Dipartimento di Scienze Politiche

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Dipartimento di Scienze Politiche
LUISS
Libera Università
Internazionale
degli Studi Sociali
Guido Carli
Centro di metodologia
delle scienze sociali
L’ANTIUTOPIA DI GEORG ORWELL
di Italo Francesco Baldo
Working Papers
n. 99, 2005
© 2005, Pubblicazioni a cura del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali, Luiss Guido Carli, Roma Via Oreste Tommasini, 1 - 00162 Roma - Tel. 06/86506762 - Fax 06/86506503 - E-mail: [email protected]
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Luiss Guido Carli
L’ANTIUTOPIA DI GEORG ORWELL
Italo Francesco Baldo
Premessa
L’occasione di ricordare il centenario della nascita di un personaggio storico come
Eric Athur Blair, che firmerà le proprie opere come Georg Orwell (Mitihari nel Bengala
il 25 giugno 1903- Londra il 21 gennaio 1950), offre sempre la stimolante opportunità
di considerare la sua attualità. Non si tratta, quando si è attenti, di cercare con ragione
forzata la validità o l’importanza, ma quanto di quell’Autore sia oggi proposta per la
riflessione o la vita oggi. Spesso si preferisce ricordare coloro che non danno
“problemi”, che con rigore accademico possono essere studiati e che presentano
anch’essi importanti stimoli, ma quando si ha l’occasione, come quella che abbiamo
oggi, di ricordare Georg Orwell, la questione diviene più importante, perché non si tratta
di “vecchie riflessioni”, che possono servire da base per quelle odierne, ma di pensieri
che si scontrano ancor oggi con quelle realtà che condannavano. La denuncia di G.
Orwell del totalitarismo comunista è piena e completa e invita a considerare la sua
negatività storica e attuale. Non nascondiamoci dietro a strane considerazioni, a
differenziazioni che, care agli intellettuali, servono più a giustificare la loro attuali
posizioni, che non a dare verità della storia. La storia è magistra vitae, come sosteneva
Cicerone nel De oratore, quando si ha il coraggio di guardarla in faccia, perché essa è
anche lux veritatis; quando, invece, la sia usa, essa mostra la parzialità dell’interprete e
ne denuncia i limiti. L’uomo vive oggi, ma questo suo vivere non è senza passato ed il
passato ci aiuta a costruire il futuro, non a ritenere che il futuro sia una proiezione
teoretica di immagini, frutto di propaganda e non di seria analisi. In questo la
degenerazione stessa del comunismo di K. Marx e F. Engels, è grandissima. Si è
addirittura in Italia trasformata la critica dell’economia politica in una piccola critica
della politica economica; si è artificiosamente indicata nella pace la prospettiva del
marxismo, quando esso nei suoi padri sosteneva che solo con la violenza, come
necessità politica, si raggiungono i propri scopi.1 Si fa torto ai “padri”, ma soprattutto si
fa della mistificazione storica.
G. Orwell, che visse in prima persona e condivise l’anelito ad un mondo migliore, fu
tra i primi e più lucidi interpreti del totalitarismo comunista o, come si dovrebbe dire,
del marxismo-leninismo-stalinismo.2 Lo fece da “laico” e da persona “informata dei
fatti”; non si servì della filosofia, della teologia in modo diretto, come il mondo
cattolico fece contro i totalitarismi, ma scelse, in questo di essere continuatore della
1
K. MARX, Manifesto del Partito comunista, tr. It. Di L. Caracciolo, Introduzione di L. COLLETTI,
S. Berlusconi Editore, s.l. 1999, p. 179:”Die Kommunisten verschmähen es, ihre Ansichten. Sie erklären
es offen, dass ihre Zwecke nur erreicht werden können durch den gewaltsamen Umsturz aller bisherigen
Gessellhafstordnung.“ Nella traduzione: „ I comunisti sprezzano l’idea di nascondere le proprie visioni.
Essi chiariscono apertamente di poter raggiungere i loro obiettivi solo con il rovesciamento violento di
ogni ordinamento sociale finora esistente.
2
Nella città di Livorno cfr. lapide ricordo della fondazione del Partito Comunista Italiano: “Nel nome
di K. Marx, F. Engels, Lenin, Stalin, Gramsci e Togliatti…”.
2
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tradizione inglese (Utopia, La favole delle api, Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver
ecc.). Il paradosso, la metafora e sempre riferendosi alla propria vita, furono gli
elementi per il suo pensiero e la sua scrittura. Oggi è anche di moda la biografia, il
racconto delle propria “ vita vissuta” e delle vicende che ci videro protagonisti, accaduti
“tanto tempo fa”, G. Orwell questa prospettiva l’adottò fin dai primi romanzi e, in modo
particolare, con Omaggio alla Catalogna; anticipò proprio la riflessione di Hanna
Arendt sul totalitarismo, che è del 1951 e, mi piace credere, che proprio la grande
filosofa fece in parte riferimento allo scrittore inglese, analizzando il totalitarismo, come
vedremo.
Proprio di fronte alle mistificazioni degli storici o, meglio, degli ideologi della storia,
che tentano di spiegare, in realtà giustificare, il passato alla luce degli interessi di parte
del presente, di cui spesso condividono la spartizione del potere, la vicenda umana, di
riflessione e di scrittura di G. Orwell diviene paradigmatica e suscita in noi attenzione e
possibilità di considerare la dignità dell’uomo, la sua libertà, e la giustizia, che sono
fondamenti ai quali ispirarsi e, nello stesso tempo, egli ci offre la possibilità di
smascherare coloro che si servono di queste parole per far propaganda, riducendo tutto a
slogan o bandiere che sono esibite, ma mai autenticamente vissute. La necessità di una
precisa analisi e di una presa di posizione contro quelle ideologie e quei personaggi che
hanno fatto della violenza, della sopraffazione, inserita nel loro codice genetico, è un
compito che l’uomo, non già l’intellettuale, sempre servo al tintinnare del sant’orosimbolo del potere, deve assumersi, per tentare di pensare e realizzare un mondo capace
di dare efficacia alla libertà stessa e alla giustizia, non rifugiandosi nelle “ cose da fare”
nel solo “ concreto”, ma unendo una visione globale dell’uomo alla sua capacità di
costruire, come già sosteneva il cardinale John Henry Newman. L’uomo non è
riducibile ad una parte, non può essere ristretto nelle sole scienze, soprattutto se queste
si fondano esclusivamente sugli avvenimenti che accadono nel tempo. Non vi è in
questa scientificizzazione della storia, autentica storia, perché la storia è l’assunzione di
significato dell’accadimento e del suo “perché”, in relazione a quanto l’uomo
effettivamente compie liberamente.3
G. Orwell fu uno scrittore, certo intervenne anche nel dibattito con scritti di
riflessione, ma la sua grandezza è nella scrittura; le sue principali opere, Omaggio alla
Catalogna, La fattoria degli animali e 1984, lo inseriscono tra i grandi del Novecento e
tra coloro che con lucidità seppero cogliere il maggior problema del secolo scorso. Le
sue opere aprono ad un’analisi e ad una visone positiva dell’uomo, denunciando i mali e
per questo i suoi scritti sono di profonda morale, perché egli considera che solo quando
prestiamo attenzione agli avvenimenti possiamo trarre da loro, insegnamento e forza per
un autentico futuro. L’incombente difficoltà, il pessimismo verso il destino dell’uomo, è
presente, ma possiamo costruire un mondo nuovo? Certo, se lo faremo con tutta la
nostra umanità e con quel senso di responsabilità che affratella e non eleva nessun
essere umano ad arbitro dei destini umani. Il bene è ottenibile con il concorso di tutti,
ma i nemici dell’uomo sono sempre in agguato, sta a noi renderli impotenti. Non
trasformiamo in neolingua, in ideologie, quanto di buono siamo capaci di pensare. La
3
Le concezioni che pongono alla base la storia, in realtà costituiscono una proiezione razionalistica
sugli accadimenti, li leggono dal punto di vista del presente e trovano giustificano nel passato
all’assunzione di un determinato criterio, oppure consi-derano solo un aspetto. L’illuminismo prima e poi
l’idealismo hegeliano e ancor più il marxismo considerano la storia come una spiegazione che non parte
dalla natura, ma “una natura”, come sostiene G. Vico, che si saldi solo sull’uomo ed il suo fare. Una
metafisica della prassi, se il termini non fossero tra loro contraddittori!
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vita, la libertà e la ricerca della felicità siano sempre una regola per la nostra società,
non sono parole che appartengono all’archeolingua, ma al presente e vivo, purché non le
usiamo in maniera impropria, e soprattutto con quel servilismo che trasforma in
illusorio positivo, ciò che va, invece, denunciato come negativo. Il coraggio della verità
che G. Orwell espresse nello scritto La libertà di stampa4 deve essere considerato senza
paura, come una critica intelligente e una schietta onestà. Così “se la libertà intellettuale,
che senza dubbio è stata una delle caratteristiche della civiltà occidentale, significa
davvero qualcosa, vuol dire allora che ognuna avrà diritto a esprimere e a pubblicare ciò
che secondo lui è la verità, a un’unica condizione: che essa non faccia torto, in maniera
del tutto inequivocabile, al resto della comunità.”5 Proprio per questo non
allontaniamoci dalla libertà, che è il bene e la dignità dell’uomo.
1. Capiecomprendi
Buonpensiero per dire di minipax stabilisce arcipiùbuono oratore di un programma
del Reptel che rispetta la Veri e non si abbandona a quel prolecibo che viene amato da
coloro che non amano il Partito. Costoro, che hanno un ventralsentire, spesso dovevano
essere inviati al camposvago, perché ignoravano i tre fondamentali slogan del Partito:
LA GUERRA E’ PACE
LA LIBERTA’ E’ SCHIAVITU’
L’IGNORANZA E’ FORZA
Impadronirsi della parte più importante delle neolingua, la parte B, quella che, uscita
da qualsiasi principio etimologico, e che era stata approntata per poter disporre di parole
costruite appositamente per scopi politici, era fondamentale. Questa, insieme alla parte
A (parole utili alla vita quotidiana) e a quella C (termini scientifici e tecnici), dava a chi
la possedeva la perfetta omologazione al potere del GRANDE FRATELLO, che doveva
essere amato, qualsiasi cosa facesse, perché in lui vi era archipensare, perché incapace
di uno psicoreato e non vi era nemmeno in lui sessoreato, ma solo buonsesso.
L’importate per ogni individuo che apparteneva alla nuova società era bene non
immischiarsi mai con i prolet e seguire sempre con grand’attenzione i Due minuti
d’Odio.
Winston Smith, il protagonista di 1984, l’ultimo grande impegno letterario-filosofico
di G. Orwell, ha imparato solo alla fine ad amare il GF (Grande Fratello) e compreso
l’importanza della neolingua. Si era così definitivamente inserito, aveva saputo cogliere
la Grande Verità, ed era quindi degno di entrare nel Ministero dell’Amore e “Il proiettile
tanto atteso gli si stava finalmente piantando nel cervello”.
L’unico fine: amare il GF, va perseguito con ogni mezzo, come sosteneva “quel
grande – N. Machiavelli - /che temprando lo scettro a’ regnatori,/ gli allòr ne sfronda, ed
alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue.”6 In questa prospettiva il GF ha
4
Scritto in cui lo scrittore rivendica la libertà di pubblicare Animal Farm, anche se l’Inghilterra, per
realtà contingenti, è alleata dei sovietici, che qualcuno riteneva offesi dall’assimilazione con i maiali della
Fattoria.
5
G. ORWELL, La libertà di stampa, in ID, La fattoria degli animali, tr. it. di B. Tasso, A.
Mondadori, Milano 1996, p.111.
6
U. FOSCOLO, De Sepolcri, vv.155-158.
4
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compreso come l’autore de Il Principe che: “i cittadini viver liberi non sanno”, per
questo hanno bisogno di un CAPO. Se nel pensiero del Segretario fiorentino la forza e
l’astuzia potevano dominare, nel Novecento gli strumenti del dominio sono altri. Al
linguaggio, come ben aveva precisato L. Wittgenstein nel suo Tractatus logicophilosophicus, si riduce ogni questione. Pertanto solo con un linguaggio nuovo,
semplificato, capace di evitare la possibilità dell’interpretazione individuale e
riconoscente il significato autentico che solo chi detiene il potere può fornire.
L’espressione “Libertà è la libertà di affermare che due più due fa quattro. Garantito ciò,
tutto il resto ne consegue naturalmente” è estremamente pericoloso, solo quanto dice il
Grande Fratello è valido ed importante. Per questo il linguaggio deve ridursi, esplicarsi
in pochi e ben precisi enunciati, che esprimano il medesimo significato e soprattutto non
deve travestire i pensieri, sosteneva sempre L. Wittgenstein alla proposizione 4.002:”
L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può
esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. – Così come si parla
senza sapere come i singoli suoni siano emessi.” Questa capacità non può però essere
affidata a chiunque, solo il Grande Fratello può avere, per Orwell, questo potere, in lui
tutti gli individui, in lui tutta la possibilità stessa dell’esistenza. Il Grande Fratello non è
il Leviatano, di Hobbes, a lui il potere spetta per “contratto”, la rinuncia alla libertà è
voluta dagli uomini per diventare cittadini e poter fruire solo dell’utile della società,
cioè la dimensione della proprietà privata. Il Grande Fratello è invece un’icona ieratica
da venerare, che è onnipresente e alla quale rapportare la propria vita nell’interiorità
così come nell’esteriorità,fino anche al sacrificio supremo se così viene esatto.
2.
La figura e la personalità
Ho volutamente iniziato queste mie considerazioni su Georg Orwell con l’ultimo suo
romanzo: 1984, perché esso rappresenta in modo paradigmatico tutta la sua produzione
letteraria e filosofica. Vi è in questo romanzo la dimensione del vissuto, che G. Orwell
aveva sviluppato nei romanzi giovanili Giorni in Birmania e Senza un soldo a Parigi e
Londra, quella dell’ analisi d’ambiente, illustrata nei romanzi la figlia del reverendo del
1935, e Fiorirà l’aspidistra del 1936, e le indagini sociali sulle zone colpite dalla
depressione economica con La strada di Wigan Pier.
Accanto a ciò i due grandi capolavori Omaggio alla Catalogna del 1936 e La fattoria
degli animali del 1945,che segnano la grande riflessione sul socialismo, le sue illusioni
e la sua quasi inevitabile degenerazione. L’esperienza del secondo conflitto mondiale e
la presa di coscienza sempre più forte del totalitarismo produrranno proprio 1984, il
capolavoro. Non va dimenticata in questo contesto l’inesauribile verve polemica che
dirige proprio contro quell’intellighenzia, che si riduceva ad essere più o meno
coscientemente la cinghia di trasmissione di visioni e prospettive politiche di parte e
rinunciava alla capacità della critica. Sia detto per inciso il Novecento è il secolo degli
intellettuali, precisamente dal 1925, quando per primo Giovanni Gentile utilizzò il
termine per indicare la necessità di un collateralismo omologato e omologante tra
scrittori, filosofi, artisti, intellettuali per l’appunto, con il potere politico. A questa
logica non si sottrasse la sinistra marxista che anzi fece e fa dell’intellettuale il simbolo
stesso dell’esaltazione di un’intelligenza capace di tradurre le affermazioni political
corret in ogni ambito, invocando sempre e comunque che ogni proposizione deve essere
in sintonia con il modello di pensiero che viene considerato referente della vita. Non
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sappiamo se G. Orwell conoscesse e in che misura le affermazioni di G. Gentile, ma
senza ombra di dubbio egli fu in politica un pensatore scomodo e finì isolato perché la
capacità di essere critici non appartiene che nominalmente all’intellettuale. La
letteratura, la riflessione asservita ad un’ortodossia umana e soprattutto a quella che
riduce la globalità dell’uomo ad un solo aspetto, fu combattuta da G. Orwell, che vide
negli intellettuali engagées solo “dei poetini effeminati” incapaci di vedere al di là del
proprio tornaconto accademico, economico e semplicemente di esibizione. G. Orwell fu
scrittore e pensatore ai margini, non allineato, capace di analisi e soprattutto di essere
lucido nei confronti della sua stessa parte. Infatti, se con precisione e insistenza, come
dimostrano le opere del 1936 e del 1945, seppe valutare l’inconsistenza del culto verso
l’Unione Sovietica di Stalin, che giudicò negativa non per la sola questione della guerra
in Spagna, come vedremo, da parte degli intellettuali, non per questo rinuncio all’ideale
socialista, che egli voleva attestato sui principi di “giustizia” e “libertà”, elementi questi
che il comunismo leniniano, staliniano e trotzkista non poteva certo accettare, pena la
sua stessa sconfitta. Il socialismo di G. Orwell appartiene però più alla tradizione
inglese che va dalle prospettive di giustizia di Ockham a quelle di Tommaso Moro, a
quelle dell’equilibrata società umana degli illuministi inglesi, alla denuncia sociale dei
grandi scrittori dell’Ottocento e con quella venatura di autentica esigenza di costruire un
“buon luogo” per gli uomini. In questa direzione una visione politica che sia al servizio
della morale, non un assoluto indipendente dalla realtà complessa dell’uomo. Non fu un
seguace del marxismo-leninismo stalinismo ecc. di cui lesse con capacità i limiti. Esiste
sempre nelle sue opere e nei suoi pamphlet quella tensione morale che è cara a chi ha a
cuore le sorti dell’umanità, che vorrebbe non divisa, ma unita, capace di realizzare quel
bene che è equilibrio ed armonia, non raggiungibile, come pensava il marxismoleninismo e lo stalinismo con un egualitarismo economico, dove qualcuno finirà sempre
per avere qualche cosa in più. Il socialismo orwelliano non è l’utilitarismo di una classe
su di un’altra, ma è l’armonia delle parti. Certo il secondo conflitto mondiale, la tragica
fine del conflitto stesso con le bombe atomiche, minerà profondamente la fiducia
nell’umanità o, meglio, nella capacità di riuscire a costruire quel “buon luogo” che non
sia illusione e soprattutto egli teme l’avvenire di quell’illusione, che cercherà con il
terrore, la psicopolizia (neolingua) di mantenere il proprio dominio. Il potere del Grande
Fratello non è un’autorità, quell’augere che innalza l’uomo e pone chi detiene il potere
al servizio dei cittadini, ma è solo dominio. Questo dominio evita la propria
destabilizzazione, la propria destrutturazione attraverso l’autovalorizzazione di se
stesso, la richiesta di militanza passiva e soprattutto l’interiorizzazione con conseguente
manifestazione, dei contenuti. Gli strumenti per la propria conservazione, dacché chi
conquista il dominio, anche attraverso una rivoluzione, diviene inevitabilmente il
conservatore di se stesso, sono la logica della forza mediante la paura, il terrore, il
controllo reciproco tra i “compagni” e finale, attraverso la polizia segreta e la negazione
costante di qualsiasi possibilità che venga negato il dominio stesso. La cosiddetta
intellighenzia si pone al servizio di ciò, in cambio di un’illusa libertà, perché questa
cessa appena una ventilata negazione del dominio si evidenzi. Infine il partito è la
cinghia di trasmissione del dominio, per questo motivo esiste solo il PARTITO e la
politica dell’autovalorizzazione comanda al partito le modalità di esecuzione. Non è
necessaria la violenza se i “compagni” si omologano e si adattano, ma se viene meno
l’obbedienza, che non è una virtù, ma una necessità, ecco allora che la violenza non è un
valore aggiunto al dominio, un’estrinseca possibilità, ma è un elemento stesso della
razionalità dei processi di autovalorizzazione. Con lucidità estrema, forse il maggior
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interprete italiano del comunismo nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo, AntonioToni- Negri, ha ben individuato, contro gli pseudo tentativi democratici della sinistra
marxista italiana con il testo Il dominio e il sabotaggio7, il ruolo della violenza
nell’organizzazione del potere operaio. Non è il partito il dominatore, ché, altrimenti, si
incorre nel fallimento – errore staliniano non leniniano -, ma la sua essenza (idea,
pensiero, ecc.) il proletariato che, capace di sabotare, i processi che negano la sua forza,
assume il ruolo di assalto al cielo- felicità di lotta – per un mondo nel quale tutti saranno
uguali, anche se qualcuno più eguale!
Certo G. Orwell non sviluppò attraverso un trattato le sue considerazioni politiche,
ma si affidò in prevalenza al genere letterario del romanzo, che è però romanzo
d’impegno, d’analisi attraverso la metafora, il paradosso. Ben aveva insegnato il grande
statista Tommaso Moro con Utopia: si può ottenere più con un racconto, che con un
saggio8, con il catturare nella fantasia e, nel tempo stesso, affermare la verità, ma anche
l’illusione. La breve vita di G. Orwell dal 1946, dopo il saggio Perché scrivo, sarà tutta
dedicata a combattere il totalitarismo ed i suoi esiti, consapevole anche di quella guerra
fredda che intanto si andava sviluppando e rafforzando. Nel 1950, mentre sta attendendo
ad una revisione proprio di 1984, G. Orwell muore, la sua visione è certamente, alla
fine, pessimistica, ma possiamo considerarla anch’essa una finzione letteraria, affinché
comprendiamo il valore della libertà e della giustizia tra gli uomini.
3. G. Orwell e la Spagna
L’analisi dell’opera di G. Orwell è complessa e se essa raggiunge l’apice proprio con
l’ultima opera, è con Omaggio alla Catalogna che egli ha la prima e avvincente
maturità, perché in essa confluiscono la dimensione autobiografica, sempre presente in
tutte le opere, e la visione lucida e senza veli della guerra di Spagna, che nel panorama
europeo del XX secolo non è solo una questione interna, appunto “una guerra civile”
come spesso la storiografia la chiama. La “guerra” di Spagna, è il “banco di prova” del
conflitto ideologico, che attanaglierà l’Europa ed il mondo fin al 1992 e ancora dura in
qualche Stato. Omaggio alla Catalogna è inoltre un documento di grande rilevanza
storica, è una delle poche ed organiche testimonianze della guerra spagnola, delle lotte
intestine tra le forze repubblicane9. Non comprenderebbe però bene questo testo chi lo
7
A. NEGRI, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli,
Milano 1978. part. pp. 60-71, le tesi dello studioso patavino erano invise a quella parte del marxismo
italiano che ormai sentiva prossima la conquista con la politica di A. Moro, del potere. Non a caso il
concetto di autonomia è oggi la dimensione più importante del movimento di origine comunista, nel quale
si è innestata la dimensione dell’individuo come fine a se stesso e si condisce con un edonismo privo di
qualsiasi concetto di libertà, come scelta di dovere personale, umano e sociale.
8
Non a caso Utopia doveva uscire per i tipi dell’ editore Froeben di Basilea nel 1516 con il saggio
dell’amico Erasmo da Rotterdam Lamento della pace, quasi a sottolineare come il racconto paradigmatico
si debba unire con la riflessione, ma ambedue convergenti nell’essere al servizio del valore dell’umanità.
9
La testimonianza di Carlo Rosselli “diario” (cfr. Catalogna, baluardo della rivoluzione, in ID, Scritti
politici e autobiografici. Agli ordini del popolo di Spagna, Archivio Famiglia Bernieri, Pistoia 1982,
p.26ss.), è ben diversa. Egli descrive e apprezza il sindacalismo anarchico, diffamato misconosciuto, ma
che rivela grandi virtù costruttive. Nessun parola però contro la negazione della loro entità e valore
politico da parte dei comunisti di fede sovietica! Uno scritto di un partecipante acritico e orientato solo
contro il fascismo e Franco, inoltre la sua adesione all’esaltazione utopica ben si intravede nelle seguenti
parole: “I compagni che partono per la Spagna vanno a raggiungere i 2.000 antifascisti italiani che da
mesi combattono sul fronte proletario; vanno a raggiungere il primo, ma intrepido nucleo della futura
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riducesse ad una riflessione di un protagonista, essa è anche la denuncia di una cultura
che cerca l’egemonia e non esita ad imporla. Ciò che a G. Orwell interessa non è la
denuncia del franchismo, del fascismo e del nazionalsocialismo, questi movimenti
compaiono in sottotono, ma del comunismo, quello che Stalin, sulla scia di Lenin aveva
fatto maturare completamente e che in Occidente non era ben ancora conosciuto10. La
denuncia dello scrittore, che con generosità, come tanti altri scrittori, filosofi, sociologi
(Sthephen Spender, W.H. Auden, Cristopher Caudwell, Ernest Hemingway, John Dos
Passos e non va dimenticato il tentativo di entrare in Spagna di Walter Benjamin) era
accorso a difendere la Repubblica spagnola, è soprattutto contro “ le mosse stupide e
crudeli, la doppiezza, il machiavellismo e la disinformazione messe in atto dai
comunisti…”11, dai comunisti che facevano soprattutto riferimento all’ URSS e la cui
prima preoccupazione era l’eliminazione politica anche attraverso la violenza fisica,
degli avversari interni. Del generoso tentativo di tante persone, che videro nella guerra e
nel conflitto interno della Spagna l’occasione per rivalutare il ruolo stesso della persona
di cultura, dell’intellettuale12, amaramente si deve constatare che non ci fu che
distruzione e negazione dell’avversario anche vicino, ma distante ideologicamente. Ci si
preoccupò più di loro che dei veri nemici, secondo la nota prospettiva di Stato e
rivoluzione di Lenin. Il Partito – sostiene anche Stalin- “non può essere solo un reparto
di avanguardia. Esso deve essere, in pari tempo, un reparto, una parte della classe
operaia, parte intimamente legata ad essa con tutte le fibre della sua esistenza. La
distinzione fra avanguardie e la restante massa delle classe operaia, fra i membri del
partito e i senza partito, non può scomparire fino a che non saranno scomparse le classi
[…]. Il partito non può dirigere la classe se non è legato con le masse senza partito, se
non esiste una saldatura tra il partito e le masse senza partito , se queste masse non
accettano la sua direzione, se il partito non gode tra le masse di un credito morale e
politico.”13 Per ottenere questo qualsiasi altra alternativa deve essere soppressa, come fu,
per il partito di G. Orwell, il P.O.U.M. (Partito Obrero de Unificacion Marxista),
armata rossa italiana; vanno a confondersi con le centinaia di migliaia di giovani proletari che a
Madrid…..Bilbao tengono alta la bandiera della libertà e della rivoluzione nel mondo.” ID., Perché
andammo in Spagna, ID, Scritti politici, op. cit. p. 37. Strano che non fosse accusato di trotzkismo.
10
Ricordiamo che proprio con Stalin la Costituzione dell’ URSS ha espresso nel modo più completo i
principi del comunismo che da Marx (cfr. Il programma politico de Il manifesto del partito comunista, op.
cit. pp. 50- 51) in poi erano stati la guida. Ad essi Lenin prima e Stalin si rifacevano e li tradussero in una
organizzazione che per affermarsi non si è limitata certamente alla sola alla propaganda, cfr. AA.VV., Il
libro nero del comunismo, Mondadori, Milano,1998.
11
Georg Orwell, in G. ORWELL, La fattoria degli animali, tr. it. di B. Tasso, A. Mondadori, Milano
1996, prima edizione 1947, p. IX.
12
Tra il 1936 e il 1937 il termine intellettuale diventa comune anche per la sinistra marxista ed il
liberalismo. La definizione di B. Croce è efficace al proposito. Il filosofo abruzzese, napoletano
d’adozione, pubblicò il 1° maggio 1925 su “Il Mondo” un Contromanifesto, contro il Manifesto degli
Intellettuali di Giovanni Gentile, si dice spesso, ma in realtà era Una risposta di scrittori, professori e
pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti. B. Croce rifiuta il termine “intellettuali” e
adotta una contrapposizione forte, anche se poi nel 1937 nella “Critica”, si deve a lui una nuova e
positiva definizione: “…gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini,
esercitano il loro diritto e adempiono al loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo,
come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni
dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale.”
13
STALIN, Dei principi del leninismo, in ID, Questioni del leninismo, Ed. in Lingue Estere, Mosca
1948, pp.87-88.
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piccola formazione anarco-sindacalista della Catalogna14: pericolosissima formazione,
perché non accettava la direzione sovietica15. La dichiarazione poi dell’autorità
repubblicana di Spagna contro il P.O.U.M. – dichiarazione di illegalità – è un’ulteriore
dimostrazione di come furono soprattutto le divisioni del fronte repubblicano a
determinare la sua sconfitta e non fu solo una questione di armi.
La delusione di G. Orwell, che aveva dato il suo sangue – era stato ferito – è cocente,
ma non è la tristezza che gli fa scrivere l’Omaggio, piuttosto l’esigenza di “dar ragione”
delle proprie scelte, delle proprie vicende e additare al mondo quanto un’ideologia
totalitaria può distruggere in termini di libertà e ciò con la coscienza che il lettore dovrà
prestare “attenzione alla mia partigianeria, ai miei errori di fatto e alla distorsione
inevitabile causata dal mio aver visto solo un angolo degli avvenimenti. E attenzione
alle stesse identiche cose nel leggere qualsiasi altro libro su questo periodo della guerra
di Spagna.”16. La denuncia è forte proprio quando nel 1938 scrive e pubblica l’Omaggio,
perché G. Orwell vuole indicare proprio all’Inghilterra il pericolo che si parava innanzi
e di cui solo pochi erano coscienti. La guerra di Spagna diventava sempre più l’inizio di
quella guerra contro i totalitarismi, che avevano avuto inizio con la presa del potere di
Lenin nell’ottobre – calendario giuliano – del 1917. La vita inglese nel 1938 sperava
nella tranquillità, dormiva; infatti “tutto dormiente, profondo sonno d’Inghilterra, dal
quale temo a volte non ci sveglieremo fino a quando non ne saremo tratti in sussulto
dallo scoppio delle bombe.”17
Sappiamo bene come iniziò il secondo conflitto mondiale con l’unione dei due
maggiori totalitarismi, il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo con il Patto
Molotov-Ribbentrop, e come, finito il secondo conflitto, non cessò la lotta contro il
totalitarismo sovietico. Molti decenni occorreranno al sonnolento Occidente per capire,
e ancora, ahimè sopravvivono psicoideologie e partitini, che con la storia di violenza e
sopraffazione del comunismo non vogliono, o forse non intendono, fare i conti. Tutto
ciò nonostante l’implosione dell’URSS e le ultime vicende dell’isola di Cuba. A costoro
le parole di G. Orwell suonano apocalittiche, non vanno intese, anzi è meglio
esorcizzare lo stesso autore, perché la conquista del dominio va fatta con ogni mezzo,
oggi soprattutto con quei mezzi che sembrano a livello di propaganda dare i maggiori
frutti anche quello.
Ecco la prima denuncia, organica, seppur in modo letterario e autobiografico. Pochi
si resero conto del totalitarismo, che ha come scopo la conservazione assoluta e con
ogni mezzo del dominio dicevamo, ma nel contempo la distruzione di qualsiasi forma
che possa essere alternativa, anche al suo interno. Non ci sono attenuanti storiche al
totalitarismo, non basta che funzioni la scuola o la sanità, come sostengono oggi
obsoleti intellettuali, per giustificare un regime!
Georg Orwell si rese conto di ciò ed ebbe il coraggio di denunciarlo, come solo Pio
XI con l’enciclica Mit brennender Sorge nel 1937 fece. Fu interprete dell’esigenza di
14
Le posizioni anarco-sindacaliste, pensate da Jean Sorel (Riflessioni sulla violenza, tr. it. M.G.
Meriggi, Prefazione di J. JULLIARD, Rizzoli, Milano, 1997) erano considerate come revisionismo e
deviazionismo e soprattutto, già da Marx e Engels (cfr. la critica a M. Stirner e a Bakunin, Tre articoli
sull’ anarchismo, s. traduttore, Libreria Colonnese, Napoli 1970 e la più celebre Ideologia tedesca, tr. it.
F. Codino, Introduzione di C. LUPORINI, Ed. Riuniti, Roma, 1969, pp. 97-442, una critica più vasta
dello stesso saggio di M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, tr. it. C. Berto, Introduzione G. PENZO,
Mursia, Milano 1993..
15
P. PRESTON, La guerra civile spagnola, tr. it. C. Lazzari, Mondatori 1999.
16
G. Orwell, Omaggio alla Catalogna, cit, p. 275.
17
Ivi, p.277.
9
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smascherare la falsità dell’umanesimo marxista-leninista-staliniano anche quando la
stessa Inghilterra si alleò, obtorto collo, all’URSS. Proprio l’impegno per la giustizia e
la libertà, la grande eredità del liberalismo inglese sempre presente, come diceva
Bertrand Russel in G. Orwell, porterà lo scrittore a comporre in pieno conflitto Animal
Farm, la denuncia più completa e più attraente nella forma della favola e del paradosso
del totalitarismo comunista.
4.
Georg Orwell: La fattoria degli animali
Nel pieno del secondo conflitto mondiale, scatenato dai due principali totalitarismi,
quello comunista e quello nazionalsocialista per la spartizione della Polonia18, e che
subitamente investì tutta l’Europa e le principali potenze mondiali, lo schieramento non
fu quello dell’inizio. L’URSS, che aveva stretto il patto con la Germania del nazionalsocialismo, con la doppiezza che caratterizza la politica di Stalin, sempre pronta a
sfruttare qualsiasi vantaggio a proprio favore, con rapidità si schierò con le potenze
occidentali democratiche, quelle stesse potenze capitaliste che avrebbe ben voluto
combattere. G. Orwell, che già aveva ben individuato la natura del comunismo ed in
particolare quello di Stalin, non comprese mai il livello di quell’ alleanza, e con le
capacità che gli erano proprie impostò e scrisse Animal Farm, una favola, perché in
quest’aspetto essa si presenta, ma, in realtà, un’analisi cruda e precisa della negatività
del comunismo, che affonda le proprie origini anche in situazioni negative, difficili per
molti, ma che degenera in brevissimo tempo, sfruttando l’ignoranza e soprattutto la
fiducia di coloro che, onestamente desiderosi di cambiare, finiscono con l’impedirsi di
essere autenticamente critici nei confronti della nuova situazione. Le difficoltà
incontrate per la pubblicazione non frenarono lo scrittore, ma lo indussero a chiarire con
precisione il valore della libertà di stampa.19
La scelta del genere letterario delle favola da parte di G. Orwell è quanto mai
efficace; non solo lo colloca nella grande tradizione inglese di Robinson Crusoe, de I
Viaggi di Gulliver de La favola delle api, testi che, leggibili anche dai bambini, come è
accaduto e accade, sono, in realtà, un approfondimento di importanti temi e invitano ad
un’attiva riflessione, ma contengono anche quella dimensione paradossale cara alla
filosofia da Zenone di Elea in poi.
In breve, gli animali della Fattoria Padronale, di fronte alle continue angherie del
proprietario Signor Jones, decidono sotto la guida del maiale chiamato il Vecchio
Maggiore – sempre un grande vecchio alla base – di ribellarsi ed allontanare l’uomo: “il
solo, vero nemico che abbiamo. Si tolga l’uomo dalla scena e sarà tolta per sempre la
causa della fame e della fatica.”20. L’analisi – l’Animalismo - del Vecchio Maggiore
18
L. KOCIEMSKI, Introduzione a A. KOC, La Polonia contro il bolscevismo, tr. it. L. KOCIEMSKI,
G. Beltrami, Firenze 1937, pp. 11-12: “Essa (la Polonia) non può essere comunista, perché non sarebbe
più Polonia, perché cancellerebbe tutto il suo ricco ed interessante apporto alla civiltà di Roma così
mirabilmente acclimatata dai polacchi sulle rive della maestosa Vistola. Anche nei riguardi del nazionalsocialismo, la sua posizione è netta, giacché la sua stessa formazione psicologia è derivata da elementi in
netto contrasto con la realtà dello spirito germanico e con la concezione germanica dei diritti e dei doveri
verso l’umanità.”
19
Cfr. G. ORWELL, La libertà di stampa, in ID, La fattoria degli animali, op. cit., pp. 107-08, dove
accusa la “maggior parte dell’ intellighenzia inglese” di servilismo verso i russi e al riguardo cita alcuni
esempi.
20
G. ORWELL, La fattoria, op. cit. p.6.
10
Centro di metodologia delle scienze sociali
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continua e si conclude con l’inno gioioso: Animali d’Inghilterra. Tre notti dopo il
Vecchio morì, ma non il suo messaggio, che organizzò gli animali, i quali, in breve
tempo, riuscirono a impadronirsi con la Rivoluzione della Fattoria Padronale,
ribattezzata Fattoria degli animali. Subito furono scritti i Sette Comandamenti
fondamentali su un muro21. Palla di neve, il maiale che aveva preso a cuore
l’organizzazione della fattoria li lesse e tutti accettarono. In apparenza sembra
soddisfatta la condizione di quel consensus iuris, che, secondo Cicerone, costituisce il
popolo, ma in realtà la loro definizione è un atto che già Napoleon, l’altro maiale non
accettò e si era subito dato da fare per prendere il potere ed iniziò a gridare ordini. Tutti
gli animali lavorarono alacremente, solo i maiali non lavoravano, ma dirigevano a causa
della loro cultura superiore – prima diretta e inequivocabile allusione agli intellettuali-.
Molti compresero il loro ruolo e Gondrano, il cavallo, adottò il motto: “Lavorerò di
più”. Gondrano, analogo di Stakhanov, rivelatosi solo uno strumento di propaganda,
godeva dell’apprezzamento di…Stalin. Proprio il Segretario Generale del PCUS il 17
novembre 1935 tenne un lungo discorso alla Prima conferenza degli Stakhanovisti dell’
URSS, che si conclude con il canto dell’ inno proletario22.
La vita della Fattoria prosegue inizialmente bene, i programmi di lavoro e d’
istruzione procedono; se il lavoro non presenta problemi, l’istruzione diventa quasi un
ostacolo per alcuni. Proprio per questo Palla di neve ridusse i Sette Comandamenti ad
uno: “Quattrogambe, buono, due gambe cattivo.”23 E’ importante tutto ciò, perché
sottolinea come dall’analisi del Vecchio Maggiore, si sia passati all’ideologia, che attira
sempre i mediocri, come sostiene H. Arendt e infine ad un unico slogan. Proprio di
slogan, infatti vive il dominio. Non a caso il Manifesto del Partito comunista si chiude
con uno slogan, dopo aver dato gli estremi di un’ideologia, la quale ritiene che basti una
sola idea “a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna
esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo
coerente di deduzione logica.”24
L’organizzazione divenne nella Fattoria puntigliosa, Palla di neve se ne occupava
direttamente e voleva migliorare la vita di tutti gli animali, mentre Napoleon sosteneva
che “l’educazione dei giovani era assai più importante di qualsiasi cosa si potesse dare
per i già adulti.”25 Nel giovani il futuro, ecco che qui l’educazione non è già quel
potenziare le energie, le facoltà proprie di ogni persona, ma la trasmissione guidata e
precostituita di determinati contenuti. Il totalitarismo non rispetta la persona, la sua
realtà, ma finalizza ogni individuo, fin dalla nascita – i cuccioli spariti nella Fattoria –
agli scopi del dominio.
I maiali poi diventavano sempre più importanti, loro riconoscevano a se stessi un
grado di superiorità e intendevano che questo fosse anche affermato dagli altri. “Noi
maiali siamo lavoratori del pensiero.”26 Ecco la chiave di volta, tutti siamo lavoratori,
ma il lavoro intellettuale è in ogni caso superiore, a questo compete il dirigere e
l’organizzare.
21
Allusione alle leggi scritte sulle mura della città di Utopia di T. Moro.
J. STALIN, Discorso alla prima conferenza degli stakhanovisti dell’ URSS, in ID, Questioni del
leninismo, op. cit. pp. 597-612.
23
Ivi, pp.27-28.
24
Ivi, pp.643-44.
25
Ivi, p.28.
26
Ivi, p.29.
22
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I tentativi del Signor Jones di riappropriarsi della Fattoria Padronale non ebbero esito
– l’esercito bianco fu sconfitto – le defezioni, come quella di Mollie (la graziosa e vispa
cavallina bianca), non turbavano l’ordine. I contrasti tra i due maggiori protagonisti –
Palla di neve e Napoleon, non apparvero in un primo tempo, ma lentamente essi
divennero pubblici, soprattutto quando Napoleon iniziò a disprezzare le idee di
modernizzazione di Palla di neve – il Mulino a vento -. Soprattutto il contrasto era nel
modo in cui si doveva organizzare la Fattoria, se unica tra tutte le fattorie oppure se il
suo modello dovesse essere esportato. Comunismo in un solo Stato, come voleva Stalin
o rivoluzione permanente in tutti gli stati come proponeva Trotzki Il conflitto fu
insanabile allora e ci rimise la vita proprio il comandante dell’Esercito Rosso. Nella
Fattoria il nemico interno, Palla di neve, su scacciato per opera dell’educazione. I
cuccioli spariti ritornarono a fianco di Napoleon in funzione di guardiani. Ecco la prima
grande trasformazione: la paura; il terrore doveva dominare affinché il processo
rivoluzionario di Napoleon giungesse alla sua realizzazione.
Sotto la guida e gli ammaestramenti di Napoleon “come schiavi lavorarono gli
animali”. I grandi lavori, i canali da scavare, l’industrializzazione a tutti i costi, ecco il
programma degli anni Trenta in URSS. Poco importò che qualcuno non fosse
d’accordo, poco importò dei sacrifici, tutto sembrò essere compensato. La vera novità
furono gli accordi con i paesi capitalistici, tra i primi quello con la fascista Italia; la
novità doveva portare vantaggi, quindi l’utile era lo scopo e soprattutto l’utile per i
maiali, che iniziarono a vivere nella casa colonica, a vivere meglio e iniziarono ad
aggiustare i comandamenti. “nessun animale dovrà dormire in un letto con lenzuola”,
bastò togliere le lenzuola e la legge era rispettata. Così la nomenklatura iniziò la presa di
potere e la propaganda iniziò il suo corso a giustificazione del dominio, negando anche
le evidenze storiche (Palla di Neve non aveva avuto la medaglia di Eroe Animale di
Prima Classe) e la polizia (i cani) continuarono la loro opera di terrore. Iniziarono i
processi, quelli nei quali gli innocenti si autoaccusavano. Tutto doveva servire a
stabilire e consolidare il potere di Napoleon e del suo enturage. Si finì anche con
l’abolire i segni della rivoluzione, l’inno Animali d’Inghilterra, fu sostituito dalla poesia
“compagno Napoleon”. Si rafforzò la dittatura personale con il conseguente culto della
personalità, che funziona fino a che le cose vanno bene.
La Fattoria degli animali continuò comunque la sua esistenza, il tentativo degli
umani di assaltare la fattoria stessa non andò a buon termine. Gli anni passavano, quasi
nessuno ricordava gli inizi gloriosi della rivoluzione, che diventò “ una vaga tradizione
passata di bocca in bocca.” Chi aveva su questa costruito il proprio dominio, continuava
a rafforzarlo. Le faccende non andavano male e ci si accontentava, procedeva intanto la
burocratizzazione delle attività e delle relazioni, nonostante ciò non si perdeva l’onore
ed il privilegio di essere membri della Fattoria.
Le trasformazioni continuarono fino al punto in cui si vide un maiale camminare
sulle gambe posteriori, a imitazione degli umani. Il silenzio avvolse tutto, ma ancora
una volta la propaganda aiutò: “Quattro gambe buono, due gambe meglio”. Così si disse
e così si accettò. La più importante trasformazione, che comparve sul muro dove erano
scritti i Sette Comandamenti fu: “TUTTI GLI ANIMALI SONO EGUALI MA
ALCUNI ANIMALI SONO PIÙ UGUALI DEGLI ALTRI”. La nuova lingua era
impostata, ma soprattutto si affermava che l’eguaglianza è qualcosa che ha un grado:
tutti uguali, ma i maiali sono più uguali. Quasi seguaci di Aristotele per darsi tono e
della logica del grado di partecipazione all’essenza, i maiali rafforzarono il loro
dominio. La loro progressiva umanizzazione, in realtà l’imborghesimento continuò,
12
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oramai i maiali condividevano la vita con gli umani, fino al punto in cui “le creatura di
fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale
all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere i due.” Ed ecco ritornare i corvo,
metafora dei profittatori, che era “scomparso” appena i maiali avevano preso il dominio.
E’ il pavido, che tema le conseguenze magari di quello che lui stesso ha predicato,
perché in quel momento andava bene, ma poi comprendere che non è più tempo e
quindi fugge e si ritira in ben sicuri e vantaggiosi luoghi. Ricompare quando ormai le
acque si sono calmate, anzi sono favorevoli alla possibilità di “campare” alle spalle
degli altri. Mesta figura dell’ideologo, del predicatore di buone prospettive, che non sa
vivere, ma che lo entusiasmano fino a che non gli tocca la greppia. Questi “personaggi”
ci sono sempre, si annidano dentro la società, dentro il partito, facendo finta di essere
necessari.
Triste epilogo per la rivoluzione, la Fattoria degli animali continuò ad esistere, ma
dimenticò i suoi principi, non aveva tenuto presente la natura autentica, quella dei
maiali, quella dell’egoismo e della prevaricazione, che, sfruttando gli ideali ed i sacrifici
di coloro che vi credono, prevarica e con la forza domina.
La critica di G. Orwell è piena e completa allo stalinismo, ma anche a quella visione
che nel nome dell’egualitarismo finisce con il negare la libertà, nel proporre il terrore.
Lo scrittore criticò solo il totalitarismo comunista e non quello nazionalsocialista,
secondo alcuni una mancanza, ma forse perché G. Orwell aveva compreso che nel
comunismo vi è la matrice di ogni totalitarismo moderno.
Certamente non vi è l’elaborazione teorica, ma se poniamo in relazione La fattoria
degli animali e 1984 con lo scritto, come abbiamo ricordato sopra, di Hanna Arendt, Le
origini del totalitarismo, ritroviamo gli stessi contenuti
5.
Georg Orwell, La fattoria degli animali, 1984 e Hanna Arendt, Le origini del
totalitarismo.
L’importanza di G. Orwell è nella sua capacità di fare della letteratura l’occasione
per divertire, istruendo. La fattoria degli animali non è solo una favola, ma soprattutto
una commedia, che avvince esemplarmente il lettore e lo invita a riflettere attraverso
anche la soavità ossia uno stile elegante e giocondo, che cattura ed avvince. Una
dimensione morale che trova in 1984 il suo necessario complemento, perché mostra,
significativamente, quale sarà l’esito di una società dominata, dove il linguaggio diverrà
nuovo e soprattutto sarà utilizzabile solo da coloro che hanno perfetta adesione
all’establishment . Il problema di una società totalitaria è il controllo. Se dalla favola e
dal romanzo comprendiamo tutto ciò, è opportuno fare almeno menzione di quelli che
sono gli elementi fondamentali di una società totalitaria, tutti questi presenti nelle opere
di G. Orwell.27
Con chiarezza A. Martinelli, quando introduce l’ opera Le origini del totalitarismo28
ricorda che la tesi centrale della H.Arendt “è che il totalitarismo è una forma politica
27
Non si tratta di una visione “a una dimensione”, ma di una prospettiva che vede l’uomo perdere la
sua libertà e soprattutto quasi coscientemente e responsabilmente. Non perché il potere lo organizza, ma
perché il potere fa interiorizzare se stesso. Una analisi più lucida di quella che H. Marcuse, ha analizzato
in L’uomo a una dimensione ( tr. it. L. Gallino, T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1967 (9).
28
A. MARTINELLI, Introduzione, a H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, tr. it. Di A.
Guadagnin, CDE, Milano 1997, p.XV, in questa pagina sono elencate le caratteristiche che riportiamo.
13
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radicalmente nuova ed essenzialmente diversa dalla altre forme storicamente conosciute
di regime autoritario e di potere personale come il dispotismo, la tirannide, la dittatura.”
“Laddove,” è la prima caratteristica “ha conquistato il potere, il totalitarismo, ha infatti
distrutto tutte le tradizioni sociali, politiche, giuridiche del paese, creando istituzioni del
tutto nuove.” La neolingua, i Sette Comandamenti, gli Inni, l’abolizione stessa della
risata. E’ noto che i totalitarismi mal tollerano l’ironia, figuriamoci la risata!29
Il nuovo modo di costruire la società – seconda caratteristica- “Ha portato alle
estreme conseguenze le caratteristiche della società di massa, trasformando le classi
sociali in masse di individui intercambiabili.” Tutti gli animali sono eguali, tutti devono
essere membri del Partito e tutti rispondono ad uno solo come se fossero una sol cosa.
E’ quest’ultima la terza caratteristica, non vi sono partiti, movimenti, ma un unico
centro di potere. Il totalitarismo ha invaso, - quarta caratteristica- la sfera privata”, il
Grande Fratello. La quinta caratteristica tocca il punto più importante, perché “ha
trasferito il centro del potere dall’esercito –la difesa comune – alla polizia” ovvero al
terrore, alla onnipresenza della polizia segreta o dei commissari politici, all’impotenza
di fronte a qualsiasi atto del dominio. I cani, sottratti e educati per i propri fini da
Napoleon. Infine il totalitarismo, ultima caratteristica, “ha perseguito una politica estera
apertamente diretta al dominio mondiale” L’accordo con il nemico di Napoleon, o la
lotta contro Eurasia, il ricordo del Patto Molotov Ribbentropp.
Tutto era stato indicato proprio da G. Orwell e con il pregio anche del divertimento
ne La fattoria degli animali. Nel contempo però vi è anche quel pessimismo che vede
G. Orwell lucido interprete delle possibili follie umane. Queste esistono e diventano
attive là dove non si sa conservare un granello di umanità, di dignità, di libertà e di
giustizia. Là dove cessa di esistere il natural lume, là dove non vi è altro referente che il
solo dominio umano, là inizia il sonno della ragione, che genera proprio quei mostri che
Bertold Brecht paventava, ma che difese ad oltranza nei suoi drammi didattici, perché
non vide o non volle vedere quanto compiva Stalin!30 Là nascono i gulag e i lager, là la
libertà è negata e soprattutto si nega e si viola la vita. La giustizia non esiste e tutto
dipende dal dominio, il quale ritiene che nessun sappia viver libero e per questo va
comandato, soprattutto il potere deve essere interiorizzato consapevolmente per essere
nel miglior modo proni proprio a quel potere che ti impedisce la libertà.
Libertà e giustizia sono per il bene comune, negarle significa distruggere la possibile
ed autentica convivenza umana. Proprio sul bene comune il grande filosofo italiano A.
Rosmini ci ha indicato quale deve essere:” il vero bene comune umano non è altro se
non la virtù morale, e tutti que’beni che possono stare insieme colla virtù.”31 Non a caso
il totalitarismo si maschera addirittura attraverso un impegno etico, che esige “il
superamento di interiorità/esteriorità”, una persuasione totale senza se e senza ma” da
parte dell’individuo” che “può avvenire solamente dandosi tutto allo Stato (si pensi, per
esempio alle tesi politiche di Rousseau) o al Partito (come richiede, ancora per esempio,
il marxismo soprattutto nell’interpretazione di Lenin.32
29
Il gesto sociale del riso, come affermava H. Bergson (Il riso, tr. it. e note di f. CECCARELLI,
Introduzione, F. Stella, Rizzoli, Milano 1991) è anche “qualcosa di leggermente attentatorio (e di
specificatamente attentatorio) alla vita sociale”, ID, Appendice alla XXIII Edizione, ivi, p. 154.
30
Afferma H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p.464: “L’unico risultato politico della
‘rivoluzione’ di Brecht fu quindi quello di incoraggiare tutti a lasciar cadere la scomoda maschera
dell’ipocrisia e ad adottare apertamente i criteri di giudizio della plebe.”
31
A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. D’ADDIO, Marzorati Milano, 1972, p. 191.
32
D. CASTELLANO, Nota sul totalitarismo, in ID, La verità della politica, Ed. Scientifiche Italiane,
Napoli 2002, p. 170.
14
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Il totalitarismo nega la dimensione della persona (questa carne, queste ossa e
quest’anima) sia come pensiero, i gulag, sia come carne, i lager, esibisce un individuo
che, privo di autentica comunità politica, e ridotto solo alla relazione statuale assoluta .
Vi è nello Stato totalitario una precisa indicazione nihilista, perché con esso scompare
l’uomo, la persona. L’amare conclusione di 1984 lo dimostra. Non vi può che essere
annichilimento là dove il potere è solo una costruzione senza coscienza del fine ultimo
dell’uomo. Non è il Grande Fratello il fine, ma quello che è proprio del Bene dell’uomo.
A questa prospettiva lo Stato deve vincolarsi e vi dev’essere subordinazione proprio
dello Stato al vero bene. Infatti, ogni costruzione politica non può autolegittimarsi solo
in base alla politica, fallirebbe. Lo Stato è strumento per l’uomo, giova ripeterlo, per il
conseguimento di quel buon fine, che è la felicità, felicità etica dove la politica o
l’economia, matrici dei totalitarismo del novecento, non possono coartare l’uomo.
Questo modo di concepire e purtroppo di realizzare lo Stato è un annullamento della
persona stessa, pone ostacoli ed impedisce il conseguimento del vero bene umano.
Privilegiando un aspetto dell’uomo, l’economia ad esempio, si nega proprio quella
globalità dell’essere umano che è compresa dall’etica. Infine proprio del totalitarismo è
l’abbandonare a se stessa la persona in nome e per conto di ideali utopistici, che negano
proprio quello che illusoriamente affermano. È la contraddizione alla base di ogni
ragionamento totalitario, perché considera un ragionamento umano come assoluto senza
confronto e soprattutto senza dignità e giustizia.
6.
Utopia e libertà
Dalla Repubblica di Platone fino ad oggi abbiamo imparato l’importanza della
progettazione del futuro, quanto nella politica la ricerca del bene comune, da tradursi in
bene civile, cioè in organizzazione che può comprendere anche la forma Stato, sia
importante il senso morale e che le azioni siano coerenti a quella dimensione di Bene
che è al vertice di tutta la nostra possibile riflessione umana. Dalle stesse vicende della
vita di Platone, il rifiuto di Dionigi, tiranno di Siracusa di dare attuazione al progetto
politico dell’idealista, abbiamo anche appreso che la dimensione ideale può, anzi deve
essere regolativa della stessa prassi, ma non essere la prassi stessa. Il mondo non si può
progettare e realizzare, esiste sempre uno scollamento tra le due dimensioni. Di ciò ben
si rese conto l’uomo politico inglese fin dai suoi esordi nelle cariche politiche,
Tommaso Moro, oggi san Tommaso Moro indicato da S.S. Giovanni Paolo II nel
Giubileo per i politici, loro protettore, quando scrisse Libellus vere Aureus nec minus
salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque Nova Insula Utopia,
brevemente per tutti Utopia33. Non si è mai considerato abbastanza che il termine,
coniato proprio da T. Moro, indica un buon luogo, più che nessun luogo, ma la
tradizione dall’Ottocento soprattutto ha assegnato al termine un significato di illusione
di “immaginazioni prive di fantasia … robinsonate” come chiamava questo genere di
33
E’ questa un’isola scoperta dal filosofo Raffaele Itlodeo durante uno dei viaggi di Amerigo
Vespucci (strano che non sia stata descritta dal vicentino Antonio Pigafetta!); la sua capitale è Amauroto
(=evanescente) e ha come capo il principe Ademo (=senza popolo). La piccola opera fa parte di quel
genere che ha il suo prototipo nel dialogo La repubblica di Platone e nel De civitate Dei e che continua
con molte altre, tra le maggiori ricordiamo La città del Sole di Tommaso Campanella e la Nuova
Atlantide di Francesco Bacone.
15
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cose K. Marx nella Einleitung34, e che si contrappone all’analisi scientifica della società
e alla sua trasformazione rivoluzionaria, quale il comunismo scientifico prevedeva, per
il futuro. Utopia non è un’ modello di repubblica da costruire, ma uno stimolo appunto,
così come lo è il Morias encomium di Erasmo da Rotterdam. Inoltre l’opera del
pensatore inglese ci appare quasi subitanea risposta a quel testo che determinerà il
futuro della politica continentale, cioè Il Principe di Niccolò Machiavelli, scritto tre
anni prima. Utopia è la linea di ispirazione della sua prassi politica. Infatti, Tommaso
Moro fa della sua rappresentazione dell’isola di Utopia, la direttiva per la sua azione.
Un politico deve pensare in modo completo allo Stato, non è amministratore o, peggio,
un gestore della cosa pubblica. Il suo non è un semplice servizio al sovrano e al popolo.
Il vero politico, quando è uno statista, non è condizionato dagli elementi del quotidiano,
questi spettano agli amministratori, ai funzionari e nemmeno dall’ondeggiare del
popolo, è senza popolo, è Ademo. La capacità di un politico è proporzionale alla sua
capacità di pensare in modo elevato, per fondare la sua prassi. Utopia non è un
programma sociale da realizzare, ma è una riflessione sui principi destinati ad assumere
una funzione normativa. Non il dominio come nella dittatura del proletariato, non nel
totalitarismo ideologico, fatto di slogan, la vita dell’uomo, perché G. Orwell con i suoi
capisaldi di libertà e giustizia intende, come il pensiero di Moro, afferma una visione
umanistica che vede l’uomo protagonista della vita, capace di libertà, come affermava
Pico della Mirandola nel suo De digitate hominis.
Nello Stato deve prevalere l’età saturnia e la giustizia. La vita dei cittadini deve
sforzarsi di essere come quella degli Utopiani che si svolge con regolarità, ma con una
forte ricerca “Circa la filosofia morale, disputano de le istesse cose come noi.
Ragionano dei beni dell’anima, del corpo e degli esterni, se tutti si possono chiamare
beni o solamente quelli dell’animo. Disputano della virtù e della voluttà, ma la
principale controversi tra loro è disputare in qual cosa consiste la vera felicità
dell’uomo, ovvero se consiste in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che
nella voluttà consista il viver felice. E si servono a questo della religione, la quale però
appresso a loro è greve e severa; né mai disputano della felicità, che non uniscano
insieme alcuni principi tolti dalla religione e dalla filosofia, senza i quali pensano che la
ragione umana sia tronca e debole ad investigar la vera felicità.”35
Non si tratta, ha ragione Kant, di proporre i filosofi come reggitori dello Stato,36 ma
coloro che si preoccupano della vita politica, cioè della società, che può organizzarsi in
uno Stato per realizzare il bene civile, traggano ispirazione per la realizzazione dei loro
compiti da principi e non da quel relativismo pluralistico, che in realtà maschera
l’incapacità di pensare, né da quelle visioni che tutto rapportano ad una interpretazione e
costruiscono totalitarismi. Ridurre lo Stato, la vita associata degli uomini ad pedissequo
ossequio e alla paura di esprimersi, significa proprio privarlo della sua funzione. La
negazione di questa visione dello Stato, che affonda le sue radici anche in Moro,
significa adattarsi a quelle correnti del pensiero moderno che lasciano l’uomo
abbandonato a se stesso e lo riducono a numero a funzione intercambiabile senza
personalità e senza scopo, se non quello di nutrirsi e magari anche male.
34
K. MARX, Einleitung, tr. it. I. F. Baldo-U. Curi, Introduzione U. CURI, CURC, Padova 1975, p.43.
T. MORO, Utopia, a cura di L. FIRPO, Utet, Torino 1970, p.171
36
I. KANT, Progetto per una pace perpetua, tr. it. Di M. Montanari, Nota introduttiva e note di M.
MASSARELLI, Rizzoli, Milano 1968, p.55:”Non bisogna aspettarsi che i re filosofeggino o che i filosofi
divengano re, e non c’è neppure da desiderarlo, perché l’esercizio del potere corrompe inevitabilmente il
libero giudizio della ragione.”
35
16
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L’uomo è libertà di progettarsi insieme con i suoi simili nel concorso di tutti, in una
visione dove l’eguaglianza non è egualitarismo, dove la ricerca del benessere non è solo
una questione di “cibo”. Là dove la libertà è a fondamento, là la civiltà di sviluppa, là la
pace autentica, non quella delle manifestazioni, diviene valore. Ciò è però una
conquista, una fatica, non una semplice legge, un comandamento. Non bastano buoni
principi, se sono disattesi, non sono validi i fini se i mezzi sono negativi. Ecco la
denuncia dell’antiutopia di G. Orwell nei confronti del comunismo è proprio questa. In
questo si sintonizza con Dickens, che egli considera quasi un suo antesignano Manca la
dimensione umana, manca il senso della libertà e del rispetto dell’alterità. Ci si affida al
solo dominio e la lotta è solo per il dominio, gli esclusi sono “carne da macello”.
E’ la libertà, la tanto agognata libertà, che costituisce la dignità dell’uomo, perduta
questa non c’è né morale, senso del dovere, né benessere civile, non c’è giustizia e
nemmeno equa distribuzione dei beni, ma sola prevaricazione, che usa di qualsiasi
aspetto, tecnica per dominare. E’ vero che accettare sé e gli altri significa fare fatica, ma
è questo anche un bene per il nostro convivere; infatti, imporre eguaglianze, che
diventano solo questioni materiali, è negare l’intima natura dell’uomo. Quanto il
totalitarismo comunista ha compiuto è la costruzione di un uomo privo di libertà, di
spirito, una macchina irreale per scavare carbone, come Stakhanov!
L’uomo può uscire da questa visione, la storia lo ha dimostrato. Il crollo del muro di
Berlino è ancora dinnanzi ai nostri occhi, sappiamo tenerne conto e maturare una
dimensione umana e sociale, dove l’uomo sia sempre fine e mai mezzo!
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