettivi, gli standard
di proiezione del pubblico”.11
1. Maciste americano
Dal rapido esame delle date che segnano l’inizio e la fine della vita di
ogni genere, appare subito chiaro che, nel corso dei vent’anni compresi
tra il 1958 e il 1978, si assiste a una sorta di passaggio di testimone da un
genere all’altro, e che questi, pur nelle differenze di longevità e consisten8
Pierre Sorlin, op. cit., p. 69.
Cfr. Ruggero Eugeni, Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico, Milano: Vita e Pensiero, 1999.
10
John G. Cawelti, Adventure, Mystery and Romance: Formula Stories as Art and Popular
Culture, Chicago: University of Chicago Press, 1976, pp. 20-21.
11
Maurizio Grande, op. cit., p. 203. Altra possibile definizione del ‘popolare’ può essere
formulata sulla base di tre parametri: la diffusività, la polivalenza, l’indiziarietà, perfettamente stigmatizzati dalla produzione in oggetto. Cfr. Mariagrazia Fanchi e Elena Mosconi, Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia 1930-1960, Roma: Biblioteca di Bianco & Nero, 2002, pp. 14-19.
9
36 /
CHIARA BORRONI
za, affrontano una parabola di sfruttamento distributivo nel complesso
piuttosto rapida.
Ciò che importa mettere in evidenza è però come, al di là del succedersi delle diverse formule narrative e iconografiche, quello che si codifica
è, in sostanza, uno schema specifico nel quale motivi migrati dall’immaginario americano all’Italia del dopoguerra si rivelano, non senza una inevitabile rielaborazione, particolarmente sintomatici della crisi che va via
via profilandosi.
L’Italia è d’altra parte il paese europeo che più di ogni altro assorbe il mito americano nel secondo dopoguerra, rielaborandolo, più o meno profondamente, in modo sistematico. Il ruolo della potenza americana nella liberazione dalla dittatura fascista ma soprattutto l’individuazione da parte degli
Stati Uniti di una posizione nevralgica dell’Italia nell’ambito della politica
culturale del Piano Marshall, contribuiscono alla massiccia diffusione del
prodotto cinematografico hollywoodiano nell’immediato dopoguerra.12
Anche se, in realtà, la mitologia hollywoodiana non è mai stata completamente bandita dagli schermi e dall’immaginario italiani, neppure fra
il 1938 e il 1945 quando i provvedimenti del regime avevano bloccato
l’importazione cinematografica dagli Usa, nel corso della seconda metà
degli anni Quaranta, la riemersione di gran parte dei materiali censurati
provoca un vero e proprio ‘tripudio’ di immaginario americano. Torna
così sugli schermi anche quello che Bazin considerava “il cinema americano per eccellenza”, cioè il genere western con tutto il suo portato ideologico: la mitologia della frontiera, il dominio sulla natura da parte dell’uomo, il ristabilimento di un ordine giusto per opera di un eroe esemplare;
tutti temi che ben si adattano allo spirito di una nazione in formazione.
La poetica della frontiera e il profilo dell’eroe che, anche se non integrato nella comunità, agisce mosso dall’amore per la giustizia e per la libertà ristabilendone l’ordine e garantendone la continuazione, sembrano
rispondere perfettamente alle esigenze della politica culturale nell’Italia
12
Tra le numerose pubblicazioni sulla politica culturale americana nell’ambito dell’European Recovery Program cfr. David W. Ellwood e Gian Piero Brunetta (a cura di), Hollywood in Europa. Industria, politica, pubblico del cinema, 1945-1960, Firenze: La Casa
Usher, 1990; David W. Ellwood, “L’impatto del Piano Marshall sull’Italia, l’impatto dell’Italia sul Piano Marshall”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità
europea nel cinema italiano dal 1945 a miracolo economico, Torino: Fondazione Giovanni
Agnelli, 1996, pp. 87-114; Marino Livolsi, Schermi e ombre. gli italiani e il cinema nel dopoguerra, Firenze: La Nuova Italia, 1988; Roberto Campari, Hollywood-Cinecittà, il racconto che cambia, Milano: Feltrinelli, 1980.
IL LONER
/ 37
degli anni Cinquanta13 che affrontava la propria ricostruzione sotto l’egida della potenza americana e nel solco dei valori moralmente conservatori
sostenuti dalla Democrazia Cristiana.
Una delle prime complesse manifestazioni di questa commistione di immaginari si incontra nel genere storico-mitologico, che, rinato nella seconda
metà degli anni Cinquanta, assume una forma insieme antica e moderna,
mescolando vecchi stilemi nazionali a motivi migrati dall’America.14 Recuperando una tradizione cinematografica tipicamente italiana (quella del cinema dei forzuti dell’epoca del muto)15 e un sostrato culturale altrettanto
nazionale (la mitologia classica, la storia greco-romana e la narrazione biblica), il peplum degli anni Cinquanta e Sessanta tenta di assumere le caratteristiche spettacolari del kolossal (colore, cinemascope, scene di massa) perdendo le venature decadenti del muto e proponendo la mitologia rassicurante di un eroe epico che richiama quello del western classico americano.16
13
Cfr. Gian Piero Brunetta, “La lunga marcia del cinema americano in Italia tra fascismo e guerra fredda”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Hollywood in Europa, cit., p. 78.
14
Cfr. Ruggero Eugeni, “Sviluppo, trasformazione e rielaborazione dei generi” e Raffaele De Berti, “Internazionalizzazione del cinema italiano e importazione di modelli”, in
Sandro Bernardi (a cura di), op. cit., pp. 77-97 e 329-42, in particolare i paragrafi “Avventure, romanzi e finti colossi” (pp. 89-91) e “Modelli d’importazione: il kolossal storico”
(pp. 337-41).
15
Nel corso dei primi anni del secolo il cinema italiano, mescolando la magniloquenza
dell’opera e i motivi narrativi del melodramma alla componente fisica dell’arte circense
nonché al gusto per l’avventuroso ereditato della letteratura di Emilio Salgari, elabora la
sua nuova forma di spettacolo: il cinema storico-mitologico. Tra il 1908 anno del primo
Gli ultimi giorni di Pompei di Luigi Maggi, e il 1926, anno dell’ultima versione muta del
film firmata da Carmine Gallone, vengono prodotti più di una quarantina di film a soggetto storico-mitologico (19 contando solo le differenti versioni de Gli ultimi giorni di
Pompei e Quo vadis?). Con gli anni Dieci e Venti, e soprattutto dopo il successo del forzuto Maciste creato da Pastrone e D’Annunzio per Cabiria, il filone specifico che prende
forma riserva un posto d’onore a questi fenomeni di prestanza fisica che attraversando le
situazioni più disparate trovavano il pretesto per giustificare la loro esibizione. Acrobati,
sollevatori di pesi, scaricatori di porto come quel Bartolomeo Pagano che diede volto e
corpo a Maciste, questi uomini dalla forza straordinaria trasferivano nel cinema lo spirito
da attrazione fieristica e si davano come uno dei topoi narrativi e visivi del primo vero genere del cinema italiano. Nella ricca bibliografia sul cinema muto cfr. tra gli altri: Mario
Verdone (a cura di), Il film atletico e acrobatico, Torino: Istituto del Cinema, 1961; Vittorio Martinelli e Mario Quargnolo, Maciste & Co. I giganti buoni del muto italiani, Gemona: Cinepopolare, 1981; Alberto Farassino e Tatti Sanguinetti, Gli uomini forti, Milano:
Mazzotta, 1983; Monica Dall’Asta, Un cinéma musclé. Le surhomme dans le cinéma muet
italien (1913-1926), Crisnée: Yellow Now, 1992.
16
Cfr. Giampiero Frasca, C’era una volta il western. Immagini di una nazione, Torino:
UTET, 2007, p. 5.
38 /
CHIARA BORRONI
Parallelamente agli eroi che cavalcano attraverso le praterie e le montagne rocciose costruendo il mito di fondazione della nazione americana,
gli eroi culturisti del peplum (tutti americani: Steeve Reeves, Gordon
Mitchell, Gordon Scott, Reg Park, Brad Harris, o almeno americani nel
nome, come Alan Steel [Sergio Ciani], Kirk Morris [Adriano Bellini]) dilagano sugli schermi italiani dando vita a una sorta di nostrano mito di
(ri)fondazione che, traslitterando lo spirito di fiduciosa rinascita del paese, soddisfa le esigenze del pubblico e della classe politica dominante.17
L’eroe non è più uno scaricatore di porto robusto o un forzuto da circo come ai tempi del muto, quanto, piuttosto, un professionista della
cultura fisica, una disciplina tipicamente, e all’epoca quasi unicamente,
americana. Il buon paesano provvisto di una forza straordinaria che necessita di un signore da seguire e servire, diventa qui un essere mitico dotato di una forza che va al di là dell’umano.
Muscoli e nudità ne sono le costanti raffigurative e ogni elemento caratterizzante la sua immagine corporea concorre a sottolinearle: il costume minimale, che dovrebbe richiamare il legame con una supposta antichità, ma anche il cinturone e i bracciali in cuoio, che rimandano alla
pratica del sollevamento pesi, attirano esplicitamente l’attenzione sull’abitudine allo sforzo fisico. L’eccedenza corporea della figura mette anche in
risalto la natura primitiva ma rassicurante della forza di questo eroe e la
sua matrice prettamente muscolare: si tratta di un uomo nudo, che non
ha bisogno di nascondersi perché puro e forte. Ma non si tratta solo di
uno che rinuncia a una qualunque forma di mascheramento: egli è, anche
17
Significativa a questo proposito la dichiarazione rilasciata alla stampa dal sotto segretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Oscar Luigi Scalfaro che dirige, a partire
dal 1953, l’Ufficio Centrale per la Cinematografia: “Si vuole un’industria forte e sana e
un sempre maggiore impegno sul piano artistico e culturale e morale. […] Il primo requisito di un film è quello di divertire, di distendere, di offrire une senso di ottimismo e una
visione più serena della vita agli uomini che hanno sopportato e sofferto le fatiche, i disagi
di una giornata di lavoro. Non si chiede affatto quindi che tutti i film siano a tesi, o che
in tutti i film ci sia un impegno per determinate istanze sociali o morali specifiche. Tuttavia, è lecito e doveroso chiedere che tutti i film siano rispettosi delle esigenze spirituali dei
singoli e di tutto un popolo. [...] Il problema è stato discusso con i produttori e con le
commissioni interessate e come risultato di queste conversazioni sono stati enucleati alcuni principi sintetizzabili in tre punti: 1) non è ammissibile che in un film sia avvilito e
umiliato l’ideale della patria; 2) sarebbe di pessimo gusto, negativo e incivile tollerare
l’offesa ai principi della religione [...]; 3) è necessario anche rispettare la morale della famiglia, principio umano prima ancora che cristiano”. Cit. in Mino Argentieri, La censura nel
cinema italiano, Roma: Editori Riuniti, 1974, pp. 117-18.
IL LONER
/ 39
e soprattutto, un guerriero nudo, il che significa un combattente forte
per natura, tanto intrinsecamente invincibile da non necessitare di armature o protezione, né di armi particolari.
Come l’omologo in stivali e speroni proposto dal western americano
classico, anche il profilo di questo ipertrofico eroe demiurgo si definisce,
fin dal momento della sua entrata in scena, rispetto alle due stesse variabili fondamentali: il dominio dello spazio e il ristabilimento dell’ordine
giusto.
Alla stregua del suo antesignano americano, l’eroe culturista del peplum intrattiene un rapporto privilegiato con lo spazio che però, contrariamente a quello, domina e doma senza alcuna fatica. Non a caso la sua
entrata in scena è immediata, mai subordinata a una vera contestualizzazione spaziale, come accade invece nel western, dove grazie al lirismo
dell’incipit il paesaggio ha il tempo di assurgere a personaggio a tutto
tondo.
Completamente privo di segni di inquietudine o cedimento con la sua
collocazione centrale nell’inquadratura, l’eroe, divenendo il punto di concentrazione assoluto della composizione dell’immagine, sottomette alla
sua presenza tanto lo spazio, vagamente descritto, quanto gli elementi
stessi della natura, che si limita a fargli da sfondo (vegetazione, rocce, animali). A differenza dell’eroe del western classico, la cui forza deriva dalla
conoscenza della natura, entità estranea che impara a domare, questi non
imposta alcuna dialettica con essa: grazie alla statura mitica e semi divina,
la sovrasta totalmente.
Quest’aura sacrale gli consente di assumere uno status di superiorità
rispetto allo spazio profano che lo attornia: il suo sguardo fermo e sicuro,
oltre che essere direzionato dall’alto verso il basso, è infatti sempre rivolto
fuori campo, verso un pericolo che non divide con lui lo spazio dell’azione e che, anche per questo, non lo intimorisce per nulla. Anche quando il
pericolo entra in campo, come negli scontri a mani nude con le belve feroci che aprono spesso i film, è il caso per esempio di Maciste nella valle
dei re (dir. Carlo Campogalliani, 1961), Maciste alla corte del Gran Khan
(dir. Riccardo Freda, 1961), Maciste l’uomo più forte del mondo (dir. Antonio Leonviola, 1962) o Ercole l’invincibile (dir. Alvaro Mancori, 1965), il
duello è semplicemente funzionale alla dimostrazione di forza che porterà
all’inevitabile sottomissione della fiera stessa.
Solo quando l’eroe si manifesta dunque lo spazio, fino ad allora semplicemente descritto, sembra improvvisamente legittimarsi proprio attra-
40 /
CHIARA BORRONI
verso la materializzazione ierofanica della sua presenza: lo spazio omogeneo e senza spessore trova finalmente il proprio fuoco.18
Come fa con lo spazio della natura (inquadrature angolate dal basso
verso l’alto, scoprono normalmente l’eroe su un’altura, stagliato contro
un cielo azzurro terso e senza nuvole), allo stesso modo, nel prosieguo
della vicenda, egli sovrasterà e ammansirà l’ordine che regge lo spazio antropizzato e sociale della città. Dopo la presentazione che lo coglie nel
contesto pseudo bucolico, l’eroe si sposta infatti in un contesto urbano,
nel quale si muove con la stessa implacabile sicurezza, destreggiandosi
nelle umili taverne tanto quanto nei sontuosi palazzi reali che fanno da
sfondo alle sue gesta.
Pur dominandolo, l’eroe culturista e apolide del peplum resta una forma aliena tanto rispetto allo spazio quanto alla comunità, anche se si fa
portatore di un messaggio potentemente sociale: la sua alterità/superiorità
non veicola infatti inquietudine ma una rassicurante fiducia nell’assolutezza dei valori di ordine e giustizia di cui è simbolo. Non eroe faber fortunae suae, come nel western americano, ma eroe per nascita, egli incarna
comunque una funzione sociale di tipo ordinativo; l’ordine che ripristina
non è però democratico ma oligarchico.
Oltre al suo rapporto con lo spazio, naturale o sociale che sia, l’altro
elemento sul quale la rappresentazione si concentra è la messa in scena
del corpo.
Spingendosi oltre tanto allo status di maschera quanto a quello di
macchietta (funzioni riservate ai personaggi di contorno),19 il corpo di
questo eroe finisce per divenire icona, puro autoreferente, perdendo ogni
possibilità concreta di immanenza nella natura che lo circonda. Divenuto
asetticamente invincibile, l’eroe culturista dimentica ogni germe della forza animalesca e primitiva tipica dei forzuti del muto: sublimata la componente ferina (nonostante le pelli che lo rivestono) come quella umana
(nonostante i legami che temporaneamente intesse), finisce per rappresentare l’astrazione, quella che lo condanna all’erranza dell’apolide. Alieno ma non estraneo allo spazio che domina, il culturista è superiore, ubi-
18
Cfr. Mircéa Eliade, Le sacré et le profane (1965), trad. it di Edoardo Fadini, Il sacro e il
profano (1967), Torino: Bollati Boringhieri, 2006, p. 19.
19
Cfr. Gianfranco Bettettini, “Il corpo del soggetto enunciatore nel cinema e negli audiovisivi”, in Virgilio Melchiorre e Annamaria Cascetta (a cura di), Il corpo in scena. La
rappresentazione del corpo nella filosofia e nelle arti, Milano: Vita e Pensiero, 1983, p. 113.
IL LONER
/ 41
quo, e proprio in virtù della sua statura mitica. Anche per questo suo essere per nascita super partes – cosa che si può leggere anche come mancanza di identità specifica – egli diviene una sorta di giustiziere, colui che,
per eccellenza, risarcisce i torti.
Come il profilo psicologico, la forma corporea dell’eroe culturista è
tanto standardizzata e cristallizzata che la nudità estrogenata di derivazione statunitense ne diventa codificazione stereotipante: benché Steve Reeves rimanga una delle icone del genere, forse perché il primo ad aver fissato le coordinate estetiche di questa tipologia in quello che si considera
l’archetipo del peplum Le fatiche di Ercole (dir. Pietro Francisci, 1957),
essa si ripropone in maniera sempre identica a se stessa indipendentemente dall’atleta (più che attore) chiamato a dare un corpo all’eroe.
Se come scrive Dyer “la distinzione tipo sociale/stereotipo è sostanzialmente di grado”,20 nel caso del peplum si può affermare che l’eroe incarna uno stereotipo puro che blocca l’articolazione rappresentativa al suo
grado zero. Perfettamente rispondente alla caratteristica dello stereotipo
di portare con sé una narrazione implicita, l’eroe culturista è impossibilitato a ricoprire ruoli diversi rispetto a quello in questione: nel momento
della sua epifania sullo schermo, reca impresso sui suoi stessi muscoli tutto quel portato ordinativo che lo stereotipo stesso impartisce alla raffigurazione come alla concezione sociale che sottende.21
Pur rappresentando la rassicurante e ottimistica figura che conosce un
successo folgorante alla fine degli anni Cinquanta, egli è destinato però a
un rapido tramonto per cedere il testimone a quegli eroi che, a partire dagli anni Sessanta e poi per tutti gli anni Settanta, incarneranno una rielaborazione diversa del mito americano nell’immaginario italiano e che si
muoveranno sempre più esplicitamente nella direzione della manifestazione del disagio e della crisi stigmatizzate della loro solitudine.
20
Richard Dyer, The Matter of Images: Essays on Representation (1993), trad. it. di Carla
Capetta e Davide Oberto, Dell’immagine. Saggi sulla rappresentazione, Torino: Kaplan,
2004, p. 23.
21
“I sistemi sociali formano un’immagine ordinata e più o meno coerente del mondo a
cui le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre capacità, i nostri agi e le nostre speranze di
sono adattati. [...] In questo modo le persone e le cose hanno un loro posto preciso e si
comportano secondo certe previsioni. In esso ci sentiamo a nostro agio; vi siamo inseriti;
ne siamo membri; sappiamo come rigirarci. Vi troviamo il fascino del sicuro”. Walter
Lippmann, Public Opinion (1922), trad. it. di Cesare Mannucci, L’opinione pubblica, Roma: Donzelli, 2004, pp. 91-92.
42 /
CHIARA BORRONI
2. Quando il colosso si riveste. Il loner
L’eroe del cinema di profondità si caratterizza dunque fin da subito per i
suoi forti tratti stereotipici. La sua funzione risponde infatti, come indicato da Lippman,22 all’esigenza di semplificare ed economizzare lo sforzo
percettivo e interpretativo secondo un’attitudine riconducibile all’approccio consolatorio di quel “fruitore ingenuo” che è, secondo Umberto
Eco,23 quello tipico del prodotto popolare. Non solo però. Grazie a quella
“esplicitazione del visibile” che, secondo Dyer, è funzione fondamentale
dello stereotipo,24 la forma data alla raffigurazione di questo eroe rende
anche immediatamente manifesta la sua funzione sociale acquisita.
Tanto più significativo diventa, in questa prospettiva, il fatto che molto rapidamente il cinema di genere italiano approdi a una riformulazione
autonoma e personale degli stereotipi tipici di un immaginario straniero
fino a poco prima estraneo alla propria tradizione; e inoltre che, proprio
attraverso questa rielaborazione, si espliciti un visibile che, nel suo proiettarsi in eroi della crisi, sembra darsi come uniforme per un periodo di almeno quindici anni.
Già nel cinema storico-mitologico, fin dai suoi inizi, si può riscontrare
la presenza di un tipo fisico di eroe alternativo al culturista, destinato a
dare corpo alle figure di derivazione storica o biblica e connotato da una
maggiore problematizzazione psicologica. È però verso la fase declinante
del genere che questo si afferma in maniera maggiormente dialettica rispetto al culturista e incarnando quella vena più malinconica e crepuscolare dell’identità finzionale che, migrando poi nei generi successivi, inizierà a delineare la forma dell’eroe solitario, alieno allo spazio fisico e sociale che lo circonda, che caratterizzerà tutto il cinema di genere fino alla
fine degli anni Settanta.
Quando il peplum comincia a lavorare sul personaggio inserendo il
germe del dubbio e della crisi personale, l’eroe che viene a definirsi si avvicina in modo più esplicito a quello del western americano nella sua fase
22
Ivi, pp. 111-18.
Umberto Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare (1976),
Milano: Bompiani, 1998, pp. 12-13.
24
“Il ruolo dello stereotipo è quello di rendere visibile l’invisibile, eliminando il pericolo che l’invisibile ci colga di sorpresa; e di rendere saldo, certo e distinto ciò che è in realtà
fluido e molto più vicino alla norma di quanto il sistema di valore dominante voglia ammettere”. Richard Dyer, op. cit., p. 25.
23
IL LONER
/ 43
Fig. 1. I due eroi a confronto in Ursus il terrore dei Kirghisi
post-classica,25 il momento in cui, cioè, alla certezza rassicurante del mito
comincia a sostituirsi il dramma esistenziale della tragedia. Al crepuscolo
del mito corrisponde anche una progressiva complicazione della prospettiva relazionale dell’eroe tanto dal punto di vista dello spazio che da quello dell’ordine sociale.
Un esempio emblematico della compresenza dialettica delle due tipologie di eroi si ha proprio in una delle ultime pellicole dello storico-mitologico: Ursus il terrore dei Kirghisi (dir. Ruggero Deodato e Antonio Margheriti, 1964). Per la prima volta, si assiste qui all’affaticamento del rassicurante eroe culturista da una parte e, dall’altra, alla comparsa di un eroe
diverso, più enigmatico e maggiormente incline a interpretare le esigenze
dei propri tempi (Fig. 1). Un personaggio nuovo che può essere considerato come il primo esempio di quella figura dalla personalità solitaria e
marginale, refrattario alle relazioni sociali stabili come all’interazione con
la comunità, per definire il quale vogliamo mutuare dalla psicologia
25
“L’apparizione del nuovo western corrisponde a una triplice trasformazione della sua
mitologia, che si manifesta in primo luogo con una crisi dell’epica. [...] La situazione
comporta ormai tre termini: il bene è diventato più sfumato, l’eroe entra nella città da cavaliere solitario, la pacifica e poi l’abbandona, rifiutato a sua volta. [...] L’epica mirava a
un compimento che coronasse e giustificasse l’azione (l’Ovest conquistato o la caduta di
Troia), al contrario il nuovo eroe è escluso dalla sua vittoria [...] un eroe deluso affronta
d’ora in poi la dissociazione dalla vita sociale”. André Glucksmann, “Le avventure della
tragedia”, in Raymond Bellour (a cura di), Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, Milano: Feltrinelli, 1973, pp. 76-77.
44 /
CHIARA BORRONI
l’etichetta di matrice tipicamente americana di loner, ricorrente non solo
nella letteratura ma anche spesso associata proprio alla personalità di certi
eroi del cinema western.
Innanzitutto non ci si trova più nell’antichità e l’eroe culturista non è
più un’entità atemporale e semidivina ma il capo di una popolazione barbarica sedentaria: i Circassi. Non più nudo, Ursus (il culturista Reg Park)
si presenta vestito come un uomo del suo tempo ed entra in scena a cavallo come un capitano di cavalleria che, attraversando l’accampamento, impartisce ordini ai propri uomini. Nonostante la consueta sicurezza che
contraddistingue la figura al momento dell’entrata in scena, di lì a poco
egli comincerà a mostrare vari segni di atipicità. Questi possono facilmente essere interpretati come i primi sintomi di cedimento della sua invincibilità rassicurante: si innamora della perfida regina nemica, viene ferito
gravemente e, sotto l’effetto di una pozione magica, arriva perfino a insidiare la propria gente. Indebolito e incapace di dominare l’azione, lascia
così spazio al secondo eroe che nel frattempo è entrato in scena: il fratello
Ilo (l’attore Ettore Manni). Quando questi arriva furtivamente emergendo
dalla radura da solo e a cavallo, viene addirittura creduto minaccioso. Appare chiara dunque subito l’opposizione netta tra i due: il primo presentato come un capo che attraversa sicuro lo spazio che sovrasta, il secondo come un uomo enigmatico e sfuggente che usa la natura per nascondervisi.
Differenza questa ribadita nel finale: mentre Ursus festeggia, Ilo, seguendo
il paradigma tipicamente western dell’esclusione dalla celebrazione epica
della vittoria (stigmatizzato nel dittico fordiano Sentieri selvaggi / L’uomo
che uccise Liberty Valance),26 sale a cavallo e alzando una mano in segno di
saluto galoppa lontano verso le montagne (Fig. 2).
Si afferma dunque qui la presenza di un nuovo eroe dalle caratteristiche western che, nel suo ruolo di transizione, può essere considerato come
il primo loner del cinema di genere italiano: ha origini misteriose, sulle
quali conserva una spiccata aura di enigmaticità, si appropinqua da marginale alla soglia dello spazio comunitario, ristabilisce l’ordine non tanto per
vocazione quanto per necessità, e poi abbandona la comunità per nascondersi nuovamente, mimetizzandosi, nella natura dalla quale proviene.
Verso la metà degli anni Sessanta si concretizza dunque, con questo
passaggio, la fine definitiva del peplum che cede il passo al nuovo genere:
26
Per la definizione di “eroe separato” proprio nella sua accezione di esclusione dalla celebrazione della vittoria e in particolare nell’opera di Ford, cfr. Giampiero Frasca, op. cit., p. 51.
IL LONER
/ 45
Fig. 2. Ilo lascia la comunità e si reimmerge nella natura in Ursus il terrore dei Kirghisi
il western italiano, forma apparentemente più eclatante di migrazione dei
modelli rappresentativi americani ma anche, proprio per questo, terreno
più difficoltoso per una rielaborazione.
Questi anni rappresentano un momento cruciale per l’Italia. Non solo
infatti dal punto di vista sociale, economico e politico, si apre quella fase
critica in cui si cominciano ad avvertire i contraccolpi della fine del boom
economico, ma, dal punto di vista cinematografico, si assiste anche alla
diffusione di un nuovo paradigma del genere western americano. Metabolizzato lo shock della Seconda Guerra Mondiale e ormai alle prese con
il clima della Guerra Fredda, il cinema americano comincia infatti a guardare al mito con occhio più critico producendo opere che sfumano il manicheismo moralizzatore della classicità in una galleria di rappresentazioni
progressivamente venate di ombre e malinconia.
Mentre il pubblico popolare italiano familiarizza dunque con le gesta di
eroi americani diversi, ambigui e travagliati, come quelli dei film di Anthony Mann, di Bud Boetticher o dell’ultimo John Ford, assiste anche parallelamente al profilarsi di un nuovo eroe autoctono. Questi, sorpassato completamente il rassicurante e nudo monolitismo del suo predecessore mitologico, nonché il suo appiattito sovrastare lo spazio, sostituisce la sacralità
asettica di quello con un’aura enigmatica, spia di un profondo disagio.
Parallelamente, la trasparenza possente esplicitata dalla nudità del primo viene sostituita dal mistero che questi cela gelosamente sotto un pesante e stratificato mascheramento. Sotto la tesa del suo cappello soggia-
46 /
CHIARA BORRONI
ce, infatti, quel conflitto interiore che, riflettendosi nel sostanziale rifiuto
di una qualunque forma di appartenenza, svelerà a poco a poco un’eroicità da marginale.
A differenza dell’eroe culturista del peplum non integrato per natura,
quello del nuovo genere sceglie la non appartenenza alla comunità enfatizzando i tratti del modello ultimo dell’eroe non culturista. Chiamandosi
fuori da un sistema sociale in cui non si riconosce, l’eroe del western
estremizza il proprio carattere autoriferito, tanto che l’obiettivo che si pone non è mai sociale ma individuale: quella che gli interessa non è infatti
la salvezza della comunità ma la propria sopravvivenza.
Superata del tutto la concezione manicheista del peplum, la lotta tra
Bene e Male assume dunque qui un aspetto molto più nebuloso e l’eroe,
per perseguire il suo obiettivo, ondeggia al di qua e al di là della linea di
demarcazione tra i due territori. Se è vero però che la figura dell’outlaw
hero prima o dell’outcast hero dopo sono ricorrenti anche nel western
americano, nella rielaborazione compiuta dal cinema italiano l’eroe è, più
spesso, qualcosa di differente: completamente svincolato dalla problematica etica e morale, egli si dà più come marginale che come reietto, non
loser ma loner appunto, volontariamente al di fuori di ogni struttura o
schema sociale (ivi compresa la relazione con l’altro sesso).
Questo complica la questione sollevata dallo stesso Dyer circa la demarcazione dei comportamenti accettabili e legittimi27 e finisce per riflettersi anche su una maggiore flessibilità narrativa del profilo dell’eroe nonché su una più ampia possibilità di raffigurazioni. All’icona reiterata e
sempre uguale a se stessa del culturista, si sostituisce, infatti, una galleria
di tipi fisici (e psicologici) che stabiliscono, contrariamente a quello, uno
specifico legame proprio con l’attore che lo impersona.28
Oltre al modello di loner per eccellenza – quello di Clint Eastwood, che
nel film considerato il capostipite del genere Per un pugno di dollari (dir.
27
“È questa la funzione più importante dello stereotipo: mantenere netta la linea di demarcazione delle definizioni, stabilire chiaramente dove il limite finisce e perciò chi è
chiaramente al di qua e chi è al di là”. Richard Dyer, op. cit., pp. 24-25.
28
“Il corpo della maschera può crescere di spessore epistemico, fino a coincidere con
quello di un ‘personaggio’, il cui potere di far circolare sapere va al di là del testo e si colloca in un universo immaginario intertestuale, prodotto dai diversi testi in cui appare
l’immagine di quel corpo che, notiamolo bene, non appartiene a un divo della tradizione
cinematografica. L’attore può interpretare un ruolo che si identifica così radicalmente con
il suo corpo, da spingere l’apparato a ripeterne lo stereotipo in situazioni testuali diverse,
nel caso di successo”. Gianfranco Bettettini, op. cit., p. 113.
IL LONER
/ 47
Sergio Leone, 1964) codifica il tipo dello straniero misterioso, senza nome
né passato – il western italiano presenta un’ampia galleria di tipologie fisiche che mantengono tuttavia l’alienità come caratteristica principale.
C’è il tipo dell’eroe maledetto sul modello di Franco Nero in Django
(dir. Sergio Corbucci, 1966). L’abbigliamento trasandato e logoro, il bel
viso segnato in profondità e lo sguardo malinconico, esprimono il suo
tormento interiore; molto spesso la raffigurazione è caratterizzata da un
oggetto feticcio o da un dettaglio fisico o da un tic nervoso che simboleggiano la sua sofferenza e il suo scopo: la vendetta.
C’è poi il tipo del bounty killer solitario ed elegante sul modello di
Mortimer / Lee Van Cleef di Per qualche dollaro in più (dir. Sergio Leone,
1965). Sempre vestito di nero questi esprime, attraverso un’immagine
mortifera, l’inesorabilità della propria missione. L’aspetto sempre impeccabile, malgrado le lunghe cavalcate, dotato di un’attrezzatura professionale e di uno sguardo lucido e senza pietà, è spesso caratterizzato da un
qualche dettaglio di vestiario che ne impreziosisce la figura: una piccola
cravatta nera, un foulard, un gilet con bottoni lavorati, delle decorazioni
d’oro o d’argento sulle armi, la sella, gli speroni.
E ancora il tipo del rivoluzionario sul modello di Tomas Milian, che
rappresenta l’unica accezione sociale dell’eroe del western italiano e che si
lega tanto esplicitamente all’immaginario della contestazione da dare origine, negli anni immediatamente successivi al 1968, al cosiddetto filone
del ‘western Zapata’. Vestito di bianco come i campesiños, il personaggio
acquista solo progressivamente lo statuto di eroe trasformandosi in guérillero: acquisisce armi, munizioni, cartucciere, un sombrero o un basco,
tutti simboli della presa di coscienza della socialità della sua missione.
Infine, il tipo caratteristico della declinazione comico-parodica del genere che caratterizza invece soprattutto la produzione degli anni Settanta
con due forme fisiche predominati: il bullo disinvolto alla Giuliano Gemma, ma soprattutto il buffone trasandato e affascinante alla Terence Hill
che, insieme al compagno Bud Spencer, darà vita al filone del cosiddetto
‘western fagioli’. Riguardo a questo, ci limitiamo qui a notare come l’eccezionalità corporea tipica della rappresentazione del personaggio Bud
Spencer, nonché il suo ruolo narrativo, possano essere lette in qualche
modo come un sopravvivente residuo di quella corpulenza eccedente che
fu del forzuto-spalla del cinema muto.
Al contrario del peplum che si apre quasi sempre con un campo lungo
o una panoramica di ambientazione descrittiva, il western italiano si apre
48 /
CHIARA BORRONI
Fig. 3. Lo Straniero osserva la scena da posizione defilata in Per un pugno di dollari
Fig. 4. Lo Straniero si avvicina allo spazio della comunità in Per un pugno di dollari
spesso con una serie di dettagli che preparano, rimandandolo, il momento dell’epifania; l’eroe entra così in scena secondo un approccio che, lavorando sulla costruzione dell’attesa e del mistero, finisce per avvicinarsi più
agli stilemi del noir che non a quelli del western classico americano.
L’archetipo del genere Per un pugno di dollari (dir. Sergio Leone, 1964)
si apre infatti con gli zoccoli di un mulo sulla terra brulla; poi lentamente la
macchina da presa sale a cogliere la figura intera dell’eroe ma di schiena,
senza mai svelarlo. Andando poi in profondità di campo, egli comincia a
esplicitare la propria relazione di distanza rispetto al paesaggio. Solo a questo punto il suo sguardo enigmatico (tuttavia per qualche istante ancora celato sotto il cappello) si rivela in un primo piano. Continuando a mantenersi ai margini dell’azione e dello spazio rappresentato, l’eroe segue da un’altu-
IL LONER
/ 49
ra la scena (alcuni malviventi stanno schernendo un piccolo campesiño) senza intervenire (Fig. 3). E anche quando decide di addentrarsi nello spazio
estraneo e ostile della scena, lo fa continuando imperterrito nel tentativo di
celarsi (Fig. 4) anche e soprattutto attraverso il silenzio e il mistero sulla sua
identità: egli è e resterà per tutto il film semplicemente lo Straniero.
Lo spazio del western italiano non è più dunque la piatta tela di fondo
dominata e legittimata dalla presenza dall’eroe dello storico-mitologico,
ma ha una sua specificità intrinseca con cui l’eroe si deve relazionare. La
relazione personaggio-paesaggio è tuttavia diversa rispetto al ruolo complesso che riveste nel western americano dove “i personaggi si trovano in
una relazione dialettica con l’ambiente, lo subiscono lottano contro di esso, ma ne fanno anche parte”.29 Tutto quanto contribuiva in quest’ultimo
a costruire il lirismo della messa in scena del paesaggio, con tutta la sua
valenza simbolica e autonoma, viene infatti abbandonato nel western italiano, in virtù di una costruzione della relazione personaggio-paesaggio
dove l’individuo è il vero e unico elemento accentratore.
In definitiva, incapace di appartenervi, l’unica relazione che il personaggio stabilisce con il paesaggio finisce per essere il suo attraversamento:
egli non lotta contro l’ambiente e non lo controlla, lo attraversa, sopravvivendogli. Non arriverà mai a dominare, come invece nel western americano, la wilderness, semmai il suo eroismo consiste nella sua personale resistenza fisica alle ostilità della natura. Non a caso il deserto costituisce il
paesaggio privilegiato del genere e si rivela di per sé pericoloso, almeno
quanto gli indiani del western americano classico. Il deserto non è però
solo una minaccia, è anche una sorta di rifugio per l’eroe che in esso si
nasconde cercando una mimetizzazione che non gli riesce. Impossibilitato a farne davvero parte, egli non può che limitasi a sviluppare la capacità
di sopravvivenza alle proibitive condizioni imposte da questo.
La sofferenza fisica è infatti un tratto dominate della raffigurazione di
questo eroe e il motivo del martirio è scelto spesso, secondo il tono tipicamente iperbolico del genere, per rappresentare il momento della sua
crisi: costretto ad affrontare una sorta di via crucis egli diviene in questi
casi esplicita imago christi (caratteristica questa tutta italiana). Basti pensare al calvario subito dal personaggio di Barney / Tomas Milian in Oro
hondo – Se sei vivo spara (dir. Giulio Questi, 1967), che tocca il suo culmine con una vera e propria crocifissione: l’eroe, completamente denuda29
Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia: Marsilio, 2002, p. 57.
50 /
CHIARA BORRONI
to eccezion fatta per un misero tessuto bianco che gli cinge la vita, i capelli e la barba lunghi, la testa avvolta in uno straccio sdrucito, viene incatenato a una croce di legno e sottoposto alle peggiori torture.
Nonostante il richiamo cristologico di certi personaggi, l’eroe del western, nel momento della presentazione, sostituisce alla sacralità totalizzante del peplum una sorta di liturgia profana che fa perno sul destabilizzante fascino del mistero e della sofferenza. Per questo motivo il corpo è
velato e protetto da una pesante coltre di strati che si articolano, ora polverosamente ora elegantemente, per proteggerlo, come un carapace che
gli permette di tenere le distanze da quel mondo di cui non può essere
parte: il silenzio e l’ironia dissimulano il suo stato d’animo, il cappello gli
copre gli occhi, il poncho nasconde il suo corpo, gli speroni appuntiti, il
sigaro masticato nervosamente e le armi maneggiate con perizia lo difendono. Il suo abbigliamento è la sua corazza.
3. Giù la maschera. Il loner urbano
Con il passaggio al genere poliziesco all’inizio degli anni Settanta, l’eroe,
ormai dimenticata la nudità primitiva e possente del peplum, finisce progressivamente per sbarazzarsi anche del mascheramento del cappello e
della polvere del western e si traveste da uomo della contemporaneità urbanizzandosi definitivamente.
Questi nuovi eroi sembrano rispondere a una logica rappresentativa
che ha compiuto un passo ulteriore dall’astrazione verso la reificazione, e
che pare voler dialogare con un pubblico che non aveva ancora preso in
considerazione un immaginario di genere legato alla contemporaneità.
L’intenzione è quella di creare un contesto di evasione pura senza allontanarsi di fatto dalla rappresentazione della realtà: non si cerca più di dissimulare la realtà nascondendola dietro maschere più o meno articolate, al
contrario, la si sfrutta mettendone in scena una sorta di affabulazione stereotipata che non cela, semmai enfatizza, una certa matrice statunitense.
Se innegabile è il riferimento del genere al cinema di impegno civile
che in quegli anni, soprattutto con Francesco Rosi e Elio Petri, si imponeva nella cinematografia italiana, resta il fatto che il rimando più immediato ed esplicito sia all’opera di Don Siegel che con il suo Dirty Harry
(meglio noto in Italia come l’ispettore Callaghan) aveva codificato il profilo del poliziotto pronto a tutto, rappresentato, per di più, dal volto ben
IL LONER
/ 51
conosciuto dagli italiani di Clint Eastwood. Ma non solo. Molti dei caratteri dell’eroe di questo genere sembrano infatti rimandare, ben più direttamente di quanto non facesse il western italiano, anche all’eroe solitario del western classico americano. Il cambio di costume cui l’eroe loner si
sottopone urbanizzandosi, corrisponde infatti a una sostanziale enfatizzazione delle sue caratteristiche ‘western’,30 cioè di tensione nel rapporto
con lo spazio e con l’ordine sociale.
Se la tesa conflittualità tra personaggio e spazio era stata ridotta nel
western italiano dalla ricerca di pura sopravvivenza all’ambiente da parte
dell’eroe, si può dire invece che lo spazio urbano del poliziesco riacquista,
in un certo senso, l’autonomia tipica della wilderness del western classico
americano. Se per questo la tensione sfociava infatti nella conquista della
natura selvaggia, l’obiettivo che l’eroe del poliziesco si prefigge rispetto allo spazio si configura come una sorta di (ri)conquista. L’azione che egli
attua assume infatti una funzione di tipo (ri)ordinativo che lo avvicina in
modo esplicito al profilo di quella tipologia di eroe del western americano classico emblematicamente nominata town tamer.
La città diventa dunque il contraltare dialettico dell’eroe, l’elemento
con cui egli si confronta e lotta nel tentativo di controllarlo; essa si presenta pertanto con caratteristiche proprie talmente codificate da diventare
un personaggio a tutti gli effetti, esattamente come succedeva per il paesaggio del western secondo la concezione fordiana.
Per questo la città entra in scena come un personaggio, offrendo allo
spettatore gli elementi per fissare la sua riconoscibilità31 e applicando una
sorta di sistema retorico specifico che trova il proprio cardine nell’auto30
“Il western è il passato del cinema popolare italiano d’azione”. Giovanni Buttafava,
“Il cinema poliziesco italiano. Procedure sveltite”, in Il Patalogo due. Annuario 1980 dello
spettacolo. Vol. II: Cinema e televisione, Milano: Ubulibri-Electa, 1980, p. 102.
31
“Nel primo capitolo del suo libro L’immagine della città, Kevin Lynch introduce il concetto di leggibilità dello spazio urbano: ‘Con questo termine intendiamo la facilità con cui
le sue parti possono venir riconosciute e possono venir organizzate in un sistema coerente.
Come questa pagina stampata, se è leggibile, può venir visivamente afferrata come un interrelazionato sistema di simboli riconoscibili, così sarà leggibile quella città, in cui quartieri,
riferimenti, o percorsi risultino chiaramente identificabili e siano facilmente raggruppabili
in un sistema unitario’. Pur riferendosi all’urbanistica, il termine può essere preso a prestito
per definire le città cinematografiche su cui ci soffermiamo [...] i film americani che si svolgono in un contesto metropolitano delineano un’immagine urbana la cui caratteristica essenziale è appunto quella di essere leggibile – ovvero percepibile attraverso un sistema trasparente di riferimenti diretti e allusivi, concreti e simbolici”. Leonardo Gandini, L’immagine della città nel cinema hollywoodiano (1927-1932), Bologna: Clueb, 1994, pp. 20-21.
52 /
CHIARA BORRONI
rappresentazione. Questa si fonda (anche per motivi economici) sull’insistenza delle riprese dal vero che immortalano i luoghi emblema delle città
e presentano la strada come il teatro della decadenza della società.
Lo sguardo indagatore dell’eroe del poliziesco non è più dunque quello dell’eroe del western italiano che lentamente penetra un ambiente dal
quale si vorrebbe tenere a distanza, ma è quello di qualcuno che conosce
a fondo lo spazio che attraversa, come testimonia la destrezza con la quale
si muove nel tessuto urbano, e il cui scopo è agire su di esso.
Ecco perché la forma dominante di rappresentazione dell’ambiente è
quella dello spazio pubblico, mentre quello privato è pressoché costantemente negato. Lo spazio domestico, come la sua dimensione familiare o
privata, sono infatti messe in scena di rado e, per lo più, in funzione di
raffigurare il trauma legato alla loro perdita da parte dell’eroe.
La strada è il territorio nel quale l’eroe attua il tentativo di riconquista
dello spazio e dell’ordine, missione che si risolve, nella maggior parte dei
casi, in una lotta fallimentare. Spettatore naturale di questa lotta è la gente comune, prima vittima dell’attacco all’ordine e giudice implacabile dell’operato dell’eroe. Lo spazio pubblico diventa così anche il teatro del manifestarsi del malcontento dei cittadini che si esprime costantemente e
con veemenza in luoghi come il mercato che domina, per esempio, l’incipit de I violenti di Roma bene (dir. Segri [Sergio Grieco] e Ferrara [Massimo Felisatti], 1976), ma anche della percezione del pericolo quotidiano
come stigmatizzano infiniti esempi tra cui citiamo solo il delitto del giovane operaio sull’autobus all’ora di punta in apertura di Roma violenta
(dir. Franco Martinelli [Marino Girolami], 1975). Anche il confronto tra
eroe e antieroe si sviluppa per lo più per strada, negli innumerevoli inseguimenti attraverso le strade cittadine, a proposito dei quali basti citare
Poliziotto sprint (dir. Stelvio Massi, 1977) che sulle rocambolesche evoluzioni motoristiche fonda tutta la sua spettacolarità; oppure nei duelli finali che ricalcano in tutto e per tutto lo stilema western, come nella
drammatica scena finale di Milano odia, la polizia non può sparare (dir.
Umberto Lenzi, 1974) in cui il commissario, al colmo della disperazione,
decide di farsi giustizia da sé per strada tra i palazzi tetri di una periferia
decadente (Figg. 5-6), prima di consegnarsi alla polizia.
Come esemplificato paradigmaticamente dal film appena citato, proprio in questa sua dimensione pubblica la città del poliziesco, e la strada in
particolare, si offrono dunque una volta di più come messa in scena della
solitudine aliena e fallimentare dell’eroe: nonostante la dimestichezza con
IL LONER
/ 53
Fig. 5. Il commissario esasperato si fa giustizia da solo in Milano odia, la polizia non può
sparare
Fig. 6. Il criminale soccombe immerso nella decadenza della città in Milano odia, la polizia non può sparare
lo spazio (nelle inquadrature di presentazione occupa generalmente una
posizione centrale ed entra in scena non per frammenti, come nel western
italiano, ma in una totalità che esprime fermezza e decisione) egli non riesce tuttavia a riconoscervisi. Questa sorta di smarrimento, che si trasforma
in sgomento e senso di impotenza, è espresso attraverso le molte angolazioni sghembe o i movimenti di macchina repentini con cui viene seguito nei
suoi spostamenti per le vie della città: si crea così una sorta di vertigine visiva che, lavorando sulla messa in discussione dei riferimenti spaziali, esprime il progressivo abbandonarsi del personaggio allo sconforto e alla rabbia
che sfocerà nel fallimento.
Questi caratteri sono propri ad entrambe le tipologie di eroe che si ri-
54 /
CHIARA BORRONI
scontrano nel genere, il commissario e il giustiziere, nessuna delle quali si
lega espressamente a una presenza attoriale specifica mirando essenzialmente a sottolineare la completa aderenza dell’immagine dell’eroe alla
realtà contemporanea.
Entrambe conservano alcuni tratti dell’eroe maledetto del western italiano (tormento personale, lutto, dramma misterioso nel proprio passato), ma se il giustiziere resta l’individualista che passa all’azione al solo
scopo di realizzare la propria vendetta, il poliziotto riacquista una dimensione sociale attiva che si concretizza nella personale lotta contro il resto
del mondo. Entrambi rispondono dunque al profilo solitario del loner.
Talvolta le due tipologie possono anche coincidere come in Torino
violenta (dir. Carlo Ausino, 1976) dove il commissario Moretti (George
Hilton) che di giorno è poliziotto, di notte si trasforma in giustiziere
spingendosi ben oltre il limite della legalità. L’incipit è emblematico del
ruolo assunto nel genere dal paesaggio urbano. Ausino lavora per enfatizzare l’aura spettrale e inquietante della città attraverso le immagini notturne, con inquadrature che simulano una sorta di soggettiva per amplificare l’identificazione dello spettatore. Il gioco sulla soggettiva e il buio caratterizzano anche la presentazione del protagonista, tutta costruita sulla
rimandata individuazione dell’identità del personaggio: mostrato prima,
nel buio, come responsabile dell’esecuzione di un malvivente, viene colto
poi nell’intimità del suo appartamento, dove pensieroso fuma, fissando il
soffitto e stringendo tra le mani la foto di una donna. Questo suo non rivelare la propria identità è funzionale, come nel caso del western italiano,
al tentativo di nascondersi nel paesaggio per proteggersi. Contrariamente
al suo predecessore egli cerca però di sfuggire all’identificazione non per
sottrarsi ma per riconquistare la piena padronanza del proprio spazio.
Anche Il cittadino si ribella è un film esemplare sotto più punti di vista. Nell’incipit l’attenzione viene portata subito sull’analogia tra spazio
pubblico e spazio domestico: nessuno dei due è più in alcun modo sicuro. Il film si apre su due ladri che, forzando la serratura della porta di ingresso, si introducono nell’appartamento del protagonista, devastandolo;
la macchina da presa a mano li segue nella penombra zoomando ripetutamente su un manifesto affisso alla parete con la scritta: “Italiani ribellatevi. Questa è la volta buona!”. Quando, subito dopo, un campo lungo va a
cogliere il personaggio in centro all’inquadratura stringendo su di lui che,
ignaro, cammina per strada, in mezzo alla gente, la relazione di totale immersione e appartenenza all’ambiente che lo circonda è evidente. In que-
IL LONER
/ 55
sto modo la rappresentazione si costruisce sull’enfatizzazione della sua
normalità di cittadino. La macchina da presa lo segue fino all’ufficio postale dove di lì a poco verrà preso in ostaggio. La lunga fuga dei rapinatori
inseguiti dalla polizia è l’occasione per sfrecciare lungo le contorte vie di
Genova fino al porto dove l’ingegner Antonelli (Franco Nero), sotto
shock, verrà finalmente liberato.
Entrato in scena completamente a suo agio nel proprio ambiente di appartenenza, il personaggio si trova trasformato repentinamente in loner dalla violenza, privata e pubblica, di cui è vittima: la paura, che si trasformerà
in violenza della reazione, lo sradica dunque dal suo spazio (dominato fino
a un attimo prima) e lo costringe alla solitudine. Quando la polizia lo trova
nella macchina abbandonata dai rapinatori, l’immagine che ritrae l’eroe in
fieri è capovolta e l’angolazione dall’alto lo schiaccia sul sedile su cui è accasciato con il volto tumefatto; lentamente si alza fino a occupare un primo
piano: con le lacrime agli occhi il comune cittadino giura vendetta.
Che lo sia per vocazione, come il commissario, o che lo divenga per
esasperazione, come il giustiziere, l’eroe loner del poliziesco esplicita dunque in questa sua alienità, esasperata perché subita, la crisi irreversibile di
una modernità ormai compromessa; il suo carattere travagliato e rabbioso
si accentua a tal punto da cancellare completamente la vena ironica che caratterizzava gli eroi del western per sostituirla con una tragicità assoluta.
Metabolizzando e rielaborando più o meno profondamente le forme
migratorie del cinema americano, e del genere western in particolare, il cinema italiano di genere sembrerebbe dunque aver finito per individuare,
almeno nel periodo preso in considerazione, una formula propria che si
può considerare unitaria e che fissa nella rappresentazione di un eroe solitario e refrattario alle relazioni il proprio fuoco narrativo e figurativo. Riprendendo dunque in conclusione la già citata distinzione fatta da Dyer tra
stereotipo e tipo sociale32 si potrebbe dire che, se gli eroi dei singoli generi
definiscono degli stereotipi narrativi e iconografici specifici nelle loro molte varianti, vero è però che, lette nel loro processo trasformazionale, queste
figure disegnano, progressivamente, il profilo di un tipo sociale unico: il loner. Questo eroe della crisi, che esplicita e sublima nella sua alienazione il
disagio cui lo costringono lo spazio e il sistema in cui è immerso, sembra di
poter affermare dunque che si dia come rappresentazione emblematica dell’identità nazionale italiana degli anni Sessanta e Settanta.
32
Cfr. Richard Dyer, op. cit., p. 23.