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Diario d’autore (2)
DALL’INDIVIDUO ‘PARTICULARE’ AL SOGGETTO PLANETARIO
‘Cahier’ pubblico e privato svariando dai libri di Emilio Gentile, Romano Luperini
e Margaret Mazzantini al senso di straniamento critico suggerito da frastornanti
nonluoghi come la Fiera della piccola e media editoria o anche un aeroporto dove è
sempre più difficoltoso riuscire a partire. E poi pensieri nomadi tra Malerba,
Lukács e Kundera per planare su una Germania dal lato familiare, ritrovata dopo
circa quarant’anni, e dove di fronte al Duomo di Colonia sentire di avere
riannodato i fili sparsi di un’intera vita.
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di Alberto Scarponi
lunedì 1° dicembre 2008
Curiosamente il primo giorno del mese è anche un lunedì. Comincia un mese, comincia una
settimana. Eppure in fondo fissare il tempo non ha senso, il tempo è un assoluto continuum,
siamo invece noi che cominciamo o finiamo continuamente e che (per bisogno di relazione con il
mondo? per conforto metafisico? per aiutarci a concettualizzare?) appioppiamo una data alla
cosa.
lunedì 1° dicembre 2008
Leggo oggi sul domenicale del Sole 24 Ore di ieri l’anticipazione del libro di Emilio Gentile
L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo (Mondadori). Descrive il fatto
in argomento come un Nuovo (cioè il Moderno secondo la sua natura autentica) che, divenendo
un Nuovo Totale, mette fine anche a se stesso.
Negli «ultimi giorni dell’umanità» (Karl Kraus) termina la civiltà. Non una civiltà, ma tutta:
«Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli
incendiari» (Robert Musil). Beh, direbbe con il suo ottimismo dell’intelligenza Massimo
Cacciari (anche lui absburgico, ma d’un’altra generazione), nihil novum, ogni krisis è catastrofe
(soprattutto per i singoli) e metamorfosi e, va da sé, ogni metamorfosi scombussola l’etica.
Tanto più quando il Centro del Mondo scopre che il mondo non ha più centro. «Quel che può
invece destare stupore», sembra comunque stupirsi Emilio Gentile, «è constatare che le
riflessioni sulla catastrofe della civiltà europea e sul destino dell’uomo moderno non erano
nuove, ma erano state già quasi tutte anticipate negli anni precedenti la Grande Guerra, nel
periodo considerato l’epoca bella della modernità trionfante».
Chissà se nel corso del libro egli rifletterà poi sul ruolo forse inedito, in ogni caso anticipatorio,
che assume la sensibilità artistico-scientifica (insomma la dialettica culturale) nella nuova società
dei grandi numeri (per intendersi la società planetaria) prodotta dal Moderno.
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lunedì 1° dicembre 2008
Il domenicale di cui sopra si apre con un gustoso «contrappunto» di Riccardo Chiaberge
intitolato Poveri editori deportati in Messico.
È il giornale di Confindustria e dunque, avendo in mente gli imprenditori, se la prende con chi
(pare di capire: la Farnesina) ha indotto una «folta carovana di editori, scrittori, intellettuali»
italiani a fungere da «invitados de honor» in una «Feria Internacional del Libro» a Guadalajara
in Messico. Dice che «parecchi» hanno «subìto la trasferta come una deportazione. Tre aerei,
sedici ore di volo» e «otto giorni di sagra latino-americana possono essere un prezzo accettabile
per gli autori in cerca di notorietà, per i prezzemolini dei siparietti letterari o per i cacciatori di
vacanze a ufo, un po’ meno per chi deve far quadrare il bilancio di una casa editrice».
Eurocentrico, la cultura sudamericana gli pare un’appendice, mi pare però anche rilevante la
visione di una Cultura economicizzata: da una parte i «produttori» veri e quadrati, dall’altra i
fannulloni vanitosi e parassiti.
Pare che da anni «i governanti messicani» tirassero per la giacca «i signori italiani del libro» (sic!
in Confindustria si parla chiaro, infine), i quali però facevano «orecchie da mercante» (appunto!)
perché «stentavano a vederci un tornaconto».
Comunque «adesso la comitiva è partita», «lunga e variopinta». E però Chiaberge rimane colpito
dall’«ampia rappresentanza di I.S. (Illustri Sconosciuti)». Nel suo esprit de géométrie, si consola
un po’, tuttavia, ma solo un po’, per la presenza di «nomi prestigiosi» «come Melania Mazzucco,
Elisabetta Rasy, Eva Cantarella, Remo Bodei o Giovanni De Luna». Pochi per tanta spesa.
Anche se, a occhio e croce, tutti collaboratori del domenicale. Almeno questo!
venerdì 5 dicembre 2008
Gironzolo in internet e trovo Romano Luperini citato, in un pezzo senza firma, a proposito di
questa storia della «nuova antropologia», una pessima cosa. Non che le cose vadano benissimo,
ma altro è guardarle con il tradizionale malumore, che viene a una certa età, per i tempora e i
mores di oggi, di contro ai tempi belli di ieri.
Nel libro di Luperini citato, L’incontro e il caso (Laterza, 2007), l’«oggi» è tutto l’Ottocento e
un pezzetto del Novecento, il tempo cioè «della piena modernità e della svolta modernista», da
lui studiato in Manzoni, Flaubert, Maupassant, Svevo, Proust, Musil, Verga, Joyce, Pirandello,
Tozzi, Kafka. Il nuovo dell’antropologia creatasi con il Moderno è che sarebbe terminata la
«fiducia nella libertà e nella responsabilità dell’uomo, nella sua capacità di confrontarsi con
l’altro», l’uomo sarebbe diventato un singolo «sempre più dipendente da pulsioni inconsce e dal
potere del caso».
La stranezza di tale idea della fine della (marxiana) preistoria dell’uomo è che Luperini ha letto
e, a quel che leggo qui in internet, considera «accettabile» l’Ontologia di Lukács, dove (con
l’aggiunta dell’appunto autobiografico Pensiero vissuto, anche questo da me a suo tempo
tradotto e curato in italiano) è detto che il soggetto storico della nuova epoca, iniziata più o meno
a metà del Novecento, è divenuto appunto l’individuo. Vale a dire il singolo essere umano, ma
un singolo incalzato dal problema evolutivo interno (si fa per dire interno) di divenire – da
individuo «particolare» [dopo la stampa della traduzione dell’Ontologia mi sono assai pentito di
non aver forzato un po’, scrivendo con Guicciardini: «particulare»] – individuo «generico».
Quindi ogni essere umano oggi nasce ontogeneticamente come filogeneticamente lo ha prodotto
la «preistoria», individuo «particulare», ma ha davanti a sé il compito storico di farsi individuo
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«generico», individuo all’altezza del «genere umano». Laddove generico o planetario significa
semplicemente che tale individuo sente sempre meno, nel rapporto con l’altro, le mediazioni
della tribù, della famiglia, della nazione, insomma delle formazioni comunitarie che lo hanno
accompagnato e difeso nel corso della sua evoluzione «preistorica» (articolandone di volta in
volta e talora simultaneamente, intrecciandosi fra loro, la libertà e responsabilità individuale,
l’etica), e che oggi, nella tarda o post o neomodernità, all’inizio della «vera storia» dell’uomo,
l’individuo generico (ossia, direi, antropico) si rapporta sempre più immediatamente all’altro, in
un contesto ormai societario. Non per nulla, della differenza funzionale fra comunità e società
Ferdinand Tönnies si avvide nel corso della «piena modernità» del 1887. Oggi la libertà e
responsabilità dell’individuo tende ad assumere connotati conspecifici, immediatamente
antropici.
Nella realtà si tratta certo di una «nuova antropologia» in fieri, ma allora occorrerebbe prendere
atto della sua cultura in elaborazione, quella del nuovo individualismo dotato di un proprio
campo di libertà e responsabilità. Lukács descrisse quella ontologia storica proprio come passo
preliminare necessario per descrivere la nuova etica.
sabato 6 dicembre 2008
Su TuttoLibri Lorenzo Mondo dice che il romanzo Venuto al mondo di Margaret Mazzantini
(Mondadori 2008) «rende onore, nel dilagante abuso della parola scritta, all’arte della narrativa»,
giacché fa «germogliare, con mano ferma e pensosa moralità, il seme della speranza dall’affondo
nei comportamenti più turpi e disperanti della specie umana».
Sul Foglio invece Mariarosa Mancuso vede in tale prodotto editoriale un disastro letterario: la
copertina è il ri-uso di un’altra copertina di un altro autore di un altro (si fa per dire) editore
(Einaudi); il risvolto, palesemente di mano dell’autrice stessa, rivela un «puro Mazzantini’s
touch», il quale pretenderebbe che sbagliare i contrari significhi «far lampeggiare il segnale
“Attenzione, Grande Letteratura”», nell’idea che un artista della parola si riconoscerebbe «non
dall’aggettivo giusto ma dall’aggettivo incongruo» (e, dice la Mancuso, fa venire in mente «la
neolingua dell’ucraino Alex nel romanzo Ogni cosa è illuminata» di Safram Foer, dove però
l’autore voleva far ridere). Quanto al racconto di Venuto al mondo in quanto tale, vi è in genere
un «sovrappiù di carne e sangue», mentre nelle scene di sesso si ha «abbastanza per un buon
piazzamento nella categoria Harmony Forever», anche se non tanto da vincere (nemmeno lì,
toh!). Insomma, «melodramma».
Boh! Magari la Mancuso avrà le sue ragioni per inviperirsi così (nel senso che il libro lei l’ha
letto e io no) oppure esagera ingenerosa per altre ragioni sue, però il sentore di «troppo umano»
che promana da molta narrativa italiana odierna indurrebbe in tentazione chiunque senta il
bisogno di capire davvero il mondo, la tentazione di rifiutare la carità (un rifiuto terribile, che
credo sia uno dei peccati maggiori, quelli contro lo spirito), rifiutare la carità del dubbio o del
silenzio a chi va pericolosamente smerciando luoghi comuni. È che, quando la barca va, i luoghi
comuni fanno sorridere e talora anche, allegramente, di cuore ridere, in tempi critici invece
lavorano, diciamo, per il re di Prussia. E allora uno giustamente s’innervosisce. Così mi sembra.
domenica 7 dicembre 2008, pomeriggio
Alla Fiera della piccola editoria dove oggi viene presentato un libro di Luigi Malerba. Anche
ieri sono venuto qui, per Gianni Toti. Con la medesima reazione di rifiuto. Fiera, folla, grandi
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numeri, che ci azzeccano con un libro? Dice: più libri più liberi. Lo slogan in luogo del
ragionamento.
Ma è poi vero che maggiore è la quantità dei libri, maggiore la qualità delle persone? Allora i
«grandi» editori sono meglio di questi «piccoli» e «medi»? Oppure: il gran numero dei lettori dei
paesi socialisti era il segnale della loro qualità?
Non è che la letteratura ormai, cioè la percezione e comprensione del mondo, nell’oceano
economico è stata sostituita dalla pubblicità? Il linguaggio è quello, simbolico. Nessuno più
s’interessa della cosa, ma solo dell’effetto che fa il suono con cui la si indica. (Come dire,
Mallarmé ci ha preso al di là del segno.) L’effetto di verità è sostituito dall’effetto di consenso.
Un effetto striminzito, sì/no, il voto, l’acquisto.
Qui dunque tutti siamo più liberi. E liberamente sciamiamo. (Quale sarà la differenza fra il
primordiale branco gregario e l’odierno aleggiante sciame?) Sciamiamo tra chioschi innumeri da
cui ci adocchiano sguardi cupidi, ma dentro una maniera falsamente assente, acuta, opaca,
sorniona, vivida, tetra o lieta a seconda della recita, mentre il nostro occhio visitante padrone
vaga lieve e altero, feroce belva della scelta.
Sappiamo di essere in un nonluogo, nel liquido d’un falso movimento, d’un traffico senza capo
né coda, a sé, che riceve senso, se lo riceve, da altro, siamo in uno spazio solo presente, in un
time-out ricolmo d’attesa, attesa, di una parola?, di uno sguardo?, sì di un atto che lo faccia
racconto. (Beh i francesi, Guy Debord lo spettacolo, Marc Augé il nonluogo, lavorano sulla
superficie, ma non è che la superficie non conti.) Qui in questo nonluogo ciò che ci annoda tutti
è, a noi esterno, un atto ipotetico, l’acquisto.
Ieri ho cercato, ma accanto e attorno a «Gianni Toti o della modernità. Un giornalista e scrittore
tra sindacato e avanguardia» solo eventi, cioè non temi ma titoli stranianti, incomprensibili o
dissuasivi, stando al grado zero, quello delle cose (che è in pratica sempre il grado semantico
dell’altro, del tuo nuovo interlocutore): il ruolo dell’ingrosso, da tokio a berlino, le voci di
santiago, 'a livella di antonio de curtis, la letteratura quebecchese, oggi stesso sarai con me in
paradiso, quirra, trovare un partner gradito, ananda yoga, le rese male necessario?, il prefisso di
dio.
Quando sono entrato ho dovuto lavorare un po’ per fare mente locale: la mia meta era un luogo
misteriosamente chiamato, dentro una fiera dell’editoria, piccola o grande che fosse, isola dei
libri (un nonluogo appunto), lì io, in sostituzione disperata di persona più adatta, dovevo
presentare il romanzo-storia Quirra. Storia del castello e della contessa Violant della mia amica
Lia Secci, pubblicato da un editore detto, immagino fieramente, come tutto in Sardegna, Grafica
del Parteolla.
Questo compito amichevole, va detto, mi ha dato una meta e quindi una identità, nella Bolgia
dei Frastornati, mi ha sottratto a falsi smaglianti come allucinazioni magiche: per esempio a una
professione libraio presentata da Gianrico Carofiglio e Françoise Dubruille (evidentemente
esperti nella materia del 3° Corso di Alta Formazione in Gestione della Libreria), per esempio a
una invasione degli ultragay presentata da Oliviero Diliberto (evidentemente un po’ sfaccendato
in una fiera, nonostante la sua nota passione bibliofila), per esempio all’eventissimo della
ripetizione dell’intervista impossibile di Alessandro Baricco e Victoria Cabello a Rossini (il
compositore), letta da Paolo Bonacelli e Caterina Guzzanti presentati da Lorenzo Pavolini
(evidentemente trasformata in performance pura, a sé, lontanissima dal libro di riferimento,
esistente o inesistente che sia, e per me ormai evento derubricato a esperienza già consumata; è
che repetita juvant solo nell’intelletto, nel campo esperienza pura repetita non juvant per niente).
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Confesso che poi un «incontro con la poesia latino-americana» mi ha tentato fortemente. Quando
ho visto però che nella saletta da venti posti già i poeti erano dieci e che tutti e dieci erano
ristretti in sessanta minuti scarsi, come disposto dalla Superiore Organizzazione, ho avuto il
senso di trovarmi, più che nel fenomeno storico del nonluogo, nella marana della Garbatella ai
tempi in cui nel dopoguerra fra i ragazzi del quartiere vigeva la legge del bullo e della teppa e io,
che ero «uno che faceva la scola», risultavo del tutto inadatto a quella lotta. Ma pare che oggi
vada allo stesso modo, fuori e dentro la scuola, cioè peggio.
Lo stesso, psichicamente, m’è successo ieri con Gianni Toti. Per giunta, a vederlo, lui
cosmocomunista che a Civitavecchia organizza con me readings sconcertati, dentro una nave
ferma, con noncuranti poeti tumistufi e con nessun pubblico ovviamente salvo loro medesimi
postumi, mi è tornata la nostalgia delle sue parole piene che qui non ci sono. E me ne vado (l’exit
pare resti comunque una libertà, magari l’ultima, dell’uomo democratico).
Lo stesso mi succede qui oggi con Gigi Malerba. Non me ne vado per curiosità. Come se la
caveranno i sei o sette (Giovanna Bonardi, Silvana Cirillo, Andrea Cortellessa, Giulio Ferroni,
Angelo Gugliemi, Walter Pedullà e settimo l’editore, se vorrà parlare), nelle ristrettezze
d’ordinanza suddette, a dire qualcosa di sensato? Qualcosa che, non so perché, viene annunciato
in termini svalutativi: «parole al vento per Luigi Malerba». Autoironia? Dev’essere
l’understatement malerbiano, ma usato fuori registro di quel tanto che vi s’infila dentro il senso
contrario, quello del dubbio affermativo.
Qui in ogni modo tutto è – inevitabilmente, se si guarda la silhouette di Gigi Malerba contro lo
sfondo di tale occasione stranita – fuori registro, dall’incerto oggetto (presentazione d’un libro o
memoria d’un uomo? profilo a più voci d’uno scrittore appena scomparso o cerimonia sociale?)
all’incongruenza tra sordità d’una fiera commerciale e risonanza delle parole, delle parole
letterarie. Vedo che ciascuno reagisce a modo suo. Mi sembra tuttavia di decifrare dei tipi: i
giovani (la figlia Giovanna, che ha curato il libro, e Cortellessa) vanno dritti allo scopo, quale
che sia, i professori (Ferroni, che gioca il ruolo, e Cirillo) si tengono rigorosi al tema, quale che
sia, i critici (Guglielmi e Pedullà, che gioca il ruolo) protestano che avrebbero voluto ricordare il
loro amico Malerba, ma qui non si può o lo si può con affanno, quindi poco o punto. L’editore
non parla.
Ma, insomma, in un nonluogo, poniamo in un aeroporto, se ti intrattieni con la tua memoria e
con le questioni della personalità, perdi l’aereo e ti affanni, se per contro ti ossessioni con l’aereo
e le persecutorie traversie connesse (orario del check-in, due ore, un’ora e mezza, un’ora prima
della partenza, sua ubicazione negli spazi matematici dell’aeroporto, funzionamento dei varchi
doganali, inverso a quello dei varchi stradali, che se sono attivi non puoi passare e puoi solo
quando sono non-attivi, qui passi quando sono attivi, ma non sai se vogliono il passaporto, sì?
no? Europa ok ma…, sempre però vogliono controllare il tuo bagaglio a mano, per vedere se hai
con te la crema da barba, l’acqua di Colonia, il tagliaunghie o le forbicette, che una volta ti
lasciano passare, un’altra no, a seconda della faccia che hai, immagino, o delle variabili
istruzioni che hanno ricevuto o del modo come le interpretano, e qualche altra volta ti obbligano
a vuotare il sacco, ad aprire la borsa, guardano, ti danno una bustina di plastica trasparente e
sorvegliano che tu tutte quelle cose ce le chiudi dentro, così diventano legittime, poi puoi andare,
a cercare l’uscita spettante, che secondo te dovrebbe chiamarsi entrata, quindi evitare di
comprare ai prezzi esorbitanti del duty free, lì nello spazio fra l’invisibile confine di stato e il
volo, il quale volo infine si presenta comunque come un imponderabile quanto a ora, di partenza
e di arrivo, lingua, servizi, diritti, doveri), se ti ossessioni a connettere il destinale aeromondo con
la tua personalità, entri in una dolce demenza, se interna o esterna non sai.
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Dunque ci sono (non)luoghi dove la personalità è, diciamo, fuori luogo. tanto più la quintessenza
d’una personalità, quella letteraria. Parole al vento, proprio.
domenica 7 dicembre 2008, sera
Leggo l’ultimo numero (luglio-ottobre 2008) del Caffè illustrato, la rivista che Walter Pedullà
pubblica per dare volto alla sua idea ironica, volterriana, dell’illuminismo letterario. L’ho presa
in mano adesso perché c’è un Dossier Luigi Malerba pieno di fotografie che mi aiutano a capire
di più una persona con cui mi trovavo in sintonia.
C’è anche una intervista, raccolta da Doriano Fasoli. Sembra sia l’ultima, prima della morte
improvvisa l’8 maggio ed è più o meno inedita. Mi soffermo su un punto in cui ritrovo due
espressioni di Gigi che, al momento, non avevo capito. Me le aveva enunciate sorridendo tra
distratto e timido. Io avevo pensato che scherzasse e niente più.
Qui capisco. Malerba divideva i critici in caproni dialettici e pecore dogmatiche. I primi
analizzano, aggressivi e umorali, un testo e lo discutono sorprendendo persino l’autore, che si
meraviglia di «quanti significati possano scaturire da un romanzo o da un racconto» anche
travalicando le sue intenzioni. Questa critica, oltre a «sollecitare lo scrittore all’autocoscienza»,
lo aiuta ad aver chiaro il suo «repertorio di retorica personale».
Che per Malerba era «la dissoluzione del personaggio uomo, l’uso improprio delle strutture del
giallo, l’adozione di retoriche antiche come l’invettiva, l’introduzione delle tecniche della
digressione, l’operare sulla sintassi oltre che sul lessico, l’uso della dialettica o del sofisma in
funzione narrativa, le dissolvenze su linguaggi antichi, i paradossi e i paralogismi, il “monologo
esteriore”». Tutto questo a lui serviva per «insinuare qualche libertà in una lingua pietrificata
come l’italiano scritto della tradizione».
All’occhio pratico e fattivo di qualche giovane scrittore [secondo l’avvertenza dell’ultima pagina
dell’ultimo scritto di Lukács, Pensiero vissuto: il maggior pericolo dell’epoca è la vanità]
potrebbe sembrare semplicemente che così si spalanchino le porte all’anarchia di linguaggi, per
così dire, sgovernati. Invece Malerba tendeva esattamente al contrario: «La scommessa della
modernità sarà quella di sperimentare nuove forme senza rinunciare al piacere del testo e alla sua
leggibilità». Il senso: lavorare contro l’«italiano della nuova era elettrodomestica», contro questa
«lingua “impossibile”». Impossibile perché, nella sua volontà di sentirsi maniacalmente up to
date, di essere aggiornata con l’innovazione tecnologica, si fa rigida, antiletteraria, chiusa
all’espressione, spezzettata nella comunicazione breve e allusiva, simbolica, di «gerghi, dialetti,
plurilinguismi, linguaggi settoriali o di gruppo», i quali appunto non esprimono altro che un
aggiornamento d’appartenenza. Cioè – questa è la mia intepretazione dell’idea di Gigi – non
parlano, ma dicono solo che chi scrive, nel gioco del potere letterario, appartiene al gruppo così
denotato.
Tali appartenenze hanno invece bisogno di un altro tipo di critica, quella delle pecore
dogmatiche, che «descrittive e testimoniali» non usano argomenti ma aggettivi di consenso o di
dissenso. È che «così vanno le cose nella Repubblica delle Lettere», commenta nell'intervista
Malerba, senza recriminare più di tanto.
venerdì 12 dicembre 2008
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A cena da amici. Oltre che di computer, si finisce per parlare di politica. E qui va tutto male, anzi
catastroficamente.
Quanto al computer, si tratta sì di una condizione generale, ma questa non fa altro che rendere la
vita problematica. Solo che la vita sempre non è nient’altro che un campo di problemi da
risolvere. Dove dunque basta trovare la giusta Fragestellung e tutto torna (i tedeschi
ragionevolmente non parlano mai di problemi in sé, che nella loro neutralità sono irrisolvibili,
ma sempre di «impostazione del problema» appunto sbagliata o giusta). Altra questione è poi che
ciascuno finisce per credere di avere solo lui o lei l’impostazione appropriata. Quindi su questo
siamo tutti d’accordo.
La politica di oggi in Italia invece si presenta al discorso con i tratti della malattia, che c’è e –
niente – te la devi tenere, salvo l’intervento di un buon dottore. Questo non per la crisi
economica planetaria, che nella discussione fa solo da atmosfera ulteriormente maligna, come
una epidemia venuta, incurabile, da chissà dove in un posto dove mancano i dottori. La malattia
vera, originaria, che si vorrebbe che qualcuno, un taumaturgo (uomo o partito che sia), curasse, è
il trasformarsi dell’assetto cui eravamo abituati e in cui ci era chiaro quale ruolo (mentale) ci
veniva assegnato.
Insomma il punto di partenza del ragionamento non è che il mondo ovviamente cambia di
continuo e ora (anche per intervento della politica) è appunto cambiato, e quindi occorre
semplicemente adeguare i mezzi per governarlo. Naturalmente la complicazione è che
bisognerebbe sapere dove e come è cambiato il mondo. Nessuno però, né qui né altrove, sembra
prendersi la briga di fare questa analisi.
La sensazione che m’arriva è che i miei interlocutori intendano la vita come un processo stabile,
dai connotati eterni, dove alla fine il cambiamento risulta un male. Un male che appunto un
qualche dottore dovrebbe fermare o, meglio ancora, annientare: cassare il cambiamento,
restaurando la salute. Se questi non lo fa, è lui il male, il dottore. Proiezione psicologicamente
perfetta.
Dunque in Italia cos’è che dovrebbe essere restaurato? Il rapporto chiaro fra governo e
opposizione.
Laddove «governo» sono sempre gli altri, i cattivi. Si ha cioè questa situazione stramba: da una
parte gli «altri» che calcolativi fanno, animati dal loro freddo interesse, dall’altra parte ci siamo
«noi» che critichiamo, animati da calda passione per i valori (i diritti, il benessere, il progresso,
la libertà), sebbene poi nel piccolo della quotidianità a qualche calcolo siamo costretti, per
responsabilità di quelli che fanno, certo, ma anche perché una cosa è la teoria un’altra la pratica
in questa società.
In altri termini, se esaminiamo la cosa nel campo della sinistra, possiamo dire che nel quotidiano
l’utopia ha una funzione conservatrice.
Nel campo della destra vale la stessa schizofrenia: gli «altri» (stavolta la sinistra) sono mossi dal
loro freddo interesse, ideologico e pratico, e fanno, scompaginando le cose, mentre «noi»
critichiamo animati da calda passione per i valori (il diritto, [l’ordine, le tradizioni], il benessere,
il progresso, la libertà) ecc.
Insomma, l’eterno presente.
15 dicembre 2008
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Grandi preparativi per le feste di fine anno. Andiamo in Germania, a Colonia. Forse per questo,
pensando all’aeroporto, m’è venuta in mente l’acqua di Colonia. Io ci torno dopo una quarantina
d’anni, dopo il divorzio. Ora riunione di famiglia, allargata. Con complicanze a causa del gatto,
Attila, che essendo anziano, ha compiuto vent’anni da un paio di mesi, non può viaggiare e però
non va neppure lasciato solo, a cure distratte di qualcuno che gentilmente si presti. Dev’essere
una persona dalla competenza partecipe. Cioè Roberta o Rosanna, con cui occorre mettersi
d’accordo in forte anticipo, il che vale anche per il biglietto aereo low cost. Insomma, calcoli su
calcoli, e finisce che io parto il 25 e Beatrice il 28 dicembre. Il Natale evidentemente non è una
festa familiare.
25 dicembre 2008
L’aereo partirà circa verso l’una. Devo correre. Non ho né voglia né tempo di controllare per
essere più preciso. Il treno alla Stazione Tiburtina passa alle 10,02 e la metro oggi fa servizio
rallentato. Chissà se ce la farò. Gli orari mi mettono ansia.
Il cielo natalizio, grigio e intimo, allude al triste. Mi viene in mente che forse anche il Natale è un
diritto dell’uomo, un diritto innato. (Ci si potrebbe costruire sopra una storia fantareligiosa: un
tizio che vive avventurosamente questa giornata per il sentimento di questo suo diritto innato
viene conculcato, però il dono divino l’aiuta. In fondo molto postmoderna. Alle persone religiose
però non dovrebbe piacere il postmoderno, troppo ironico, non si sentirebbero prese sul serio.)
Qui sul treno ho un dilemma programmatico per i quaranta minuti che durerà il viaggio fino a
Fiumicino. Leggere o osservare? Lasciarsi prendere dalle impressioni minime (cielo, palazzi,
scritte incomprensibili sull’altro treno e sui muri che passano, le stazioni che si susseguono,
Tiburtina, Tuscolana, Ostiense, Trastevere, Villa Bonelli, Magliana, Muratella, e via di seguito)
o riflettere sul mondo (è che ho con me, in tasca, un Kundera che riflette sul romanzo ovvero sul
mondo di oggi).
Dal trascorrere delle cose davanti a miei occhi vengono infinite suggestioni per immagini e idee
che altrimenti sarebbero rimaste «dormienti». Per esempio lo zingaro che passa, suonando,
occupa il tempo che è mio con un atto di invadenza oppure è la socialita offerta, l’apertura (e
quindi devo dargli la mancia che chiede)? Gli do 50 centesimi per chiudere il problema (ma sono
l’unico nel vagone a farlo).
Tuttavia, per serendipidità, il mio atto sociale invita il giovanotto lì di sbieco a informarsi da me
circa il treno: arriverà in tempo all’aereo? È con la moglie (che se ne sta assente e dignitosa da
parte, con un’aria che dice: «Io non do confidenza facilmente agli sconosciuti, per ragioni di
“figura”»), vengono dall’Aquila e sanno che il treno arriva a Fiumicino un’ora giusta prima della
partenza dell’aereo. Faranno in tempo a imbarcarsi? Il check-in sarà ancora aperto? Io dimentico
tutte le mie analoghe ansie personali e, natalizio, gli infondo fiducia chiarendo la razionalità delle
mosse previste una volta arrivati alla a stazione dell’aeroporto. Lui mi sorride grato. Sereno.
Anche lei, vedo, si rilassa, tuttavia non mi sorride. Forse considera questo mio dono un diritto
innato. Dev’essere cattolica.
Poi al check-in incappo in un gruppetto di nonna, madre e figlio quattordicenne. Sono in coda
davanti a me guidati da una zia che funziona da addetta ai lavori: è lei che tiene le carte
d’identità di tutti, che sa come sia necessario aspettare con pazienza, che l’aereo non partirà
senza di loro, che c’è tempo e non bisogna temere, che, assicura, i posti saranno numerati (ah!
L’addetta! non sa che nelle linee low cost non è così, tutto è più sciolto, è fai da te, dove ti
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siederai è casuale – e invece no, mi torna in mente che, a fare il check-in via internet, si prenota
anche il posto a sedere).
La zia, l’addetta, telefona a qualcuno cui comunica più volte come lei sia tra Bangkok e gli
Emirates, dice proprio così, dando a quelle parole un sapore gustoso, erotico. Gli sportelli
collaterali corrispondono in effetti a quelle due destinazioni e prima – mentre io mi distraevo a
domandarmi se Mumbai c’entra con gli Emirates o è solo Dubai, dove Axel è andato in vacanza
quest’estate – ha già richiamato l’attenzione della nonna su quanto sia bella l’hostess con
quell’elegante velo che le pende dal berretto: «Sì è bella», aveva confermato la nonna, con una
esclamazione, tanto da guidare il mio sguardo verso una signora trentenne lustra e pinta, secca,
eccessivamente agitata nel vuoto di quel check-in non frequentato e dai lineamenti abbastanza
banali, sebbene ben tirati dalle creme, il che mi aveva fatto pensare alle fatiche di tali donne per
crearsi uno spazio di vita. La zia aveva aggiunto infine una notazione competente: «È il velo che
serve per coprire il viso». Io ho avuto l'impressione che invidiasse quella possibilità e che fosse
quello il senso del termine «bella» scambiato con la nonna, la quale ora, ricevendo casualmente
un bacio dal quattordicenne annoiato e intimidito dalla situazione, gli comunica: «È dalle nove
che lo aspettavo» tale bacio, al che il ragazzo sorride ulteriormente intimidito, ma nelle viscere
grato.
Sull’aereo m’immergo a leggere Kundera sul romanzo. Ripenso a ottobre, quando a Budapest
Imre m’ha dato la fotocopia dell’articolo uscito a Parigi su L’express international il giorno
prima con la notizia secondo cui Milan Kundera nel 1950, studente di ventuno anni, denunciò un
«disertore» amico d’un ex fidanzato di Iva (Militka) fidanzata d’un amico di Kundera stesso, di
nome Miroslav (Dlask), provocando così la condanna del «disertore», anche lui Miroslav (ma
Dvoracek), a 13 anni di lavori forzati. Pare che il «disertore» fosse rimpatriato per organizzare
un contatto tra i servizi segreti americani e un chimico cecoslovacco. E pare che sia stata la oggi
settantanovenne Iva a indurre un suo lontano parente a darsi da fare intensamente lungo i 25 km
di dossier e microfilm dell’Istituto di studi sui regimi totalitari di Praga per sapere chi – se il
fidanzato d’allora, Miroslav, o Kundera, amico di quel suo fidanzato d’allora – abbia quel
pomeriggio avvertito la polizia che Miroslav, amico di Juppa, suo ex fidanzato, ora fuggito
all’estero, sarebbe andato a trovarla quella sera. Il lontano parente di Iva pare che alla fine abbia
trovato un «rapporto n. 624» d’un commissariato di quartiere di Praga in cui burocraticamente si
racconta l’arresto su segnalazione d’uno studente Milan Kundera. Milan Kundera, oggi a Parigi
da trent’anni e oramai cittadino francese che scrive in francese, sostiene che non è vero niente,
mandando tutti a quel paese.
Misteri della memoria selezionatrice? Misteri della sventatezza o seriosità o crudeltà giovanile?
Misteri dei «servizi», che, come lo spirito divino, vanno dove vogliono quando vogliono con i
mezzi che vogliono? Misteri dell’amore che, pur fidanzato con altri, non dimentica? Misteri della
psiche femminile che ama coinvolgersi e avvilupparsi senza fine in intrighi di odio, amore e
tradimenti, magari al passato, da cui si erga però bellissimo il proprio io?
In verità giocare con tutta questa storia è per me una sorta di Übersprungshandlung, una di
quelle azioni a vuoto che ne sostituiscono altre, altre che non si possono o non si vogliono
praticare o di cui si vuole ritardare l’arrivo. (Come l’avranno tradotta? Azione-che-travalica il
suo oggetto? Azione che si esercita su un oggetto vicariante? Mah! L’illusione viziosa del
traduttore: l’esattezza impossibile.)
È che l'aereo mi sta portando, minuto dopo minuto, a Colonia dopo trenta o quaranta anni, non
so. Quindi: come ci si atteggia di fronte al proprio passato? ai suoi fatti? ai suoi segni? alle sue
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conseguenze? Forse l’azionismo pragmatico americano mi salverà dalla confusione. Basterà
vivere, vivere la cosa com’è.
Ma com’è?
A Colonia l’aeroporto è nuovo, efficiente, a metà strada tra Colonia e Bonn, 20 km di qua, 15 km
di là, che poi tra loro distano un’altra ventina di chilometri. Un niente. Solo che ad aspettarmi
non c’è nessuno. Kerstin m’aveva detto che sarebbe venuto Stefan. Invece niente. Sono sicuro
che si tratta di un normale ritardo. Succede.
Nel frattempo invio un messaggio a Beatrice per rassicurarla che sono atterrato e, un po’
scherzando, le dico la mia meraviglia: i tedeschi sono esatti, non come gli svizzeri, ma insomma!
E mi siedo pacifico a leggere Kundera sul romanzo. La storia del «disertore» la rimando a una
discussione politica con me stesso sul rapporto con il passato in questi paesi che il passato ce
l’hanno complicato. Però Beatrice pensa al presente e mi avverte che ha avvertito Karin del fatto
che Stefan non c’è. Conclusione: se sarà necessario, verrà a prendermi lei, Karin. Devo solo
telefonarle. E poiché suppone che io non abbia provveduto a portare con me i numeri telefonici
necessari, mi manda in calce quello di Kerstin e quello di Karin. La rassicuro che secondo me è
un normale ritardo.
Anzi, a questo punto scopro che siamo arrivati con più d’un quarto d’ora d’anticipo. Il pilota
delle Germanwings dev’essersi sentito un asso, ma la precisione è precisione, filosofeggio io, e
non prevede né ritardo né anticipo. La buona società è fatta di misure medie, non di eccessi.
Dimentico che io non sono mai puntuale e torno al romanzo e a Cervantes fondatore della
coscienza moderna, come ragiona Kundera.
Poi Stefan arriva. Un leggero ritardo a causa di taluni cambiamenti logistici nell’aeroporto che lo
hanno portato a parcheggiare lontano, per cui ha percorso tutto un lungo tratto a piedi, che
dovremo rifare. Ma è contento di vedermi, che io sia contento se l’immagina e tutto procede.
Quando siamo alla macchina, con gesto noncurante dice: «Eccola lì». Non: «Siamo arrivati»,
come direi io. Dice: «Eccola lì». D’improvviso mi ricordo che Axel mi ha detto che Stefan ha da
poco una rara Aston Martin. Evidentemente, arguisco, gli piacerebbe vedermi sorpreso, ma non
faccio in tempo: la sua voluta noncuranza è più veloce della fabbrica della mia meraviglia. Ci
ritroviamo seduti. Ammiro l’interno. Partiamo con sprint, allegri, sereni e, io almeno ritengo,
felici.
Il tragitto è appositamente turistico. Per permettermi di orientarmi, ricordarmi, assaporare i
luoghi intanto con gli occhi. Più lento dove c’è da dire ecco, quello è nuovo, quello c’era anche
allora, questo è il ponte, quello è il Reno, quello è il duomo, si riconosce subito, questo è il
centro, quello è il campus universitario, lì c’è la facoltà di giurisprudenza, dove Stefan povero
studente ha incontrato Kerstin, quello è l’istituto di cultura italiano, a due passi. Qua e là
abbiamo avuto qualche sprazzo di sprint rombante per farmi gustare anche il pregio di transitare
per queste strade con una Aston Martin (di cui non afferro bene il tipo, la serie o, se è, la
fuoriserie, ma non mi rivelo). In uno di tali sprazzi sprint dico con franco apprezzamento: «Sei
un romantico». E credo che Stefan mi capisca. Risponde che sì, è vero.
All’arrivo in casa baci e abbracci e sorrisi e contentezza. Kerstin, Luca, Giulia, Fabio. Un villone
a più piani interamente dedicato ai bambini, incluso l’ampio giardino. Oltre l’albero di Natale,
con sotto ancora i suoi pacchetti, dappertutto giocattoli sparsi e disponibili, dappertutto schermi e
attrezzature da gioco, persino un piccolo biliardo, un trenino grande come una stanza, una torre
Eiffel ricostruita da Luca, un pianoforte dove Giulia e Luca vanitosi suonano sorprendentemente
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bene per-elisa et similia per me. La sorpresa maggiore è che la stanza che ospiterà noi è in realtà
la sede della play station, dove loro trascorrono ore e ore.
Sistemo le mie cose, ma quando Fabio, che per i suoi tre o quattro anni, non so esattamente che
età abbia, mi incute un po’ di senso di colpa, cerco di riparare, lo invito a utilizzare il loro luogo
tranquillamente. Tranquillamente mi risponde: «Credo che mamma ha detto che oggi non
dobbiamo entrare a giocare nella stanza». Senza congiuntivi ma il tono è squisito. E se ne va a
strofinare, pensoso, automobiline multicolori sul pavimento di quello che sembra voler essere il
gran salone della casa.
Seduti a terra parliamo di cose concrete: le mani sporche ma non importa, la ferrari è rossa ed è
più veloce, però anche la mercedes, a lui piace quella, per me è indecifrabile, perché gioca da
solo?, non è solo, è con le automobili, in giardino ci va quando c’è il sole, adesso forse verrà la
neve, gli piace fare i disegni? sì. Secondo me ha spirito artistico. Lo deduco da come si muove
con la palla al piede.
Quando poi nei giorni successivi ci saranno tutti, con Axel, Anja, Tom e Laura, i bambini
scompariranno tutti insieme in loro traffici e corse e urla, mentre gli adulti avranno il problema
di trascorrere il tempo in modo sensato senza l’ausilio delle regole della quotidianità. L’unica
imperterrita sarà Beatrice che, appena arrivata, trascorre un’intera mattinata al telefono per
risolvere questioni intricate tra Napoli e Firenze da qui, da Colonia. Connecting people. Gli altri
hanno sostanzialmente, come si dice, interrotto. E s’intrattengono variamente.
A un certo punto mi trovo ad assistere in salotto a una intensa conversazione fra Kerstin, Anja e
Karin sulla scuola che non funziona, perfino qui in Germania, i maestri e i professori non sanno
più insegnare, le scuole sono male organizzate e i bambini e ragazzi ne soffrono, anzi ne soffre la
società. Decisione, mi sembra unanime, le nuove generazioni devono imparare l’inglese e il
latino, senza il latino le teste non funzionano. Credo di capire la tesi di fondo: il paese andrà in
rovina senza una nuova élite che, antisessantottescamente, sappia di latino. Per questo servono i
soldi, per avere una nuova classe colta, almeno con mezzi privati. Io su questa cosa della cultura
sono vagamente d’accordo e mi guardo la scena soddisfatto.
E mi sento altrettanto soddisfatto una sera in cui ceniamo tutti assieme, anche con Aurelia. Una
signora centenaria che tutti chiamano per nome, nessuno usa la definizione sociale di propria
competenza: nonna, bisnonna, forse solo la figlia la chiama mamma, ma raramente, tanto che
non mi risulta d’aver sentito la parola. Io dovrei chiamarla ex suocera, ma non si usa comunque.
Per cui mi adatto. Sta lì sola, piccola e impettita. Nessuno la cura. Mi accosto e le siedo accanto
sorridente. Non per tenerle compagnia, è che m’interessa la persona. In generale, ma soprattutto
da quando la figlia mi ha detto che lei, Aurelia, apprendendo del mio arrivo a Colonia, ha detto
che io sono mutig, coraggioso. Lì per lì m’è sembrata una medaglia al valore immeritata. Perché
sarei mutig? Perché dopo tutto quello che ho fatto, ho il coraggio, adesso, a distanza di decenni,
di tornare qui. E che ho fatto? Ho divorziato dalla figlia.
«Sei coraggioso», mi dice in effetti con approvazione, appena sono seduto sulla poltrona accanto
a lei (evidentemente ognuno ha il pensiero dominante che gli compete) e aggiunge anche che è
contenta di vedermi, perché è bello stare tutti insieme. Non credo riuscirò mai a capire se mi
perdona nonostante la mia impudenza o mi ammira per la mia nobiltà d’animo. Lei: «Ah, come
passa il tempo!». Io: «Beh sì». Lei: «Quanto tempo che non venivi in Germania?». Io: «Beh,
sono venuto altre volte». Lei: «Ma io non ti ho visto!». Io: «Sono stato altrove, a Stoccarda, a
Berlino, prima nella DDR…». Lei: «Ah, la politica. Sai quando si hanno cento anni…». Io:
«Però è bello avere cento anni». Lei: «Centouno». Io: «Ecco… vedi, la vita continua». Lei: «Non
è bello avere cento anni, uno diventa sempre più vecchio, non è bello…». Quando ci
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accomiateremo, più tardi, e la saluteremo allegramente con un’altra bevuta di champagne e lei
chiederà ancora un goccio perché il suo bicchiere le parrà scarso: «Cento di questi giorni!», le
augurerò spontaneo. Mi scatterà però subito il dubbio di essere stato, in un modo o nell’altro,
maligno. Lei d’altra parte andando a casa commenterà con la figlia, che mi riferirà il giorno
dopo: «Alberto s’è presa tutta la scena lui stasera. È un italiano».
(Forse per questo una ventina di giorni dopo ha lasciato la scena del mondo.)
Invece non sono italiano in quel senso, sono curioso, parlo per far parlare. Così accetto
volentieri, per esempio, di andare con Kerstin e Stefan a fare shopping. Non qui a Colonia, però,
che per tali faccende pare sia out. No, a Düsseldorf. A una ventina di chilometri. Traduco: RomaOstia. E mi pare un’ottima idea. Ma perché a Düsseldorf? A Düsseldorf c’è la Kö. La Kö? La
Königsallee, il viale del re, una delle strade più celebri della Germania per lo shopping. Ah!
Usiamo la Range Rover, una sorta di camion domestico con cui Kerstin dimostra tutta la sua
abilità da pilota di formula traffico e in venticinque minuti stretti ci troviamo a metà della Kö,
dove il camion s’imbuca liscio dentro un enorme garage sotterraneo a più piani. E vai! Lo
shopping ci attende.
Sopra, lungo la lussuosa Kö, un fiume impressionante di folla scorre tra insegne e brands e
marchi e griffes e grandi firme, prada, zegna, armani, gucci, vuitton e infiniti altri nomi per me
muti. Filza di boutiques. Lo spirito (o almeno il lusso) del nostro tempo pare parli soprattutto
italiano. A occhio, almeno un chilometro di luci e brillii nel pomeriggio grigio e tutte facce
ipertese, tutte che studiano fitto le vetrine. Guardo bene, mica vanno a passeggio, gli itinerari non
sono aleatori come nella movida spagnola o nello struscio della provincia italiana o come i
quattro passi di mio padre e mia madre la domenica pomeriggio a Ostia negli anni quaranta.
Queste persone non vanno a passeggio, né cercano incontri. Hanno il volto segnato dalla volontà
di vivere il proprio desiderio, forte appunto perché identico a ogni altro nella massa, ma
consolidandosi, attuale o possibile, di volta in volta sotto il nome diverso d’un oggetto diverso.
Ho bisogno di una matita. Una matita? Beh, non proprio. È che si fanno sempre più rare le
portamine funzionanti. Quella che ho, ieri si è rotta, la mina non scende più, così non posso fare
le mie sottolineature nel libro che sto leggendo. Scopro però che le insegne parlano di scarpe,
indumenti, persino intimi, gioielli, cibo, tutto firmato o almeno «particolare», come usa dire
oggi, ma non utile ovvero necessario in sé. Il lusso è il superfluo necessario socialmente.
Mi pare di ricordare una vecchia lettura, secondo cui la rivoluzione francese scoppiò anche per la
crisi della produzione di beni di lusso. La corona, al fine di diminuire il peso politico dei nobili,
li aveva attratti a corte e costretti a sfoggiare un lusso che andava oltre le loro possibilità. Così
s’indebitarono sempre più, finché i creditori li bloccarono e loro non poterono più acquistare. I
«ricchi» non compravano più beni di lusso e i «poveri», che non riuscivano più a campare, si
ribellarono. Se è così, la Germania sarà il bastione che ci salverà dai moti popolari europei.
Ieri Karin m’ha spiegato che la crisi qui ha inciso appena. Se ne vedono un po’ gli effetti
sull’attività delle agenzie di collocamento private. Cioè? Ce ne sono molte. Si tratta di imprese
che assumono lavoratori in vista di un loro impiego da parte di altre imprese. Gli imprenditori
lucrano sulla differenza fra il valore d’uso e il prezzo della forza-lavoro (parla ancora marxista
Karin), fra la somma che ricevono per il suo uso e quella che dànno alla persona del lavoratore, il
quale comunque ci guadagna la continuità nell’impiego. E allora? Allora la loro attività è molto
diminuita. Beh, è niente a confronto dell’Italia e soprattutto degli Usa.
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Già, ma Karin ieri mi ha raccontato anche di professori universitari, circa 800, i quali si sono dati
un nome come Gruppo per una economia alternativa, e questi professori sono assolutamente
contrari al modo in cui viene oggi affrontata la crisi. I governi tendono a mantenere e anzi a
rafforzare la divisione fra produttori (coloro che sono dentro al sistema delle imprese) e nonproduttori (coloro che erano e restano o addirittura diventano esterni a quel sistema: i ceti
nullatenenti, i disoccupati, ma anche i giovani e gli anziani, se, usciti dalla porta, non riescono a
rientrare tuttavia dalla finestra del consumo finanziato dalle cosiddette famiglie). In altri termini
si tenta di risolvere la crisi salvando i ricchi e lasciando al loro destino i poveri. Che è una cosa
di cui si è accorto anche il papa tedesco: Ratzinger l’ha detto l’altro giorno che bisogna pensare a
tutti, non solo a quelli che lavorano. Io commento: probabilmente gli hanno riferito degli 800
professori tedeschi e lui allora ha capito.
Qui sulla Kö vedo però che, nonostante gli 800, gli esclusi restano esclusi e vaffanculo (per
parlar grillesco). La mia matita o portamina, per esempio, non si trova. Cartolerie niente. Kerstin,
seccata perché per due volte, passando davanti a Tiffany, trova l’ingresso sbarrato da un
cortesissimo vigilante, – non ammettono più d’un certo numero di clienti per volta, – cambia
problema e propone di tentare, per me, da Mont Blanc, lì forse un portamina c’è, basta tornare
indietro di cinquanta metri. Non sarà che, ripassandoci davanti, vuole in realtà insistere con
Tiffany? Stefan ragionevole dubita. Infatti entro da Mont Blanc ma trovo un portamina a
duecento cinquanta euri. Lascio.
Pare che ci sia un ragionamento complicato sul lusso, che cioè vada distinto quello autentico da
quello sfoggiato e tutt’e due questi devono considerarsi separati dal lusso intermedio, che è poi
quello da tutti noi percepito. Ecco, quest’ultimo nella crisi va in effetti scomparendo, quello
sfoggiato invece rallenta soltanto, per ragioni politiche o etiche, mentre quello autentico regge
tranquillo. Insomma la produzione di alta gamma (la haute couture del lusso autentico e
sfoggiato) non risente della crisi, per cui dovremmo star sicuri circa le ribellioni popolari, non ci
saranno. La crisi investirà esclusivamente il lusso intermedio. Nulla di male, dal punto di vista
qualitativo, si avrà semplicemente un riordino: l’intermedio scenderà sempre più verso le marche
di massa, rivelando di potersi qualificare lusso soltanto per deriva semantica, ma di essere in
verità composto da consumi imitativi, di solito consistenti poi semplicemente in prêt-à-porter e
accessori. Vero: a Parigi mi ricordo d’aver letto il gioco linguistico chic pas cher, senza tuttavia
cogliere allora il senso socio-economico ovvero culturale di tale indizio.
Il primo segno dell’effetto crisi sul lusso intermedio ormai sceso a consumo di marche di massa,
dice, è negli Usa la difficoltà a usare la carta di credito. E infatti anche qui in Germania –
secondo me – le cose stanno andando così: i negozi la mia carta di credito non la vogliono. «La
macchina non l’accetta! Solo cash o bancomat», mi dice la cassiera quando intendo pagare un
gioco adatto alla play station 3 per Tom. «Ok! Ecco il bancomat.» «Questo la macchina non
l’accetta!» Pago in contanti e ascolto Axel che mi spiega come – gli hanno detto – ci sarebbero
macchine ancora arretrate ecc. Secondo me invece comincia la crisi: il segno è che i negozianti
tedeschi rifiutano le carte di credito in generale e quelle che si presentano come bancomat
stranieri, o almeno italiani, in particolare.
Una sera mi consolo tormentando, a cena, il marito di un’amica di Kerstin appassionatamente
tifoso del Colonia. Avrebbe in progetto un marchingegno economico-finanziario-pubblicitarioorganizzativo per rilanciare questa squadra di calcio, ora minore, imperniando tutto su Poldi. Io
non afferro, e non solo perché di economia e finanza e ingegneria pubblicitaria, mediatica o
extramediatica che sia, non m’intendo affatto, né intendo intendermi, quindi neppure mi applico
a capire, ma anzitutto perché mi manca il perno di tutto quell’ipotetico castello semovente: chi
sarà mai questo Poldi? Un italiano qui misteriosamente importante? No, ah ah. Si tratta
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nientemeno del giocatore d’attacco di fascia sinistra di nome Podolski, polacco di Colonia, il
quale, essendo cresciuto qui e sentendosi dunque molto kölsch (la birra chiara e leggera che dice
il carattere di questa città), amerebbe tanto essere il lustro e la gloria della squadra sua culla
calcistica. Io, memore del mio bancomat rifiutato dalla cassiera, secco il tifoso appassionato:
«No, Podolski, o se vogliamo Poldi, è già un acquisto della Roma». Chiuso il discorso. Mi
guarda incredulo, ma si vede bene che sente come il suo castello favoloso abbia troppo a che fare
con l’irrealtà. La realtà sono gli euro, magari italiani, va a sapere! Insiste un po’ con Stefan sul
marchingegno, con l’aria di dire: noi tedeschi sappiamo che si può fare! yes we can! che
c’entrano questi italiani? Ma Stefan sorride impenetrabile.
Colonia è comunque la città d’una chiesa. Un fiume e una chiesa.
Nel gelo di questi giorni passeggiamo per le strade dell’isola pedonale quasi fossimo in una
qualunque altra città domenicale: negozi, vetrine, edifici moderni e gente che, come sempre la
gente nelle strade cittadine, mostra di avere una meta da raggiungere. Anche noi tacitamente
abbiamo una meta: il duomo. Però quando siamo lì, la sua piazza ci sconcerta: sembra una
qualsiasi piazza turistica con le sue statue animate, cioè immobili e per questo, perché sono
persone che riescono a rimanere immobili così a lungo, nonostante il gelo e la fatica, si fanno
guardare. Io, forse prevenuto, ritengo di vedere sotto quelle maschere i lineamenti stranieri di
immigrati che sbarcano il lunario a quella maniera. Magari non è così.
Insisto per fermarmi a osservare il teatro di strada. Un attore, con il piglio dell’imbonitore da
fiera paesana (un residuo di vita premoderna), richiama una certa folla. La coinvolge. La divide
in due gruppi, quello di destra e quello di sinistra. Con la sua parlantina li guida, come un
direttore di coro, a emettere un modulato oh!, prima l’uno poi l’altro. Quando il secondo gruppo
ha pronunciato il suo oh! che egli ha spinto verso una maggiore espressività e sonorità, di colpo
si volge al primo gruppo, che è stato prima meno espressivo, e gli fa ironico il gesto
dell’ombrello. Tutti, partecipi e divertiti, ridono di cuore. Addirittura i due gruppi ripetono
consapevolmente il gioco. Ma una signora davanti a me, una popolana, si volta al marito e fa:
«Che svergognato! Andiamo via!». E vanno via.
Più in là, un tizio originale ma invisibile chiede sovvenzioni per proseguire un suo viaggio senza
meta, per il mondo, su una bicicletta a motore. In mostra, a testimonianza veridica del già fatto e
delle sue buone intenzioni di proseguire a fare, c’è la bicicletta con accanto attrezzature consone
con quel libero anarchico girare il mondo. Ancora più in là vedo in sosta un camioncino che
trasporta un gran pupazzo di circa tre metri; un cartello comunica che è in vendita, perché il
proprietario ha bisogno di spazio: il pupazzo, così vero da far dubitare che si tratti di un animale
imbalsamato, rappresenta uno scimmione, belluino e poco rassicurante.
Freddo intenso. Addosso alla rete che lungo il ponte di ferro sul Reno, dietro il duomo, separa la
strada pedonale dalla strada ferrata per i treni della tav (Colonia-Parigi tre ore e ColoniaBruxelles un’ora) sono appesi, come lo erano a Ponte Milvio a Roma ai tempi dei Tre metri
sopra il cielo di Federico Moccia, i lucchetti degli adolescenti tedeschi innamorati che si giurano,
anche loro così, amore eterno. Qui però i lucchetti sono a volte isolati e a volte raggruppati, in
numero ragionevole, lungo una rete d’un centinaio di metri. L’esibizione sentimentale di
adolescenti che desiderano essere esplicitamente tutti omologhi manca però qui di una forma
apparentemente trasgressiva, il modo non è disubbidiente, come quello usato dai ragazzi che a
Roma, ammucchiando senza criterio i propri segni d'amore, fecero crollare il lampione di Ponte
Milvio. Mi fa venire in mente «l’intimità protetta dal potere» di cui parlò Thomas Mann a
proposito della Germania.
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Ma ecco finalmente il duomo. La Germania è anche questo indescrivibile nesso fra psiche e
cosmo. Che non è misticismo, è solo un senso diverso della vita. Bisognerebbe fermarsi e
assistere in silenzio alla propria pace morale. Vederla, comprenderla.
C’è però il turismo. I tanti visitatori, forse non tutti turisti, puntano diretti al gran finestrone con
le vetrate «musulmane». La storia è curiosa. Gerhard Richter, artista della ex Ddr, ora
evidentemente divenuto cattolico, si è offerto di dipingere gratuitamente una delle grandi finestre
del duomo. L’offerta è stata accolta. Solo che Richter ha evitato di dipingere figure umane,
creando invece una grande composizione geometrica di forme astratte. Il cardinale arcivescovo
di Colonia, messo di fronte all’opera, vi ha visto una eco dell’atteggiamento iconoclasta verso le
immagini religiose, un atteggiamento che tuttora caratterizza i mussulmani (forse non tutti, mi
pare), e deve avervi sentito dentro una turlupinatura di quell’artista ossi, orientale.
Arrabbiatissimo, deve essersi immaginato un perfido ritorno, ancora una volta da est, d’un'eresia
plurisecolare ma alla fine ben sconfitta dalla Chiesa Cattolica.
Quel che non si capisce in tale storiella, è come abbiano fatto a mettere su il finestrone senza
l’approvazione preventiva del padrone di casa. Io m’immagino che una battuta, magari detta con
arguzia, sia stata trasformata in fatto scandaloso da raccontare ai turisti.
Per me rivedere il Duomo di Colonia è stato risentirmi intero come allora, la prima volta, un
pezzo integro di vita.