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Ricordi
IL RITORNO A ITACA DI NAT SCAMMACCA
Il poeta greco-siculo-nordamericano, animatore a Palermo dell’Antigruppo, oscillava
tra una concezione marxiana della lotta di classe e un empito personale da vate, da
irruento messia visionario che attribuiva al fare letterario il compito di una
trasformazione radicale della società. Nella sua turbolenta parabola esistenziale era
finito in manicomio negli Stati Uniti, generando fuori dal matrimonio un figlia di
nome Lee, a cui dedicava, per il rimorso dell’impossibile convivenza, toccanti
liriche che leggeva nei suoi esuberanti recital.
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di Ignazio Apolloni
Quello fu l’ultimo viaggio del Vulcania. Dopo la sosta a Palermo e la definitiva a Napoli sarebbe
andata a chiudere i conti col passato. L’attendeva la demolizione. Un bel mucchio di ferri che
sarebbero andati a seppellire momenti nostalgici di tanti emigranti che l’avevano affollata fusi
insieme a quelli di chi, oltre ad averci visto nascere una figlia com’è il caso di Nat Scammacca,
ci aveva sognato un impossibile ritorno a Itaca.
Furono teneri i primi attimi fugaci dei nostri incontri. Portato a esacerbare la lotta di classe –
senza però che avesse una precisa idea del concetto marxiano di classe – la sua voce finiva con
l’avere accenti persino fanciulleschi se non addirittura infantili quando si toccavano ideali come
quello di una ipotetica città dell’oro o della polis socratica. Era difficile seguirlo in questi
percorsi a ritroso verso la grecità di Pericle o la grandezza platonica (assunta quale matrice
ideologico-filosofica) mentre andava vaticinando di società di poeti più che di intellettuali:
ritenuti una forma di alterazione, travaso sul piano della praxis di un sentimento di pura bontà
connaturato nell’uomo sin dalla nascita e destinato a rimanere tale non ci fosse l’avarizia o
l’ingordigia.
La sua dunque era una pedagogia (materia in cui aveva incentrato il proprio corso di studi nel
Brooklyn College dove infine – e di ritorno dalla guerra – si era laureato) che tendeva ad
affondare l’analisi dell’uomo e del suo comportamento non su ciò che era, specialmente nel
mondo occidentale, ma su ciò che a suo giudizio sarebbe potuto ritornare ad essere con un colpo
di striglia.
Ed ecco lo Scammacca che strilla e striglia vuoi scrivendo poesie quasi profetiche vuoi
teorizzando con un manifesto di appena ventun punti l’ascesa all’empireo dell’uomo nuovo.
Cercò subito adepti, il poeta greco-siculo-nordamericano (come lui stesso e ripetutamente ebbe a
qualificarsi quasi già non fosse facile capirlo leggendo i suoi versi o ascoltando i suoi argomenti,
spesso di natura ascetica sia pure con qualche venatura beat, da nuova frontiera) e li trovò
finalmente a Palermo, dopo una travagliata serie di viaggi andata e ritorno da Trapani a New
York. Fu l’impasto che ne derivò, composto di esperienze e linguaggi diversi dai suoi e che pure
ne irrobustirono la struttura, a renderlo per un verso più aereo e per l’altro più reboante nella
recitazione in pubblico. Fu perciò una gara sul filo del rasoio (con il rischio di tagliarsi vene e
polsi) quella ingaggiata da lui con i poeti Terminelli e Cane (oltre che una folta schiera di new
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entries) risoltasi poi con gli inevitabili diverbi una volta che gli eventi politico-ideologici di quel
torno di tempo post-sessantottesco frantumarono le momentanee coesioni.
Tra queste c’erano stati degli autentici ibridi impossibili da tenere a lungo stretti attorno a
un’idea di Antigruppo nemmeno troppo chiaramente identificato se non quale sintomo di
insofferenza per un regime cattolico-borghese-neocapitalistico che relegava ai margini della
società le sue frange: massimamente dislocate nelle aree periferiche del paese e che di necessità
o per scelta avevano rinunciato ad emigrare. Solo a chi aveva attraversato lo Stretto – com’era
capitato a Vittorini e poi a Consolo o Stefano D’Arrigo – era andata parzialmente bene col
trovare rifugio in case editrici di prestigio assumendone direzione estetica o ideologica e
ricevendone in cambio il favore di una pubblicazione. Diverso il caso di Sciascia il quale fu visto
come funzionale ad un parziale, momentaneo, interesse per le questioni di Cosa Nostra e quale
pungolo perché le istituzioni benevolmente si avvedessero e combattessero il fenomeno.
Tutti gli altri, pochi o molti che fossero, di medio o piccolo calibro, portati al piagnisteo o puro
lirismo, totalmente ignorati dalla grande e media editoria con ciò che di frustrazione ciò
comporta.
Questo fu dunque il terreno di coltura del progetto, del disegno, di Nat Scammacca per un
risveglio delle coscienze dei poeti siciliani disposti ad aggregarsi per divenire aedi, cantori di un
nuovo rinascimento fondato però su tematiche squisitamente populistiche quando invece tutti gli
altri (o quasi) imbarcatisi nell’avventura dell’Antigruppo avevano una cultura di matrice
marxistica che nella lotta di classe, quella operaia e non certo contadina, vedevano la possibilità
di riscatto dal servaggio tuttora imperante della massa al servizio dei padroni: e per massa
Scammacca intendeva anche la miriade di poeti del Sud intrisi di nostalgie, reminiscenze e fatuo
classicismo.
Purtroppo anche lui, forse ed anzi più di qualunque altro del gruppo-antigruppo, era intriso di
quel tipo di sentimentalismo che si connota nella visione angelica, l’ascesa al liminale attraverso
la poesia – soprattutto quella melanconica. Solo più tardi sentì l’influsso della cosiddetta beat e
ne portò gli esiti nel gruppuscolo di poeti che tra sfaldamenti e temporanee aggregazioni si
andava costituendo in Sicilia. Si ebbe perciò una sua svolta nella scrittura e nei recital che però
non potè durare perché da un lato sopravveniva la morte di Santo Calì (autore insieme a Di
Maria e allo stesso Scammacca della monumentale opera denominata Antigruppo 73, prodotta in
forma cooperativa e svincolata quindi da rapporto di soggezione e subordinazione alle case
editrici) e dall’altro l’ala populistica del movimento, incarnata da Rolando Certa e dal suo
Impegno 70, spiccava il volo trascinandosi appresso il disorientato Nat Scammacca.
Quando ebbi a incontrarlo, nella mia veste di presidente dell’Arci, accompagnato da Cane e
Terminelli con i quali subito progettammo l’operazione “Poesia Murale di Ustica” (settembre
’68) ebbi la sensazione di subire il terremoto della sua irruenza, l’affastellarsi di previsioni
medianiche tali da fare assurgere il poeta al ruolo di principe per una possibile catarsi o
redenzione. Mi sembrò che con lui parlasse il vate, uno dei tanti Messia presenti nelle circa
duemila confessioni religiose americane. Era perciò necessario sottrarsi a quell’influenza così
lontana dalle nostre tradizioni ed anzi osteggiata da tutti gli altri laici quali noi eravamo (ad
eccezione del cattolicissimo Santo Calì). Nel tempo Nat diventò sempre meno irrazionale (né si
dimentichi che in America era finito in manicomio); meno anarchico; più portato alla
trasformazione radicale della società attraverso però un ruolo determinante da attribuire ai poeti.
Quanto fosse visionaria tale concezione della lotta politica – peraltro in una terra dominata
ancora e tuttora dalla mafiosità – non ci vuol molto a capire. Solo che lui fino alla fine non ne
ebbe esatta percezione perché continuava a modulare la sua voce sui ritmi e la scansione dei
versi omerici avendo scoperto – alla luce di studiosi inglesi che ne avevano fatto campo di
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ricerca di letteratura comparata – che a scrivere l’Odissea sarebbe stata una donna (chi sa, forse
Saffo) e per lui le donne erano state più di una fetta di pane per i suoi denti tanto da finire
appunto in una casa di cure per malattie mentali non sapendo decidersi quale impalmare per
l’intera vita.
Non fu solo questo il dramma di Scammacca perché gli nacque fuori dal matrimonio un’altra
figlia avuta da una relazione con una ragazza scozzese, negli Stati Uniti dove di tanto in tanto
ritornava nei vari percorsi à rebours, le sue catabasi dopo le anabasi. Straziato dal rimorso e
dall’impossibile convivenza con questa bambina dal nome Lee le dedicò delle liriche così
toccanti da strappare le lacrime anche ai duri di cuore nei vari recital in cui ebbe a esibirsi. Altro
strappo alle lacrime fu la recitazione della poesia al suo amico Dick, un cane che aveva pianto
quando egli se ne era, sia pure per poco tempo tornato in America lasciando che ad annusare la
Topolino vuota fosse lui, il cane, incerto se mai avrebbe più rivisto il suo padrone.
Venne molte volte a casa mia, restando a cena. Ebbe a telefonarmi (anche nel cuore della notte)
tutte le volte che gli si accendeva l’entusiasmo per un incontro reale o immaginario con questo o
quell’altro scrittore: celebre quello con Edoardo Sanguineti riconosciuto – pare – mentre si
recava a Firenze, viaggiando lui, il Nat, in un vagone di terza classe attraverso la proboscide,
come lui chiamava quel naso. Fu instancabile nel creare vortici che prima trascinarono e infine
inghiottirono quasi tutti quelli dell’Antigruppo a causa delle insanabili diversità ideologiche con
alcuni (è il caso ad esempio di Crescenzio Cane); per le evidenti differenze linguistiche (leggi
Pietro Terminelli); per incomprensioni di ordine stilistico (leggi Nicola Di Maio); per la
prematura morte da infarto del compianto Rolando Certa il quale pensava di rivoluzionare il
mondo borghese cercando alleati negli irregimentati poeti dei paesi dell’est.
È morto che ancora si esaltava al pensiero di ciò che era stato l’Antigruppo. Verosimilmente la
sua villa continuerà ad essere meta di processioni per venerare un santo, sebbene laico e poeta.
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