universita` degli studi di genova analisi di un progetto per adulti in
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA Facoltà di SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE ANALISI DI UN PROGETTO PER ADULTI IN DIFFICOLTÀ CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE MODALITÀ ORGANIZZATIVE DEL PROCESSO DI RIABILITAZIONE SOCIO EDUCATIVA Relatore: Chiar.mo Prof. Giulio PEIRONE Correlatore: Chiar.mo Prof. G.F. RICCI Candidato: Antonio REPERTORIO N° Matricola 1852633 Anno Accademico 2002/2003 INDICE PREMESSA p. 1 PARTE PRIMA: LO SCENARIO NAZIONALE ED EUROPEO DEGLI ADULTI IN DIFFICOLTÀ: LE SCELTE METODOLOGICHE p. 6 Capitolo 1: LO SCENARIO FORMATIVO p. 7 x 1.1 Alla ricerca di radici e direzioni comuni p. 8 x 1.2 La sfida dell’educazione permanente p. 11 x 1.3 Una nuova professionalità per l’educazione p. 24 Capitolo 2: L’INCONTRO CON GLI ADULTI p. 29 x 2.1 Una definizione dell’età adulta p. 30 x 2.2 L’evoluzione culturale della concezione dell’adultità p. 31 x 2.3 Riferimenti teorici p. 33 x 2.4 Ambiente, abitudini ed attitudini p. 34 x 2.5 La Vita di Gruppo p. 36 x 2.6 Le Organizzazioni p. 37 x 2.7 Crescita e cambiamento organizzatori di adultità p. 38 x 2.8 L’approccio “life span” p. 40 x 2.9 L’apprendimento e il modello evolutivo p. 41 Capitolo 3: ANALISI DEL FENOMENO DEI SENZA DIMORA p. 44 x 3.1 Le indagini nazionali ed europee p. 45 x 3.2 Definizione di «persona senza fissa dimora» p. 48 x 3.3 Il problema dell’esclusione sociale e delle persone senza dimora x 3.4 Dai “barboni” ai senza dimora p 53 p. 56 I x 3.5 Immigrazione e persone senza fissa dimora p. 57 x 3.6 Malattia mentale e persone senza fissa dimora p. 59 x 3.7 Tra strutture e soggetti p. 62 x 3.9 Dai senza dimora non integrati a integrati senza dimora? P. 67 x 3.10 Più che strutture nuove, un approccio diverso p. 70 x 3.11 Le barriere nell’accesso ai servizi sociali p. 74 x 3.12 La permanenza stabile nel territorio p. 75 x 3.13 Rigidità e chiusura dei servizi sociali p. 76 x 3.14 I criteri di “assistibilità” p. 78 x 3.15 L’assenza di una rappresentanza formale p. 79 x 3.16 Gli interventi del Terzo Settore p. 80 x 3.17 Autodeterminazione del soggetto e accesso alle risorse p. 83 x 3.18 Un’organizzazione del lavoro sociale p. 85 Capitolo 4: LA RICERCA-AZIONE: UNA TEORIA DI BASE PER IL LAVORO PEDAGOGICO CON GLI ADULTI p. 86 x 4.1 Formazione degli adulti e metodologie relative p. 87 x 4.2 La ricerca intervento p. 92 x 4.3 Oggetto di ricerca e problemi socioeducativi p. 93 x 4.4 Ricerca-azione, ricerca classica e ricerca orientativa p. 94 x 4.5 Le caratteristiche particolari della R-A p. 96 x 4.6 Prospettive pedagogiche e ricerca p. 101 x 4.7 Una risorsa per la formazione: il metodo biografico p. 102 x 4.8 Biografia di gruppo p. 105 PARTE SECONDA: ANALISI DI UN PROCESSO EDUCATIVO p. 106 Capitolo 5: L’ASSOCIAZIONE SAN MARCELLINO p. 107 x p. 108 Premessa II x 5.1 Presentazione dell’Associazione p. 108 x 5.2 Alle radici del progetto: le motivazioni p. 111 x 5.3 Lo stile x 5.4 L’attenzione alle persone senza dimora nel proprio ambito territoriale p. 112 p. 113 x 5.5 Risorse e metodologie d’intervento p. 115 x 5.6 Il Centro di Ascolto p. 120 x 5.7 Le realizzazioni p. 121 x 5.8 L'Alloggiamento p. 122 x 5.9 Lavoro p. 125 x 5.10 La dimensione animativa e culturale p. 129 x 5.11 Le attività p. 130 x 5.12 La formazione professionale p. 131 Capitolo 6: LETTURA DELL’ESPERIENZA GENOVESE DELL’A.S.M. NELL’OTTICA DELLA RICERCA-AZIONE p. 136 Premessa p. 137 x 6.1 La vita come progetto p. 137 x 6.2 Alcune riflessioni introduttive p. 139 x 6.3 Un percorso professionale personale: l’incontro con i club p. 142 x 6.4 Il materiale empirico p. 149 x 6-5 L’azione combinata p. 152 x 6.6 Tra stabilità e processualità p. 154 x 6.7 L’azione comunitaria p. 155 x 6.8 Il ruolo degli altri nel cambiamento p. 157 x 6.9 Un approccio all’insegna della sobrietà p. 159 x 6.10 Percorso educativo e rimozione p. 162 x 6.11 Prevenzione e ricerca: un circolo virtuoso p. 165 Capitolo 7 LA RELAZIONE EDUCATIVA p. 173 III x 7.1 La “pratica comunitaria” p. 174 x 7.2 Una esperienza educativa p. 175 x 7.3 La storia p. 177 x 7.4 Intervento educativo p. 181 x 7.5 Intervento Allargato p. 185 x 7.6 Considerazioni conclusive p. 187 PARTE TERZA: CONCLUSIONI p. 189 Capitolo 8 ALCUNE RIFLESSIONI… p. 190 BIBLIOGRAFIA p. 195 IV Qualcuno chiese a Timone sull'istruzione da dare ai suoi figli; ed egli rispose: «Istruiteli su quello che non capiranno mai». (anonimo) Premessa 1 L’educazione degli adulti è costituita dall’insieme delle opportunità educative formali (istruzione e formazione professionale certificata) e non formali (cultura, educazione sanitaria, sociale, formazione nella vita associativa, educazione fisicomotoria) rivolte ai cittadini in età adulta, aventi per obiettivo la formazione di competenze personali di base nei diversi campi e di competenze di base trasferibili e certificabili. Il presente lavoro si inserisce nel mio percorso personale di crescente interesse nell’ambito dell’educazione degli adulti in difficoltà. Il costante aumento delle persone in situazione di emarginazione, senza dimora, alcolista, e la nuova situazione multietnica e multiculturale, con la quale ogni giorno gli operatori del privato sociale e dei Servizi Pubblici devono confrontarsi, ha allargato sempre più l’area di studio. In questi ultimi tempi la riflessione pedagogica ha rivolto le sue attenzioni all’organizzazione generale del modello operante fino ad oggi e l’ha ritenuto insufficiente per risolvere i nuovi problemi che toccano il percorso educativo dei soggetti interessati, nonchè i nuovi bisogni emersi. Il nuovo sistema integrato di educazione degli adulti si muove in una prospettiva di life long learning e per questo intende in sinergia l’insieme delle opportunità educative-formative che interessano i cittadini in età adulta, in relazione ai diversi problemi ed interessi che caratterizzano le diverse fasi e i diversi momenti dell’esistenza. Questo lavoro affronta la situazione specifica degli adulti in difficoltà, attraverso un’indagine che ha interessato, oltre che vari testi a riguardo e la documentazione 2 relativa all’Associazione S. Marcellino, anche i Rapporti delle Commissioni di ricerca europee, nonché le indagini del privato sociale integrate con i dati provenienti dai Servizi Sociali e da Riviste specializzate. Le risposte delle organizzazioni preposte, hanno permesso di rilevare i comportamenti relativi, la prima accoglienza e la programmazione, nonché le scelte di tipo metodologico ed operativo per classi sociali che hanno pochissimi mezzi di sussistenza e si trovano in condizioni estreme. Dall’indagine deriva la profonda convinzione che si possa educare al prendersi cura di sé e intervenire nei contesti educativi per aiutare gli adulti in difficoltà ad avviare un cambiamento, qualitativamente migliore, delle loro condizioni di vita. Il percorso è supportato da un’esperienza nel privato sociale e dal lavoro che attualmente svolgo nei Servizi Sociali (Servizi alla Persona): il rapporto diretto con gli adulti in difficoltà nei vari contesti lavorativi e l’esperienza maturata consolidano in me questo pensiero. Da ciò la conferma della necessità di aggredire il problema da più punti al fine di rompere la relazione perversa di esclusioni diverse. Singole azioni non determinano una politica, che invece necessita di scelte di ampio respiro non legate alle contingenze, ma a prospettive di sviluppo connesse con un quadro di riferimento nazionale, internazionale e locale. Il lavoro consta di tre parti. Nella prima si percorrono studi relativi al percorso della formazione pedagogica e alle strategie di intervento generali e gli approcci utilizzati. Si esplorano principalmente le peculiarità delle persone senza dimora focalizzando l’attenzione sulle metodologie della ricerca-azione e ricerca 3 partecipata quale approccio educativo di base. La proposta che viene avanzata non è tesa ad operare un cambiamento nelle istituzioni ma a analizzare alcune ipotesi educative. In tutti i Paesi dell’Unione Europea, i processi di razionalizzazione dei sistemi di educazione permanente sono negli ultimi anni fortemente mirati ad obiettivi sociali: la lotta alla disoccupazione, l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, il recupero del drop out scolastico, l’integrazione sociale dei disabili e degli emarginati, l’accoglienza degli immigrati, le persone senza dimora. La riflessione su questi soggetti concentra la sua attenzione su una ipotesi integrata sia per l’aspetto istituzionale e organizzativo sia per quello contenutistico-conoscitivo. Nella seconda parte si procede ad un’analisi delle modalità dell’intervento educativo. Si prendono in esame i problemi alcol-correlati e le fasi dell’azione educativa dell’Associazione S. Marcellino che si occupa dal dopoguerra delle persone emarginate e in situazione di povertà. Vari sono gli elementi che vengono introdotti e che qualificano tale opzione, in particolare per il fatto che sono ritenuti importanti ed essenziali e rappresentano i valori intorno ai quali riflettere. Resta, comunque, l’opzione pedagogica il punto centrale che assegna un nuovo significato a queste componenti ed essa è basata sul concetto di relazione. Si intende rafforzare la tesi di fondo che è possibile produrre un cambiamento qualitativo nel prendersi cura di sé attraverso un processo che vede coinvolto il soggetto in una relazione educativa e autoformativa. Per rafforzare tale scopo si 4 riporta un’esperienza educativa con un adulto in grave difficoltà percorrendo le varie fasi dell’intervento e della relazione. Nella terza parte, infine, si riportano alcune riflessioni conclusive scaturite dalla rielaborazione dell’esperienza sul campo. 5 PARTE PRIMA LO SCENARIO NAZIONALE ED EUROPEO DEGLI ADULTI IN DIFFICOLTÀ: LE SCELTE METODOLOGICHE 5 Non è la letteratura né il vasto sapere che fa l' uomo, ma la sua educazione alla vita reale. Che importanza avrebbe che noi fossimo anche di scienza, se poi non sapessimo vivere in fraternità con il nostro prossimo? M. K. Gandhi CAPITOLO 1 LO SCENARIO FORMATIVO 7 1.1 Alla ricerca di radici e direzioni comuni Recentemente si è affermato che «l'educazione degli adulti nasce come contestazione e finisce come gestione dell'educazione […] Per non cadere in un'educazione degli adulti-gestione, è sempre necessario fare in modo che essa mantenga la propria specificità di progetto politico e culturale, di azione educativa per gli adulti, di azione creativa e libera: il contrario di un addestramento»1. Circa venti anni prima, altri autori, Paolo Orefice2 e Raffaele Laporta3, benché sulla scia di precedenti orientamenti di studio e di ricerca ai quali avevano offerto non pochi e significativi contributi, avevano impresso un nuovo senso di marcia al vecchio e sempre attuale problema dell'educazione delle collettività e degli individui che le compongono, avvolgendo le une e gli altri in quella ipotesi affascinante e pur sempre inafferrabile e imprevedibile denominata dal primo "teoria locale dell'educazione permanente” e dal secondo "autoeducazione delle comunità". Essi ipotizzavano uno spazio culturale e comunitario di sviluppo, cogestione e crescita, proprio attraverso la mediazione pedagogica ed educativa. Era, così, teorizzato uno stretto «rapporto sinergico fra educazione permanente, educazione degli adulti, democrazia e cittadinanza»4 quale nuova frontiera dell'educazione e sfida per il tempo futuro, in parte convenendo idealmente sulla 1 Gelpi E., Educazione degli adulti. Inclusione ed esclusione, Guerini, Milano, 2000, p. 56. Orefice P., Educazione e territorio. Ipotesi di un modello locale di ricerca educativa, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 97. 3 Laporta R., L'autoeducazione delle comunità, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 167. 4 Laporta R., Op. Cit ., p. 169. 2 8 tesi finale di F. M. De Sanctis il quale nel suo volume, "L'educazione permanente" scriveva: che «un sistema educativo risulta realmente innovato e permanentemente innovabile se predispone gli strumenti di verifica delle sue direzioni e quelli di controllo sull'attuazione di tali obiettivi»5, ci sembra però che in parte il De Sanctis lasci aperta la questione da lui stesso posta, nel medesimo volume. Scriveva: «il definirsi di una "società organizzata che si educhi" postula che i requisiti di globalità e di coerenza - impliciti in una nuova dimensione spazio-temporale dell'educazione - possano, essi stessi, essere continuamente riformulati e, se si vuole, educati»6, essendo egli convinto che «in una concezione dell'educazione permanente e, soprattutto, nella prassi realizzativa dei nuovi sistemi educativi, debbono entrare a far parte gli elementi di vettorialità e di controllo. Tale acquisizione è consustanziale; vale a dire che un sistema educativo risulta realmente innovato e permanentemente innovabile se predispone gli strumenti di verifica delle sue direzioni e quelli di controllo sull'attuazione di tali obiettivi»7. Ma, come è noto, gli elementi di vettorialità e di controllo, di fatto, sfuggono tanto alla teoria quanto alla prassi educativa, giacché la società, nel suo insieme, è governata da ben altre prioritarie vettorialità e forme di controllo della crescita e dello sviluppo. In seguito, un nuovo filone di studio e di ricerca, nell'individuare la necessità della transizione dal discorso pedagogico a quello 5 De Sanctis F.M., L’educazione permanente, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 182. Ibidem. 7 Ibidem. 6 9 andragogico, sino a quello geragogico8, spingeva la riflessione più avanti o - per meglio dire - più in profondità - verso una pedagogia del corso di vita9 il cui obiettivo educativo è la capacità di ogni individuo, singolo e/o associato, di appropriarsi o ri-appropriarsi del lavoro di cura di sé quale idea guida e strategia per l'adultità. In parte, siffatta idea pedagogia ha "sostituito", non tanto nella nomenclatura quanto nella spinta teorica ed educazionale, la stessa dizione di "educazione permanente", forse storicamente e culturalmente datata e certamente mai pienamente realizzata nel tempo; in parte, ha restituito ad essa la tensione utopica e trasformatrice iniziale della teoria dell'educazione permanente, attraverso i rinnovati impulsi di una ricerca pedagogica ed educativa contemporanea proiettata verso una più attuale e puntuale rappresentazione dell'uomo e della società per il tempo futuro. Non è un caso se questo indirizzo, in uno con le tesi dei maggiori pedagogisti riformisti, converge idealmente in quello che è il contenuto - mutatis mutandis - di un altro volume, il "Trattato di pedagogia generale"10 di Bogdan Suchodolski. Il Trattato si conclude proprio con l'enfatizzazione di quell'atteggiamento euristico che, solo, in educazione, può consentire di investire ancora sul futuro dell'uomo favorendo - come sostiene 8 Cfr.: Knowles M., Quando l'adulto impara. Pedagogia e andragogia, FrancoAngeli, (tr.it.), Milano, 1993; Frabboni F., Pinto Minerva F., Manuale di pedagogia generale, Laterza, Bari, 1994, in part. Le stagioni dell’educazione (p.IV), p. 510-526; Comini R.A., Dalla pedagogia alla geragogia, in Aveni Casucci M.A. et at., La cultura ritrovata, Franco Angeli, Milano, 1987, p. 5981 e Strollo M.R., L’educazione alla vecchiaia: problemi e prospettive, in Sarracino V., Strollo M.R., (a cura di), Ripensare la formazione, Liguori, Napoli, 2000, p. 157-169. 9 Cfr.: Demetrio D., Manuale di Educazione degli adulti, Laterza, Bari, 1997 e, più recentemente, Alberici A., Imparare sempre nella società conoscitiva. Dall'educazione degli adulti all'apprendimento durante il corso di vita, Paravia scriptorium, Torino, 1999. 10 Suchodolski B., Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, A. Armando, (tr.it.), Roma, 1972, p. 144-46. 10 l'autore - il superamento delle concrete, ma riduttive direttive utili «per oggi e per domani»11 le quali, però, non permettono un lavoro creativo e lo stesso superamento di esse. Su un altro versante, più prettamente teoretico, l'educazione degli adulti, quale dimensione pragmatica dell'educazione permanente, ha storicamente condizionato e permeato di proprie istanze trasformatrici la ricerca pedagogica in genere e quella educativa in particolare, comportando una esigenza di adultità epistemologica e teoretica alla stessa disciplina pedagogica, "bambina" non solo per il suo storico e qualche volta cristallizzato interesse per il mondo dell'infanzia, ma anche per la sua atavica condizione di subalternità ad altre discipline stimate più "mature", competenti a dire qualcosa all'uomo in ogni stagione del suo farsi. 1.2 La sfida dell’educazione permanente Il tracciato appena delineato è apertamente contraddetto dalla ripresa dei temi dell'educazione permanente e dell'educazione degli adulti da parte degli indirizzi di politica dello sviluppo economico così come dettati in sede nazionale ed europea, perché se è vero che «la nostra concezione di educazione per il futuro è…compenetrata dal concetto che l'attività educativa non possa astrarsi dalla realtà sociale in cui viviamo, né rinunziare alla prospettiva di un miglioramento 11 Suchodolski B., Op. Cit., p. 497. 11 del mondo, né trascurare di mostrarsi solidale con gli uomini che lottano per una vita migliore»12, è altrettanto vero che «l'interconessione tra educazione e politica può ammettersi soltanto dove i reali obiettivi della politica si armonizzino con le finalità dell'educazione, mirando alla creazione di condizioni favorevoli all'evoluzione di ogni uomo»13 e non di una parte soltanto, quella cioè in grado di offrire risposte alla "selezione" che il mondo dell'economia sta imponendo spietatamente attraverso il processo di globalizzazione. L'alfabetizzazione culturale ipotizzata alla Conferenza di Tokyo nel 1972, infatti, intendeva «fugare l'equilibrio di un'educazione degli adulti funzionale ad un sistema economico dato»14, precisando e integrando quanto era stato sostenuto al Congresso Mondiale di Téhéran del 1965 e cioè che «l'alfabetizzazione degli adulti, elemento essenziale dello sviluppo generale, deve essere strettamente legata alle priorità economiche e sociali, ed anche ai bisogni presenti e futuri della mano d'opera. In conseguenza tutti gli sforzi devono tendere verso l'alfabetizzazione funzionale. Lungi dall'essere un fine a sé, essa deve essere concepita in modo da preparare l'uomo a un ruolo sociale, civico ed economico che superi largamente l'alfabetizzazione rudimentale ridotta all'insegnamento della lettura e della scrittura. Lo stesso apprendimento della lettura e della scrittura dovrebbe essere l'occasione per acquistare delle nozioni utili al miglioramento immediato del livello di vita; lettura e scrittura devono portare non soltanto a delle 12 Suchodolski B., Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, Roma, 1972, p. 493-495. 13 Ibidem. 14 Orefice P., La comunità educativa: teoria e prassi, Ferraro, Napoli, 1975, p. 101. 12 conoscenze generali elementari, ma alla preparazione al lavoro, all'aumento della produzione, ad una partecipazione più grande alla vita civica, a una migliore comprensione del mondo circostante, e infine aprirsi sul fondo culturale umano»15. Posizione certamente contraddittoria, quella espressa a Montreal, prontamente criticata da Anna Lorenzetto, in uno con quei numerosi relatori che a Tokyo hanno espresso il loro completo disaccordo con l'espressione "alfabetizzazione funzionale", perché secondo loro questa espressione significa che l'oggetto dell'alfabetizzazione è di subordinare l'adulto ai meccanismi economici e alla produzione, trascurando l'elemento di partecipazione e di impegno sociale e culturale16. Nel 1972 Lorenzetto scriveva: «L'alfabetizzazione che sia puro insegnamento strumentale del leggere e dello scrivere, avulsa dagli interessi dell'adulto e della sua vita, dal suo lavoro, o che sia insegnamento strumentalizzato ai soli fini parziali di un migliore inserimento dell'adulto nella produzione segnando la radicalizzazione del terreno della necessità, senza che questo insegnamento fornisca all'adulto un arricchimento della sua area culturale di uomo e di cittadino, una base di perfezionamento per il proprio lavoro, anche questa alfabetizzazione non rientra nel quadro dell'educazione permanente, non ha alcun legame con essa».17 15 Congrés mondial des ministres de l'éducation sur l'élimination de l'analphabétisme, Téhéran 819 settembre 1965, Rapporto finale, UNESCO, ED/217, Parigi, 1965, p. 7. 16 Cfr.: UNESCO, Troisième Conférence internationale sur l'éeducation des edultes, Rapporto finale, Tokyo, 25 Luglio - 7 Agosto 1972, UNESCO /ED/MD/25, Parigi, 1972. 17 Lorenzetto A., L'educazione permanente, in La Pedagogia diretta da L. Volpicelli, Vallardi, Milano, 1972, vol. XIII «Problemi sociologici», p. 628-683. Della stessa Autrice, si veda Lineamenti storici e teorici dell'educazione permanente, Edizioni Studium, Roma, 1976. 13 A proposito del ruolo e della posizione dell'educazione degli adulti nei sistemi integrati di educazione nel contesto dell'educazione permanente, il Rapporto generale di Tokyo è molto esplicito: «sarebbe un errore insistere troppo sul carattere distinto dell'educazione degli adulti, poiché l'educazione deve essere concepita come un processo continuo che interessa tutti i gruppi di età»18. Per venire più vicino ai nostri giorni, questa contraddittorietà sembrerebbe ritornare all'interno degli obiettivi volti alla acquisizione di competenze, all'alfabetizzazione funzionale, alla formazione scolastica e professionale, così come imposti dal sistema economico. Gli indirizzi di politica dello sviluppo economico sia dell'Unione europea che del Legislatore e del Governo italiani palesano ampiamente l'altalenare fra la tesi di Tokyo e la ripresa di una sostanziale identità fra educazione permanente e educazione degli adulti, formazione professionale e alfabetizzazione19. La letteratura pedagogica più attenta e qualificata mostra sensibilmente questo travaglio, questa oscillazione fra le istanze di umanizzazione della vita e le esigenze sempre più vorticosamente irrompenti del mercato del lavoro20. Non sembra un caso: nonostante le Dichiarazioni di Amburgo del 1997, gran parte della riflessione e delle proposte didattiche contemporanee marciano in questa direzione, nel nome di un'istanza di educazione/istruzione sempre più 18 Così scrive P. Orefice riportando un ulteriore stralcio dalla Troisième Conférence (p.17), La comunità educativa…, Op. Cit., p. 104. 19 A questo proposito, si vedano i Documenti riportati nell’Appendice del volume a cura di Piazza R., Tuozzi C., La formazione diffusa. Il processo educativo in età adulta, Pensa, Lecce, 2000, p. 287-341. 20 Ibidem, p. 287-341. 14 marcatamente collegata a precisi obiettivi di professionalità indicati dal mercato del lavoro, mentre la riflessione pedagogica e la pratica educativa, provenienti da una prassi educativa intesa come scoperta e svelamento delle oppressioni, dei vincoli e dei sistemi di dipendenze marciano in direzione opposta, perseguendo istanze di umanizzazione della vita, delle relazioni sociali, della crescita culturale e di quella economica secondo un'idea di sviluppo sostenibile, non subalterna al trend attuale imposto dal mercato, dai sistemi economici e da un'idea di sviluppo senza limiti. L'idea guida di educazione permanente e di educazione degli adulti, quella che sembra direzionare la maggior parte degli stanziamenti economici europei attuali e futuri, scopre una stretta relazione di interdipendenza fra studio e lavoro ancora una volta escludente, aristocratica e non inclusiva di ogni uomo. Un'idea di educazione permanente che tende ad affrontare le dicotomie classiche: studiolavoro, intellettualità-manualità, formazione basilare formazione tecnica professionale-cittadinanza in una prospettiva indicata come nuova e, tuttavia, vecchia almeno quanto l'ultimo secolo che ci ha preceduti ed affrontata, certamente a vario titolo, modo e soluzioni, da pedagogisti ed educatori che hanno lasciato un segno in questo senso, a partire da G. Bosco a A. S. Makarenko, a J. Dewey, allo stesso G. Bottai, ecc. Scrive Piazza: «Lo studio è certamente un valore acquisito; è sempre stato un valore, anche se nel passato solo per pochi. Oggi è definitivamente considerato un valore essenziale per tutti. Il problema da affrontare non riguarda tanto il valore dello studio per tutti ma il rapporto che lo studio deve stabilire con un altro valore, 15 quello del lavoro. La novità non attiene pertanto allo studio ma alla introduzione del concetto di lavoro nel curricolo di studio come un concetto formativo essenziale per la comprensione del lavoro stesso. In questa diversa visione del curricolo il tema del lavoro rappresenta il fatto nuovo e contribuisce a definire meglio il rapporto con altri contenuti e, soprattutto, con il valore fondamentale: l'uomo e le sue operazioni nel mondo [...]. L'organizzazione della formazione deve pertanto stabilire, rispetto al passato, un rapporto diverso col mondo del lavoro e con le sue molteplici espressioni [...] si può così entrare nella logica della non identificazione dell'apprendimento con lo studio soltanto, ma con diverse forme di studio-lavoro. Per cui si può sostenere che lo studio è solo una modalità della conoscenza e che per giungere meglio a conoscere diventa indispensabile correlare le forme dello studio alle forme del lavoro. Lo studio non è più la sola condizione per conoscere. La conoscenza è il prodotto dell'integrazione fra la dimensione teorica e quella operativa. L'uomo è unità e nell'itinerario della sua formazione tale unità deve essere costantemente mantenuta. Si deve pertanto evitare di attuare forme di separazione che portino a considerare periodi in cui sia presente la sola formazione dell'intelletto seguiti da altri in cui sia solo presente la formazione tecnica o operativa. La contestualità delle operazioni va invece mantenuta durante l'arco della formazione in tutti i suoi momenti. La formazione integrale dell'uomo, prima di essere un fatto contenutistico, è una profonda opzione metodologica [...]. Un altro elemento di questa nuova strategia formativa riguarda il rapporto tra formazione, lavoro e "diritto di cittadinanza" [...]. Il diritto di cittadinanza 16 attraversa proprio questi momenti fondamentali: il soggetto acquista il diritto al lavoro come diritto alla sua umanizzazione attraverso la riflessività. Occorre transitare dalla concezione del lavoro come strumento a quella del lavoro come oggetto significativo per la propria umanizzazione. La prima cittadinanza politica dell'uomo risponde a questa esigenza: contribuire allo sviluppo sociale mediante l'umanizzazione del lavoro; essa passa attraverso la riflessione e la consapevolezza. Questa appare la fondamentale opzione politica intesa come partecipazione alla costruzione sociale; per il soggetto che l'assume e la costruisce è la sua essenziale e personale opzione pedagogica»21. Nell'ottica appena delineata, l'educazione permanente si coniuga con un indirizzo di pensiero ancora una volta centrato su un modello scuolacentrico, magari sviluppato fuori delle aule scolastiche. Le prime considerazioni teoriche sull'educazione permanente si ebbero negli anni 70 con i descolarizzatori come Illich, Reimer, Paulo Freivre, Fred Goodman, Didier Piveteau, i quali attaccarono le istituzioni ritenendole equivalenti alla tradizione immobilistica e a un sapere e una cultura non partecipativa. La validità del discorso dei descolarizzatori sta nei modelli suggeriti, "confezionati e quantificati", come sostiene Illich, da una società efficientista intesa a realizzare il prodotto e l'economia di mercato piuttosto che l'uomo nella sua interezza e nella sua umanità. Certamente, la trasformazione dei sistemi produttivi e l'evoluzione degli Stati 21 Cfr.: Piazza R., Tuozzi C., Op. Cit., p. 287-341. 17 sono all'origine dei nuovi obiettivi e delle nuove funzioni assegnate all'educazione permanente e all'educazione degli adulti. Questa trasformazione, tuttavia, «è diventata in gran parte sinonimo di formazione professionale per meglio preparare alla competizione tra individui, paesi e macroregioni. La confusione terminologica (educazione degli adulti, formazione continua professionale, educazione permanente, educazione permanente degli adulti) maschera la realtà: nel campo dell'educazione degli adulti la formazione professionale primeggia ed è prioritaria, la formazione generale invece è relegata in secondo piano»22. Nella prospettiva appena delineata, certamente sofferta, travagliata per l'ansia di formare un uomo all'altezza dei tempi, tace tutto un altro filone di pensiero contemporaneo, composito, non sempre e non necessariamente unitario che, invece, mira a restituire all'uomo la possibilità di apprendere dalla personale esperienza, considerando il processo educativo come un percorso di continua organizzazione, ristrutturazione e trasformazione. Quello che distingue fondamentalmente le due correnti di pensiero, non è tanto il punto di arrivo: la piena umanizzazione dell'uomo, quanto il punto di partenza e cioè le pratiche di lavoro; qui il lavoro non viene inteso come quella particolare attività che produce capitale materiale, ma quello immateriale che ogni individuo, sin dalla nascita, compie attraverso il personale processo di apprendimento, inteso come lavoro graduale di cura di se finalizzato alla crescita, allo sviluppo, al cambiamento intenzionale, e distinto da quello di istruzione - che pure per altre 22 Gelpi E., Educazione degli adulti…, Op. Cit., p. 151. 18 strade può condurre al cambiamento - che è un segmento, certamente importante, dell'intero percorso di vita di ciascun individuo. L'opposizione che qui si riscontra sta fra le pratiche di cura di sé intese come un progetto individuale e gruppale di vera e propria estetica dell'esistenza e, quindi, di educazione permanente, e la normalizzazione del soggetto umano imposta dall'oggettivazione delle conoscenze operata da chi possiede tali conoscenze e dai sistemi di potere che dettano persino gli scopi della vita e impongono i modelli di condotta all'interno di una società mercantile. L'educazione permanente e l'educazione degli adulti, nate in un contesto storico in cui era forte l'esigenza di contestazione, sono divenute oggi il linguaggio comune del politico, dell'uomo di economia che hanno provveduto a snaturare le stesse radici storiche e la carica fortemente riformatrice o rivoluzionaria, comunque, innovativa di esse. L'educazione permanente nasceva, dunque, come teorizzazione della capacità, restituita ad ogni uomo, di organizzare l'esperienza umana e l'educazione degli adulti come la strategia per pervenire a tale restituzione attraverso il recupero di quella cultura condivisa che fornisce gli strumenti dell'interpretazione e del raccontare, con lo scopo di consentire ad ogni uomo la negoziazione e la rinegoziazione dei significati23 e la possibilità di prendersi cura di sé, cioè di dedicarsi a quell'otium24 che nasce non dal tempo libero frutto della 23 Cfr.: Bruner J., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, (tr.it.), Torino, 1992, pp. 54-72. Cfr.: Sarracino V., Progettare la formazione. Teoria e pratica dell'intervento formativo, Pensa, Lecce, 1997. 24 19 disoccupazione - che fa oscillare i soggetti fra la solitudine fisica e interiore e l'ipocondria - bensì dal ridimensionamento delle pretese mercantilistiche della società contemporanea, per uno "spazio-tempo" in cui sia possibile attribuire e condividere il senso della vita in una modalità sia privata che pubblica. E' tale condivisione che dà luogo ad una situazione didattica autenticamente formatrice perché pone i soggetti in una situazione di sincronia delle esperienze apprenditive. Questo ben lo avevano capito i pionieri dell'educazione degli adulti, da Aldo Capitini ad Adriano Olivetti a Danilo Dolci, e le Associazioni per le pratiche di alfabetizzazione quali l'UNLA, la Società Umanitaria e il Movimento di Cooperazione Educativa, allorché parlavano di un apprendimento significativo definibile come autoformazione o autoeducazione. Si tratta, di una modalità educativa e didattica che sottende una comunicazione orientata all'intesa - come sostiene J. Habermas25 - e non al successo, che unisce i momenti cognitivostrumentale, pratico-morale ed espressivo e, insieme, circoscrive una forma di vita comune, che si allarga universalmente proprio come «una rete sociale di partecipanti che interagiscono in un contesto contribuisce a modificare e a restituire il contesto stesso e la loro interazione assomiglia ad una conversazione infinita o ad un dialogo ricorsivo. Essi non sono solo dei soggetti che entrano in relazione con l'ambiente, ma partecipi ad un processo di auto-organizzazione del contesto stesso; per questo la loro comunicazione è così specifica, perché vi è continua ripresa, ricostruzione, ri-apprendimento, attraverso l'interazione che vi è 25 Cfr.: Habermas J., Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, (tr.it), Bologna, 1983. 20 tra loro e con l'ambiente; e se si pensa al carattere di questa interazione non può venire in mente che un dialogo e una conversazione ininterrotta, dove le riprese, le riproposizioni, l'emergere delle differenze e delle movenze, anche piccole, contribuiscono al movimento dell'insieme, e fanno pensare anche ad una danza, più precisamente ad "una danza che crea", come ha scritto Bateson, la cui antropologia della conoscenza individua una tale idea di dialogo»26. E, forse proprio in questo senso è possibile recuperare l'accezione più autentica e contemporanea dell'idea di educazione permanente, sottraendola alle lusinghe di chi si preoccupa per noi e del nostro futuro, sottraendoci la possibilità che ciascuno si possa occupare o pre-occupare di sé, con gli altri, in uno stile di vita proattivo e non reattivo. Gli stili di vita proattivi sono fondati sulla cooperazione, sulla negoziazione che conduce al binomio vittoria-vittoria, sul diritto alla cittadinanza che riconosce e media, secondo principi di equità, il bene comune. Gli stili di vita reattivi, invece, sono quelli fondati sulla concorrenza, sul binomio vittoria del più forte/sconfitta del più debole, sul dominio che sovrintende agli altri e detta le regole; ciò avviene tanto più facilmente quanto più radici e identità sono omologate attraverso quel processo di globalizzazione che astutamente e subdolamente favorisce gli indistinti, mentre è un fatto che proprio la globalizzazione, nello sfumare gli strati sociali e le classi in una democrazia apparente, ha introdotto una nuova tipologia di separazione, questa volta più 26 Rinaldi W., Aspetti autoformativi della veglia di tradizione, in Orefice P., Viccaro G., Le veglie in Garfagnana. Un'esperienza formativa fra tradizione e progetto, Edizioni ETS, Pisa, 1999, p. 117. 21 drastica, di tipo duale: totalmente ricchi-totalmente poveri, imponendo una dicotomia tanto esasperata quanto progressiva e, perciò, irriducibile dal momento che alla ricchezza materiale ed intellettuale dei pochi deve necessariamente corrispondere per "contrappasso" la povertà dei molti. L'idea di dialogo, precedentemente accennata, restituisce nuovo senso a quelli che M. Tardy definiva gli assi semantici dell'educazione permanente27 che viene ad assumere il significato di modello di sistema più che modello di processo con la conseguenza che tali assi sono da assumere nella loro valenza di coordinate più pertinentemente metodologiche di un modello di accostamento interpretativo della realtà. Il problema, così posto, sta nel tradurre l'approccio di educazione permanente in una teoria interpretativa dell'azione educativa rispettosa del modello offerto dall'epistemologia sistemica e relazionale. Perciò, ad una pedagogia che adotta il modello sistemico-relazionale il cambiamento rappresenta il paradigma fondamentale dell'evento educativo, quell'orizzonte di riferimento e quella ragion d'essere di ogni aspirazione e azione formativa, rintracciabile in ogni progetto e programma di educazione degli adulti28. Si ritiene che, all'interno di questa posizione, il cambiamento può essere inteso come riposizionamento cioè «crescita, sviluppo, aumento di abilità e capacità, una migliore conoscenza di sé, 27 28 Tardy M., Education permanente. Champ sémantique, Consiglio d'Europa, Strasburgo, 1970. Cfr.: Tramma S., Educazione degli adulti, Guerini, Milano, 1997, p. 80. 22 una prestazione più adeguata»29, ma anche capacità di comprensione dei vincoli e delle dipendenze per una costante opera di ri-definizione, nel contesto dato, della personale libertà intesa quest'ultima come protensione consapevole verso scelte autonome e come assunzione di responsabilità. Da questo punto di vista, l'educazione degli adulti a vocazione non professionale viene frequentemente confusa con attività di svago. Concordemente con E. Gelpi, occorre invece «rafforzare la parte culturale della formazione professionale, centrare l'educazione degli adulti sulla problematica sociale, culturale ed economica, e non unicamente del lavoro, è un passo necessario per coloro che hanno potere decisionale in materia di educazione degli adulti»30. In quest'ottica, la rivisitazione di molta letteratura enfatizzante, per esempio, i sistemi formativi integrati e gli interventi di rete, scopre le sue carte e palesa il principio ideologico di un possibile presunto ordine delle cose in contrapposizione alla competenza a gestire la caoticità delle cose stesse e delle relazioni fra i sistemi complessi prodotti dall'uomo. I Paesi dell'economia del benessere del Nord dell'Europa, per esempio, hanno ampiamente dimostrato che anche quando si raggiungono organizzazioni sociali efficienti e la qualità della vita sembrerebbe avere raggiunto condizioni ottimali di esistenza, la vita stessa sopravanza tali condizioni esigendo nuove vettorialità e nuove vittime da immolare sull'altare dello sviluppo. Ciò ci sembra dimostrare che la qualità della vita non è riducibile 29 Castellano A.M., Quaglino G.P., Lo sviluppo psicosociale, Rivista: “Adultità”, n.1, Milano, 1995, p. 42. 30 Gelpi E., Educazione degli adulti…, Op. Cit., p. 160-1. 23 all'ottimizzazione dei tempi e degli spazi, né all'organizzazione tempestiva, preventiva delle risposte ai bisogni, ma risiede nella possibilità di attribuire senso alle cose, di riorganizzare costantemente la vita, le relazioni individuali e sociali, nell'apertura all'imprevedibilità che genera fantasia, creatività, riorganizzazione costante, sfida, possibilità di crescita, rigenerazione delle menti e delle società, in una parola offre spazi di riprogettazione individuale, gruppale, societaria aperti all'innovazione, al cambiamento pur nel rischio che la sfida costante lancia della regressione e/o della stasi. 1.3 Una nuova professionalità per l’educazione Nell'ottica delineata, “il caso” dell'educazione degli adulti, ci sembra allora, vada considerato e dibattuto in una dimensione più ampia ed articolata, tale da riprendere il percorso precedente di ogni soggetto (la sua personale "storia di vita" infantile, giovanile, scolastica, culturale, lavorativa) per inserirla nel contesto della nuova fase, cercando di potenziare processi di auto-conoscenza culturale e formativa, in direzione, quindi, di progetti di autoformazione e di autoeducazione generale e specifica. Al primo punto, ad ogni modo, di un progetto formativo in età adulta, ci pare che vada posto il problema della conoscenza di sé: solo la fiducia in se stessi, infatti, intesa come capacità di saper rivedere continuamente, quindi dinamicamente e processualmente, il proprio itinerario formativo (scolastico, familiare, lavorativo, 24 ludico) cognitivo ed esperienziale (intelligenza intrapersonale), garantisce la possibilità di riconsiderare idee e conoscenze, scelte ed orientamenti, atteggiamenti e comportamenti: solo tale consapevolezza qualifica il livello di apertura verso gli altri nella più opportuna dimensione interpersonale (intelligenza interpersonale). «L'autostima, la volontà di cambiamento, la fiducia nella scienza e nella tecnica, unitamente alla convinzione che esse da sole non possono risolvere i mille mali di cui la carne è erede, costituiscono i punti di partenza per una formazione permanente di tutti gli individui e di ciascun individuo»31. Riteniamo che il compito dell'educatore dell'educazione permanente, allora, sia quello di consentire la maturazione costante di un pensiero critico-riflessivo a tutti i livelli, affinché la sola riflessività non rimanga pura astrazione, chimera tanto agognata quanto irraggiungibile, ma concreta possibilità di entrare in crisi e, quindi, di transitare, talora in modo indolore, tal altra in modo sofferto, verso nuove forme di umanizzazione. L'educatore non è uno che sta a guardare, una sorta di antropologo culturale della prima generazione e, quindi, un mero descrittore, ma uno che deve sapere unire alla chiarezza descrittiva dello scrittore/traduttore culturale, la profondità analitica dello scienziato che nella descrizione cerca i "topoi" del cambiamento individuale e sociale cioè politicoculturale e nello stesso tempo, sia in grado di inviare "costanti" di cambiamento, 31 Sarracino V., Introduzione al volume Piazza R., Tuozzi C. (a cura di), La formazione diffusa. Il processo educativo in età adulta, Pensa, Lecce, 2000, p. 15-6. 25 cioè la possibilità di vedere le cose anche in modo diverso da come siamo soliti pensarle attraverso una paziente opera di ri-formulazione. Questa educazione permanente ci sembra arrecare in sé una forte attenzione «all'idea di educazione come "evento vitale", intrinsecamente legato all'esperienza quotidiana, ai gesti e alle variazioni adattive che l'individuo adulto assimila e compie, a prescindere da un ingresso in ambiti che oramai, ci siamo abituati a chiamare educazione formale». Sull’educazione degli adulti Gelpi considera essenziale un’attenzione alle relazioni e allo sviluppo personale dei soggetti: «Il fondamento dell'educazione degli adulti è l'espressione e la comunicazione, al di là delle differenze tecniche dello scritto, dell'orale, ecc., l'espressione degli esseri umani fra gli esseri umani presuppone la presa di coscienza e l'approfondimento delle relazioni degli adulti con se stessi, gli altri, il mondo. Questo lavoro presenta due aspetti. Si tratta innanzitutto di spiegare ciò che la realtà ha di implicito, di riconoscerne progressivamente le molteplici dimensioni (psicologiche, culturali, sociali, politiche, ecc.). Si tratta in seguito, in maniera questa volta verticale, di far emergere i valori e le scelte che tale lettura della società suggerisce a ciascuno […]. La formazione e l'autoformazione sono dunque due aspetti di una medesima realtà. Ciò che è in gioco nell'educazione degli adulti è tanto la trasformazione del mondo quanto lo sviluppo delle persone»32; questa trasformazione e questo sviluppo, per riprendere le parole di Matilde Callari Galli, affondano le loro radici in un rinnovato progetto di inculturazione, perché: «quale animale politico, 32 Gelpi E., Educazione degli adulti…, Op. Cit., p. 147. 26 l'uomo, ogni uomo, deve non solo costruire, fare e rifare la "società civile", ma deve anche educare il proprio piccolo a continuare a farla e rifarla», perché, «in un senso radicale, sembra che gran parte di ogni cultura debba essere riscoperta da ogni generazione a causa dell'impossibilità di descriverla e quindi di comunicarla»33. Da questo punto di vista, l'educazione permanente e la versione pragmatica di essa, cioè l'educazione degli adulti, può essere riscritta come il compito di ogni società e di ogni generazione sia a tramandare che a restituire34. Nella dialetticità (che non è la stessa cosa della dialogicità) del tramandare (che non è la stessa cosa del trasmettere) e del restituire (che non è la stessa cosa del ripetere) è il compito educativo di tutte le generazioni. Questa visione trasformerebbe ogni generazione (cioè i luoghi dell'agire delle generazioni) in una sorta di laboratorio epistemologico35. Ciò impedirebbe, da un lato, di incorrere in alcuni rischi36, fra i quali quello di fare dell'educazione un mero strumento di affermazione delle culture esistenti e non di trasformazione di quelle dominanti e di quelle dominate e quello di legittimare il "sapere narrativo" della gente, senza prospettare per le medesime la possibilità di acquisizione anche di altre forme di sapere; dall'altro consentirebbe di riprendere e rivitalizzare le metafore della "educazione per tutta 33 Callari Galli M., Antropologia culturale e processi formativi, La Nuova Italia, Firenze, 1993, p. 48. 34 Cfr.: Federighi P., Strategie per la gestione dei processi educativi nel contesto europeo. Dal lifelong learning a una società ad iniziativa diffusa, Liguori, Napoli, 1996, p.220 e Orefice P., Educazione e territorio.., Op. Cit., p.41-42. 35 Cfr.: Fabbri D., Strategie dell’apprendere: psicologia culturale ed epistemologia operativa, in Morgagni E., Pepa L., Età adulta: il sapere come necessità, Guerini, Milano, 1993. 36 Cfr.: De Sanctis F.M., Verso un duemila educativo, Prato, Università degli Studi di Firenze, Comune di Prato, 1988, in part. p. 55-60. 27 la vita" (lifelong education), della "società che apprende" o "conoscitiva"" (learning society/knowledge society) e dell'"apprendimento durante tutto il corso della vita" (lifelong learning). Socializzazione e apprendimento hanno sempre coinvolto, almeno all'interno delle società caratterizzate dalla differenziazione sociale, una pluralità di contesti e di attori. Pur non trattandosi ancora di processi compiuti e chiaramente e stabilmente delineabili, numerosi indicatori ci aiutano ad individuare il modello emergente e costituiscono lo stimolo per una rinnovata riflessione teorica. 28 Una delle superstizioni più diffuse consiste nel ritenere che ogni uomo abbia caratteristiche particolari, definite: un uomo è gentile, crudele, saggio, stupido, energico, apatico…. Gli uomini non sono così…. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è la stessa in ognuno ed è simile in tutti; ma ogni fiume può essere qui stretto, la più rapido, qui più lento, la più largo, ora chiaro, ora freddo, ora sporco, ora caldo. Lo stesso vale per gli uomini…. (Lev Tolstoj) CAPITOLO 2 L’ INCONTRO CON GLI ADULTI 29 2.1 Una definizione dell’età adulta L’adultità è una questione centrale nei processi evolutivi della società attuale. La vasta letteratura postmoderna sembra far emergere diversi segnali che portano una diversa attenzione all’età adulta, come età di maggior durata della vita umana. L’età adulta, nel corso dell’evoluzione culturale e storica, è stata prevalentemente considerata come l’età del sapere, dell’esperienza, della norma; il fine apprezzato verso la quale tutti avrebbero dovuto convergere. La concezione attuale dell’età adulta sembra orientarsi attorno ad altri parametri: il cambiamento, la flessibilità, “l’immaturità”, l’interdipendenza, l’innovazione continua1. Va sottolineato il passaggio da una società intenzionalmente produttiva (era moderna) ad una società tendenzialmente comunicativa (era postmoderna). Siamo in presenza quindi di una rottura epistemica del significato di adulto. Il cambiamento concettuale, è sostenuto da diverse spiegazioni: pedagogiche, psicologiche, sociologiche, fisiche, biologiche e professionali. Il valore di questi paradigmi va a scompigliare diversi approcci e teorie della formazione e dello sviluppo, richiede agli studiosi e agli adulti stessi, un processo di riflessività sulle concezioni dell’evoluzione personale e sociale e sui modelli di apprendimento adulto. 1 Cfr.: Fabre M., Penser la formation, PUF, Paris, 1994; Demetrio D., Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri, Meltemi, Roma 1998. 30 2.2 L’evoluzione culturale della concezione dell’adultità La complessità e l’evoluzione tecnologica radicalizzata della società attuale porta innanzitutto l’adulto all’assunzione di una pluralità di identità. Questa pluralità richiede ad ogni adulto assunzione di sguardi molteplici sul mondo collocati sui diversi piani geometrico-relazionali della vita. Dal punto di vista sociale l’adulto è “contrassegnato da un’instabilità temporale e geografica2, muta nel tempo, nello spazio e nelle diverse categorie interne allo stesso spazio-tempo. All’interno di una stessa comunità infatti, la condizione adulta può occupare diverse ed opposte categorie della gerarchia socio-economica e culturale. Di conseguenza le rappresentazioni sociali non si costituiscono più in seguito ad una gerarchia di progressione logica o convenzionale, ma attorno a sistemi di significato e di simboli, testimoni della propria esperienza3. Dal punto di vista fisico-biologico, la definizione dell’età dell’uomo in rapporto alle sue condizioni, si presenta molto variabile. L’età pur rappresentando un importante strumento di convenzione, risponde più ai sentimenti personali, alle dinamiche sociali e relazionali, alle funzioni professionali4. Dal punto di vista politico-sociale la ricomposizione della società attorno a valori altri da quelli tradizionali5, ha introdotto una politica educativa e professionale di 2 Cfr.: Demetrio D., L'età adulta, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990. Cfr.: Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1970. 4 Cfr.: Laicardi C., Pezzuti L., Psicologia dell’invecchiamento e della longevità, Il Mulino, Bologna, 2000. 5 Cfr.: Rapporti Commissione Europea, Verso la società della conoscenza, Bruxelles, 1966. 3 31 long life learning6. Di conseguenza l’adulto è identificato come un soggetto che non smette mai di imparare per tutto l’arco della vita. La più immediata conseguenza sottolinea che la processualità degli apprendimenti non si svolge semplicemente in ordine gerarchico-lineare ma piuttosto secondo modalità riflessive, connessionistiche, sistemiche. Continuità e discontinuità rappresentano ambedue i processi dell’arco vitale, forma e riforma sembrano dunque rappresentare due paradigmi dell’evoluzione formativa dell’adulto. Negli Atti dei seminari del comune di Genova (2000) “Accogliere la differenza”, da cui viene mutuato il titolo del presente capitolo e tratta la citazione di Tolstoj, il saggio di Chiara Loria Barone “L’incontro con gli adulti” afferma: «In educazione il tema dell’adultità investe le problematiche dell’integrazione con la società civile e la democrazia: l’adulto diventa tale ed è tale se gli viene consentito l’accesso al diritto di accesso ai diritti, in altri termini se davvero viene perseguita una politica educativa delle pari opportunità che rendono effettiva l’eguaglianza. In questa prospettiva l’adulto viene considerato il cittadino attivo che esercita pienamente i suoi diritti ed è consapevole dei propri doveri»7. 6 Cfr.: Rapporti Commissione Europea, Verso la società ..., Op. Cit. Loria Barone C., L’incontro con gli adulti in Atti dei seminari “Accogliere la differenza”, Comune di Genova, 2000, p.61-72. 7 32 2.3 Riferimenti teorici Ed ancora, in relazione alle esigenze di conoscere nello specifico l’età adulta, l’autrice avanza alcune considerazioni che si trascrivono interamente in questa sede: «L’adulto è colui che è giunto al pieno sviluppo? Colui che è maturo? Colui che sa apprendere quanto gli occorre ed anche qualcosa di più o di diverso? Intanto dobbiamo sgomberare il campo da alcuni equivoci. Per maturazione si intende un processo organico e strutturale, relativamente indipendente dall’ambiente, ma in funzione del tempo e dell’età. (per esempio, determinate competenze quali la deambulazione o il linguaggio, non possono essere presenti prima di un certo tempo di età, indipendentemente dalle sollecitazioni dell’ambiente). L’apprendimento è il processo attraverso il quale determinate attività sorgono o mutano per addestramento. L’apprendimento viene quindi connotato dalle possibilità offerte dall’ambiente; ma la maturazione risulta essenziale perché l’apprendimento sia reso possibile. Funzione dell’educazione è quella di favorire l’apprendimento, rispettando ed inserendosi in quella zona prossimale che consente che le proposte non siano troppo precoci, e quindi irragiungibili, ne tardive e quindi inutili. La geniale scoperta di Vytgosky ha attribuito alla funzione educativa una specificità scientifica di immensa portata. Ma ancora più interessante, per la prospettiva che stiamo trattando, risulta la vera accezione del concetto di sviluppo. Tale processo, che fonde maturazione ed apprendimento, non si completa in un determinato tempo (età evolutiva) bensì si 33 identifica con la vita stessa e pertanto non ha termine che con la fine della vita stessa. Tale impostazione giustifica quindi scientificamente, in pedagogia, il concetto di educazione continua, di educazione permanente Se lo sviluppo è il processo che attiene la vita stessa, l’apprendimento non ha mai termine, ed assume rilevanza il contesto su cui fondare interventi che rendano l’adulto sempre più competente. Questo vale per ogni discorso abilitativo o riabilitativo, ma vale anche per esempio, per l’educazione all’eccellenza, alla creatività»8. 2.4 Ambiente, abitudini ed attitudini Lo scenario in cui è stato inscritto il profilo dell’adulto, soggetto permanente di sviluppo e di apprendimento, può essere ora ulteriormente definito. Enrico Cattonaro in “Aspetti psicologici dell’educazione” esprime alcune considerazioni a proposito della natura delle abitudini e dell’interazione ambienteindividuo. Scrive l’autore: «Quando parliamo dell’individuo adulto, delle sue idee, esperienze e problemi, ci riferiamo sempre ad un essere che vive in un dato 8 E’ stata riportata integralmente la parte del saggio che costituisce lo sfondo che giustifica teoricamente l’incontro con gli adulti. Tale percorso è stato per me dimensione professionale specifica. Il seminario di formazione “Accogliere la differenza” era supportato dal Comune di Genova: chi scrive è un educatore professionale dipendente dell’area “Servizi alla Persona” di tale Ente. 34 ambiente geografico, storico, culturale, sociale. Non si può assolutamente prescindere da questa realtà. L’azione ambientale è tanto più decisiva quanto più plastica e più fragile è la struttura psicologica dell’individuo. E’ nel periodo dell’infanzia che si formano, per opera dei fattori ambientali, le prime fondamentali abitudini […] l’abitudine è un tipo di comportamento che, attraverso ripetuti adattamenti a date situazioni, si è ormai stabilizzato in modo da rappresentare una risposta spontanea a certe stimolazioni che vengono percepite come segnali. Così certi dati visivi, uditivi, tattili, ecc. dell’ambiente in cui il bambino vive, finiscono con l’acquisire tutti un certo significato non solo per sé, ma per quello che ad essi può essere collegato»9. L’autore sostiene che le abitudini sono rigide e difficoltose da rimuovere. Ritiene che siano ostacoli che un soggetto incontra quando si appresta ad attuare un cambiamento verso una qualità di vita migliore. Questi ostacoli possono essere rimossi se sono presenti stimoli e bisogni adeguati che si configurano come motivazioni a tale cambiamento»10. Ma l’ambiente, da solo, non è sufficiente a cambiare la qualità della vita. Scrive a tal proposito: «L’equilibrio interno, la serenità, la soddisfazione dell’adulto sono in notevole parte legate al rapporto esistente tra l’attività, la professione, il mestiere esercitato e le attitudini innate […] l’ambiente concorre a formare uomini contenti di sé, o insoddisfatti; lavoratori benemeriti o professionisti inetti, artisti validi o “geni incompresi”. 9 Cattonaro E., Aspetti psicologici dell’educazione dell’adulto, Roma, 1967, p. 28-38. Cfr.: Cattonaro E., Op. Cit. 10 35 Diciamo “concorre”, perché evidentemente non è solo dall’ambiente con i suoi aiuti od ostacoli che dipende la capacità professionale, il rendimento e l’equilibrio dell’individuo. Il fondamento è costituito dalle doti naturali e dai tratti caratteriologici, e c’è da aggiungere che esistono nell’uomo risorse morali e possibilità di adattamento, di cui bisogna tener conto, e che rendono possibile il superamento, almeno parziale, anche dei fattori che sembrerebbero assolutamente determinanti»11. L’ambiente quindi può ridurre o potenziare certi lati del temperamento individuale, può facilitare od ostacolare certe espressioni della personalità, ma non può produrre trasformazioni radicali12. 2.5 La vita di gruppo S’è parlato finora di azione ambientale in senso lato, ma è indubbio che ciò che maggiormente influisce sul comportamento individuale è quella “piccola società” nella quale ciascuno trascorre gran parte del suo tempo, e che è formata da persone che hanno comunanza in interessi, di finalità, e che si sentono perciò legate da particolari vincoli, la cui vita in comune crea una particolare atmosfera e suscita sentimenti e relazioni reciproche di varia natura. 11 12 Cattonaro E., Op. Cit., p. 28-38. Cfr.: Cattonaro E., Op. Cit. 36 L’educazione dell’adulto non può quindi esaurirsi in un lavoro individuale, nella solitudine e nel ritiro, ma deve completarsi nel contatto, con i propri simili, nell’allenamento ad uno scambio sempre più fecondo, affinché l’espansione del proprio essere sia in armonia con quello degli altri, e non si trasformi in una invadente sopraffazione morale13. Il miglioramento delle relazioni sociali è dunque una meta a cui tutti devono e possono tendere, ed è un aspetto fondamentale dell’attività educativa rivolta agli adulti, in quanto non è possibile una netta distinzione tra perfezionamento individuale ed adattamento sociale. «La relazione con gli altri è talmente essenziale all’uomo che la vita personale e la vita sociale appaiono come inseparabili»14. 2.6 Le organizzazioni Da numerosi studi è stato osservato che queste relazioni hanno luogo nelle aree di appartenenza dell’uomo che sono organizzate sia in modo formale che informale15. Le organizzazioni rappresentano uno dei luoghi esemplari non soltanto del passaggio all’età adulta, perché obbligano il soggetto a confrontarsi con le 13 Cfr.: C. Loria Barone, Op. Cit. Isambert A., L’education des parents, Paris, 1960, p.112. 15 Cfr.: Saraceno C., Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna 1986; Melucci, Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1990; Balbo L. (a cura di), Tempi di vita, Feltrinelli, Milano, 1991. 14 37 incombenze reali, ma dell’ulteriore sviluppo della soggettività nel suo viaggio maturativo di tipo plurimo e mai compiuto. Duccio Demetrio ad esempio scrive: «L’organizzazione costituisce un analizzatore privilegiato, per indagare l’intreccio tra le diverse costellazioni di una stessa individualità, […] l’appartenenza ad una organizzazione, l’ingresso in essa, o anche la partecipazione alla sua costituzione rappresentano sempre un’esperienza vitale incancellabile; specie se l’individuo ha la possibilità di contribuire alla sua costruzione, di spendere energie e investimenti che ingenerano in lui sensazioni paragonabili alla frequenza ad una delle innumerevoli “scuole di vita” che costellano il corso della sua esistenza»16. 2.7 Crescita e cambiamento organizzatori di adultita’ Seguendo il pensiero di Demetrio, analizzando il processo o arco vitale del soggetto non più all’interno di una concezione stadiale, che riservava all’età matura la pienezza delle prestazioni, bensì alla luce di una nuova epistemologia dell’esistere, ci è possibile demarcare le vicende della crescita e del cambiamento come gioco irriducibile di possibilità talvolta raccolte, più spesso trascurate17. 16 Demetrio D./Fabbri D./Gherardi S., Apprendere nelle organizzazioni. Proposte per la crescita cognitiva in età adulta, La Nuova Italia, Roma, 1994, p. 33. 17 Cfr.: Demetrio D., Micropedagogia, La Nuova Italia, Firenze, 1992. 38 Scrive l’autore: «Le organizzazioni che organizzano e strutturano la vita mentale adulta hanno inaudite responsabilità a tal proposito. Possono “spremerla” per trarne il meglio per l’individuo, oltre che per i propri fini»18. Nelle organizzazioni, il cambiamento connota quindi il farsi dell’adultità e i cambiamenti della identità cognitiva contrassegnano un tipo particolare di passaggio. «Le nozioni afferenti al problema del cambiamento acquistano significati diversi, a seconda della loro connessione con la categoria del volere e dell’accadere e a seconda di come il soggetto si pone di fronte a tali eventi e, soprattutto, al dove (in quali contesti) essi si compiono»19. L’autore quindi afferma che rispetto a se stesso, il soggetto cambia quando rigenera le proprie identità riflettendo su di esse; rispetto invece al mondo, cambia quando è costretto a variare una delle diverse identità e senza che ciò implichi riflessione, dal momento che l’organizzazione e dominata dalla necessità di rimuovere la dimensione segreta e autoformativa20. 18 Demetrio D./ Fabbri D./Gherardi S., Apprendere nelle…,Op. Cit., p. 34. Ibidem, p. 35. 20 Cfr.: Demetrio D./ Fabbri D./Gherardi S., Apprendere nelle…,Op. Cit. 19 39 2.8 L’approccio “life span” Ricorro ulteriormente al lavoro citato in precedenza21 per supportare la tematica “educazione degli adulti”. Chiara Barone scrive dell’approccio “life span” o approccio dell’arco di vita: «Lo sviluppo abbraccia tutto l’arco di vita […] è un processo che dura tutta la vita (secondo la teoria stadiale di Erikson, avviene per stadi ed è epigenico, ovvero il nucleo iniziale già contiene in sé gli sviluppi successivi). - Lo sviluppo è multidimensionale e multidirezionale - E’ contrassegnato da plasticità intraindividuale. - E’ influenzato dalle condizioni socio-culturali. - E’ determinato da influenze eterogenee e plurime (età cronologica del soggetto, condizioni storico-ambientali, condizioni non normative, ovvero situazioni eccezionali, non prevedibili). - Deve essere visto in un contesto interdisciplinare. Ne consegue che ogni possibilità di apprendimento acquista valore in quanto metapprendimento e ciò che si apprende verrà utilizzato al bisogno (metapprendimento) e non visto in chiave strettamente utilitaristica»22. 21 Loria Barone C., Op.Cit., p. 61-72. .Ibidem. 22 40 2.9 L’apprendimento e il modello evolutivo Uno degli approcci all’apprendimento è definito “modello evolutivo” e presuppone un’attività continua del soggetto conoscente nei confronti dell’oggetto della conoscenza in un rapporto relazionale di scambio e costruzione reciproca. Rientrano nell’approccio evolutivo ad esempio la teoria di Piaget, che considera strettamente connessi pensiero e azione; la teoria di Bruner (1990), che soprattutto negli ultimi anni è diventata particolarmente attenta alla dimensione di scambio e di rapporto con la conoscenza; Pribram (1971) e la sua mente ologrammatica; Pask (1975, 1987, 1992) e la conversazione e le strategie d’apprendimento. Pask dice “se vuoi conoscere, chiedi” e questa frase sembra emblematica dell’approccio evolutivo: partecipa, fai qualcosa per apprendere, acquisisci un ruolo d’attore protagonista, in poche parole, agisci. Non sopportare che gli altri riempino la tua mente e i suoi pretestati compartimenti, ma renditi cosciente che puoi agire il tuo apprendere. Apprendere non significa più allora impossessarsi di qualcosa, apprendere significa agire qualcosa. Questo è strettamente correlato al pensiero, in altre parole imparare a pensare significa capire che la giustificazione è incorporata all’azione. L’apprendere si presenta dunque come un’entità dotata di una coerenza interna e solo la comprensione di questa permette di valutare o giudicare l’apprendimento di qualcuno. Scrive Demetrio: «La giustificazione delle azioni d’apprendimento non viene dunque appiccicata dall’esterno a posteriori o attribuita da qualcuno, essa è incorporata all’azione, nasce e cresce insieme a lei. La vera valutazione di 41 un apprendimento corrisponderebbe allora alla ricerca di coerenza interna (giustificazione) costruita da ogni soggetto che apprende»23. Non esistono, sostiene l’autore, dei modi di pensare migliori di altri e prosegue: «quello che veramente scambiamo, comunichiamo, mettiamo in relazione sono di più le nostre incertezze, i nostri dubbi, le nostre idee da mettere alla prova nel confronto con la “realtà” o con gli altri. In questo modo i concetti si modificano, le strategie si definiscono, le teorie si perfezionano. Sia pensare che imparare sono attività decisionali, anzi non possono esistere senza la scelta e la presa di posizione». Concordemente con Demetrio, nell’apprendere si operano dei tagli rilevanti e si scartano moltissimi elementi che non rientrano nel progetto teorico che ci si è dati. E questa situazione può nascondere anche degli aspetti più insidiosi e nascosti usati da chi, apprendendo, rifiuta di decidere24. L’apprendimento quindi ingloba un elemento di maggiore complessità rispetto alla semplice modifica del comportamento, perché implica una capacità ricorsiva da parte del soggetto di articolare e di organizzare la conoscenza sull’universo nel quale si muove. Analogamente il nodo cruciale dei processi decisionali non è tanto la capacità di comprendere i rapporti tra gli scopi perseguiti, i mezzi di cui il soggetto dispone e i risultati che la sua azione produce, ma la capacità di discernere il momento di decidere sulle decisioni. 23 24 Cfr.: Demetrio D./ Fabbri D./Gherardi S., Apprendere nelle…,Op. Cit. Ibidem. 42 Assumeremo allora il punto di vista di Demetrio, secondo il quale «Apprendimento e decisione sono attività umane, processi psicologici e sociali che trovano nel contesto organizzativo non solo un contenitore dell’azione ma anche processi organizzativi di supporto o di inibizione, strutture che incorporano i prodotti di quelle attività umane e routine operative che pongono in essere il sapere prodotto dalle menti umane»25. 25 Demetrio D./ Fabbri D./Gherardi S., Apprendere nelle…,Op. Cit., p. 192. 43 …seduto al tavolo dove passerà la notte, cerca fra le sue cose la scatola di metallo in cui conserva un vecchio orologio da tasca. Le lancette segnano sempre la stessa ora…al risveglio ogni mattina il suo ingresso in un nuovo giorno è uno dei soliti giorni J. Roth, (La leggenda del santo bevitore) CAPITOLO 3 ADULTI IN DIFFICOLTA’: I SENZA DIMORA 44 3.1 Le indagini nazionali ed europee Si prendono in considerazione, a questo punto del lavoro, alcune ricerche compiute in Italia e in Europa da varie Commissioni incaricate dall’Unione Europea, dai Servizi Sociali e dal Privato Sociale. Lo scopo è quello di chiarire, in modo più approfondito, le peculiarità delle persone adulte in difficoltà, in condizioni di povertà, emarginate, senza dimora e fare un’analisi delle possibili strategie di intervento attuate. L’aumento della povertà e delle disuguaglianze sociali, con il relativo insorgere di nuovi modelli di marginalità sociale ed economica, è un fenomeno comune a tutti i paesi occidentali, anche se con importanti differenze quantitative e qualitative nelle diverse realtà nazionali. Nel contesto europeo, si registra un forte incremento dei fenomeni d’esclusione sociale e di povertà, sia nei grandi centri urbani, sia nelle zone rurali del continente: 38 milioni di poveri nel 1975, 44 milioni nel 1985, 53 milioni nel 1995. Di particolare gravità, sempre nell’Unione Europea, è l’aumento della disoccupazione e il suo carattere strutturale nel lungo periodo: l’Europa conta oggi oltre 20 milioni di disoccupati, dei quali più della metà a lungo termine, cioè con tempi d’attesa, per il reinserimento professionale, superiori nella media ad un anno1. Per quanto riguarda le povertà estreme, la presenza di un consistente numero di persone senza casa costituisce un elemento ricorrente di marginalità sociale nei 1 Cfr.: Eurobarometre - Commissione delle Comunita' Europee, La perception de la pauvrete en europe en 1989, Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, 1990. 45 paesi economicamente avanzati: le persone senza fissa dimora, nei paesi dell’Unione Europea, sono aumentate considerevolmente nel corso degli ultimi anni, fino a giungere a valori (stimati) di oltre tre milioni. Nell’ambito dei fenomeni d’impoverimento di vasti strati della società, della crisi occupazionale, della perdita di peso dei sistemi tradizionali di welfare, del disagio abitativo, particolare attenzione va rivolta alla crescente diffusione di forme di povertà che si collocano oltre la tradizionale soglia di indigenza, sia in termini di qualità oggettiva delle condizioni di vita, sia per quanto si riferisce all’invisibilità sociale e istituzionale delle persone portatrici di tali forme di disagio. Una definizione di povertà estrema proviene, nel contesto italiano, dal Rapporto sulle povertà estreme in Italia, prodotto nel 1998 dalla Commissione nazionale d’indagine sulla povertà e l’emarginazione. Secondo i curatori del Rapporto, sono povertà estreme quelle «aree di privazione, di disagio e d’esclusione, che occupano i gradini più bassi della stratificazione sociale, e che non usufruiscono, se non in minima parte, della protezione legislativa e delle prestazioni dello Stato Sociale»2. Secondo la Commissione, andrebbero compresi all’interno dell’area delle povertà estreme, i gruppi sociali e le situazioni a rischio d’esclusione sociale: le persone senza fissa dimora, gli immigrati, i nomadi, i malati di mente, i tossicodipendenti, i portatori di handicap, i malati di Aids, i malati terminali, gli anziani non autosufficienti, gli ex degenti in ospedali psichiatrici e gli ex carcerati. 2 Cfr.: Rapporto 1998: Sulle povertà estreme in Italia – Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione, in: Atti della Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, 1998. 46 Rispetto alle tradizionali categorie di povertà e di marginalità sociale, il Rapporto della Commissione evidenzia alcuni elementi particolari del fenomeno, comuni alle diverse aree di povertà estrema3: x la scarsità o assenza di protezione sociale, sia sul piano delle normative di welfare , in favore dei poveri estremi, sia relativamente all’applicazione di alcune leggi già esistenti; x il basso livello qualitativo dei servizi sociali e sanitari, eventualmente disponibili sul territorio, e la scarsa capacità di attrazione e rispondenza di tali servizi, rispetto ai bisogni reali di questo tipo di domanda sociale; x la difficoltà di rapporto con la società civile, da parte della quale sembrano radicarsi, nei riguardi di queste fasce di povertà, dinamiche di indifferenza, di scarsa sensibilità e accoglienza, di mancanza di rispetto, ma anche di aperta conflittualità; x il carattere fortemente dinamico del processo di emarginazione sociale di cui sono vittime questi gruppi sociali, all’interno dei quali s’intrecciano motivazioni di autoesclusione, incompatibilità culturali, difficoltà di comunicazione e diffidenze. Il fenomeno delle persone senza fissa dimora, va incluso in quello più vasto della povertà economica e, in modo specifico, delle povertà estreme, anche se con 3 Cfr.: Rapporto 1998: Sulle povertà…, Op. Cit. 47 alcune necessarie distinzioni. Come vedremo, è possibile rintracciare, nelle biografie delle persone senza dimora, caratteristiche e percorsi del tutto particolari, che differenziano tale condizione dalle tradizionali “carriere di povertà”. Assumono particolare peso, nel fenomeno, i fattori legati alla dimensione affettiva e relazionale, la presenza di disturbi psichici e di situazioni di dipendenza da sostanze, le caratteristiche essenzialmente urbane del fenomeno e la centralità dell’esclusione abitativa4. 3.2 Definizione di «persona senza fissa dimora» Esistono molte diverse definizioni di «senza fissa dimora», provenienti da ambiti operativi e scientifici. Nella letteratura internazionale, la condizione di senza fissa dimora è definita di volta in volta con termini come homeless, roofless, clochard, etc., secondo significati e implicazioni non sempre coincidenti. In buona parte della letteratura italiana e straniera si registra una differenza tra il concetto di “senza tetto” e “senza dimora”. Con il termine senza tetto, si fa solitamente riferimento alla mancanza di una casa, intesa nel senso fisico di tale termine. Per senza dimora s’intende invece la mancanza di un ambiente di vita, di un luogo privilegiato di sviluppo per le relazioni affettive. La scelta di una delle possibili definizioni del problema non è priva di 4 Garena G., Politiche contro la povertà e azione nei servizi, Rivista: Animazione Sociale n. 4/1999, Torino, 1999, p. 34. 48 conseguenze sul piano operativo: se si considera il problema degli homeless principalmente come “problema della casa”, il disagio abitativo verrà letto come fattore determinante, a cui ricondurre la condizione di senza fissa dimora. Nel caso prevalga, invece, la definizione di homeless5 come soggetti con un “problema di relazione sociale”, la chiave di lettura del fenomeno sarà di tipo sociale e relazionale, riconducibile al più vasto fenomeno del disagio e dell’esclusione sociale. Nel corso degli anni, si sono utilizzate perlopiù definizioni che privilegiano l’osservazione della realtà e le condizioni di vita reali delle persone: ad esempio, nella terminologia utilizzata dall’ Housing Fund di Helsinky, un’istituzione pubblica che produce ogni anno un Rapporto sul disagio abitativo in Finlandia, la “mancanza di dimora” è definita in modo molto ampio: «oltre ai soggetti che vivono all’aperto, o in rifugi precari o temporanei, vengono comprese anche persone ospitate presso realtà istituzionali, come ospedali psichiatrici, case di riposo, case per disabili, sia in forma provvisoria che permanente; i detenuti in procinto di essere rilasciati, che dichiarano d’essere privi di alloggio; le persone che vivono provvisoriamente presso parenti e conoscenti a causa della mancanza di alloggi, etc»6. Un’interessante definizione di homeless proviene da diverse ricerche realizzate negli Stati Uniti nel corso degli anni novanta: in uno studio, condotto in aree rurali 5 Cfr.: Massari l., Lavorare con gli homeless - Riflessioni sulla rappresentazione - Guida degli operatori, Rivista: Animazione Sociale n. 3/2000, Torino, 2000. 6 Pekka L., Urban and Regional Studies, University of Tecnical Research Centre of Finland, Helsinki, 1999, p. 86. 49 degli Stati Uniti, un soggetto è considerato homeless se, oltre a non avere una residenza o una casa permanente, risponde a uno dei seguenti requisiti: x dorme in asili, o missioni, a disposizione dei senza casa, gestiti da organizzazioni religiose o agenzie pubbliche, facendosi carico della spesa sostenuta dall’ente, o almeno di una parte di essa; dorme in hotel o motel molto economici per un periodo pari o superiore ai 45 giorni; x dorme in altri contesti, come presso degli amici, per un periodo di tempo pari o superiore ai 45 giorni. L’Osservatorio Europeo sulla Homelessness, nel suo primo Rapporto sul fenomeno dei senza dimora in Europa, definisce la persona senza fissa dimora come «una persona che, avendo perso o abbandonato il suo alloggio, non può risolvere i problemi ad esso connessi e ricerca, o riceve, l’aiuto di agenzie pubbliche o private»7. Nell’edizione 1998 del Rapporto sulla situazione in Italia, viene suggerita una definizione di persona senza fissa dimora ripartita in tre categorie di definizione, più ampie rispetto a quelle tradizionalmente utilizzate per definire la “mancanza di dimora” in senso stretto. Vengono incluse nella categoria della homeless le persone prive di qualsiasi sistemazione, quelle in sistemazioni provvisorie nel settore pubblico o in quello del volontariato e coloro che si trovano in 7 Daly M., The right to a home, the right to a future, Primo rapporto dell'Osservatorio Europeo sull’homelessness, Feantsa, Bruxelles, 1994, p. 27. 50 sistemazioni abitative marginali fortemente sotto lo standard8. In occasione della realizzazione di un’indagine nazionale sulle persone senza fissa dimora, un gruppo di lavoro coordinato dalla Fondazione “E. Zancan” di Padova ha definito la persona senza fissa dimora come «una persona priva di dimora adatta e stabile, in precarie condizioni materiali d’esistenza, priva di un’adeguata rete sociale di sostegno»9. Un’ultima possibilità di definizione, è quella di considerare la condizione di homeless come una subcultura, ossia di un insieme di norme e valori che distinguono un sottogruppo sociale dalla società più ampia. Ma la sociologa Antonella Meo, in uno studio sulla vita quotidiana e i percorsi delle persone senza dimora a Torino10, osserva come, se da una parte sono identificabili una serie di elementi comuni a molte delle persone che vivono sulla strada (condivisione delle stesse difficoltà quotidiane, interazione reciproca, esistenza di pratiche e strategie di sopravvivenza per procurarsi le risorse materiali, etc.), non si riscontrano i caratteri di riconoscimento di una cultura comune. Non sembra infatti che le persone senza dimora condividano un insieme di valori e di credenze distinto da quello della società più ampia, anche per il fatto che, a dispetto dell’isolamento di tali persone, esse continuano a fare riferimento a modelli culturali, valori e 8 Cfr.: Commissione d'indagine sulla povertà e sull'emarginazione, Terzo rapporto sulla povertà in Italia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1998. 9 AA.VV., Quelli che non contano. Materiali di studio sull'emarginazione, Fondazione E. Zancan, Padova, 1978, p. 31-34. 10 Segnaliamo che sul Rapporto biennale sul volontariato 2000 è pubblicata una sintesi della Ricerca e mappatura delle realtà pubbliche e private operanti in favore delle persone senza dimora sull'intero territorio nazionale, indagine finanziata dalla Presidenza del Consiglio Dipartimento per gli affari sociali, promossa ed eseguita dalla FIO.psd nel corso dell'anno 2000. 51 credenze provenienti dall’esterno. Diverso è il discorso per gli immigrati colpiti dall’esclusione abitativa. A questo riguardo, una serie d’esperienze locali dimostra che, in alcuni casi, gli homeless appartenenti a determinate comunità straniere hanno dato luogo a forme collettive di mobilitazione e a rivendicazione degli alloggi e del diritto alla casa. In altre parole, mentre nel caso dei senza dimora italiani si osserva un processo di graduale impoverimento culturale e di perdita dell’identità sociale, nel caso degli immigrati, la presenza di una struttura sociale e di una cultura condivisa ha consentito lo sviluppo di alcune forme di aggregazione e di rivendicazione politica, sia su base locale che nazionale. La mancata rivendicazione collettiva dei propri diritti, oltre alle difficoltà e agli impedimenti di natura burocratica, relativi all’accesso ai servizi sociali, hanno contribuito a far sì che in molti paesi europei sia notevolmente aumentata la percentuale degli emarginati e dei poveri che, pur avendone diritto, non richiede né sussidi né sovvenzioni. Ad esempio, nel Regno Unito, su due milioni di persone che potrebbero legittimamente ottenere dei contributi economici, solo il 60 – 65 % ne fruisce effettivamente. Meno del 30 % di chi avrebbe diritto a canoni d’affitto ribassati e meno del 25 % di chi potrebbe fruire di tariffe ridotte per i servizi pubblici, ne fa uso realmente11. 11 Rauty R., Homeless - Povertà e solitudini contemporanee, Costa & Nolan, Milano, 1997, p. 55. 52 3.3 Il problema dell’esclusione sociale e delle persone senza dimora. Florian e Cavaglieri, due studiosi torinesi del secolo scorso, riportando alcune relazioni inglesi sulla vita dei tramps (vagabondi), nel 1866 scrivono: «gran parte di loro, durante tutta la loro vita, non hanno dato una settimana di seguito al lavoro; e quando sono nelle workhouses (ospizi) traggono l'esistenza mendicando e rubando […] il 15% dei vagrants (mendicanti) non lavorano mai […] quando si tratta di lavorare i vagabondi rifiutano persino il soccorso»12. Queste brevi osservazioni sono piuttosto interessanti per due ordini di ragioni: in primo luogo la terminologia, l’uso dei termini vagabondo, ospizio mendicità che – benchè riconducibile al contesto storico cui ci si riferisce – in realtà rimanda a concetti stereotipati secondo cui la psicologia del vagabondo è caratterizzata dall’inerzia e dal disimpegno. Un altro preoccupante stereotipo a proposito dell’uomo che vive sulla strada è quello suggerito – ma non per questo meno radicato – dalla letteratura: dal romanticismo alla beat generation attraverso bohème e decadentismo, l’immagine del barbone che è sulla strada per libera scelta, perché è ribelle ed anticonformista, si è affermata come modello rassicurante per l’uomo comune che in questo modo si autolegittima a prendere le distanze dal problema. Ma il discorso diviene più inquietante quando il pregiudizio è tanto radicato da informare di sé anche chi, istituzionalmente, è chiamato ad occuparsi di problemi 12 Cfr. Florian E., Cavaglieri G., I vagabondi, studio sociologico giuridico, Bocca, Torino, 18971900. 53 sociali. Nel 1992 il Comitato ONU per i diritti economici, sociali e culturali rivolse alla delegazione del governo italiano alcune domande a proposito del diritto alla casa per tutti e la risposta del nostro paese fu: «I senza tetto sono un’infima minorità composta da barboni e zingari che hanno scelto questo tipo di vita. E’ una questione la cui soluzione non spetta allo Stato»13. Con una certa dose di ottimismo si può affermare che ad otto anni di distanza la situazione delle politiche sociali è decisamente mutata anche se l’approccio concettuale al problema, non solo in Italia è ancora piuttosto obsoleto. Nella ricerca transnazionale (Italia-Francia-Danimarca-Germania) Extreme Urban Poverty and Welfare Policies coordinata tra il ’92 e il’94 da Giovanni Pieretti, si evidenzia la frattura irreversibile sul piano fenomenologico, tra senza dimora o meglio, come scrive Pieretti, «povertà urbana estrema e povertà in generale»14. Inoltre attraverso tale ricerca, si è dovuto prendere atto del fatto che, in tutti e quattro i welfare system analizzati, le povertà urbane estreme «vengono ancora considerate come il gradino più basso e più degradato delle povertà tradizionali, cioè delle cosiddette povertà materiali o economiche»15. Secondo Pieretti le povertà urbane estreme sono un fenomeno simbolico esistenziale che rimanda al concetto che Robert Castel definisce désaffiliation 13 da “Resoconto dell’esame del Comitato delle Nazioni Unite (ONU) per i diritti economici, sociali e culturali del rapporto sulla situazione dell’Italia per quanto riguarda l’art.11 del Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, Ginevra, 3/12/1992. 14 Pieretti G., La negazione dei diritti nel percorso delle persone senza dimora, TRA, n.2, Milano, 1999, p. 119-120. 15 Ibidem. 54 (disconoscimento di paternità rispetto al sistema sociale)16. Proiettando questo concetto a livello europeo emerge chiaramente che il numero di persone che non si sentono più figli di questo sistema sociale è drammaticamente in aumento. Dunque la povertà urbana estrema nell’orizzonte attuale sembra configurarsi come «una sequenza di rotture biografiche che interessano sia la personalità che il tessuto sociale. Esiste una sorta di soglia che contraddistingue l’incapacitàriluttanza di provvedere a se stessi, definibile come processo di decomposizione ed abbandono del Sé. Quando un individuo oltrepassa questa soglia significa che egli attenta alla propria vita» 17. Questo processo che può essere lento ma anche giungere ad un punto di irreversibilità, è caratterizzato da un progressivo sfaldamento dei rapporti (microfratture) che conduce ad un isolamento dal mondo, dalla famiglia e dagli amici, persino gli stessi compagni . In quest’ottica, molto mutata rispetto allo scenario della povertà tradizionale in cui il motivo dello scacco è riconducibile ad un evento traumatico (per es. la perdita del lavoro), è evidente che le modalità d’intervento non possono limitarsi a quelle assistenziali né, d’altra parte, si può cinicamente accettare l’idea che non ci sia nulla da fare come sembrano sostenere Darhendorf e Luhmann, due dei massimi sociologi contemporanei, propendendo per la tesi dell’impossibilità dell’incontro 16 Cfr.: Relazione introduttiva al convegno “L’impresa sociale”, Palazzo delle Facoltà Umanistiche della Università, Parma, 1991. 17 Pieretti G., La negazione dei diritti …, Op. Cit., p. 123. 55 tra welfare system e senza dimora18. Una delle possibilità dunque appare quella della rivitalizzazione solidaristica ed egualitaria dell’incontro che nasce dai rapporti umani e che trova nella comunità, più che nell’approccio privatistico, il modello di riferimento per coloro che, e sono sempre di più, non ce la fanno da soli se non a morire, e a morire in fretta. 3.4 Dai “barboni” ai senza dimora Come categoria su cui effettuare interventi socio-assistenziali i senza dimora sono un fatto recente. “Barboni”, “Clochard”, “Homeless”, “senza fissa dimora” sono invece categorie di ben più antica origine. Come sostiene G. Pieretti «molti, tuttora, confondono “senza dimora” e “senza fissa dimora” o “barboni”: questo in realtà è un fatto grave in quanto la distinzione non è puramente nominale, ma rinvia, in linea di massima, a soggetti sociali diversi; barbone, senza fissa dimora, ecc. rimandava un tempo a figure sociali appartenenti ai gradini più bassi della stratificazione sociale, spesso con origine nel sottoproletariato urbano, con bassissima istruzione o analfabeti addirittura, tendenti al vagabondaggio e all’accattonaggio, pronti a vivere di espedienti. Essi rientravano, nel quadro delle cosiddette “povertà oziose” (contrapposte alle “povertà operose”) e comunque 18 Cfr.: Dahrendorf R., Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Laterza, Bari-Roma, 1995; Luhmann N., Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano, 1979. 56 afflitte dal marchio delle sventura, del trauma. In termini casualistici si parlava di evento traumatico prima, e poi di cumulo di eventi traumatici, qualcuno successivamente di rete dei disagi. Un individuo, già “a rischio”, a seguito di eventi traumatici (perdita della casa, del lavoro, malattia, separazione, ecc.) diventava un “barbone “ o un “senza fissa dimora” (come si diceva in puro lessico da questura)»19. L’operatore che doveva rispondere alla figura sociale del senza fissa dimora, doveva in sostanza possedere skills da assistente sociale tradizionale e svolgere prevalentemente interventi in cui erogava provision20 (ciò sia nel pubblico, sia nel privato, eventualmente con un taglio assistenzialistico). Alla figura sociale del senza dimora, invece, non è ben chiaro quale figura di operatore sociale debba rispondere e quali siano, pertanto, le strutture socio-assistenziali, pubbliche e private, meglio in grado di proporre un’assistenza efficace. 3.5 Immigrazione e persone senza fissa dimora Gli immigrati extracomunitari rappresentano una componente importante della povertà estrema e dell’esclusione abitativa, anche se con modalità e caratteristiche che li differenziano da altri tipi di homeless. A differenza di quanto si verifica 19 Guidicini P., Pieretti G. (a cura di), Città globale e città degli esclusi, Angeli, Milano, 1998, p. 89. 20 Ibidem. 57 nella componente italiana del fenomeno, le persone senza dimora d’origine extracomunitaria evidenziano, in genere, una forte motivazione all’inserimento e all’integrazione sociale. Per quanto riguarda le altre variabili significative, si osserva uno stato di salute generalmente soddisfacente, anche se limitato alle prime fasi di permanenza sulla strada, e un livello d’istruzione superiore, nella media, a quello dei senza dimora italiani. Inoltre, nel caso degli immigrati, è quasi del tutto assente la componente di disagio psichico, anche se un certo numero di senza dimora immigrati manifesta dipendenza da sostanze psicotrope (droga, alcool, etc.). Infine, a differenza dei senza tetto italiani, gli extracomunitari possono fare riferimento a reti di relazioni formali e informali, legate alle comunità d’appartenenza, che organizzano, in alcuni casi, la sistemazione alloggiativa di coloro che risultano esclusi dall’abitazione. In altri casi, si registra invece la presenza di gruppi, anche consistenti, di senza dimora immigrati, di comune provenienza geografica, installati in baraccopoli o in ripari di fortuna, localizzati in aree rurali o alle estreme periferie metropolitane. 3.6 Malattia mentale e persone senza fissa dimora Numerosi studi della recente letteratura internazionale hanno documentato l’alto tasso di problemi mentali nella popolazione senza fissa dimora. Tuttavia, si può rilevare un certo disinteresse della psichiatria italiana nei riguardi di questi specifici problemi: di fatto, l’argomento sembra limitato alla letteratura prodotta 58 dal volontariato o dal privato sociale. Da uno studio condotto presso il servizio medico dell’ambulatorio della Confraternita della Misericordia di Bologna, una struttura di volontariato situata nel centro della città e rivolta a persone emarginate gravi, risulta che, su oltre 3900 visite eseguite nel corso di 4 anni (dal 1992 al 1996), si apprende che le malattie psichiatriche figurano al secondo posto per la frequenza. Gran parte di esse sono connesse con il fenomeno dell’alcolismo (assai diffuso) e al disadattamento. Si tratta di patologie più o meno gravi, varie forme di nevrosi, con qualche caso di vera psicosi di tipo dissociativo. In genere, la persona che arriva in un ambulatorio psichiatrico pubblico ha alle spalle una lunga storia di fallimenti in campo affettivo e sociale, in cui s’instaura progressivamente una sorta di circolo vizioso tra malattia ed emarginazione, in cui l’una e l’altra si potenziano reciprocamente21. Altri aspetti del fenomeno provengono da un’indagine condotta a Torino nel corso del 1999. Su 182 persone, di cui 88 italiane, utenti di mense gratuite e case di ospitalità notturna del capoluogo piemontese, si è osservato un elevata presenza di psicopatologie, con storie personali di molteplici ricoveri ed etilismo cronico molto frequente22. Il fenomeno riguarda quasi esclusivamente l’utenza italiana, che è risultata la più compromessa dal punto di vista dello stato di salute complessivo. Ulteriori informazioni provengono dal Servizio sanitario per le persone senza dimora presente all’interno 21 Cfr.: Usmi - Firas - Cism, Nuove risposte alla povertà e alla emarginazione. Esperienza a confronto, Caritas Italiana, Roma, 1998. 22 Cfr.: Dip. XVI Assistenza Sociale (a cura di), Servizi in favore delle persone "senza fissa dimora", Torino, 1998. 59 delle Cucine Popolari Cittadine di Padova, gestite dalla Caritas locale. Su oltre 1700 utenti, che si sono rivolti nel 1998 al servizio, dei quali 900 si sono dichiarati senza fissa dimora, sono risultati molto frequenti vari tipi di disturbi neuropsichici legati al consumo di droghe23. Tale fenomeno va considerato un’espressione del disagio generalizzato della vita nelle grandi città e non solo frutto dell’apertura dei manicomi con la legge 180, che da sola non basta più a giustificare un così grande numero di persone con problemi psichici che vive in strada. I problemi psichici, infatti, sono il motivo prevalente per il quale si trovano per strada: lo stato di abbandono che queste persone vivono non fa altro che deteriorare il loro già fragile equilibrio psichico. Un’ultima serie di dati si riferisce alle utenze dell’Ufficio Adulti in Difficoltà, al Servizio Accoglienza Milanese e al Ricovero Notturno, tre strutture d’accoglienza per emarginati gravi presenti nella città di Milano. La lettura approfondita dei dati per gli anni 1996, 1997 e 1998, consente di definire il disagio psicofisico come un elemento centrale delle biografie delle persone senza fissa dimora, con particolare rilevanza per l’utenza femminile. Dall’analisi delle storie di vita delle donne senza dimora, si apprende che il rischio di povertà femminile, rispetto a quello maschile, si accompagna con maggiore probabilità al disagio psicofisico: 27 % di malattie psichiche accertate, una percentuale doppia rispetto all’utenza maschile. La malattia psichica è spesso causa di stati di povertà e d’emarginazione sociale, anche quando è presente in 23 AA.VV., Quelli che non contano...., Op. Cit. 60 uno dei membri della rete familiare. Questo studio conferma la situazione particolare della povertà femminile, un fenomeno che colpisce le donne soprattutto in particolari situazioni familiari, segnate dalla presenza di handicap o disturbi psichici. Da un lato, le donne povere sono innanzitutto donne anziane che vivono da sole, dall’altro le donne sole e con figli portatori di handicap fisici o psicologici risultano anch’esse esposte al rischio della povertà. Risulta infatti difficile, se non si ha il sostegno di una rete familiare o amicale o se non si posseggono i mezzi finanziari adeguati, fare fronte contemporaneamente alle esigenze del mercato del lavoro e a quelle dei figli, soprattutto nelle famiglie dove un solo genitore è totalmente responsabile su entrambi i fronti24. Altre recenti ricerche, in particolare Città globale e città degli esclusi25, hanno messo in evidenza alcuni snodi problematici in materia: la differenza marcata esistente tra le strutture e viceversa la relativa omogeneità dei percorsi di vita delle persone senza dimora. Ciò ha indotto numerose riflessioni, diciamo così, sull’offerta e sulla domanda di servizi per senza dimora che si riportano qui di seguito a partire dalla “offerta”. 24 Cfr.: Molfino G., I "barboni": emarginazione totale?, Prospettive sociali e sanitarie n. 1/99, Milano, 1999. 25 Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Città globale…, Op. Cit. 61 3.7 Tra strutture e soggetti Chiamare in causa la relazione implica anzitutto accennare ad alcune trappole. Un pericolo non trascurabile, nel lavoro con le persone sin hogar26 è riassumibile con il termine psicologismo - cattiva psicologia - o più precisamente l’uso di categorie concettuali derivanti dalla psichiatria, dalla psicoanalisi e dalla psicologia compiuta da personale non sufficientemente preparato, formato e soprattutto non in supervisione. La distinzione tra psicologismo e uso corretto di strumenti psi ( come usano abbreviare felicemente i francesi), compiuto anche da personale non necessariamente sancito accademicamente, è difficile. Il moltiplicarsi di scuole, tagli, approcci, rende la distinzione di cui parliamo molto problematica, anche per l’inevitabile bias (distorsione) di chi valuta27. Si dovrebbe valutare tale distinzione a partire dal contesto e dall’oggetto specifico di cui ci si occupa. Ci occupiamo di persone sin hogar, senza dimora, di soggetti in condizioni di povertà urbana estrema, persone con storie pesanti alle spalle, che, nella quasi totalità dei casi, hanno rotto con la famiglia. Quelle persone non sono ovviamente diverse dalle altre tranne che per un punto: la loro aspettativa di vita, se non vengono compiuti interventi, è estremamente compressa, ridotta e assai spesso non supera i sessanta anni. 26 In lingua spagnola senza dimora si può dire sin techo (senza tetto) o sin hogar (senza focolare). Cfr.: Sarpellon G. (a cura di), Le politiche sociali fra stato, mercato e solidarietà, F. Angeli, Milano, 1986. 27 62 La linea alla quale ispirare l’intervento e, prima di esso, il suo retroterra teorico e morale, consiste allora nel trovare la possibilità di far vivere le persone sin hogar e ridare loro attaccamento alla vita28. L’attaccamento alla vita lo può dare solo un’affettività sviluppata, non importa su chi diretta, ed un qualche ruolo svolto sul lavoro: è a questo che si deve puntare, tenendo conto delle possibilità degli utenti con cui si ha a che fare. Ora alcuni pensano alla relazione come ad un modo per ridare “normalità “ agli utenti: e, a volte, non si accorgono che le persone senza dimora non sanno che farsene delle competenze sociali. La relazionalità, così come la si intende oggi nelle professioni sociali, è in realtà una potenziale trappola in cui una persona senza dimora rischia di essere ingabbiata, proprio perché non è un buon borghese. Una persona senza dimora ha, come tutti, compresi i buoni borghesi, bisogno di sentimenti forti ed emozioni calde per vivere, ma, diversamente dai buoni borghesi, non possiede quegli orpelli che possono permettergli di farne a meno. Orpelli sociali sono il mondo dei ruoli e delle prestazioni, gli oggetti di consumo, la carriera e via di questo passo. Un senza dimora si è, per vari motivi, liberato di queste cose e a volte non le ha mai possedute29. La relazione, il rapporto con gli altri, sono aspetti che non è giusto ritenere di dettaglio: ma sono solo e soltanto un mezzo e non un fine, non certo lo scopo da raggiungere nell’intervento. Si riscontrano, come è normale che sia nel lavoro sociale, riferimenti numerosi ad un’idea di relazione più densa della prima, ma 28 Cfr.: Sarpellon G. (a cura di), Le politiche sociali fra stato..., Op.Cit. Remondini A., Il concetto di multidimensionalità ed accompagnamento sociale con la persona senza dimora, TRA, n.2, Milano, 1999, p. 27-28. 29 63 che, a nostro avviso, è ancora iscritta nel gioco delle prestazioni, in cui talvolta, tra l’altro, gli operatori fanno i “grilli parlanti” o i “pierini” di donmilaniana memoria. Non sono molto frequenti i casi in cui si avverte una determinazione forte nella relazione, in cui è giocata una partita pesante, senza fair-play, in cui l’obiettivo ultimo è davvero aiutare l’utente a ritrovare attaccamento alla vita e senso della vita30, in cui la relazione educativa riassume la sua intera pregnanza semantica di legame forte. E’ così che le buone pratiche psi diventano, o rischiano di diventare, psicologismo: una psicologia che, forse, a volte non comprende bene che non sta giudicando e che, soprattutto, non deve creare degli integrati, ma che sta invece lavorando sul confine di persone che non hanno chiaro se vogliono continuare a vivere o no; persone che hanno bisogno di operatori i quali, con l’esempio, la testimonianza e con tutte le loro forze, sappiano trasmettere voglia di vivere. 3.8 Pratiche di vita dei soggetti e criteri di intervento Se le tre tipologie di utilizzo del concetto di relazione sopra identificate assumono contorni di verità, si dovrà allora lavorare per fare comprendere a tutti che è la terza la strada giusta, fuori da ogni dogmatismo e nella consapevolezza delle difficoltà di pervenire a tale obiettivo. 30 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità,,., Op. Cit. 64 Si dovrà, a tal fine, formare, e prima ancora, orientare gli operatori in tal senso: spesso, infatti, alcuni obiettivi di fondo vengono trattati come gestalt, come pura forma. Alcuni operatori sottolineano la scarsa capacità di alcuni utenti nel contenere i propri impulsi: sembrano però non capire che ciò che non è, a suo tempo, stato trasmesso con l’educazione potrà essere raggiunto comunque con enormi difficoltà, attraverso un lungo e faticoso lavoro educativo e per tramite di una relazione vera e profonda tra utente e operatore. Una relazione che sappia oltrepassare la corazza dei meccanismi di difesa che anche le persone sin hogar sono state costrette a indossare e che è necessario togliere per trovare fiducia negli altri prima e poi in se stessi e nella vita31. Entro il mondo dei soggetti senza dimora, emerge la linea biografica dominante e la loro, come scrive Guidicini: «trajectoire de vie»32. Scrive l’autore: «Il risultato consiste nello stabilire a che punto del processo di decomposizione ed abbandono del Sé si intende alludere, in altri termini, proprio alla traiettoria di vita della persona senza dimora. Tale termine-concetto assume qui una valenza non ontologica, ma eminentemente pratica e costituisce una sorta di retroazione (feedback) rispetto alla loro traiettoria di vita. Alcuni snodi di essa, sia di carattere pratico sia di entità relazionale, quali avere o non avere la carta d’identità, passare da soli o con i propri familiari il giorno di Natale, consentono di collocare idealmente quella specifica persona senza dimora in un punto di quella traiettoria di vita che noi chiamiamo appunto processo di decomposizione ed abbandono del 31 Cfr.: Lazzari F., L'attore sociale fra appartenenza e mobilità. Analisi comparate e proposte socio-educative, CEDAM, Padova, 2000. 32 Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Città globale…, Op. Cit., p. 132-33. 65 Sé (no-return zone), che praticamente coincide con una forte prossimità alla perdita della vita»33. Cercare di capire a che punto della traiettoria si trova un soggetto è, tra le alte cose, importante per vedere quanto egli è prossimo all’area cosiddetta del non ritorno e quindi al rischio reale di perdita della vita. Un elemento è praticamente comune a tutti (con davvero pochissime eccezioni): il mancato rapporto con la famiglia, per le più diverse ragioni soggettivamente espresse o recepite dagli operatori. Questo vale per tutte le strutture considerate. Riterrei proprio questo l’elemento fondativi di ogni ragionamento: si tratti di persone anziane, senza particolari problemi, senza dimora “tradizionali”, donne con problemi di prostituzione, alcolisti, tossicodipendenti, carcerati per spaccio, vagabondi un po’ romantici, persone con problemi psichiatrici o semi-analfebeti, l’elemento comune è, davvero quasi sempre, l’assenza di rapporti con la famiglia (e a volte tout court). E’ pur vero che tra i casi considerati qualcuno ha rapporti sporadici con un fratello o una sorella, ma sono sempre rapporti conflittuali. Le persone considerate, scrive Cirillo, sono: «tutte percorse da un taglio di coltello che incide la loro vita e che non si può rimarginare: la ferita dovuta al non essere stati accettati ed amati anyway, per come erano fatti, e/o la ferita ancor più grave dell’aver perpetrato il peccato di orgoglio di “farcela da soli”, fungendo da padre, madre, fratelli e famiglia allargata. E’ questo il principale elemento comune del processo di decomposizione ed abbandono del Sé»34. 33 34 Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Città globale…, Op. Cit., p. 132-33. Cirillo S., (a cura di), Il cambiamento nei contesti non terapeutici, Cortina, Milano, 1990, p. 74. 66 3.9 Dai senza dimora non integrati a integrati senza dimora? L’analisi delle trajectoire de vie di alcune persone senza dimora mette in luce alcuni elementi di novità, in particolare l’essere arrivati alla esclusione dopo significativi e a volte importanti percorsi di inclusione. Si parla di persone che magari vorrebbero essere integrate al massimo, ma che non accettano un’integrazione che preveda stili di vita e di consumo non particolarmente vistosi e che data l’impossibilità di riuscire a stare sulla cresta dell’onda, compiono una sorta di caduta verticale che al termine li porta sulla strada. Queste persone, spesso con un buon titolo di studio e una “carriera” lavorativa di un certo spessore, vorrebbero integrarsi, come detto, per quanto riguarda gli stili di vita e di consumo, ma non sanno perché, al di fuori di logiche paranoiche di ostentazioni e di esibizioni: «non possiedono un orientamento normativo, un orizzonte di senso che renda ragione del fare ciò che fanno (o vorrebbero fare). E, come si può ben notare, una sorta di integrazione simulata, o di iperintegrazione, dal punto di vista, per così dire, pratico ma che essendo costruito sull’assoluto nulla morale può crollare come un castello di carte. E’ la vita morale a mancare a questi integrati senza dimora. In realtà potremmo dire che, nel nostro sociale in generale, per integrati ed emarginati e in realtà per quasi tutti, vengono a mancare, forse per la prima volta, processi collettivi autentici, vere esperienze di condivisione e che la vita morale pertanto non può svilupparsi»35. 35 Cirillo S., (a cura di), Op. Cit., 76-77. 67 Come fare allora ad aiutare le persone senza dimora a diventare più forti, cioè a resistere. Il punto qui in questione è: il migliore degli interventi, il più riuscito degli interventi, il miglior modo “tecnico” per accompagnare un emarginato, un senza dimora, a questo punto, non sarà efficace a meno che non sia accompagnato ad un lavoro sul senso della vita e, inevitabilmente sulle “tavole della legge”, su cosa è giusto e cosa è sbagliato e, infine, su quello che un tempo veniva definito “modello di sviluppo”. Se l’emarginazione grave, l'essere senza dimora è oggi (come alcuni sostengono), un sottoprodotto della globalizzazione, come scrivono Guidicini e Pieretti, i residui, sono funzionali al modello di sviluppo nel quale viviamo. Anzi sono dialetticamente il frutto della società nella quale viviamo. I due autori affermano: «se studi e interventi servono a ricostruire degli integrati a questo modello di sviluppo e a questo sistema, dobbiamo renderci conto che i “muscoli” per stare dentro a questo sistema non ce li hanno più soltanto gli emarginati, ma non ce li ha forse più nessuno. Perché qui ci vuole veramente un “fisico bestiale”. Ci vuole un corpo totipotente. Noi dobbiamo capire può essere fisiologico e non più patologico cadere nell’emarginazione grave o nei percorsi di povertà estrema. Studiando le derive biografiche delle persone che sono dentro ai processi di povertà urbana estrema, se stiamo attenti alle somiglianze e non alle differenze rispetto ai percorsi biografici, cosiddetti normali, ci accorgiamo che somiglianze 68 sono veramente molte. E' in questo che ci si deve interrogare e fare compiere un’affermazione De te fabula narratur»36. Si può affermare che non c’è intervento, anche il migliore, che possa permettere ad un emarginato di uscire stabilmente dall’emarginazione, stando così le cose. Un intervento solo tecnico potrà far sì che un senza dimora si rimetta, per così dire, in pista per un pò. Però che cosa gli si proporrà: gli insegneremo a rapportarsi a Internet, a trovare un lavoro virtuale, interinale, a fare l’e-commerce? A diventare, come si dice oggi, flessibile? Vale a dire a rapportarsi ad un mercato del lavoro sempre più sintonico con le ideologie e le pratiche della globalizzazione? Tutto ciò è in grado di destrutturare persone altamente strutturate, e non sembra proponibile a persone che, almeno per un tratto del percorso di accompagnamento sociale, hanno bisogno di molte sicurezze. Le strutture che propongono percorsi di accompagnamento sociale per i senza dimora dovranno allora, volens nolens, entrare nel merito del “modello di sviluppo”: crediamo che il percorso dovrà quasi inevitabilmente risultare, se non “alternativo”, almeno “altro” e possedere dei contenuti, per certi versi, eversivi. «La restitutio ad integrum di una persona senza dimora dovrà quindi affrontare il problema dell’integrazione in termini che rimettano in discussione il modello di società nel quale viviamo»37. 36 Guidicini P. / Pieretti, G. / Bergamaschi, M., (a cura di), Gli esclusi dal territorio. Comunità e politiche di Welfare di fronte ai percorsi di impoverimento, Franco Angeli, Milano, 1997, p.12527. 37 Guidicini P. / Pieretti, G. / Bergamaschi, M., (a cura di), Gli esclusi dal …, Op. Cit. 69 3.10 Più che strutture nuove, un approccio diverso Le ricerche in tema di persone gravemente emarginate e senza dimora hanno prodotto un’interpretazione relativamente concorde in merito alla realtà del “scivolamento” lungo una china di disagio psichico, sociale, fisico e infine di chiusura ad ogni relazione significativa con la realtà. Nella maggior parte dei casi di assenza di dimora, troviamo persone che s’involvono verso modelli di vita più duri. Sono persone che, a partire da un’esperienza di particolare sofferenza (percepita come massimo “punto di crisi”), si sbilanciano in modo apparentemente irreversibile dalla normalità, fino a fermarsi alla soglia minima della sopravvivenza, in un orizzonte che si appiattisce nel bisogno del momento presente, giorno per giorno, ora per ora. È una condizione di vita più pesante di quanto non possa superficialmente apparire: «gran parte di queste persone, vivendo in uno stato di precarietà, nell’arco di un decennio muore per traumi “da strada” (incidenti, aggressioni, infezioni, tumori, malattie alcoolcorrelate, malnutrizione, assideramento, etc.) o si ritrova con una salute gravemente compromessa»38. Accade così che molte persone senza dimora, stabilmente in una condizione d’estrema stanchezza fisica e di confusione mentale, si adattano a una vita fatta d’espedienti, senza tentativi di reale cambiamento, quasi a proteggersi, in quell’immobilismo, dalla paura di nuovi fallimenti. Esse non condividono più i 38 Guidicini P. / Pieretti, G. / Bergamaschi, M., (a cura di), Gli esclusi dal …, Op. Cit. 70 tempi, gli spazi e i consumi comuni agli abitanti della città; da “senza dimora” perdono gradualmente anche l’identità di “cittadini”, fino a divenire per la società che li circonda (e che li genera), un emblema della legge naturale della selezione e della sopravvivenza, una legge spietata con tutti coloro che non reggono il passo. La storia della maggior parte dei senza dimora è una catena di sradicamenti progressivi e cumulativi: dal lavoro perduto ripetutamente o mai trovato, al mondo degli affetti rotti o troppo deboli, ad un ruolo di poco conto nel proprio territorio, all’inadeguatezza culturale, infine ad un’uscita progressiva dagli standard della vita normale. «Due precondizioni critiche appaiono costanti: la prima, è rappresentata dal sistema delle reti sociali primarie a rischio di dissolvimento; in altre parole, non regge la sfera degli affetti, la famiglia non c’è o non sa sostenere e accogliere. La seconda è la cronicità della condizione che segna il non ritorno alla normalità, cioè la permanenza prolungata nella condizione dell’isolato, vagabondo, mendicante, che rende sempre più difficile il rientro in stili di vita “normali”. Quando ciò accade, la situazione si cristallizza generando, a sua volta, meccanismi perversi: la stagnazione si fa lenta involuzione della persona, tendendo a confermare stili di vita da cui il recupero diventa sempre più difficile»39. Da ultimo, come elemento definitivo del non ritorno alla normalità, viene applicato lo stigma sociale: è il contesto circostante degli sguardi di disapprovazione, di pietà, di giudizio morale e presa di distanza degli altri uomini 39 Guidicini P. / Pieretti, G. / Bergamaschi, M., (a cura di), Gli esclusi dal …, Op. Cit. 71 e delle altre donne, a marcare il passaggio verso un altro mondo, diverso e separato da chi sta bene. Questo etichettamento, assegnato dall’esterno (spesso inconsapevole in chi lo esprime), «…è più potente di quanto possa sembrare: esso viene recepito dalla persona che lo subisce come una soglia di non-ritorno, collocata nel suo percorso di povertà ed esclusione. La cronicità così acquisita, non significa tanto l’immobilità in una data situazione, quanto piuttosto irreversibilità del processo, che nel nostro caso è d’uscita tendenziale dalla società»40. È ciò che possiamo definire crisi di cittadinanza: il progressivo venir meno dei riferimenti sociali che consentono a una persona di conseguire i propri scopi; è l’essere poveri, nel senso di uscire dalle interazioni e dai ruoli che qualificano le persone come partecipi alla costruzione della società e a pieno titolo suoi membri. Questo giudizio d’esclusione, per chi lo subisca, equivale a sentirsi a disagio tra la gente e a disistimare se stessi. Cosicché, alla situazione oggettiva di disagio in cui queste persone si trovano, si affiancano gli elementi soggettivi collegati alla percezione che hanno di se stesse in rapporto con gli altri. All’impossibilità di soddisfare alcuni o molti bisogni, in chi è in condizione di povertà estrema, senza dimora, si aggiunge il sentimento della propria inutilità, l’assenza di un ruolo socialmente apprezzato da svolgere, la verifica di una impotenza a produrre qualcosa di soddisfacente per sé e per gli altri, che possa essere desiderato da qualcuno. 40 Cirillo S., (a cura di), Op. Cit., p. 77. 72 In chi si sente emarginato, l’essere fuori dal mondo, è il risultato e la causa delle progressive fasi di riduzione della socialità; una dimensione di vita limitata ai bisogni materiali, spesso espressione della frustrazione sperimentata nei rapporti affettivi primari, in fuga dagli ambiti sociali normalmente dotati di senso. Il processo rappresenta, infine, una spirale in discesa: col crescere della dipendenza e della mancanza d’autonomia nell’accesso alle risorse, si riduce anche la possibilità di accedere a nuove reti di rapporti affettivi importanti, in grado di sorreggere l’autonomia vacillante della persona, cosicché si preclude progressivamente il recupero di risorse e si radicalizza l’isolamento41. L’insieme delle reti sociali attorno al soggetto, su cui incidono motivazioni e capacità, si dirada, (salvo particolari interventi di riaggancio), erodendo lo spessore sociale della persona; accade così che essa diventa straniera nello spazio e nell’ambiente di vita, e allo stesso modo viene considerata straniera dal contesto sociale. La difficoltà di affrontare il fenomeno dei senza fissa dimora, per le organizzazioni pubbliche o private che offrono i servizi sociali, non è affatto addebitabile, come semplicisticamente si è tentati di credere, a inefficienze o disfunzioni dell’apparato, ma piuttosto all’esatto contrario: è proprio l’osservanza, sin troppo rigida e ripetitiva, di alcune regole organizzative degli attuali servizi sociali e sanitari a rendere la difficoltà d’intervento e di aiuto sociale proporzionale all’isolamento delle persone senza dimora. 41 Cfr.: Cirillo S., (a cura di), Op. Cit. 73 3.11 Le barriere nell’accesso ai servizi sociali Alcuni ostacoli all’accesso ai servizi sociali da parte degli emarginati più estremi, sono di carattere informale, prevalentemente addebitabili a limiti culturali e personali, come ad esempio conoscere i servizi offerti, rispettarne le procedure e gli orari, capirne il linguaggio, etc. Le modalità per richiedere aiuto alle organizzazioni che erogano i servizi, nella maggioranza dei casi, prevedono infatti la presentazione, agli appositi uffici, di una domanda adeguatamente compilata e completa di documentazione (le prove del problema dichiarato). È evidente che già tale “normale” premessa risulta di difficile assolvimento per una parte delle persone senza fissa dimora, prive da tempo di una precisa fonte di reddito, senza un nucleo stabile di rapporti familiari, spesso disorientate (a causa di sofferenza psichica, alcolismo, tossicodipendenza, etc.), senza una casa dove tenere le proprie cose42. Tuttavia, la distanza tra il bisogno e l’intervento sociale non è solamente né prevalentemente di questa natura. Infatti, gran parte dei servizi che possono incontrare il disagio delle persone senza dimora, come ad esempio i servizi sociali di quartiere, gli Uffici centrali comunali, i Centri per malati mentali, i Servizi territoriali per le tossicodipendenze, etc., oppure le associazioni di volontari, anche quando siano correttamente interpellati, si trovano a svolgere soprattutto una funzione di filtro o di pronto intervento, in grado in qualche caso di individuare il problema più urgente, talvolta di attivare altre risorse esistenti, 42 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G. (a cura di), Tra marginalità e povertà. Uno studio sulle politiche di intervento pubblico a Ravenna, Franco Angeli, Milano, 1988. 74 ma raramente di farsi carico totalmente dell’uscita dalla condizione di senza fissa dimora, se non entro il limite di interventi temporanei, a carattere di eccezione. 3.12 La permanenza stabile nel territorio Una delle barriere, che spesso impedisce la piena assunzione di una relazione d’aiuto significativa, è la permanenza stabile in un territorio. Basilare, ad esempio, come primo nodo da sciogliere è la questione della residenza. Infatti, per ogni persona che si trovi nel nostro territorio nazionale, la regolarizzazione della residenza in un suolo comunale preciso, rappresenta la qualifica cruciale per il riconoscimento dei suoi diritti di cittadinanza. La regolare iscrizione anagrafica, nel nostro paese, costituisce l’elemento minimo e indispensabile per essere considerati pienamente cittadini: essa attesta il diritto di appartenere a coloro che concorrono a “realizzare la società” e che quindi possono godere dei suoi benefici. Di fatto, la mancata certificazione anagrafica (così come per gli immigrati la mancanza di un permesso di soggiorno) impedisce l’attivazione dei servizi sociali43. Cittadinanza e iscrizione anagrafica (così come la regolarizzazione per gli stranieri) appaiono come principi di inclusione o esclusione, che finiscono col creare una sorta di terra di nessuno assistenziale per tutti gli irregolari, i clandestini, o coloro che non vivono nelle nostre città entro la dimora “regolare” 43 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà..., Op. Cit. 75 di un appartamento, di una stanza d’affitto, o almeno di un ricovero decoroso e riconosciuto. 3.13 Rigidità e chiusura dei servizi sociali Esistono, quindi, barriere formali all’accesso dei servizi, come il requisito d’iscrizione anagrafica per la residenza (ma si potrebbero citare l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, l’assegnazione di un codice fiscale, l’iscrizione ad un Centro Circoscrizionale per l’Impiego, etc.) e barriere non formali, come gli ostacoli culturali e attitudinali che, pur non dichiarate, si rivelano tali nella sostanza. Riguardo alle barriere di secondo tipo, va detto che, se le condizioni tradizionali per godere dei servizi erano prevalentemente di tipo morale, le più moderne derivano della politica del welfare, si riferiscono cioè ad una concezione di efficienza economica, secondo cui ogni Servizio incorpora una specie di modello d’uso: colui che non ha i requisiti per utilizzare il Servizio così come previsto dal modello, che usa male o in modo inefficace il Servizio, o non lo usa, semplicemente perché non lo conosce o non lo comprende, non ha “diritto” di accedere a tale risorsa44. Il cittadino, che arriva ad essere utente in questa forma, prima di ottenere l’erogazione delle prestazioni del Servizio, deve aver decifrato correttamente il proprio bisogno, altrettanto correttamente e tempestivamente ha 44 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà…, Op. Cit. 76 saputo individuare il Servizio preposto a soddisfarlo e si è, quindi, recato a utilizzarlo secondo la prassi più indicata. Risulta chiaro, perciò, che soggetti isolati, rinunciatari e comunque socialmente deboli, non essendo sufficientemente competenti e qualificati per farsi riconoscere la piena cittadinanza, non più residenti, né contribuenti, né clienti, facilmente non sono più neppure utenti. I servizi sociali riescono a farsi carico solo in minima parte di questi cittadini e tendono a intervenire solo quando si presenta una situazione d’emergenza. Va poi ricordato che l’attuale cultura (e organizzazione) assistenziale è prevalentemente regolata da un automatismo che parte da una sequenza di questo genere: domanda da parte di un utente = risposta da parte di un servizio ad hoc, secondo una suddivisione specialistica del lavoro sociale45. Nel caso degli interventi con persone senza dimora, la rigidità dei parametri con cui viene stabilita l’indigenza, è sufficiente a malapena a definire la mancanza di risorse economiche o a evidenziare la necessità di un intervento terapeutico per l’emergere di una patologia acuta, mentre non applica criteri che consentano di accertare altre dimensioni della povertà, ad esempio gli aspetti della solitudine, delle patologie psicofisiche, dell’insuccesso professionale, dell’assenza di relazioni sociali, dei problemi familiari, del basso livello d’istruzione, del tipo (o dell’assenza) di abitazione, della carenza di progettualità. 45 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà…, Op. Cit. 77 3.14 I criteri di “assistibilità” Tali criteri, adottati da molte strutture assistenziali ed intesi come la «condizione d’inadeguatezza agli standard di vita dominanti»46, non tengono conto degli aspetti affettivi, psicologici, fisici e relazionali, comprimendo la loro complessità entro un criterio economico di “minimo vitale”, peraltro sempre più difficile da garantire. Oppure attivano forme d’intervento una tantum, tendenti a ricreare condizioni idonee per il ritorno alla normalità . In questi casi, si tratta di un aiuto assistenziale straordinario e finalizzato, sottoposto cioè a una aspettativa precisa: “ti aiuto, così non avrai più bisogno del mio aiuto ”. È sottinteso un criterio economico di adeguatezza dell’investimento nell’aiuto: per ogni intervento erogato, ci si aspetta un miglioramento effettivo delle condizioni dell’utente; l’uscita economica assistenziale, deve rientrare in termini di benessere verificabile nell’assistito, sotto l’aspetto sociale o sotto l’aspetto igienicosanitario. Il cittadino, beneficiario delle prestazioni, deve dare prova che l’investimento sociale su di lui è stato produttivo. Questa logica, è legata ad una concezione del Servizio in senso terapeutico, dove s’interviene sugli effetti di un fenomeno in termini di cura, dove il riscontro tempestivo ottenuto diviene il parametro valutativo dell’efficacia della prestazione fornita47. Seguendo questa impostazione, i Servizi si trovano per lo più a non individuare ed affrontare le cause individuali, familiari o strutturali, che determinano povertà ed 46 47 Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà…, Op. Cit., p. 98. Cfr.: Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà…, Op. Cit. 78 emarginazione, operando piuttosto in termini di forzatura verso un risultato immediato (o comunque a breve termine): il superamento del “sintomo”, cioè dell’isolamento sociale. Il presupposto, che sta alla base di questi interventi, risiede nella presunta provvisorietà di tutte le condizioni di disagio che non siano riconducibili all’assenza di reddito: ma il denaro non basta a risolvere il problema, pur tenendo conto che esso rappresenta una componente importante del disagio sociale. Se il problema non si risolve, l’inesorabile ritorno ai criteri assistenziali limitati a consentire la sopravvivenza minima, spinge definitivamente nell’oblio dei Servizi e nella “questua cronica” coloro che diventano gli emarginati gravi48. In questo caso, il loro etichettamento viene applicato definitivamente: senza dimora, barboni e vagabondi, questi cittadini perdono il riconoscimento di appartenenza alla reciprocità tra persone civili, tornano a essere considerati oziosi, o parassiti e in tale condizione vengono “legittimamente” lasciati. 3.15 L’assenza di una rappresentanza formale C’è poi un altro ostacolo al riconoscimento degli homeless da parte delle politiche di welfare: il povero estremo e senza dimora non costituisce una categoria portatrice di uno specifico e prevalente problema mentre, al contrario, buona parte dell’assistenza è organizzata come offerta di prestazioni in base a categorie 48 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G., (a cura di), Tra marginalità e povertà…, Op. Cit. 79 specifiche di bisogni. È proprio in questo che si rivela l’atipicità dei poveri estremi e senza dimora di fronte ai Servizi, rispetto alla posizione più chiaramente definita di altre categorie, quali gli handicappati, i tossicodipendenti, gli anziani non autosufficienti, i disoccupati, etc., per le quali sono riconosciute vie assistenziali più facilmente percorribili. L’assenza, negli homeless, di una specifica rappresentanza di bisogni sembra essere l’elemento che favorisce il mancato consolidamento di una forma d’aiuto particolare a loro favore. Ecco, dunque, l’inevitabile difficoltà di interventi strutturati: l’utente senza fissa dimora non è abbastanza utente (non usa, o usa male i servizi sociali) e non è abbastanza specifico (non appartiene del tutto a una categoria con un preciso bisogno prevalente). Ci si trova, in definitiva, di fronte ad un’utenza priva di una fisionomia riconoscibile entro quegli schemi d’intervento che attualmente rispondono a consolidate condizioni di povertà. 3.16 Gli interventi del Terzo Settore Il grado di difficoltà incontrato dalle strutture d’intervento, assistenziale, nel fornire una risposta adeguata in termini di Servizi, si sviluppa, pertanto, proporzionalmente alla labilità di una domanda collettiva di aiuto. Se è vero, dunque, che le persone senza dimora facilmente escono dal controllo e dal rapporto con le istituzioni pubbliche, s’interviene invece più spesso nei loro confronti nell’area del volontariato e nel variegato Terzo Settore. Infatti, nelle 80 città dove il fenomeno del vagabondaggio e dell’emarginazione estrema è maggiormente avvertito, sorgono iniziative spontanee o istituzionalizzate al di fuori dell’Ente Pubblico; si aggregano gruppi di volontari, fondazioni benefiche e associazioni di cittadini solidali. Forme tradizionali di assistenza, come pure d’impostazione più innovativa: San Vincenzo, obiettori in servizio civile, iniziative promosse dalle Caritas Diocesane, cooperative convenzionate per la gestione di dormitori, centri d’ascolto, gruppi d’intervento in strada. In tal modo, volontariato e privato sociale si trovano a favorire ed affiancare i canali d’accesso alle risorse sociali, altrimenti non attinte da cittadini in bilico, sui margini della definitiva esclusione. Il mancato incontro tra utenti potenziali e servizi non utilizzati sembra ricomporsi: la protezione e il contenimento di un’utenza riscoperta e riproposta, viene riaffidata dagli Enti Locali, al volontariato e ai Servizi del non profit attraverso specifiche convenzioni o erogazioni di contributi economici, in una sorta di ampia delega a trattare i problemi non considerati dagli uffici pubblici49. La scelta di finanziare l’intermediazione del privato sociale, sposta l’intervento istituzionale dalla risposta alle domande individuali, alla contrattazione complessiva tra l’Ente Pubblico e quei soggetti sociali che richiedono l’erogazione di risorse da impegnare per contrastare il fenomeno. Infine, l’esito dello scambio in termini di strutture, risorse economiche e funzioni attribuite tra pubblico e privato sociale, è in buona parte determinato dal peso sociale e politico degli organismi di terzo settore entrati in gioco. 49 Cfr.: AA.VV., Il posto dei poveri nei bilanci degli enti locali, Caritas Italiana, Roma, 1991. 81 Il terzo settore si trova, così, con una funzione integratrice attraverso cui, proprio in virtù della flessibilità caratteristica della natura dei suoi interventi, è deputato a trattare, informalmente o per delega, quei soggetti che non sono ancora ufficialmente trattabili perché troppo “irregolari”, fino a riportarli ad avere i requisiti ufficialmente accettabili (sono emblematiche, in tal senso, le vicende di accoglienza ufficiosa da parte di alcune Caritas diocesane, di immigrati clandestini). In questo compito gli organismi volontari diventano, consapevolmente o meno, regolatori e conciliatori verso la normalità50. La funzione di controllo svolta dai servizi sociali, puntando a regolarizzare ogni persona che si distanzi eccessivamente dalla “normalità” codificata, mostra tutta la sua debolezza di fronte a due ostacoli: l’evolversi sempre più rapido dei parametri di normalità e l’imbattersi in soggetti troppo distanti da ogni criterio di regolarità. Il sistema dei Servizi, per uscire dalla sua parziale impotenza, deve sviluppare la capacità di prevedere, organizzare e gestire una richiesta d’intervento “incerta”, rivolta da un’utenza che appare e scompare e tuttavia è sempre di più parte integrante del contesto sociale odierno di tipo urbano. Viceversa, se i Servizi continuano a riprodursi sempre uguali a se stessi, rimane molto alto il rischio di una ghettizzazione del fenomeno51. 50 51 Cfr.: AA.VV., Il posto dei poveri nei bilanci, Op. Cit. Ibidem. 82 3.17 Autodeterminazione del soggetto e accesso alle risorse Per quanto riguarda l’atteggiamento che può assumere l’operatore sociale in una relazione educativa diretta con chi vive in condizione di deriva psicosociale, è opportuno abbandonare l’idea di una soluzione del problema in termini di tempestività, efficacia ed efficienza52. In una logica d’intervento a soluzione rapida, ogni via appare assai incerta se non addirittura inutile, cosicché frequente sentir definire i “casi multiproblematici” come “casi irrisolvibili” o “casi impossibili”. Nei fatti, la “soluzione” per le organizzazioni dei servizi sociali, in questa prospettiva, spesso coincide con l’impegno a cambiare l’aspetto fisico (nutrire, ripulire, cambiare l’abito) o con lo spostamento fisico della persona in altri luoghi (in sostanza l’occultamento dalla pubblica vista), con interventi d’inserimento “forzato” in case di riposo, servizi psichiatrici di contenimento, o provvedimenti di Pubblica Sicurezza come l’allontanamento dalla città con “foglio di via”, la carcerazione, etc. Oppure, più drasticamente e accidentalmente, il “caso si chiude”, risolvendosi da sé: per decesso, o per la partenza spontanea della persona “da trattare”53. Incentrare l’aiuto in vista della risoluzione del problema “senza fissa dimora” come obiettivo primario, dunque, diventa una barriera invalicabile all’accoglienza incondizionata di chi rifiuta ormai ogni pressione al cambiamento dello stile di 52 Cfr.: Nanni W., (a cura di), Rapporto sulle povertà e sulle risposte - Anno 1994, Caritas Italiana, Roma, 1995. 53 Ibidem. 83 vita. Diverso è l’approccio, che pare più coerente con i fondamenti del servizio sociale, che sottolineano l’autodeterminazione delle persone e la facilitazione dell’accesso alle risorse offerte. Una pratica d’aiuto fondata sul presupposto che ogni soggetto (individuo, gruppo, collettività) è in grado di sviluppare potenzialità e autonomia, e che queste vengano stimolate da un rapporto diverso con l’ambiente di vita in cui è inserito. L’intervento dei servizi, è in tal senso mirato a porre ognuno in grado di fare scelte autonome e consapevoli relative al proprio sviluppo e alla propria realizzazione. Ripristinando, passo dopo passo, talvolta con la medesima lentezza che aveva segnato le tappe di una intera vita di sofferenza e degrado: un riconoscimento affettivo (qualcuno che ti è vicino e per cui sei importante per quello che sei); l’attribuzione di ruoli sociali (un ambiente dove il tuo contributo, anche limitato, è ritenuto utile e importante); la riassunzione di una funzione autonoma nella produzione e consumo di reddito, fino a varcare di nuovo la soglia d’ingresso nella normalità (la tua vita dipende anche da te e chi ti aiuta non si sostituisce ai tuoi impegni e alle tue scelte, ma ti accompagna a sentirti normale). Un intervento in questa direzione, richiede operatori affiancatori54, compagni di strada, orientati da supervisori capaci di sostenere nuovi progetti sul piano affettivo, sociale ed economico; agganciando le persone senza fissa dimora e tessendo legami con ulteriori compagni di strada per chi pian piano, in tal modo, esce dall’emarginazione. Solo lungo questo cammino torna ad acquistare valore la 54 Cfr.: Molfino G., I senza fissa dimora. Esclusione, povertà e aspetti psicologici, Rivista: Prospettive Sociali e Sanitarie n. 2/94, Milano, 1994. 84 stabilità di vita, proiettata verso un futuro possibile e la percezione del dimorare come possibilità di coltivare un “luogo degli affetti”. 3.18 Un’organizzazione del lavoro sociale Le modalità d’aiuto sopra descritte, incontrano non pochi ostacoli per l’alto livello di coinvolgimento interpersonale richiesto, per il tempo investito in relazione agli esiti del miglioramento di condizione dei soggetti aiutati, per le risorse economiche e infrastrutturali (sanitarie, alloggiative, occupazionali, etc.) necessarie. Infatti, analizzando ognuno di questi singoli elementi da immettere nel processo d’aiuto, risulta evidente l’impossibilità da parte di un operatore professionale, di sostenere il carico di un percorso completo d’affiancamento: sia dall’interno di un Servizio pubblico, sia in una struttura del privato sociale o del volontariato spontaneo. Solo in una prospettiva di “sistema d’aiuto” in corresponsabilità con altri soggetti (eventuali parenti ritrovati, altri operatori e servizi, volontari organizzati, etc.), è possibile incontrare e soddisfare il bisogno di protezione e promozione delle persone senza fissa dimora55. Un sistema d’aiuto differenziato per competenze, attitudini e ruoli, entro cui articolare relazioni capaci di procedere contemporaneamente nella dimensione affettiva, sociale ed economica; un sistema che coinvolge più persone entro un processo di 55 Cfr.: Lazzari F., L'attore sociale fra appartenenza e mobilità. Analisi comparate e proposte socio-educative, CEDAM, Padova, 2000. 85 maturazione, coordinato e monitorato nel tempo. Questo lavoro di attivazione, raccordo e supervisione, può essere attivato da un ufficio di Servizio sociale: «si tratta di ricomporre le risorse disperse nella quotidianità di ogni persona senza fissa dimora. È facile, infatti, constatare come nell’approccio più tradizionale, l’ammontare degli aiuti, dei contributi, dei ricoveri e delle varie forme di soccorso mobilitate in modo sconnesso dall’urgenza della sopravvivenza quotidiana di ogni emarginato grave, risulti oggettivamente consistente in volume, quanto effimero nel provocare un miglioramento sostanziale. Mentre, con un’economia diversa delle risorse sociali, il medesimo dispendio in beni materiali e relazioni umane, potrebbe condurre a percorsi di restituzione della dignità di gran lunga preferibili»56. Per questo, un ufficio di regia e monitoraggio degli interventi per le persone senza dimora, emarginati gravi, faciliterebbe l’individuazione e l’avvio, caso per caso, di un intervento capace di incontrare la persona emarginata nella condizione in cui si trova. Per fronteggiare soddisfacentemente il problema (almeno per la parte già manifesta), le comunità locali e in particolare le Amministrazioni locali dei Servizi sociali (Comuni, e Aziende ASL), dovrebbero poter mobilitare una persona ogni mille abitanti, come affiancatore di un emarginato grave (sia esso un suo familiare, adeguatamente sostenuto, o un volontario, o un operatore stipendiato, o un operatore a collaborazione professionale occasionale etc.). D’altro lato, si dovrebbe attivare un modello di servizi integrato, capace di 56 Nanni W., (a cura di), Op. Cit., p. 106. 85 bis recepire e mobilitare sistemi d’aiuto correttamente orientati da “professionisti dell’aiuto” (assistenti sociali, educatori, psicologi, medici, etc.) competenti in tale prospettiva. Lo scopo, è quello di far avanzare gradatamente la persona che esce dall’emarginazione, mantenendo una progressione tra lo sviluppo di legami sociali importanti, l’attribuzione crescente di ruoli sociali apprezzabili e, simultaneamente, la crescente autonomia nel reperimento e nella gestione di risorse economiche proprie57. Riassumere in carico i cittadini “espulsi” dalla piena cittadinanza, comporta certamente il costo di un coinvolgimento, tanto dell’Amministrazione Pubblica, quanto delle reti di solidarietà informale. Non è un onere organizzativo e finanziario impraticabile, né inaccessibile per gli standard di benessere dell’Italia, con il vantaggio di rivedere le modalità dell’esclusione e abilitando il tessuto sociale a controllare più efficacemente gli sviluppi e le debolezze del sistema. 57 Cfr.: Negri N., Saraceno C., Le politiche contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna, 1996. 85 ter Noi siamo i musicanti Siamo i sognatori di sogni Erranti per solitari marosi E seduti lungo i corsi d’acqua desolati, Alla luce della pallida luna Noi perdiamo il mondo, eppure sembra che siamo noi a muovere, ad agitare il mondo per sempre Arthur o' Shaughnessy CAPITOLO 4 LA RICERCA-AZIONE: UNA TEORIA DI LA BASE PER IL LAVORO PEDAGOGICO CON GLI ADULTI 86 4.1 Formazione degli adulti e metodologie relative C. Loria Barone, nel saggio sopracitato, scrive: «Di fronte all’adulto e alla marginalità l’educatore si pone con ottica ben diversa rispetto a quella utilizzata con bambini ed adolescenti, ne consegue che anche metodologie e strumenti sono diversi e specifici. La disciplina che si occupa degli adulti viene chiamata Andragogia. Gli studiosi ne stanno mettendo a fuoco i caratteri distintivi: - l’adulto ha un vissuto che conta - l’esperienza dell’adulto in formazione è superiore agli insegnamenti che gli si possono fornire - l’educatore non può prefigurare un percorso senza tener conto della motivazione e quindi della partecipazione dell’altro»1. L'uso del gruppo viene visto come uno strumento importantissimo di cambiamento, come il punto di partenza di ogni intervento che volge ad un cambiamento, e in questo contesto bisogna sottolineare che non si può assolutamente scindere il concetto di cambiamento da quello di apprendimento. Un cambiamento infatti produce un nuovo apprendimento e questo a sua volta, secondo un processo ciclico e dinamico, produce cambiamento. Ma come si può produrre il cambiamento? Varie sono le modalità, e nelle linee generali possiamo trovare due strategie. 1 Loria Barone C., L’incontro con gli adulti, Op. Cit., p.61-72. 87 Si può produrre cambiamento riducendo le resistenze al cambiamento stesso, oppure aumentando la piacevolezza del nuovo attraverso tre processi fondamentali: - 1) congelamento della situazione precedente (mettere in evidenza le situazioni sulle quali bisogna intervenire) - 2) produzione di cambiamento, modificazione dei vecchi valori con i nuovi valori - 3) congelamento del cambiamento (quando ad esempio si lavora in un contesto territoriale si deve produrre un cambiamento ma nello stesso tempo bisogna fare in modo che tale cambiamento diventi dinamico e non statico)2. Un discorso più specifico sul percorso educativo comporta la definizione di ricerca-azione; è possibile sostenere che secondo la definizione classica questa prevede tre fasi: pianificazione, esecuzione e ricognizione. Per pianificazione si intende l’elaborazione di un’idea generale della ricerca educativa sul campo attraverso l’identificazione e la definizione degli obiettivi. L’esecuzione si configura come la fase della ricerca vera e propria (raccolta dei dati). La ricognizione infine prevede la valutazione finale, attraverso l’analisi e la verificare del raggiungimento degli obiettivi precedentemente individuati. 2 Neresini F., (a cura di), Interpretazione e ricerca sociologica: la costruzione dei fatti sociali nel processo di ricerca, QuattroVenti Urbino, 1997, p. 61. 88 E' chiaro che in un processo di questo tipo, la valutazione, sia finale sia intermedia, é di fondamentale importanza dal momento che questo strumento può riorientare la ricerca, ridefinire gli obiettivi, reimpostare il lavoro secondo le reali esigenze di ricerca, etc. le parole-chiave che caratterizzano la ricerca-azione sono: cambiamento, legame con la pratica (contestualizzazione), partecipazione. Analizzando i vari modelli di ricerca azione dopo Lewin è possibile vedere che vi sono tre filoni specifici: - la ricerca partecipante3 - la ricerca azione partecipante4 - l’action science, l’action inquiry, la cooperative inquiry5 Sia la ricerca partecipante che la ricerca azione partecipante, pongono in modo particolare l’accento sull’importanza della partecipazione nella ricerca, mentre l’action science o action inquiry spostano il focus sulla costruzione della conoscenza, ponendo la riflessione sulla conoscenza, come forma privilegiata di intervento. Questo secondo filone sottolinea infatti l’importanza delle conoscenze tacite e del lavoro di riflessione sull’azione sociale, ossia sulle modalità di intervento necessarie per attivare e determinare cambiamenti. L’attenzione 3 Cfr.: Freire P., Pedagogia in Cammino, Mondadori, Milano, 1979. Foote Whyte W., Learning from the field. A guide from experience, Sage, London, 1988. 5 Cfr.: Carmagnola F., Tomasini M., (a cura di), Apprendimento organizzativo: Teoria, metodo e pratiche, Guerini e Associati, Milano, 1998. 4 89 pertanto appare spostata sull’analisi del processo e sul suo continuo monitoraggio. Ma quali sono gli elementi che accomunano tali modelli? Per rispondere a questo quesito riferendomi a Greenwood-Levi è possibile elencare le caratteristiche principali della ricerca azione6: a) la ricerca azione è un processo centrato su un problema, nel senso che essa è sempre applicata ad un contesto ed indirizzata a problemi di vita reali; b) la ricerca-azione è un’indagine in cui i partecipanti e i ricercatori cogenerano conoscenza attraverso la reciproca collaborazione; c) la ricerca-azione considera la diversità di esperienze e di competenze all’interno del gruppo come un’opportunità di arricchimento per il processo della ricerca stessa; d) i significati costruiti all’interno del processo di indagine conducono all’azione sociale oppure le riflessioni sull’azione conducono alla costruzione di nuovi significati; e) la credibilità/validità della conoscenza acquisita attraverso la ricercaazione è data dalla capacità delle azioni di risolvere efficacemente i problemi e di aumentare il controllo dei membri della comunità sulla situazione Schematicamente quindi è possibile dire che la ricerca azione è un processo: 6 Cfr.: Greenwood-Levi, Introduction to action research, Sage Publications, London,1998, p. 76. 90 - centrato su un problema - orientato all’azione - ciclico - basato sulla collaborazione e sulla partecipazione Ovviamente una ricerca che appare così fortemente centrata sull'attenzione al contesto, sul cambiamento, sull’azione e sulla partecipazione, deve senza dubbio affrontare dei nodi problematici dettati da scelte di carattere valoriale. Ad esempio: qual è l’oggetto da studiare? Secondo quale metodo studiarlo? Chi dà senso ai dati? Chi li interpreta? Inoltre se la ricerca classica studia l’esistente, la ricerca-azione invece focalizza l’attenzione su ciò che potrebbe essere, sul cambiamento, non sulla prevedibilità ma sulla potenzialità/possibilità (rientra in questo contesto il concetto di empowerment definito da Bruscaglioni)7. 4.2 La ricerca intervento L’intervento è percepito come avente un obiettivo pratico, concreto, di cambiare una situazione, ma durante l’intervento si acquisiscono comunque delle informazioni. Ci sono molte interconnessioni tra la ricerca e l’intervento, nel senso che chi 7 Cfr.: Bruscaglioni M., Gheno S., Il gusto del potere: empowerment di persone e azienda, F. Angeli, Milano, 2000. 91 agisce sulla realtà ha bisogno di momenti in cui si fa ricerca e momenti dedicati all’intervento perché l’uno è finalizzato all’altro, per capire come si delinea il problema sul quale si vuole intervenire, cosa hanno fatto altri, includendo in questa definizione, tutte le ricerche anche quelle bibliografiche8. L’intervento può essere analizzato considerandolo come una serie d’azioni finalizzate ad alcuni scopi. Non esiste un solo scopo, ma una pluralità di scopi: lo scopo più condiviso (far star meglio le persone), e altri scopi (trovare lavoro, distribuire le risorse, etc…). Lo scopo esplicito compare nella stesura del progetto. Quali sono le competenze e gli aspetti su cui un professionista deve prestare attenzione? Quali competenze per quanto riguarda la ricerca e l’intervento? Le scelte politiche sono più evidenti nell’intervento che nella ricerca. Entrambe le attività hanno una valenza di tipo valoriale di certe politiche che si inscrivono in un insieme di valori, ma nell’intervento questi aspetti sono più evidenti. 4.3 Oggetto di ricerca e problemi socioeducativi Scrive M. Baldacci «Pourtois9, nell’ormai famoso saggio che ha introdotto la tematica della R-A in Italia, si è soffermato con particolare attenzione sul rapporto 8 Cfr.: Bruner J., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; Pedagogia della memoria, Meltemi, Roma, 1998; Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano, 1996. 9 Pourtois J.P., La ricerca-azione in pedagogia, in Becchi E., Vertecchi B. (a cura di), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Franco Angeli, Milano, 1984. 92 che questo genere di ricerca intrattiene con i problemi socioeducativi di una certa comunità. Il presupposto da cui muove questo studioso è il carattere non neutrale, bensì di parte, della scienza. Quest’ultima non sarebbe autenticamente concepibile come un’attività volta a una conoscenza “disinteressata”, bensì come un’impresa diretta a uno scopo pratico e impegnata in un progetto il cui oggetto è determinato dall’interesse di singoli individui o di un certo gruppo (di una comunità). Pertanto, la R-A sarebbe sempre connessa ad un problema socioeducativo e alla messa a punto di interventi destinati ad affrontare questo problema, cosicché il suo rapporto con le urgenze dell’azione e della produzione di cambiamenti in una data situazione storicosociale si configura come diretto e immediato»10. In altri termini, ciò che la R-A ricerca è l’efficacia di un intervento volto a risolvere un dato problema socioeducativo, nel suo ambito « […] non si tratta tanto di comprendere qualcosa, quanto di acquisire un potere di fare»11. Il sapere vale come fonte dell’azione e, a sua volta, l’azione vale come fonte di conoscenza pratica. 10 Cfr.: Baldacci M., Sulla Ricerca-Azione come metodologia pedagogica, Periodico bimestrale di pedagogia, politica scolastica e problemi professionali per la scuola. Anno XXI n. 2, Forlì, 2002. 11 Pourtois J.P., Op. Cit., p.135. 93 4.4 Ricerca-azione, ricerca classica e ricerca orientativa Così concepita, la R-A si differenzia dalla ricerca classica, orientata alla conoscenza12 e quindi concepita in uno spazio distanziato dalle urgenze dell’azione, spesso diretta a risolvere problemi epistemici “interni” alla disciplina, privi di rilevanza immediata per la pratica educativa. Il che, beninteso, non significa che in seconda battuta le conoscenze prodotte da questo tipo di ricerca non possano rivelarsi utili per la pratica. Viceversa, il carattere di ricerca volta alla soluzione di un problema pratico di natura socioeducativa spinge a collocare la RA nell’ambito della cosiddetta ricerca decisionale, il cui specifico concerne le “scelte” educative e/o le “decisioni” didattiche da compiere in una data situazione di lavoro. Tuttavia, nel quadro di questo genere di ricerca, la R-A si differenzia in più punti dalla cosiddetta ricerca operativa. Quest’ultima tende ad affrontare problemi maggiormente circoscritti, usando le tecniche di tipo quantitativo e adottando l’atteggiamento epistemico proprio della ricerca nomotetica (volta ad individuare “leggi generali”), in particolare: il distanziamento del ricercatore dall’oggetto di indagine. Viceversa, la R-A tende ad affrontare problemi maggiormente ampi, usando un ventaglio di tecniche più articolato (quantitative e qualitative) e adottando un atteggiamento epistemico “partecipante” e “partecipato”. 12 Per questa distinzione e per quelle che seguono vedi De Landsheere G., La ricerca sperimentale nell’educazione, Giunti e Lisciani, Teramo, 1985, pp. 7-23. 94 4.5 Le caratteristiche particolari della R-A Per questi motivi la R-A sembra porsi come una forma di ricerca “originale”, che espone tratti peculiari. In particolare, se si accetta la caratterizzazione che ne fornisce Pourtois, la fondazione filosofica della R-A sembra basata sull’adozione di un punto di vista proprio di una filosofia della prassi, se con questa espressione si intende un atteggiamento attivo e fattivo, volto a trasformare il mondo più che ad interpretarlo. Tale l’atteggiamento fondamentale della R-A, che cerca un sapere che rappresenta un potere di agire sulle situazioni socioeducative per modificarle nelle direzioni volute, per risolvere i problemi da cui risultano affette. Ed è proprio un atteggiamento di questa natura uno dei motivi che, secondo noi, può portare a ritenere la R-A come la forma fondamentale di ricerca pedagogica; indubbiamente una filosofia della praxis13”. L’indissolubile nesso tra ricerca e problemi pratici e sociali rappresenta un nodo fondamentale dell’opera filosofica e pedagogica di Dewey. Per esempio, in Esperienza e natura, lo studioso americano asserisce: «Il metodo empirico richiede alla filosofia due cose: in primo luogo che i metodi e gli oggetti rifiniti vengano rinviati alle loro origini nell’esperienza primaria [...] in modo tale da identificare i bisogni e i problemi da cui sorgono e che sono chiamati a soddisfare e risolvere. In secondo luogo che i metodi e le conclusioni secondarie vengano 13 Preti G., Praxis ed empirismo, Einaudi, Torino, 1975, p. 12. 95 ricondotti alle cose dell’esperienza primaria ...per essere verificate»14. Il mondo dell’esperienza pratica rappresenta cioè sia la fonte dei problemi da assumere in qualità di oggetti della ricerca, sia il banco di prova per il controllo empirico delle ipotesi delineate dall’indagine. Una posizione questa ribadita in ambito specificamente pedagogico nello scritto, coevo al precedente, Le fonti di una scienza dell’educazione, opera breve che per molti versi può essere considerata come una fondazione pragmatista della ricerca pedagogica e addirittura come una sorta di manifesto della R-A. In essa si legge: «Le “pratiche” dell’educazione forniscono i dati, gli argomenti, che costituiscono i “problemi” dell’indagine; esse sono l’unica fonte dei problemi fondamentali su cui si deve investigare. Queste pratiche dell’educazione rappresentano inoltre la prova definitiva del valore da attribuire al risultato di tutte le ricerche»15. Pertanto, la connessione tra oggetto di ricerca e problemi socioeducativi, che caratterizza la R-A, sembra trovare un possibile fondamento in una visione pragmatista, concependo il pragmatismo come una filosofia della prassi educativa, che implica non la mera comprensione dell’esperienza educativa (o almeno non solo questa), ma anche e soprattutto la scelta di prospettive d’azione volte a trasformare la situazione educativa, risolvendone (o per lo meno affrontandone) i problemi cruciali16. 14 Dewey J., Esperienza e natura, Mursia, Milano, 1973 (ed. originale, 1929), p. 5. Dewey J., Le fonti di una scienza dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1967 (ed. Originale 1929), p. 24. 16 Cfr.: M.Baldacci, Sulla Ricerca-Azione…,Op. Cit. 15 96 Si tratterebbe, beninteso, di un genere di pragmatismo che non ha niente da spartire con quello di Dewey. Infatti, per lo studioso americano la scienza dell’educazione deve affrontare i problemi sociali, e l’educazione è uno di questi, applicando loro il metodo dell’intelligenza e impostare l’indagine volta ad affrontare i problemi socioeducativi a partire da ipotesi generali, ampie e feconde, suggerite dalla filosofia dell’educazione, per guidare il lavoro. Prosegue Baldacci: «[…] il punto è che tra la “comprensione” e il “potere di fare” non sussiste una opposizione antitetica, bensì un rapporto di complementarità che sfocia nell’implicazione reciproca. Infatti, un autentico “potere di fare” sembra legato ad una ampia, profonda e critica comprensione della natura dei problemi da affrontare, degli sbocchi da dare loro e dei possibili modelli di intervento. Così come una autentica comprensione sembra richiedere il banco di prova della pratica educativa, fonte ineludibile di controllo e correzione delle congetture interpretative e delle ipotesi di lavoro. Perciò, il principio di una filosofia della prassi che si costituisca come fondamento della R-A, ossia che l’attività deve essere volta alla trasformazione più che alla interpretazione, va inteso nel senso che non si tratta soltanto di comprendere il mondo, ma anche di modificarlo»17. Cioè a dire: la R-A non si basa su una attività rispetto alla quale risulta inessenziale il momento della comprensione teoretica dell’esperienza educativa; si basa sulla necessità del momento pratico, sia come fonte dei problemi da affrontare, sia come fase della scelta e dell’azione volta ad affrontarli. 17 Cfr.: M.Baldacci, Sulla Ricerca-Azione…,Op. Cit. 97 Come ha messo in luce Dewey18, un problema non si dà in partenza come qualcosa chiaramente formulato e definito. All’inizio si ha a che fare con una “situazione problematica”, che si presenta come una globalità incerta e confusa, pur senza risultare un mero e indecifrabile caos. Il “problema” viene definito attraverso una interpretazione di tale situazione, emerge da una comprensione intellettuale di questa. Che si tratti di una interpretazione è mostrato dal fatto che la formulazione del problema avviene sempre in un qualche linguaggio: il “problema” non è dato immediatamente nella situazione, è posto e definito attraverso una particolare descrizione della situazione. L’interpretazione della situazione problematica rappresenta una alterazione della stessa. Tramite essa si ha il passaggio da una situazione confusa ad una situazione che presenta un problema chiaramente delineato, oppure una situazione che presenta un problema viene trasformata, attraverso la sua ridescrizione, in una situazione che presenta un problema diverso. In entrambi i casi, è come se l’interpretazione della situazione problematica mettesse di fronte ad un mondo differente. Cioè a dire: l’interpretazione della situazione ne rappresenta già una modificazione19. In riferimento alla R-A, ci sembra voler dire che dalle modificazioni alla situazione educativa, le quali scaturiscono dall’azione formativa, emerge il bisogno di reinterpretare a più riprese le successive fisionomie assunte dalla situazione stessa, per cogliere il senso delle modificazioni parziali ed intermedie 18 19 Cfr.: Dewey J., Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, 1933. Cfr.: M.Baldacci, Sulla Ricerca-Azione…,Op. Cit. 98 di questa e dirigere il corso delle azioni successive. In altri termini, nella RA l’azione si intreccia costantemente con l’interpretazione. Collocare quest’ultima nella trama delle successive trasformazioni pratiche, come momento di comprensione della direzione e del senso dei mutamenti è il modo di conferirle validità pedagogica. Da queste considerazioni emerge la necessità di operare una rettifica all’impianto concettuale della R-A così come viene concepita da Pourtois. Infatti, sussiste il rischio che il già citato “principio” secondo cui “non si tratta tanto di comprendere qualcosa quanto di acquisire un potere di fare” generi malintesi circa la natura della R-A, subordinandone la sintassi metodologica ed operativa alle urgenze immediate dell’azione formativa, a scapito del momento della comprensione teorica dell’esperienza educativa. Cioè a dire, il pericolo è quello di ridurre di fatto la R-A a poco più che a mera azione educativa, premettendo a quest’ultima il termine “ricerca” per sfruttare l’alone semantico positivo di questo e le suggestioni dell’espressione che si viene così a creare. In questa maniera lo spirito della R-A si esaurirebbe in un atteggiamento attivo e volontaristico verso la soluzione dei problemi educativi, ma tale spirito, pur rappresentando un ingrediente importante e per certi versi distintivo di questo genere di ricerca, non risulta, come abbiamo già visto, sufficiente a fondarla. La ricerca, anche quando persegue uno scopo pratico, come nel caso della R-A, implica sempre una qualche forma di attività teorica, che richiede un momento di temporaneo distanziamento dalle urgenze dell’azione medesima. Come ha 99 indicato lo stesso Dewey20, questo momento di provvisorio svincolamento dall’attività pratica immediata è una condizione ineludibile per lavorare con metodo scientifico, e se la R-A è una forma di ricerca tale è il metodo secondo cui deve operare. Per altro, proprio questo temporaneo distanziamento dall’azione immediata, proprio la riflessione teorica consente di individuare e di utilizzare in maniera più ampia, approfondita e consapevole i mezzi e le condizioni che possono dare efficacia alla pratica. Perciò, condividiamo la tesi di Frabboni, secondo il quale nella RA occorre «fare precedere sempre all’azione empirica una cifra teorica»21, in quanto, scrive ancora Baldacci, «[…] è questa che garantisce, sia pure in maniera ipotetica, la “comprensione” dell’esperienza educativa e quindi prepara, sempre a livello congetturale, le condizioni e i mezzi per l’efficacia del processo formativo. Pertanto, nella R-A il momento teorico della comprensione precede e prepara il momento pragmatico della scelta e dell’azione. L’affermazione di Fourez dalla quale in qualche modo Pourtois prende le mosse deve essere riformulata nel senso che nella R-A non si tratta solo di comprendere qualcosa, ma di comprenderlo in maniera tale da acquisire un potere di fare, in maniera cioè da predisporre le condizioni di una pratica efficace»22. 20 Dewey J., Le fonti …, Op. Cit., p. 9. Frabboni F., Per una teoria razionalista della ricerca-azione, in Telmon V., Baldazzi G. (a cura di), Oggetto e metodi della ricerca in campo educativo: le voci di un recente incontro, Clueb, Bologna, 1990, p. 307. 22 Cfr.: M.Baldacci, Sulla Ricerca-Azione, Op. Cit. 21 100 4.6 Prospettive pedagogiche e ricerca La R-A muove da una situazione educativa problematica per la quale si intendono ricercare soluzioni pratiche. Tuttavia, la R-A non consiste in un intervento d’urgenza basato sul tentare una soluzione qualsiasi. Essa richiede un temporaneo distanziamento dalle preoccupazioni di azione immediata per attivare un momento di natura teorica. Lo scopo di ciò è in primo luogo quello di “comprendere” la natura del problema così da definire quest’ultimo chiaramente, sia nelle sue linee generali, sia nella forma specifica con cui si presenta in quella situazione educativa concreta e determinata. In secondo luogo, quello di definire un sistema di ipotesi di lavoro corroborato da conoscenze scientifiche (psico- sociopedagogiche) e nutrito da una riflessione antidogmatica sui possibili modelli educativi in relazione alla problematica affrontata. A questo punto entra in scena la pratica educativa, configurandosi come il momento di sperimentazione empirica del sistema di ipotesi formulato. Per altro, nel suo farsi la pratica si intreccia ripetutamente con momenti di interpretazione teorica volti a cogliere le direzioni e i sensi dei mutamenti educativi prodotti, nell’intento, proprio di una “valutazione formativa”, di dirigere il corso successivo dell’azione formativa. Infine, concluso l’intervento formativo, la valutazione finale di questo non mira soltanto a stabilire se esso ha risolto in maniera soddisfacente la problematica affrontata, ma anche a consentire una riflessione critica “di ritorno”, sulla scorta dei riscontri empirici ottenuti, sul sistema di ipotesi posto a base dell’intervento e sullo stesso modo di definire il 101 problema affrontato. Da questo secondo momento di riflessione critica può emergere una provvisoria convalida del modello di intervento adottato, oppure l’opportunità di ridefinire il problema da affrontare e/o di riformulare il sistema di ipotesi. E da qui può prendere il via una ulteriore esperienza di R-A. Vi è analogia tra il modo in cui Popper23 ha definito la ricerca e la maniera in cui Dewey ha descritto l’educazione. Per il primo la ricerca non ha fine; per il secondo l’educazione è un circolo o una spirale che non ha fine. La R-A pedagogica partecipa di entrambi questi percorsi interminabili24. 4.7 Una risorsa per la formazione: il metodo biografico Le teorie da noi privilegiate mettono al centro il soggetto in quanto un attivo costruttore della propria mente. L’individuo si rappresenta la realtà in base ad operazioni cognitive a tal punto personali da dotarlo di un vero e proprio profilo cognitivo: con una storia. Come sostiene D. Demetrio: «Questa storia è la sua biografia cognitiva. E’ il soggetto, adulto o meno, che si inventa o reinventa di continuo la realtà che più gli torna utile rappresentarsi in quel momento. Di conseguenza le teorie costruttiviste e motorie della mente ci dicono che la mente non è mai una copia della realtà ma semmai – si consenta la metafora – un auto- 23 24 Popper K.R.: La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Armando, Roma, 1997. Cfr.: M.Baldacci, Sulla Ricerca-Azione…, Op. Cit. 102 ritratto. Ciascuno di noi non applica la mente alla realtà ma percependola e organizzandola la costruisce, stabilendo connessioni continue con i precedenti atti cognitivi»25. La biografia cognitiva è dunque la storia, non di uno, ma di più stili di apprendimento. E’ commistione di pensiero logico e analogico. E, volendo darne una definizione, la biografia cognitiva è ciò che caratterizza ciascuno di noi non solo rispetto al funzionamento della mente, che compie operazioni astratte, ma anche alle decisioni che prende per risolvere problemi pratici, interpersonali, emozionali. Inoltre, la biografia è aperta al divenire: è la storia dei nostri poteri e dei nostri insuccessi. Demetrio aggiunge: «la biografia cognitiva è l’identità della nostra mente che affiora quando ci interroghiamo, o veniamo interrogati, su di essa: è un altro modo per definire ciò che Gardner, con Bateson chiama “la struttura delle strutture”, e ciò che Elster chiamerebbe il “sé multiplo” che, con fatica, drammaturgicamente, tiene insieme i diversi io»26. Come afferma Alberto Munari, «imparare qualcosa, altro non è che ricostruire questo qualcosa in un modo differente». Di conseguenza «insegnare qualcosa a qualcuno, altro non è che indurre questa persona a modificare la visione che egli già possiede di qualche cosa»27. 25 Demetrio D. / Fabbri D. / Gherardi S., Apprendere nelle organizzazioni…, Op. Cit., p. 200. Ibidem, p. 205. 27 Munari A., I laboratori di epistemologia operativa, in Demetrio D. / Fabbri D. / Gherardi S., Apprendere nelle…, Op. Cit. p. 56. 26 103 Citando ancora Demetrio: «L’autoritratto, in quanto operazione metacognitiva, corrisponde alla rappresentazione della mente costruitasi nel tempo (soggettivo) le cui componenti sono «le concettualizzazioni, le strategie, le azioni» messe in campo dal soggetto. L’analisi della biografia cognitiva di una persona può dirci pertanto anche molte cose sulle caratteristiche salienti delle sue identità (egoità) non cognitive. Per tale motivo, il contesto comunicativo ed organizzativo che costruiamo nella formazione dovrà essere ricco di stimolazioni simboliche e di “provocazioni” nei confronti di strutture mentali che quasi sempre hanno imparato ad apprendere senza interrogarsi. Senza essere educate alla buona abitudine di farsi il proprio autoritratto»28. 4.8 Biografia di gruppo Un’estensione pedagogica dell’autobiografia raccomandabile nei contesti educativi in cui sono implicati più soggetti è costituita dalla biografia di gruppo. «Gli intenti di tale lavoro non sono solo quelli conoscitivi (spesso nelle scuole o nelle esperienze di gruppo si utilizzano strumenti cartacei quali questionari, o schede per facilitare il compito), bensì quelli di favorire la creazione di una relazione, di un legame tra le persone che accettano di rivelarsi, di condividere 28 Demetrio D. / Fabbri D. / Gherardi S., Apprendere nelle…, Op. Cit., p.211-212. 104 con altri esperienze e vissuti. Questo percorso consente di accettare e tollerare i propri limiti, i propri dolori, che sono spesso anche quelli degli altri, tanto più se questi altri accolgono la nostra immagine e ce la rimandano affettuosamente ridefinita: Educazione è anche e soprattutto condivisione»29. Oltre all’esistenza di organismi, organizzazioni, associazioni, istituti che in modo diretto e indiretto si interessano e gestiscono processi educativi senza assumere caratteristiche scolastiche, è soprattutto nella vita sociale che nascono e si impongono problematiche con forti implicazioni educative. «La richiesta di educazione nasce sempre più spesso dalle situazioni-limite, da quelle realtà problematiche che restano irrisolte nella loro eziologia se non vengono mutati i comportamenti e gli atteggiamenti dei soggetti coinvolti e le finalità e l’organizzazione proposte dalla formazione»30. «L’analisi dell’evoluzione storica dell’educazione degli adulti rivela in modo evidente questa tendenza nell’affrontare tematiche sociali ed educative solo a fronte di urgenze non più a lungo procrastinabili»31. 29 Loria Barone C., Op. Cit., p. 61-72. Ibidem. 31 Mariani A. M., Educazione informale tra Adulti, Edizioni Unicopli, Abbiategrasso (Mi), 1997, p. 12. 30 105 PARTE SECONDA ANALISI DI UN PROCESSO EDUCATIVO 106 Non so vivere secondo un modello e non potrò mai servire da modello ad alcuno; invece, quel che farò sarà vivere la mia vita come mi piace, qualunque cosa accada. Non ho principi da sbandierare, ma qualcosa di assai più prezioso, qualcosa che sta dentro di noi, che brama solo a vivere e sa gioire, e preme per uscire alla luce. Lou Andreas Salomè CAPITOLO 5 L’ASSOCIAZIONE SAN MARCELLINO 107 Premessa I riferimenti teorico-culturali precedentemente delineati costituiscono il substrato che sostiene concettualmente e giustifica scientificamente l’interesse per una progettazione concreta, una prassi - quella dell’A.S.M.1 – che mi vede impegnato effettivamente sul terreno del lavoro educativo con gli adulti. 5.1 Presentazione dell’Associazione L'Associazione San Marcellino ha sede nel cuore del centro storico genovese dove, in linea di continuità con l’antica Opera di carità denominata "La Messa del Povero", nel corso degli anni ha maturato un preciso stile d’intervento a favore delle persone in difficoltà. Le origini storiche dell’Associazione si riallacciano all’attività di un padre gesuita, il p. Paolo Lampedosa. Egli, nel 1945 fondò La Messa del Povero e scelse programmaticamente di collocarsi nel cuore del centro storico genovese decidendo di aprire la porta della piccola chiesa di San Marcellino in Sottoripa. Era l’immediato dopoguerra. L’Opera di p. Lampedosa dal 1963 venne continuata da p. Giuseppe Carena il quale dovette fare fronte alle nuove necessità di aiuto ad interi nuclei familiari, per lo più provenienti dall’Italia meridionale in cerca di occupazione, che si erano 1 Associazione San Marcellino 108 stabiliti nel centro storico per i bassi costi delle abitazioni. Di qui lo sviluppo delle attività assistenziali dell’A.S.M., cui se ne sono aggiunte diverse altre più specificamente rivolte ai minori, quelli definiti più “a rischio” così la casa di Rollières diventa colonia estiva, mentre nel Centro crescono le iniziative a favore dei ragazzi (doposcuola, animazione, sport ed altro). Alcune di queste attività continuano tutt'oggi in forma autonoma organizzate in cooperative ed associazioni. L'intervento sviluppato in tutti questi anni ha avuto una matrice tipicamente assistenziale, fornendo prestazioni e servizi tesi talvolta a sopperire all'intervento dell'Ente Pubblico e più spesso ad integrarlo. Accanto a questo impegno assistenziale, però, è sempre stata presente una cultura di attenzione alla persona nella sua globalità, ai suoi valori, alla sua dignità, che si è alimentata a partire dai valori della solidarietà e dell'attenzione agli ultimi2. La realtà del quartiere (Centro Storico) in cui si è da sempre svolta l'attività ha subito negli anni un progressivo degrado, arrivando ad essere oggi uno dei luoghi di maggior concentrazione dei problemi di povertà in tutte le sue forme, da quelle più evidenti di natura economica a quelle più nascoste frutto del degrado sociale e morale (droga, prostituzione, alcolismo, violenza, etc.). Dall'87 ad oggi l'Associazione ha rivolto un'attenzione particolare all'accoglienza ed alla comprensione di quella fascia di persone di cui poco si parla ma che - nelle statistiche di oggi e sulle strade delle grandi città occidentali - assume una 2 Cfr.: USMI - FIRAS - CISM, Nuove risposte alla povertà e alla emarginazione. Esperienza a confronto, Caritas Italiana, Roma, 1981. 109 visibilità sempre più rilevante: le persone senza dimora. Per chiarire l’attuale struttura può essere utile riportare alcuni stralci dello statuto della Fondazione San Marcellino che esplicitano le finalità dell’Associazione: x Articolo 3° - L'Associazione ha carattere volontario; essa sceglie […] di prendere le parti, senza preclusione alcuna di razza, nazionalità o professione religiosa, di quegli uomini e di quelle donne che, per ragioni diverse, si trovano nelle situazioni più difficili, quali senza fissa dimora, soli, senza riferimenti d'aiuto, privi dei più elementari mezzi di sussistenza, per farsene concretamente carico con diverse forme di intervento - anche in collaborazione con altri Enti pubblici e privati - e nei vari ambiti della vita sociale. x Scopo dell'Associazione è perciò quello di promuovere a livello individuale, sociale e spirituale, la dignità umana di queste persone, per aiutarle a rientrare e a partecipare a pieno diritto e con possibilità di espressione al contesto sociale in cui vivono. Ciò comporta l'impegno da parte dei soci di farsi carico delle diverse forme di intervento dell'Associazione curando anche una adeguata formazione personale e una sensibilizzazione a vasto raggio mediante possibili ricerche, studi e dibattiti sui problemi e sulle cause che generano il disagio sofferto da queste persone. x L'Associazione intende inoltre stimolare gli Enti pubblici e privati interessati affinché operino delle scelte non emarginanti, indicando 110 eventualmente anche soluzioni alternative. x L'Associazione non ha finalità politiche ne' scopo di lucro. x L'Associazione potrà utilizzare forme diverse di finanziamenti, pubblici o privati, per il raggiungimento dei propri scopi. 5.2 Alle radici del progetto: le motivazioni L'esperienza relazionale con le persone che provengono dalla strada ci ha portato a consolidare la convinzione che le relazioni che "funzionano" sono quelle che portano a cambiamenti costruttivi coloro che le vivono. E’ stato sperimentato che, seguendo l’approccio sistemico relazionale, incontrando l’altro gradualmente si è costretti a porci questioni sulla nostra stessa vita, sullo stile delle nostre scelte, e si può incominciare a fare delle ipotesi di trasformazioni nostre, della realtà che ci circonda, della vita degli altri. Quando l’altro vive situazioni di difficoltà o di sofferenza, questo processo misteriosamente ma concretamente si accelera fino a divenire elemento propulsore di cambiamenti dinamici e sorprendenti3. La nostra società così ben organizzata, è arrivata a creare dei sistemi di raccolta differenziata dei rifiuti per valorizzare le risorse che sono nascoste dentro i bidoni dell’immondizia. Non si è però tanto preoccupata di recuperare le persone che finiscono attorno ai rifiuti e che in senso più ampio costituiscono rifiuti di 3 Cfr.: Campanini A., L’intervento sistemico. Un modello operativo per il servizio sociale, Carocci Editore, Roma, 2002. 111 umanità. Quelli che la nostra società chiama rifiuti sono tutt’altro che insignificanti, ma con gli occhi del cuore e poi con quelli dell’intelligenza si trasformano in perle preziose. 5.3 Lo stile Lo stile dell’associazione nasce dal desiderio di incontrare, di comprendere, di intervenire, e dalla capacità di cambiare mentalità, guardando se stessi e gli altri in un modo nuovo, diverso. Attraverso l'ascolto e il dialogo cercano, quando è possibile, di offrire occasioni per riprendere in mano la propria vita. Questo è un lavoro che richiede tempo, pazienza e fiducia reciproca. Le strutture, nella loro fragilità, intendono essere strumentali alla persona ed ai suoi bisogni, in vista di un miglioramento della qualità della vita di ciascuno. Questa è la ragione per cui continuano a cercare l’integrazione tra preparazione e motivazioni. Ciascuno ha le sue competenze - per esempio, c’è chi ha viaggiato molto, chi ha lavorato in fabbrica, chi in grandi industrie - ma la vera grandezza di ciascuno è sul piano dell’esperienza personale, del vissuto di ciascuno. Quando qualcuno al Centro di Ascolto viene “agganciato” nel modo giusto, quando cioè si instaura una relazione profonda che finisce per suscitare nella persona un reale desiderio di cambiamento, determinante è l’atteggiamento di chi 112 accoglie. E’ fondamentale cercare di incontrare la bellezza che è in ogni uomo, portarla alla luce dandole tutto lo spazio necessario affinché la persona, rafforzata e rassicurata nelle sue capacità, possa realizzarsi pienamente. Naturalmente, tutto ciò non solo ha dei tempi a volte molto lunghi, ma quasi sempre non segue un cammino lineare. 5.4 L’attenzione alle persone senza dimora nel proprio ambito territoriale Dato che per definizione i senza dimora appartengono alla categoria dei “senza territorio”, dopo la fase di prima accoglienza è importante ma problematico attivare contatti specifici con i servizi pubblici o privati presenti sul territorio4. Particolarmente delicato e problematico infatti è il recupero di una remota residenza in un determinato quartiere o una residenza anagrafica presso Centri di Ascolto o il Comune e il reperire un servizio territoriale che sia disposto ad accettare il caso come sua competenza. Infatti per la persona si tratta di recuperare l’idea di appartenenza ad un territorio (città, quartiere) o a un gruppo (C.d.A., servizio), mentre per gli operatori oltre a un vantaggio emotivo si tratta di avere dei punti di riferimento precisi per far sì che la persona senza dimora torni a 4 AA.VV., Il posto dei poveri nei bilanci degli enti locali, Caritas Italiana, Roma, 1991. 113 godere di tutti i diritti che gli spettano (medico, patronato, aiuto economico)5. Gli operatori di S. Marcellino per facilitare soprattutto quelle persone che hanno difficoltà nel mantenere gli impegni e a rispettare gli orari , cercano di creare una rete utile nella presa in carico dei senza dimora mantenendo contatti regolari con i servizi sia pubblici che privati. Molto spesso la scelta del servizio da contattare dipende dal tipo di problematica, ultimamente l’incidenza della problematica psichiatrica ha fatto rinforzare la collaborazione con i Servizi di Salute Mentale specialmente nel centro storico, mentre ai Distretti Sociali si richiedono in genere interventi economici e di accompagnamento e ai Servizi territoriali ci si rivolge per la tossicodipendenza per cui sono stati attivati specifici progetti finalizzati all’accoglienza notturna. Esistono organizzazioni per il problema specifico dei senza dimora come il C.d.A Monastero con cui S. Marcellino condivide tre accoglienze notturne, e il Massoero che fornisce accoglienza sia diurna che notturna. Va ancora sottolineato che i centri d’ascolto parrocchiali della città generalmente segnalano i casi alle organizzazioni competenti e raramente si occupano dei senza dimora. 5.5 Risorse e metodologie d’intervento 5 Pieretti G., La negazione dei diritti nel percorso di vita delle persone senza dimora, TRA, n.2, Milano, 1999. 114 S. Marcellino è un’associazione di volontariato, iscritta all’Albo Regionale che si avvale di una ventina di operatori stipendiati e di circa quattrocentocinquanta volontari con particolare attenzione all’integrazione fra preparazione professionale e motivazione. Dal punto di vista economico c’è il sostegno di alcuni interventi pubblici anche tramite una Convenzione con il Comune di Genova per circa il 40% delle uscite; dal ’94 si è aperta una campagna per il reperimento di Sponsor (privati, gruppi, enti, imprese etc.) che si impegnano a versare una cifra annuale stabile per creare un fondo slegato dalla precaria variabilità dei finanziamenti pubblici. Nel luglio ’91 è stata costituita la “Fondazione S. Marcellino” per creare un ente giuridico cui intestare gli immobili di cui si serve. Insieme all’approccio più tradizionale, che si esprime con l’offerta di servizi di tipo assistenziale, si è strutturata l'organizzazione di interventi che consentano di riportare le persone senza dimora a una maggiore autonomia e dignità di vita. L’esperienza ha mostrato come, per aiutare queste persone, non si debba irregimentarle in un percorso pre-definito ma impegnarle in una relazione che coinvolga anche chi le accoglie, cercando di vivere in modo positivo anche le possibili ricadute e gli insuccessi6. La relazione educativa che si viene ad instaurare diviene quindi un continuo interrogarsi sui significati propri dell’esperienza individuale e interpersonale, un approccio più neutrale, aperto al 6 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità ed accompagnamento sociale con la persona senza dimora, Ed. S. Rocchi, TRA, n.2, Milano, 1999. 115 cambiamento, meno carico di aspettative e più attento ai bisogni delle persone, un rimettersi sempre in discussione7. Non si tratta evidentemente di qualcosa di definitivo ma di un "processo" che continuamente si sforza di riadeguarsi al diverso fluire della realtà delle persone accolte dall’Associazione. Accanto, e talvolta propedeutica, alla proposta di riabilitazione esistono altre attività e strutture rivolte all'accoglienza, all'ascolto e alla assistenza. Infatti l'approccio tradizionale alle persone in difficoltà è quello che coglie la persona nel momento apicale della sua crisi e tenta di risolverla nel contingente (dando il buono mensa, l'asilo notturno, il vestito, i soldi, ecc.), non viene aprioristicamente rifiutato, ma viene piuttosto integrato dall'intento di avvicinare la persona anche al di là del problema. Questo permette di vedere non la persona senza casa, senza lavoro ecc., ma semplicemente la persona, con quelle che sono le sue debolezze ed i suoi bisogni ma anche con le sue risorse non mobilitate – e a volte addirittura dimenticate – e con le sue ricchezze. Questo permette inoltre, attraverso un contatto costante e con modalità diverse ed una attenzione al cambiamento interiore della persona, di fare progetti il più possibile personalizzati, per non rischiare – se e quando si avviano le persone ad un cammino di recupero – di inserirle in tale percorso in modo predeterminato che non colga più le loro diversità e specificità. Considerando i vari problemi che le persone portano, l'essere senza dimora ci 7 Cfr.: Rogers C., La Terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze, 1970. 116 sembra il risultato di una serie di fattori (per ognuno diversi) che hanno portato a una situazione di grossa conflittualità all'interno della persona stessa ed alla conseguente impossibilità per essa di rimanere dentro la normale struttura sociale ed affettiva. Le problematiche emergenti, quelle cioè per cui chiedono aiuto, sono principalmente la casa, il lavoro, la malattia, le dipendenze (quella dall'alcol in particolare), l'isolamento sociale. Solitamente, le persone vanno al C.d.A. portando quello che ritengono essere il problema ("se avessi la casa...", "se trovassi lavoro..."). In queste situazioni la risposta che si è tentati di dare come risolutiva (e cioè agire solo sul sintomo o sul sociale) rischia di ottenere solo false remissioni del disagio senza tuttavia ottenere alcun cambiamento e quindi alcuna crescita8. Accanto all'approccio più tradizionale, che si esprime attraverso l'offerta di una serie di servizi di tipo più propriamente assistenziale, si è andato affiancando quindi il tentativo, sempre meglio delineato, di organizzare interventi che consentissero di riportare queste persone a una maggiore autonomia e dignità di vita. E’ interessante notare come la continua rilettura dell'esperienza fatta abbia suggerito come sia fondamentale, nel lavorare con queste persone, non prefigurare al loro posto il cambiamento, non avere una meta da raggiungere attraverso un cammino progressivo e standardizzato ("a tappe"), come in un primo momento si 8 Franchini R., Progetto educativo e qualità dell’assistenza, F. Angeli, Milano, 1998. 117 potrebbe ipotizzare, ma porsi in un atteggiamento di continua ricerca9. Difficilmente la richiesta dell'utente risulta aperta ad un unica interpretazione e ogni situazione è diversa, così come lo è ogni persona. Partendo dalla considerazione che ogni uomo è il frutto di una serie di rapporti, di relazioni attive, nelle quali l'individualità non è il solo elemento da considerare, ci pare di poter dire che l'essenza umana e la sua crescita risultano legate in modo "interlocutorio" alle relazioni con le altre persone. In questo senso lo strumento "educativo" (se così possiamo chiamarlo) diventa la relazione con l'altro. Ci sembra anche di poter dire che una relazione, per contribuire davvero al cambiamento, non dovrebbe mai essere rigidamente definita, ma lasciare sempre un margine di libertà di scelte ulteriori che le permettano di progredire e quindi di far crescere le persone che la sperimentano. Aiutare queste persone non può consistere nell'irregimentarle all'interno di un percorso definito, anche perché questo irregimenta anche noi, allontanandoci dall'altro, facendoci considerare il "problema" come qualcosa di estraneo da noi, che va tolto. Non ci permette di lasciarci coinvolgere e spesso significa non essere in grado di vivere in modo positivo anche le possibili ricadute e gli insuccessi nostri e degli utenti. L'instaurare quella che chiamiamo relazione educativa diventa quindi una ridefinizione delle reciproche e diverse aspettative, un continuo interrogarsi sui significati propri dell'esperienza individuale e interpersonale. 9 Cfr.: Guidicini P. Pieretti G. (a cura di), I volti della povertà urbana, F. Angeli, Milano, 1998. 118 In questo senso l'utilizzo delle varie strutture non è inteso come momento terapeutico ma come un'occasione, uno strumento per esplorare insieme i significati e il valore che la persona attribuisce a quell'esperienza (l'esperienza di convivenza con altra gente, di un periodo in un laboratorio di lavoro, di una proposta di trattamento di una dipendenza, di un alloggio fisso). Di volta in volta alla persona può venire proposto un periodo in dormitorio, un'esperienza in un laboratorio di lavoro, un alloggio protetto, un periodo in comunità senza che tutto questo sia necessariamente legato in modo consequenziale. Questo approccio più neutrale, più aperto al cambiamento, meno carico di aspettative ci pare permetta di essere più attenti ai bisogni delle persone, più disponibili all'ascolto e consente di "liberare" meglio le risorse delle persone che si incontrano10. Il lavoro di relazione, inteso in questo senso, diventa quindi un lavoro di grande indeterminatezza, per molti aspetti pericoloso per l'operatore in quanto non è difficile cadere nelle trappole dell'estreme polarizzazioni della relazione di aiuto: la collusione e l'invischiamento oppure la delega totale, la rinuncia11. Ci si trova a lavorare in situazioni nelle quali ogni volta, prima di muoversi, si è chiamati a fare il punto della situazione, sapendo che le coordinate sono ogni volta diverse. E' un livello in cui per lavorare bene bisogna essere disposti a lasciare emergere tutte le potenzialità di cui si può disporre, sia quelle tecnico-professionali sia quelle più genericamente umane. E' come se, affrontando 10 11 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità…, Op. Cit. Cfr.: Rogers C., Op. Cit. 119 situazioni diverse, dovessimo ogni volta accettare di essere diversi dalla volta precedente. 5.6 Il Centro di Ascolto Il C.d.A. cerca di accogliere qualsiasi persona che si presenti con i bisogni, espressi o meno, di chi vive sulla strada per aiutarla a scoprire in sé le risorse per cambiare e migliorarsi. Agli operatori il compito di fornire delle occasioni, a partire molto spesso dalla risposta ai bisogni più urgenti, quali un posto letto, del vestiario, una mensa, un medico o altro del genere. L’Associazione risponde ai bisogni delle persone secondo proposte su cinque ambiti: alloggiamento, lavoro, socializzazione, benessere e salute, dipendenze da alcol. Fondamentale è l’azione del C.d.A che opera su due fronti: accoglienza e accompagnamento sociale coadiuvando il percorso delle persone all’interno dei cinque ambiti citati attraverso il lavoro di gruppo con gli operatori degli altri settori. Esiste un coordinamento settimanale cui partecipano gli operatori degli altri settori e del C.d.A per condividere il precorso che le persone intraprendono con l’Associazione. Per quattro mattine alla settimana il C.d.A: è aperto dalle 9 alle 12 per: 1) l’ascolto di chi si rivolge per la prima volta e per i colloqui di chi è già inserito 2) la prima accoglienza (5 operatori stabili) con distribuzione di posta, 120 fotografie, buoni vestiario, etc. Ad ogni nuovo contatto viene compilata una scheda che viene continuamente aggiornata. Già nella sala di attesa 2 obiettori di coscienza si occupano degli ospiti facendo da filtro ed eseguendo le mansioni preliminari 5.7 Le realizzazioni Tra i tanti problemi che affliggono le persone che vivono per strada, quello del pranzo è uno dei principali. A Genova esistono molte realtà che forniscono cibo sia ai senza dimora che a persone con casa ma reddito bassissimo, dalla mensa del Massoero (pranzo e cena) a enti, associazioni, congregazioni religiose, parrocchie etc. ma molto spesso sono anonime, massificanti e talvolta umilianti. Dal 1992 si è cercato come offrire il pranzo a una dozzina di persone, in luoghi piccoli, tranquilli, quasi familiari favorendo i legami con i progetti delle singole persone, la risposta è stata l’apertura di due strutture in due diverse zone della città la mensa di San Rocco di Principe e dal ’94 la mensa di San Pio X. Dato che i dormitori sono chiusi durante il giorno si pone il problema di cosa offrire nella giornata per creare soluzioni di continuità fra lo stile dell’Associazione, fondato sulla relazione con l’Altro, e le difficoltà della vita pratica. 121 Altra realtà diurna è “La Svolta”, centro diurno pomeridiano aperto tutti i giorni feriali dove le persone possono ritrovarsi, giocare e consumare bibite e alimenti a pagamento. Questa struttura costituisce un importante momento di incontro e rappresenta da una parte uno strumento di osservazione delle modalità relazionali delle persone accolte, dall’altra un occasione per le stesse persone di conoscere meglio la proposta del Centro senza essere troppo coinvolti. Alcuni servizi dell’A.S.M. riguardano la cura della persona seguita al C.d.A.: due Ambulatori Medici e una Farmacia tutte le domeniche mattina, come pure un “Guardaroba” per la distribuzione del vestiario, i Lavatoi per lavare stirare e riparare vesti o biancheria oppure per la doccia.Un ulteriore servizio sono le Visite in ospedale per chi è ricoverato. 5.8 L'Alloggiamento Per venire incontro alle difficoltà relative all'alloggiamento, l’Associazione dispone di diversi tipi di strutture: un dormitorio di bassa soglia, due accoglienze notturne, due comunità e una ventina di "alloggi assistiti" con diverse caratteristiche. Gli interventi sulla problematica abitativa. (dormitori, accoglienze notturne, comunità, alloggi assistiti, etc..). L’ Archivolto è un dormitorio di bassa soglia realizzato accogliendo le persone con un filtro molto semplificato, consentendo l'accesso pressoché immediato alla 122 struttura a quanti, cittadini italiani e non tossicodipendenti (per costoro sono state apprestate accoglienze specifiche) ne faranno richiesta. Il periodo di accoglienza è limitato a pochi giorni, il tempo necessario per poter permettere una prima comprensione delle problematiche della persona ed una successiva e più continuativa presa in carico. Non sono previste cena e colazione ma un semplice spuntino, tali da andare incontro alle emergenze ma anche per invogliare le persone a cercare in fretta alternative di maggiore consistenza. Le strutture murarie e logistiche sono adeguate e la loro accessibilità diretta dalla strada rende la struttura particolarmente adatta al tipo di servizio. L'Angolo e Il Gradino sono due accoglienze notturne di primo livello, capaci di ospitare per la notte complessivamente 22 persone ed aperte tutti i giorni dalle 19.30 alle 7.30; nel servizio, oltre al posto letto, sono compresi una cena serale e la colazione al mattino. L'accoglienza impegna al rispetto di tre regole minimali (puntualità, sobrietà, pulizia personale), che vengono verificate con l'ospite al Centro di Ascolto al momento del rinnovo del tesserino che permette l'accesso all'accoglienza per la settimana. Tale rinnovo è subordinato anche alle osservazioni fatte dai volontari e riportate dai responsabili che partecipano al coordinamento settimanale dei servizi. Questa accoglienza rappresenta un importante spazio in cui, rispondendo ad un'urgenza, si comincia a conoscere la persona ed a farsi conoscere, per poter impostare un rapporto più continuativo che vada oltre alla durata prevista del pernottamento che attualmente è stabilita attorno ai tre mesi, rinnovabili a seconda dei casi. 123 Poiché negli ultimi anni si è verificato un incremento della popolazione femminile tra i senza dimora si è pensato di andare incontro a questa problematica attivando (febbraio 2000) un’accoglienza notturna per donne, La Treccia, che funziona con modalità analoghe a quelle dell’Angolo e del Gradino. Il Boschetto è invece una comunità che può accogliere 8 ospiti. Vi vengono inviate quelle persone con le quali si è impostato un progetto da parte del C.d.A.. E' aperto a tempo pieno nei giorni festivi e nei giorni feriali dalle 18.00 alle 8.00. Gli ospiti versano un piccolo contributo spese e partecipano alla gestione della casa occupandosi delle pulizie, della stesura della lista spese, della preparazione della cena che consumano insieme. Eventuali proposte o problemi inerenti l'andamento della casa o i rapporti degli ospiti fra loro, vengono discussi settimanalmente con la riunione di un gruppo gestito dall'operatore responsabile del Boschetto, che si occupa anche di coordinare l'attività di alcuni operatori che fanno il turno alla notte e di alcuni volontari. Questi sono presenti nei fine settimana, e si occupano di organizzare momenti specifici di animazione (pranzi in occasione delle feste, ecc.). Gli ospiti sono poi seguiti personalmente da un operatore con colloqui settimanali tenuti presso il C.d.A.. Il Ponte, residenza comunitaria protetta, che ospita fino a otto persone, è nata per coloro che non sembrano in grado, dopo un percorso riabilitativo, di condurre una esistenza totalmente autonoma e necessitano di sostegni per mantenere la qualità di vita raggiunta e non tornare sulla strada; il periodo di permanenza è indeterminato e la gestione della struttura viene affidata agli ospiti con una 124 opportuna guida per coinvolgere tutti tenendo conto delle singole attitudini. Lavori di manutenzione e di gestione del quotidiano vengono svolti dagli ospiti prevalentemente al mattino, così come la gestione della cucina e della casa; pranzo e cena sono in comune ma l’elasticità caratterizza questa struttura che non vuole soffocare gli ospiti. Gestiscono la struttura un direttore, due collaboratori ed una decina di volontari. Gli alloggi assistiti sono appartamenti individuali la cui organizzazione e composizione è modificabile sulla base delle differenti esigenze degli ospiti, secondo il programma concordato con ognuno. Si tratta di situazioni di diversa autonomia cui si può accedere sia nella prospettiva di una completa successiva indipendenza, sia anche in quelle situazioni in cui, essendosi accertata una capacità di autogestione da parte della persona, questa viene inserita in una concreta ed economica possibilità di gestire una vita qualitativamente di livello e dignitosa, assimilabile a quella di un pensionato, quando evidentemente non si sia in presenza di capacità lavorative adeguate. La persona in alloggio continua i colloqui regolari, di preferenza con lo stesso operatore che lo ha seguito in semiresidenza. 5.9 Lavoro Il problema dell’occupazione e delle politiche attive per l’impiego delle persone in situazione di emarginazione grave. L’obbiettivo del settore lavoro è quello di 125 offrire la possibilità di fare esperienze di educazione al lavoro12, intendendo con ciò particolari situazioni in cui le persone dovranno provare a costruire capacità e abitudini che costituiscono la struttura e i vincoli del lavoro: capacità di organizzare il proprio tempo intorno ad un impegno, relazionarsi con i propri pari in una attività strutturata, comprendere la funzione della gerarchia e dell’autorità, gestire situazioni conflittuali, etc… In questo periodo storico la penuria di posti di lavoro nei paesi occidentali rende difficile per chiunque trovare una collocazione lavorativa soddisfacente e, a maggior ragione, ciò si verifica per le persone socialmente svantaggiate che hanno estreme difficoltà nel mantenere stabile e continuativo un impegno lavorativo. Anche se il problema del lavoro non può essere ricondotto solo alle mutate condizioni del mercato, il problema del diritto al lavoro resta valido. Purtroppo in genere le persone senza dimora scontano un’insufficiente scolarizzazione e formazione professionale, magari unita ad un deficit intellettivo o ad una invalidità di tipo psichiatrico-fisico. Molti senza dimora non hanno mai lavorato in regola e quindi non sono in grado di valutare le loro capacità. Poiché a San Marcellino si ritiene che il lavoro sia molto utile per stimolare nelle persone senza dimora la dimensione dell’autonomia, ma poiché sono consapevoli che un inserimento precoce nel mondo del lavoro rischia di compromettere fragili equilibri, hanno da tempo iniziato a sperimentare un progetto di inserimento in laboratori assistiti che 12 Cfr.: Lepri C., Montaggio E., Lavoro e fasce deboli. Strategie e metodi di intervento, F. Angeli, Milano, 1999. 126 consenta agli ospiti di ritrovare fiducia nelle proprie capacità lavorative, da un lato e dall’altro di apprendere/riapprendere una professionalità in futuro spendibile anche sul mercato del lavoro. In quest’ottica è stato attivato il progetto europeo "Rimbocchiamoci le maniche"13 inteso come percorso di mediazione fra i senza dimora e il mondo del lavoro. Il potenziale corsista deve veder soddisfatti i bisogni primari per potersi dedicare al riconoscere la sua situazione di bisogno e deve voler confrontarsi con l’impegno di lavoro. Per questo l’inserimento in laboratorio non è fine a se stesso ma è strumento di promozione sociale in campo occupazionale. Per consentire una valutazione e soprattutto una auto-valutazione di chi desidera trovare e tenere un lavoro, si sono aperte attività di laboratorio sempre più differenziate per consentire percorsi anche personalizzati, per offrire schemi non rigidi con corsi aperti rispondendo in modo elastico e flessibile alle esigenze di ciascuno, pur in base ad un percorso di aiuto già avviato. Sono previsti tre moduli che rappresentano tre tappe in vista di un possibile impiego. 1) Frequenza fra le 150 e 250 per il laboratorio di pulizie, circa 10 ore settimanali con il riferimento dell’educatore-formatore responsabile del laboratorio. 2) Frequenza di 450- 900 ore. I laboratori di educazione al lavoro sono 4: Pelletteria, Lavanderia, Cambusa e Manutenzioni, circa 10/20 ore settimanali; 13 Progetto finanziato da parte del Fondo Sociale Europeo nell'ambito dell'iniziativa comunitaria "Occupazione e valorizzazione delle risorse umane", Settore "Integra", Genova, 1999. 127 differenziazioni sia per tipo di laboratorio sia ad personam. 3) Durata minima tre mesi, 20/40 ore settimanali, inserimento lavorativo in borsalavoro presso un datore di lavoro esterno. Veri stage che, attraverso il periodo di formazione, possono portare all’assunzione. I corsisti sono affiancati sia da un operatore-tutor con il quale hanno un colloquio settimanale e da un educatore-formatore sia per i laboratori che per lo stage formativo. Per ogni laboratorio ci sono compiti diversi che rispondono ad esigenze interne all’associazione, in alcuni casi si può parlare di cicli produttivi, per altri la situazione è più articolata. x a) Il laboratorio delle Pulizie Questo laboratorio svolge le pulizie in strutture dell’associazione con un carico orario minimo e compiti semplici, rappresenta il primo modulo. Occupa sei apprendisti divisi in due squadre con un responsabile tecnico per 10 ore settimanali (8.00/10,30). Sono previsti due tipi di cicli: pulizie ordinarie o mantenimento, pulizie straordinarie o a fondo. x b) Il laboratorio della Cambusa Il laboratorio del magazzino alimentare ha il compito del reperimento, stoccaggio e distribuzione delle derrate alimentari dell’associazione. Due apprendisti (15 ore sett.) e un responsabile tecnico per un ciclo in 4 fasi: Analisi delle richieste e lista della spesa; spesa o reperimento attraverso donazioni; trasporto e 128 stoccaggio;distribuzione alle varie strutture. x c) Il laboratorio della Pelletteria Costruisce borse e manufatti utili alle strutture dell’associazione (tendaggi, rivestimenti poltrone o divani, ect.), si compone di due apprendisti con due responsabili tecnici, artigiani in pensione, per un ciclo in 6 fasi: acquisizione del lavoro; progettazione; costruzione delle seste; taglio dei pezzi; cucitura e assemblaggio; finitura . x d) Il laboratorio della Lavanderia Previsti 3 apprendisti per 15 ore sett. e un educatore/formatore per un ciclo in 6 fasi: ritiro tovagliato; selezione e lavaggio; asciugatura; piegatura e stiratura; confezionamento del tovagliato; consegna delle confezioni. x e) Il Laboratorio delle Manutenzioni Due apprendisti (20 ore sett.) con un responsabile tecnico, artigiano in pensione, e un responsabile dell’associazione, eseguono lavori di imbiancaggio, piccola idraulica, piccola manutenzione elettrica, piccola falegnameria; il ciclo in 4 fasi: acquisizione dell’intervento; progettazione dell’intervento; esecuzione dell’intervento; finitura. 5.10 La dimensione animativa e culturale Uno degli obbiettivi fondamentali dell’Associazione è dalle origini quello di 129 promuovere fra le persone escluse ed il resto della società un ponte relazionale, nella consapevolezza che una relazione ben gestita da ambo le parti può suscitare dei cambiamenti costruttivi sui due differenti versanti. Questa dimensione costruttiva della relazione è patrimonio comune di molte delle persone accolte a S. Marcellino, che nell'incontro hanno ricevuto opportunità per un cambiamento personale e per un miglioramento della qualità della loro vita, anche nella prospettiva di una rinnovata e dignitosa autonomia. Con "Animazione" hanno sempre definito quelle attività in cui è data la possibilità a ciascuno di esprimersi il più possibile fuori dai ruoli: i momenti della festa, del divertimento, del tempo libero, della vacanza. 5.11 Le attività I momenti dell'animazione diventano perciò attività concrete atte a stimolare, favorire, recuperare il bisogno delle persone di stare con gli altri e di sperimentare possibilità di instaurare relazioni. Nell’area della socializzazione ci si avvale di alcuni operatori ma principalmente del servizio di volontari e obbiettori. Aspetto importante di questo servizio é l’offerta di possibili legami complementari (amicali, fraterni, genitoriali) resa possibile proprio dalla presenza di persone molto diverse tra loro. Durante il mese di Agosto ogni anno si organizzano due turni di Vacanze in montagna di una dozzina di giorni ciascuno. Lo scopo è quello di creare un clima 130 di conoscenza, di amicizia e di fiducia fra le persone ma anche, più semplicemente, di offrire l’opportunità per persone che non hanno altre possibilità, non ne sono più capaci o non l’hanno mai fatto, di trascorrere alcuni giorni di vacanza in un luogo ameno. Durante queste vacanze cui partecipano famiglie con bambini, studenti, pensionati, ospiti di lunga data assieme agli ultimi arrivati, si sviluppa una densissima rete di relazioni che sono spesso il punto di partenza per mosse di avvicinamento reciproco di grande rilevanza. 5.12 La formazione professionale L’analisi delle vite delle persone senza dimora ha permesso di evidenziare, al momento, alcune questioni che attraversano le strutture che offrono servizi. Anzitutto è il caso di evidenziare approcci e modalità della presa in carico e del percorso di accompagnamento sociale messi in campo dalle strutture coinvolte. Sembrano infatti venire in luce, da ultimo, mondi della vita diversi e non solo modalità “tecniche” differenti. È su questo che crediamo opportuno concentrare l’attenzione, al fine di invitare le strutture coinvolte non solo a recepire le altrui “buone pratiche” ma anche a riflettere sulle finalità “ultime” degli interventi. Ciò, ovviamente, a partire da una evidenza: le strutture di servizio che si occupano dei senza dimora sono spesso costrette a lavorare “in emergenza” ed a lasciare pertanto in secondo piano il livello dell’autoriflessione. L’autoriflessione, a volte, non viene sviluppata perché alcune pratiche di intervento, magari sedimentatesi negli anni e non originate dallo specifico settore dei senza dimora si sono rivelate, in origine, efficaci. Ciò ha spesso messo in 131 azione un meccanismo di rimozione dalle “ragioni ultime” dell’intervento: esse da un lato vengono date per scontate e dall’altro sono in parte considerate questioni astratte e non degne d’attenzione14. Nell’ottica qui proposta tali ragioni sono invece da evidenziare con forza. Tra le ragioni ultime intendiamo i convincimenti più profondi che, consapevolmente o meno, riguardano gli obiettivi dell’intervento. Obiettivi che, tutti, condividono un elemento comune: è la sofferenza il leitmotiv delle vite delle persone senza dimora che, ricordiamo, sono state costruite “dal vero”, rispecchiano la verità delle biografie delle persone senza dimora, in termini di “carne e sangue”. Una sofferenza che esige risposte diversificate: in un continuum che va dalla mera erogazione di provisions, ad un accompagnamento personalizzato15. Ora ciascuno degli operatori accentua maggiormente gli aspetti “materiali” o gli aspetti “simbolico-esistenziali”, dando luogo a risposte davvero differenziate le une dalle altre. La differenza di ispirazione quanto a motivi di fondo, negli interventi, da parte degli operatori delle strutture coinvolte è solo un aspetto del problema: ad esso si aggiunge l’altro problema, endogeno a ciascuna delle strutture coinvolte, della soggettività dei singoli operatori. Le personalità coinvolte nelle diverse strutture Centro d’Ascolto sono: 1 psichiatra, 1 psicologo, 2 educatori, 1 assistente sociale. Nel settore lavoro: 3 artigiani, 2 persone con funzione di capo squadra, 1 educatore mediatore sistemico che è il responsabile 14 15 Cfr,: Guidicini P. Pieretti G. (a cura di), I volti della…, Op. Cit. Cfr.: Guidicini P. / Pieretti G. / Bergamaschi M. (a cura di), Gli esclusi dal territorio…, Op. Cit. 132 Per quanto riguarda le persone coinvolte sul fronte della relazione è evidente che debbano avere una formazione adeguata al problema, tuttavia è fondamentale anche la formazione in itinere (sul campo). Inoltre queste professionalità debbono integrarsi con i volontari (circa 450) che costituiscono la “carne” dell’Associazione. Come abbiamo già illustrato, l'Associazione San Marcellino si avvale dell’intervento lavorativo di una ventina di collaboratori nonché di un rilevante numero di volontari grazie ai quali è possibile sostenere l'insieme delle iniziative ed attività con un elevato stile di intervento dal punto di vista motivazionale, ed a costi più contenuti. Essa ha constatato d'altronde che più la situazione è difficile, più occorre essere preparati. Anche nella professionalità dell'intervento si è mirato a costruire una relazione con le persone che si avvicini il più possibile a quella dell'amicizia, favorendo perciò tutti quei momenti di aggregazione che permettono l'incontro, lo scambio delle esperienze, la solidarietà concreta16. Accanto ai volontari diversamente preparati è perciò presente un discreto numero di persone adeguatamente specializzate, le quali, facendosi carico dei punti nodali dei diversi servizi, garantiscono anche la loro continuità e crescita costante attraverso serie verifiche Questo orientamento ha condotto a porre particolare attenzione al problema della formazione che, sul versante degli operatori doveva sottolineare la professionalità dell'intervento ma radicata su concrete e personali ispirazioni motivazionali, 16 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità…, Op. Cit. 133 mentre su quello dei volontari che curasse, accanto alla dimensione valoriale, quella più tecnica dell'intervento professionale17. Diversi sono i livelli di proposte di formazione per gli operatori ed i volontari impegnati nei diversi settori di intervento, aspetto che sentiamo come molto importante e che è emerso come esigenza comune in tutti coloro che si lasciano interrogare da questa esperienza. Proprio con tale intento si favorisce la partecipazione a eventuali incontri, conferenze, corsi che possano risultare utili, così come si segnalano studi o libri sull'argomento. Vari settori poi organizzano in modo sempre più sistematico degli incontri non solo su tematiche tecniche. Esistono incontri formativi proposti a tutti i volontari sulla metodologia, su aspetti relazionali caratteristici del rapporto di aiuto e sul campo delle motivazioni all'impegno e sui valori. Data la specificità delle problematiche ed a seconda del ruolo ricoperto dall'operatore si cura una sua personale formazione che spesso va ad aggiungersi a titoli preesistenti (psichiatra, psicologo, assistente sociale, educatore ecc.). Talvolta viene chiesto ai volontari stessi, attraverso questionari diversamente proposti, di esprimere le proprie necessità in base al servizio svolto. Fa parte poi del percorso di formazione sul campo tutta quella serie di riunioni settimanali, alcune sui percorsi delle persone altre, in forma di supervisione, centrate sui problemi degli operatori. In queste occasioni si costruisce progressivamente e si affina lo stile dell'intervento, personale e di gruppo, Per concludere infine 17 Massari L., Lavorare con gli homeless - Riflessioni sulla rappresentazione - Guida degli operatori, Animazione Sociale n. 3/2000, Torino, 2000. 134 vogliamo ricordare che l'impegno della Associazione vorrebbe portare anche ad una maggiore sensibilizzazione nei confronti dell'emarginazione, nella consapevolezza che problemi di questo genere non si risolvono se non diventano di coscienza collettiva. In questa direzione sono state promosse diverse attività che sono state portate alla città, mediante seminari e giornate di studio, specialmente nell'ambito di alcuni progetti europei cui la Associazione ha recentemente partecipato. Ha così preso l'avvio una serie di attività formative che intendono accompagnare gli operatori ed i volontari della Associazione, ma anche coinvolgere altre persone nel discorso della attenzione ai problemi delle persone escluse e delle pratiche di intervento sociale dirette al reinserimento. Si intende in tal modo, avvicinare il più possibile le esperienze dell'azione sociale diretta con quelle della riflessione, dell'elaborazione delle metodologie, nonché della ricerca sulle cause della esclusione sociale18. 18 Garena G., Entrare in storie di ordinaria povertà. Per una strategia territoriale di lotta alle povertà, Animazione Sociale N. 2, Torino, 1994. 135 La voce che sentite non è quella con cui parlo ma quella con cui penso. Io non parlo dall’età di sei anni. Nessuno sa perché, nemmeno io. Mio padre dice che è una facoltà oscura, e che quello in cui mi metterò in testa di non respirare più sarà il mio ultimo giorno. Ada (tratto da: Lezioni di piano,) CAPITOLO 6 LETTURA DELL’ESPERIENZA GENOVESE DI S. MARCELLINO NELL’OTTICA DELLA RICERCA-AZIONE 136 Premessa Una motivazione autobiografica anima la scelta di interpretare le realizzazioni dell’Associazione S. Marcellino alla luce di premesse condivise scientificamente non meno che idealmente. L’analisi che ne deriva coniuga quindi interesse teorico e impegno umano, il primo può essere forse attentato, il secondo si accresce in me in progress, incentivato dalla relazione con l’altro. 6.1 La vita come progetto La vita, in ogni sua fase, è un cammino, un percorso caratterizzato da trasformazioni, da cambiamenti e, oggi più che mai, “fluidità e discontinuità sono le caratteristiche essenziali della realtà nella quale viviamo” e in una vita ci troviamo a vivere molte vite. Vivere vuol dire essere in movimento, costruire sempre nuovi rapporti con sé, con gli altri e con il mondo. Più che progredire, l’uomo e la donna si trasformano. La vita, perciò, può e deve essere intesa non come un destino ma come un progetto nel quale è importante sapersi accettare come esseri limitati, ma anche 137 come soggetti portatori di storia, di inedite esperienze, saperi e valori; progetto nel quale è significativo saper condividere con gli altri il tempo e la vita1. Il mondo degli adulti emarginati è estremamente problematico, è un mondo dove la condivisione è difficile, se non addirittura impossibile, e ridotta ai minimi termini. Nei primi anni del 2000 si è conclusa una ricerca transnazionale che ha avuto come partner le associazioni di S. Marcellino di Genova, Emmaus di Forbach, S. Martin de Porres di Madrid. Questa ricerca, denominata Il sogno di Vladimir2 e il progetto Testa e Piedi3 concluso l’anno scorso e condotto dagli stessi partners, hanno messo in luce la difficoltà estrema di considerare l’alcolismo una questione prioritaria nell’esperienza dell’essere senza dimora. A volte, infatti, continuando a trincerarsi dietro definizioni quali “alcolismo grave” si manifesta la propria resistenza a nominare l’alcolismo tout court, o a prenderlo in considerazione come sindrome solo allorchè si sia in presenza di situazioni praticamente ingestibili e pressochè invalidanti. Il materiale empirico del progetto Testa e Piedi raccolto tramite l’utilizzo di due strumenti principali, le figure fittive e gli indicatori e informatori biografici 1 Cfr.: Passalaqua C., Oltre la famiglia, oltre la casa. Il senso dell’abitare, Ed. L’Altro Mondo, Pinerolo (To), 1997. 2 Il sogno di Vladimir, ricerca partecipata realizzata nell’ambito del programma sostenuto dalla Commissione Europea D.G. e Affari sociali, Genova, 2001. 3 Testa e Piedi, ricerca intervento realizzata nell’ambito del programma sostenuto dalla Commissione Europea D.G. e Affari sociali, Genova, 2000. 138 oggettivati4 ha confermato da un lato la presenza dell’alcol nelle biografie di quasi tutte le persone senza dimora e dall’altro il fatto che, ciò nonostante, l’alcol venisse segnalato come problema degli operatori in un numero davvero limitato di casi. Si è peraltro potuto constatare come le due associazioni francesi e spagnole, davanti all’alcol, tendessero a delegare il problema a strutture istituzionali di stampo medicale quando non ad ospedali addirittura, facendo con ciò intendere che l’alcolismo “grave” è materia per medici, ed è pertanto da considerare come una malattia. S. Marcellino ha evidenziato un approccio ben differente di problemi alcolcorrelati: è tuttavia da sottolineare che tale posizione è venuta sviluppandosi “per prove ed errori”, da un lato e dall’altro per tramite del rapporto con i C.A.T.5 addirittura con lo stesso prof. V. Hudolin. 6.2 Alcune Riflessioni Introduttive Chi ha dolori ha anche liquori, dice un proverbio viennese citato da S. Freud. È possibile sostenere, in un’ottica puramente psicodinamica, che l’assunzione di bevande alcoliche costituisce una sorta di automedicazione nei confronti del lutto, del dolore, del dispiacere e una modalità per legare l’ansia. 4 Cfr.: G. Pieretti, Città perfetta e crisi del razionalismo, Rivista: Sociologia Urbana e Rurale, Bologna, 2000. 5 Centro Alcolisti in Trattamento. 139 Ognuno combatte l’ansia e le proprie paure come può: ognuno ha i propri modi (o non modi) per fare ciò. Si potrebbe anche sostenere, in linea del tutto generale, che coloro che oggi si permettono di non mettere in campo strategie di automedicazione (quale è il ricorso all’alcol) si prendono un certo lusso. Ora se è vero che ognuno avrebbe ragioni più che sufficienti per ricorrere all’automedicazione, è anche vero che non solo l’alcol ma anche, ad esempio, le relazioni, possono risultare automedicanti. Relazioni nella accezione piena dell’etimo, vale a dire legami forti, che riempiono la vita. Non mi pare un caso che il C.A.T. sia un club che accoglie alcune famiglie (al massimo 12): un gruppo ristretto quindi, all’interno del quale possono avere luogo relazioni significative tra individui, nel convincimento che nessuno possa farcela da solo ad affrontare l’ansia e le proprie paure. C’è di più: senza l’aiuto della famiglia (sede delle relazioni profonde par excellance) si pensa, nella logica dei C.A.T., che non sia possibile farcela: tant’è che viene sollevato il problema della famiglia sostitutiva quando la famiglia (originaria od acquisita) non è presente, come nel caso delle persone senza dimora. Il club viene definito una «comunità multi-familiare inserita e aperta al territorio»6. Tale definizione ci apre ad un altro elemento: la comunità, vale a dire il territorio nella sua accezione più densa e coesa. Comunità, famiglia, legami forti costituiscono una sorta di automedicazione non 6 Hudolin V., De Stefani R., Folgheraiter F., Pancheri R., Club degli alcolisti in trattamento, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 1987. 140 medicale: qualcosa che non anestetizza i sentimenti, come accade invece con l’alcol, le droghe e le sostanze chimiche in genere, bensì valorizza i sentimenti, gli affetti, le emozioni. Affetti, sentimenti, emozioni, legami forti rappresentano elementi non controllabili, non prevedibili, possono dare sicurezza ma esigono impegno continuo e ininterrotto, forte coinvolgimento e disponibilità a mettersi continuamente in discussione. Alcol, droghe e psicofarmaci possono invece consentire di vivere “con il pilota automatico”, di percorrere una specie di strada ferrata molto prevedibile, al limite sempre uguale a se stessa, priva di sorprese, ma che può deragliare in ogni momento: coazione a ripetere, nel senso pieno del termine, e conseguente allontanamento di tutti quegli stati d’animo poco controllabili, inevitabilmente connessi ai legami forti: paura dell’abbandono, della perdita, senso di inadeguatezza, cogenza di responsabilità7. Coloro che sono all’interno di problematiche alcol correlate, sono pertanto intrisi di una sorta di sindrome da controllo8, portata alle estreme conseguenze. Anche se, ovviamente, non si vuole qui sostenere che tutti gli individui siano identici e che tutti riescano, bevendo, ad attutire in modo efficace il proprio naturale bisogno di dipendenza dagli affetti. Bisogno che, assai probabilmente, fa la propria comparsa tra le pieghe di una esistenza condotta per anestetizzare il proprio lato debole. 7 Morrone A, Latini O., Le persone senza fissa dimora: salute senza esclusione, in: Assessorato alle Politiche per la Promozione della Salute di Roma (Ed.), Armando Editore, Roma, 2000. 8 Cfr.: Lemert E.M., Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè, Milano, 1981. 141 Ricostruire la grammatica delle emozioni9 è il compito, non sempre esplicito, del lavoro del C.A.T., a partire da uno stile di vita improntato alla sobrietà (alcolfree). Il C.A.T. si manifesta, in quest’ottica, come un grembo accogliente ma non separato dal mondo il cui compito, tra gli altri, consiste nel proteggere la persona dalle ansie, facendogliele sì incontrare, ma in maniera protetta e prudente, graduale. Affrontare le ansie senza ricorrere all’alcol costituisce un deciso passo avanti nella strada di una graduale ripresa di fiducia in se stessi, nelle proprie capacità: nel convincimento che, non essendo soli, ma supportati dagli altri, è anche consentito deflettere e manifestare momenti di umana debolezza, che saranno appunto colmati dall’apporto degli altri significativi. La disponibilità a mostrare il proprio lato debole, o perlomeno a non occultarlo, rappresenta già una prima difesa nei confronti dei processi di caduta relativi alle problematiche alcol-correlate delle persone senza dimora. 6.3 Un percorso professionale personale: l’incontro con i club L’incontro con i Club ha segnato, nella storia dell’Associazione, una svolta importante, perché abbiamo cambiato il nostro punto di vista nel considerare i problemi alcol-correlati, ma, soprattutto, perché siamo cambiati noi, abbiamo 9 Hudolin V., Club degli…, Op. Cit. 142 incontrato nuovi compagni di viaggio, attivi in altre realtà. Questi incontri hanno creato contaminazioni importanti che hanno arricchito tutti e tutte le rispettive realtà di provenienza. Già solo da questa prima banale osservazione possiamo riconoscere il ruolo rilevante e moltiplicatore che il mondo dei C.A.T. ha avuto anche a Genova. Questa città deve l’impulso all’espansione dei Club alle persone senza dimora. La prima famiglia entrata a far parte del C.A.T. n° 2 vi fu invitata da una persona senza dimora che ne aveva conosciuto un membro in ospedale. Lo stesso Club ha accolto persone con capacità di verbalizzazione veramente esigue e le ha viste crescere. Questo metodo è “popolare”, cioè riesce ad accogliere uomini e donne con strumenti di relazione che in altre situazioni non sarebbero sufficienti neanche a fare le presentazioni. I punti forti dell’accoglienza nei Club, vista come priorità da salvaguardare e quello che una volta si chiamava patronage, secondo noi, hanno rappresentato e rappresentano irrinunciabili orientamenti. L’affetto e l’interesse per l’altro, la centralità della persona, ci ha colpito e accomunato fin dall’inizio e, crediamo, sia la vera forza di tutto il movimento. Questa centralità travalica il metodo stesso, che si fa da parte di fronte a questo valore, non si arrocca su regole rigide, punti di vista assoluti. È previsto che il modello cambi, cresca, si adatti alle esigenze e alla scoperta che può derivare dall’incontro con le famiglie e gli individui. Credo che questa capacità di crescere, di immaginarci migliori sia, la grande 143 eredità che il professore Hudolin ha lasciato: la responsabilità di non dispensarla con ricette, regole e teorie. Certo si può notare che questa attenzione alla persona è un elemento fondamentale che caratterizza l’approccio al problema da parte dell’Associazione. Infatti, la maggior parte delle persone che entrano in contatto presentano problemi di natura psichica e/o fisica e disagi relazionali dovuti all’alcolismo. Trattare alcolisti senza dimora è particolarmente difficile perché è necessario cogliere la multidimensionalità dei problemi (spesso di natura esistenziale) dei senza dimora e capire quale genere di aiuto e/o interazione necessitano le singole persone: questa è la ragione per cui l’A.S.M. ha trovato nell’approccio ecologico-sociale10, ai problemi alcol-correlati e complessi dei Club degli Alcolisti in Trattamento, una particolare sintonia di principi ed obiettivi. Utilizzo un punto di vista soggettivo, d’altronde questo è il metodo dei Club e dell’associazione, ciascuno vi è coinvolto in prima persona. Alla fine del 2000 in qualità di operatore al Centro di Ascolto di San Marcellino, che si occupava di accoglienza a persone in situazioni di povertà estrema ho avuto occasione di sperimentare personalmente la necessità di una pedagogia dell’incontro11. Arrivavano tradizionalmente da noi persone molto diverse tra loro (era difficile cogliere delle somiglianze). Il padre Carena, prima di noi, metteva nel pacco natalizio, accanto alla pasta, allo zucchero ed al panettone anche la bottiglia 10 Cfr.: Pieretti G., Città perfetta …, Op. Cit. Cfr.: La Rocca, La Pedagogia dell’Incontro, da Atti Convegno: “Dall’educabilità all’educazione umanistica interculturale”, Verona, 2001. 11 144 di vino. Si vedeva sfilare un piccolo esercito di personaggi speciali, che di tanto in tanto facevano intravedere, al di là dei segni esterni del logoramento e di quelli interni alla fatica di vivere, con le ferite tipiche dell’abbandono, scintille di originalità che oltrepassavano di lungo le mie esperienze, cognizioni, conoscenze culturali. Talvolta queste scintille si accendevano proprio parlando con persone che avevano bevuto: tra le righe strascicate di un discorso alterato dall’alcol, apparivano squarci di vita attraenti ed alcune volte entusiasmanti; ma questi squarci immediatamente si chiudevano perché l’alcol impediva di fare un discorso che andasse oltre l’immediato. Ritornavano immediatamente le richieste di soldi, l’aggressività, le lacrime, l’odore sgradevole nella piccola stanza dei colloqui. Tutto finiva lì, era impossibile procedere oltre. Restava nel cuore la nostalgia di una bellezza intravista, intuita, ma come inavvicinabile. Con le persone che bevevano era impossibile avviare un processo, mettere insieme una relazione in vista di una prospettiva di vita più dignitosa e bella. Nell’88 un obiettore del Centro, un giovane medico, era partito per fare un corso di sensibilizzazione dei C.A.T. ed era ritornato convinto dell’imperativo ricevuto di aprire un club. Presto fatto, i più incalliti bevitori attorno a san Marcellino, erano stati catturati dalla caparbietà e dall’entusiasmo di Maurizio, che aveva avviato un Club molto particolare, poco ortodosso: dentro quel club è esplosa la sofferenza comune che sapeva di strada, di abbandono, di nostalgie degli affetti. La puzza d’alcol, poco alla volta, ma anche abbastanza in fretta, ha fatto posto all’odore di umanità. Sul tavolo non più bottiglie ma le ferite delle persone, la 145 crescita della consapevolezza, l’inizio caparbio di nuovi progetti di vita, evidentemente fino ad allora insperati. In seguito, partecipo anch’io al corso di sensibilizzazione. Una sera incontrai in un Club, con alcune altre famiglie, un imprenditore di con sua moglie, nonché una persona senza dimora assistita dal Comune di Genova. La moglie dell’imprenditore beveva e non si capiva perché faticasse tanto a smettere. L’uomo di strada intervenne, come un abilissimo terapeuta famigliare, conducendo il marito ad ammettere d’aver messo fuori la moglie dall’azienda dove anche lei lavorava, per sentirsi più autonomo. Nessuno dei due aveva collegato l’alcol alla sofferenza di una donna che si sente diventata inutile: nessuno dei due aveva capito, fino a quel momento, che tutti e due erano coinvolti sulla scelta dell’alcol. Il piccolo uomo era stato grande, anche lui aveva vissuto qualcosa del genere, un giorno che, messo da parte, si era sentito completamente inutile. Ho terminato il corso con una nuova consapevolezza: le persone sulla strada potevano aver parola nelle dinamiche famigliari degli imprenditori. Le ferite talvolta aprono la strada al dialogo, la condivisione può diventare solidale, gli squarci di bellezza una volta intravisti, potevano diventare roccia su cui progettare. Bella cosa davvero! A rinforzo ed ulteriore chiarimento di quanto già viene emergendo, ci serviamo, qui di seguito, di alcuni brani significativi di alcune interviste a p. Alberto Remondini, Presidente dell’A.S.M. e della FIOPSD (Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora). 146 «La tradizione precedente alla nostra vedeva, tra le proposte degli aiuti alle persone sulla strada, anche quella di fornire loro delle bottiglie di alcol in occasione delle festività…ma il problema dell’alcol era veramente inaffrontabile»12. Tutto questo, naturalmente, fino alla scoperta dei Club ed al rapporto poi instauratosi. E prosegue: «[…] la gente, all’interno dei Club, si esprimeva con molta più scioltezza e rapidità rispetto a quanto non facesse nei colloqui al Centro D’Ascolto o nei percorsi che noi proponevamo»13. E’ poi venuto maturandosi una vera e propria proposta esistenziale e culturale: «oggi l’idea che a San Marcellino non si beve e che ci sia una proposta che va nella direzione di aiutare quelli che cercano di smettere di bere è un elemento oramai acquisito…credo che sicuramente più della metà abbiano problemi seri con l’alcol e credo che potremmo arrivare anche al 70%»14. E’ opportuno poi considerare un problema importante per le persone senza dimora che hanno problemi alcol-correlati, che ha fondamentalmente a che fare con la mancanza della famiglia. Ci sono anche situazioni nelle quali le persone non riescono a vivere con la vita di un Club come racconta p. Remondini: «Il metodo dei Club è una proposta fatta a famiglie, quando abbiamo a che fare con persone sulla strada, le famiglie normalmente non ci sono […] qualche volta questo tentativo è stato fatto, però normalmente questo non avviene, abbiamo provato tutta una serie di escamotages 12 Remondini A., Alcol e persone senza dimora, in Alcolismi, n. 1, Anno 2, ed. Coop. Il Gruppo, Treviso, 1994, p. 6-11. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 147 e di espedienti; le caratteristiche dei Club ci sono a tutti gli effetti, mancano le famiglie. È evidente che non ci sentiamo di sacrificare la realtà alla teoria, nel senso che di fatto funzionano. Non dovrebbero funzionare, secondo la teoria più ortodossa, però funzionano…noi diciamo che il legame che viene ad instaurarsi gradualmente con le persone è un legame di tipo comunitario»15, di fatto il Centro, la domenica, le feste, le attività, i luoghi di svago, il centro diurno, ecc., sono spazi dove la gente percepisce una sua appartenenza e talvolta percepisce questa appartenenza come un legame familiare che poi dura. L’A.S.M. ha sviluppato anche particolari rapporti e messo a punto regole di funzionamento che per certi versi somigliano a ciò che accade in una famiglia: certe volte non si fa entrare una persona semplicemente perché l’alito sa un po’ di alcol, ma non è alterato nel suo comportamento, ma perché c’è un contratto con lui attraverso il quale si intende fargli passare che il rigore e l’attenzione assoluta al non bere in quel momento sono talmente importante da pregiudicare il suo potere rimanere in una struttura. Tuttavia si fa distinzione tra situazioni differenziate; sostiene Remondini in un altro scritto: «In una comunità dove una persona sta da molto tempo, può anche rimanere avendo bevuto, entrando in casa e discutendo come avviene in una famiglia, senza venire messo fuori, salvo che non complichi tanto l’esistenza agli altri, ma con lui si approfitta per discutere e chiedere che cosa è successo. In un dormitorio dove il discorso della sobrietà, del non arrivare ubriachi è importante 15 Remondini A., Alcol e persone …, Op. Cit., p. 6-11 148 come elemento del contratto iniziale, è importante verificarlo con un certo rigore»16. 6.4 Il materiale empirico Il materiale empirico analizzato consta, di una parte quantitativa e di una parte qualitativa. La parte quantitativa dà conto dell’evoluzione della traiettoria di vita di alcuni soggetti in un arco di tempo determinato, dal punto di vista del loro rapporto con il C.A.T.. L’accostamento dell’approccio action research alla–realtà genovese ha permesso di raccogliere materiale successivamente elaborato. Da tale materiale è possibile evidenziare il ruolo decisivo del rapporto con il C.A.T., per quanto riguarda la linea biografica dominante, delle persone senza dimora seguite da San Marcellino. Il lavoro di San Marcellino, nella ricostruzione dell’attaccamento alla vita delle persone senza dimora seguite, è effettivamente stato corroborato dalla frequenza al C.A.T. da parte dei soggetti. Si è verificata pertanto una doppia contingenza: singolarmente considerati, San Marcellino e i C.A.T. sono bene, complessivamente San Marcellino e i C.A.T. sono meglio. E’ possibile sostenere infatti, alla luce del materiale empirico analizzato, che il lavoro dell’uno corrobori il lavoro dell’altro e che venga a crearsi una continuità 16 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità…, Op Cit. 149 di impegno, per il singolo soggetto seguito, che fa evidentemente scattare alcune molle nella direzione del cambiamento. A questo effettivamente si assiste: ad un positivo effetto cumulativo dei due, se possiamo così impropriamente chiamarli, trattamenti. L’uno migliora e consolida l’altro e, in buona misura, lo integra e a volte lo supplisce. La doppia contingenza o effetto cumulativo17.ha luogo perché vengono enfatizzate alcune caratteristiche comuni dei due approcci: tra essi, in primo luogo, il convincimento che non esiste cronicità, vale a dire che è sempre possibile, in generale nella vita di un uomo, cadere sì nell’abisso della propria autoreferenza ma, nello stesso tempo e in qualsiasi momento, risollevarsi In altre parole è sempre possibile una cambiamento, per l’alcolista senza dimora, alla stessa stregua di ognuno di noi. Ed è su questo che la combinazione del lavoro dell’A.S.M. e dei C.A.T. punta, con esiti positivi come testimonia il materiale empirico analizzato. In occasione di questa ricerca si è cercato di ricostruire l'esperienza che le persone in questi anni hanno fatto con i Club e restituirla in modo tale da offrire elementi di comprensione e riflessione tramite, raccolta di dati relativi alla frequenza delle persone in alcune strutture dell'Associazione San Marcellino, a come frequentano il Club (soli, ecc..), a come stanno o stavano, alla data dell'ultimo contatto con noi, al numero dei morti e all'età del decesso. Valutare "come stanno" richiama ad un certo imbarazzo e, alla fine, ci siamo 17 Cfr.: Remondini A., Alcol e persone …, Op. Cit. 150 orientati e rassegnati, a riferirci a tre grosse aree: - Gli abbandoni dal club, che peraltro non necessariamente significano ricadute, - Gli esiti medi che ci piace di più definire come rapporti incostanti con il Club, - Gli esiti buoni che ci piace di più definire come rapporti costanti con il Club. Il senso attribuito a queste categorie rappresenta un tentativo e ne siamo ben consapevoli, di fare una mediazione tra quello di san Marcellino, quello dei Club e quello della persona. A San Marcellino le persone con cui si è lavorato e che hanno orientato la loro vita verso una qualità migliore, sono quelle che hanno instaurato con l'Associazione un rapporto intenso e significativo per entrambi. Questa esperienza nasce dal rapporto con gli operatori, nelle comunità, con i volontari, nelle attività ricreative. Si crea, quindi, una rete di relazioni significative che, in quel momento e alla lunga, svolgono la funzione di veri e propri legami parentali, punti identitari fragili, delicati, attenti, ma soprattutto, intensi. Questa crediamo sia anche l'esperienza di quelle persone che sono state inviate al club e che lo hanno frequentato da sole. Abbiamo quindi pensato di ricostruire quantitativamente il loro rapporto con l'Associazione attraverso dati che riguardano i contatti con il centro di ascolto, il centro diurno e le situazioni alloggiative. Abbiamo individuato il mese di inserimento al Club e poi abbiamo monitorato il periodo di frequenza nelle strutture per i sei mesi prima del mese di inserimento, e per i sei mesi dopo. Abbiamo chiamato questo periodo: periodo campione. 151 Si è lavorato su un campione di persone inviate ai C.A.T. dalla Associazione San Marcellino corrispondente a 112 persone, dei quali 105 maschi e 7 femmine. Di esse, 97 sono andate sole, 7 accompagnate (da qualcuno di San Marcellino 2) 3 in coppia, 1 con un famigliare, 4 con un famigliare sostitutivo. Di essi sono ancora in contatto con l'Associazione 32 persone (più del 28%), non più in contatto 58 persone (quasi il 52%) ed infine sono decedute 22 persone (il 20%). L'età media del decesso è 54 anni (cosa su cui è opportuno riflettere comunque: rispetto ad un genovese qualsiasi, l'aspettativa di vita si abbassa di ben oltre vent'anni). E' da rilevare che i dati non riguardano gli utenti dell’Associazione che hanno avuto problemi alcol-correlati, ma riguardano direttamente coloro che è stato possibile ricostruire tramite archivio. 6.5 L’azione combinata Il lavoro dell’A.S.M. e dei C.A.T. permette di innescare, nel tempo, dei cambiamenti nel percorso di vita del soggetto che sfruttano le latenze evolutive del soggetto stesso. L’azione combinata aiuta tuttavia a far sì che tali cambiamenti, pur tra alti e bassi, continuino e, se possibile, si irrobustiscano nel tempo. Un risvolto importante del convincimento, direi empiricamente dimostrato, che la cronicità non esiste neppure per gli alcolisti senza dimora (o per i senza dimora alcolisti, al di là delle etichette), è tuttavia legato all’esito del “percorso 152 educativo” (anche se la definizione è impropria, parzialmente) dal punto di vista delle aspettative sia di dell’A.S.M. sia dei C.A.T.. Consapevoli o no che essi ne siano, infatti, entrambi i poli educativi non si aspettano una guarigione nel senso medicale del termine. Si aspettano anzi, o meglio non escludono mai, una o più possibili “ricadute” senza per questo considerare fallimentare il loro intervento. Qui bisogna capire bene. Non è che il loro intervento, dal punto di vista dell’autovalutazione, sia considerato positivo comunque, che cioè ci si contenti di una sorta di linimento delle sofferenze dei soggetti in carico in una specie di teoria (e di pratica) di riduzione del danno. Eppure esiste una sorta di certezza più o meno esplicita nel lavoro sia dell’Associazione sia dei C.A.T., che esce rinforzata nella azione combinata: ed è il convincimento, del tutto eversivo e scandaloso rispetto a molto sentire comune dei giorni nostri, che così come nella vita non esiste la cronicità non esiste neppure la soluzione una tantum dei propri problemi esistenziali, del dolore, del dispiacere, del senso di inadeguatezza, delle ferite dell’abbandono (autentico o percepito non importa). Questo comporta, e il materiale qualitativo mette straordinariamente in luce tutto ciò, una specie di continui alti e bassi, di miglioramenti e ricadute, ricadute e miglioramenti che danno in pieno il senso dell’autentica processualità della vita e che contraddicono ogni immagine di stabilità o di risultato (positivo o negativo) permanentemente acquisito. 153 6.6 Tra stabilità e processualità Ciò non significa che i passi avanti che vengono compiuti dai soggetti in carico non portino comunque, per loro, a dei benefici effetti: ma bisogna ben capire che i risultati positivi si acquisiscono nel tempo, con molto tempo. L’ammonimento del C.A.T. costituisce, da questo punto di vista, un esempio paradigmatico: “Io sono xy, non bevo da z tempo” significa sostanzialmente ricordare, in ogni momento, che si può tornare indietro, che il percorso è sempre in salita e che, comunque, non è mai in discesa. Significa anche che se si smette di pedalare ci si ferma e si può regredire, anche molto rapidamente. Significa però anche che si può sempre riprendere la salita e che quindi non esiste qualcuno immune né dalle possibilità di salita né dalle possibilità di discesa. La fiducia nella possibilità del singolo, tuttavia, è in entrambi i trattamenti, e più ancora nella combinazione di essi, corroborata dalla azione comunitaria18: entrambi gli interventi, sia quello dell’Associazione sia quello del C.A.T. possiedono infatti forte valenza comunitaria. Non si tratta di terapie od interventi individualistici, anche se sono individualizzati, ma sono anzitutto Milieu Therapy (cioè terapie ambientali) di tipo comunitario. In comunità c'è accoglienza, incontro, condivisione; la comunità è il luogo dei legami ove ognuno può trovare riferimento non come persona (ciò che appare) ma come individuo (ciò che è o che, tramite la liberazione delle sue latenze evolutive, 18 Martini E.R., Sequi R., Il lavoro nella comunità, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988. 154 può essere o sta per essere). E’ presente in comunità, soprattutto un'azione educativa in cui non vi è distinzione alcuna, se non eventualmente funzionale, tra chi educa e chi è educato. Il destinatario dell'azione educativa è come me, nella comunità. Quando dico che non vi è distinzione alcuna tra chi educa e chi è educato voglio quindi sottolineare che non vi è distinzione ontologica alcuna, che non vi è alcuno stupore, alcuna meraviglia e neppure può esserci alcuna asettica presa di distanza. Non vi è distinzione ontologica, vi è empatia. 6.7 L’azione comunitaria La comunità poi esclude la separazione tra affetto e ragione, ma in particolare nella comunità non vi è la politica del confronto, la competizione (aperta o implicita), e soprattutto non vi è selezione: ciò perché manca ogni criterio selettivo che consenta di stabilire differenze di valore tra un individuo e un altro, tra un'esperienza e un'altra19. Vi è da capire che, nella comunità di vita o educativa (nel senso dell’etimo greco), non vi è la pratica del confronto, non vi è alcun criterio di selezione (più o meno naturale) proprio perché vi è rispetto per la pratica della vita e per l’idea di vita che già prevede la diversità, una diversità, come si è detto, "cieca" perché originaria, del tutto priva di ogni esperienza di 19 Martini E.R., Sequi R., Op. Cit. 155 verifica per tramite del confronto o del paragone. Lungo e difficile è certo il lavoro che si deve compiere, faticosa l’azione educativa per far capire, a ciascuno, che esiste anche la possibilità di rispettare la vita in quanto tale, qualcosa che è ben al di qua di ogni confronto, di ogni competizione, di ogni gara, di ogni carriera e quindi di ogni "Falso Sé". È importante, per chiunque e in particolare per chi ha vissuto nella emarginazione, sapere che non ci si deve avvicinare ad un tipo ideale, che non c’è un metro rispetto al quale confrontare le proprie misure ma che invece tutto ciò che conta è prendersi le proprie misure, per ciò che afferisce se stessi, aiutati dalla azione comunitaria, come s’è detto, a proprio tempo ed a proprio modo. Tutto questo è comunque possibile se, e solo se, si è all’interno di un sapere della vita. Un sapere della vita infatti sa bene che la pratica del confronto competitivo non è priva di gravi conseguenze su ogni singolarità vivente, proprio a partire dal fatto che ciò è quanto di più strutturalmente estraneo alla vita stessa20. 20 Remondini A., Il concetto di multidimensionalità…, Op Cit. 156 6.8 Il ruolo degli altri nel cambiamento Nell’analisi del nostro materiale empirico, appare evidente poi che sono gli altri, se e nella misura in cui li si frequenta, sia gli altri significativi dell’Associazione (gli operatori) sia gli altri generalizzati21 (gli altri utenti di San Marcellino e i membri del Club, di cui credo debba essere considerato parte uguale anche il servitore-insegnante), a costituire uno specchio dei propri personali atteggiamenti e comportamenti ed a rappresentare quindi una continua possibilità di autocorrezione di essi, cosa ben diversa dal doversi uniformare a parametri o traiettorie predefinite. E’ una sorta di looking-glass-Self (simile a quello di cui parla l’Interazionismo Simbolico22) quello che viene a costituirsi nella azione combinata di San Marcellino e del C.A.T.: in entrambe le esperienze, che cumulate forniscono una sorta di valore aggiunto, la soggettività dell’individuo in trattamento viene continuamente rispecchiata dagli altri (ripeto: sia generalizzati sia significativi). E’ importante che l’individuo, il quale ad un certo punto della propria vita si è trovato in condizioni estreme, sappia che non deve intraprendere un cammino basandosi esclusivamente sulle proprie forze ma ricevendo dagli altri che gli stanno intorno un continuo feedback, ma anche appoggio, comprensione e soprattutto la percezione concreta che si può effettivamente compiere passi avanti di tipo evolutivo. 21 22 Cfr. Mead G.H., Mente, Sé e Società, Giunti, Firenze, 1972. Ibidem. 157 Sotto questo particolare profilo, che potremmo definire della rassicurazione, il ruolo del C.A.T. assume un peso straordinario. Si tratta infatti di una rassicurazione non solo verbale e, per così dire, cognitiva, ma in realtà di una rassicurazione proveniente da una autentica testimonianza (le persone, facenti parte del C.A.T., che sono astinenti da molti anni): la presenza concreta di persone, al club, che da molto tempo riescono a vivere senza bere vale certo, per i senza dimora alcolisti, molto di più di altre esperienze. Nel club, infatti, gli alcolisti senza dimora hanno la possibilità di ritrovare fiducia in se stessi, tramite la consapevolezza che le derive esistenziali degli altri alcolisti (pur non senza dimora) presenti al club hanno in ogni caso toccato punte verso il basso che, magari, solo loro pensavano di avere toccato. Questi ultimi inoltre possono, concretamente, vedere che altri ce l’hanno fatta, a vivere senza bere, e questo costituisce, anche in termini comportamentistici, un rinforzo positivo decisivo. Il materiale empirico, tuttavia, lascia comprendere come, per gli alcolisti senza dimora, il solo lavoro del C.A.T., pur importantissimo, non potrebbe essere sufficiente. Questo soprattutto per la mancanza (reale o fantastica) della famiglia. I senza dimora alcolisti, nella più parte dei casi, sono senza famiglia: non tanto dal punto di vista anagrafico, quanto sostanzialmente. Poco importa sapere, qui, se sono stati abbandonati, se hanno abbandonato o se credono di essere stati abbandonati: il risultato non cambia. 158 6.9 Un approccio all’insegna della sobrietà In questi casi l’Associazione va a costituire, con la sua azione comunitaria, una sorta di clima famigliare, se non di famiglia vera e propria che, nell’ottica del C.A.T. stesso, appare indispensabile per una evoluzione della situazione. Venendo ad un altro aspetto, si deve sottolineare anche, tra i risultati dell’azione combinata dei due interventi, in termini di valore aggiunto, lo sviluppo di una serie di pratiche di vita che testimoniano concretamente l’acquisizione e l’interiorizzazione di una cultura della sobrietà. Una decisa sobrietà quanto agli stili di vita e di consumo caratterizza l’approccio dell’A.S.M. e così il lavoro del Club relativo all’alcol viene rafforzato da un messaggio generale che i due poli inviano, che significa pressappoco che la vita può essere affrontata senza additivi chimici, da un lato ma anche senza erotizzazioni consumistiche o stili di vita sopra le righe, dall’altro. Anche questo elemento contribuisce a corroborare la sensazione di un cammino fatto davvero di piccoli passi, avanti e indietro, su e giù come in uno yo-yo, di acquisizioni provvisorie che, nel lunghissimo periodo, diventano poi più o meno permanenti, ma con molta fatica. Viene soprattutto trasmessa la sensazione di ossessività e di ripetizione. Diverse volte, leggendo i verbali degli incontri e dei colloqui tra gli operatori dell’Associazione e gli alcolisti senza dimora, si potrebbe sovrapporre, quasi in fotocopia, un resoconto - mettiamo - dal 1990 con uno del 1997, relativo allo stesso utente. 159 Questa sensazione, certamente autentica, provoca due reazioni molto diverse: la prima, diciamo così pessimistica, che non si muove, che non si sta muovendo nulla e che quindi il tempo che passa, ed il lavoro che si svolge, serva davvero a poco. La seconda reazione, forse più ottimistica, consiste nella comprensione del fatto che, all’interno di un cammino evolutivo, i tempi sono lunghissimi e che la staticità, la ripetizione, da parte dell’utente, rappresenta la messa in campo di un più che normale meccanismo di difesa. Tale meccanismo è imputabile alla paura che i cambiamenti che il soggetto ha messo in atto lo destabilizzino, non gli consentano cioè più di affrontare la vita tramite risposte note. Quel che voglio dire, in realtà, parlando delle due reazioni così diverse, è che ci troviamo di fronte alla ricomparsa di un processo di coazione a ripetere molto forte, nel corso del lavoro su se stessi che gli utenti alcolisti senza dimora attuano nella cornice dell’Associazione e del C.A.T.. Di tutto il materiale analizzato, sono proprio i resoconti dei colloqui al Centro di Ascolto a far emergere, molto più che nelle interviste a operatori e utenti o negli indicatori biografici oggettivati questo senso di ripetizione, di fatica e di un tempo che passa proficuamente o improficuamente. Si deve in realtà capire, anche se ciò non è semplice, che il tempo che passa è sempre e comunque proficuo, e che le ripetizioni di atteggiamenti, comportamenti e richieste (a volte assurde) da parte degli utenti, in realtà sono il segnale di una evoluzione, comunque, in un cammino maturativo che è, per sua intima natura, lento e irto di difficoltà. 160 Se il cammino non è semplice e tantomeno lineare, tuttora, credo non si debba per questo considerarlo un cammino fallimentare e tantomeno un cammino insoddisfacente, ovvero che si debba considerare il lavoro compiuto sul soggetto una sorta di semilavorato e non di prodotto finito. Dobbiamo, per capire, cercare di toglierci dalla testa l’immagine della normalità che circola nel nostro sociale ed anche tra noi singoli stessi. Ognuno a volte fa cose ripugnanti ed ha l’opportunità di capirlo, prima o poi. Eppure la capacità di rimozione è talmente forte da permettere di dimenticare ciò che ci fa vergognare profondamente; ci consideriamo quindi con una certa benevolenza, solitamente: essa viene meno solo nei momenti di crisi, in cui riusciamo ad avvertire compiutamente la nostra umana pochezza, l’insufficienza della nostra capacità relazionali, la tendenza ad avvitarci nelle nostre proprie personali irrilevanti preoccupazioni. Eppure, nel momento stesso in cui si esce dall’ansia della crisi, si è portati a dimenticare quei sentimenti che si era potuto provare, con lucidità ma anche, inevitabilmente, con dolore. Tanto forte è la paura del dolore ed il bisogno di mantenersi entro binari quotidiani di prevedibilità che quei momenti di crisi, dolorosi eppure preziosissimi per la crescita di ognuno di noi, vengono rimossi. 161 6.10 Percorso educativo e rimozione È la rimozione delle proprie personali situazioni di crisi che fa enucleare un metro di valutazione delle crisi altrui completamente distonico da quello usato per valutare le proprie. Per valutare le crisi degli altri, e soprattutto per avere certezza del superamento di tali crisi, sempre da parte degli altri, ci attendiamo indicatori affidabili, osservazioni prolungate e ripetute nel tempo. Ciò, intendiamoci, va bene, anzi è assolutamente necessario. Ma non è sufficiente da un importante punto di vista: non si possono applicare due pesi e due misure. Ovvero: un peso e una misura per chi ha avuto crisi “dichiarate” e ufficiali” e un altro peso e un’altra misura per chi le sue crisi è riuscito a tenersele per sé e a camuffarle in vari modi. Se è pertanto giusto compiere verifiche accurate delle condizioni di una persona che, ad esempio, è stato tossicodipendente od alcolista per poter capire se è venuto a capo di quel tipo di problemi, non si può ritenere altrettanto giusto imporre su altri dei parametri di valutazione che non ci si sognerebbe di applicare a se stessi. Proprio su questo progetto di ricerca-azione che si occupa del binomio alcolismo senza dimora bisognerà ragionare su cosa intendiamo con il termine: aver superato i propri problemi. E, probabilmente, sarà opportuno dotarsi di un ulteriore punto di vista: in questo campo il “lavoro finito” o “prodotto chiavi in mano” non esiste, perché in realtà, all’interno della condizione umana, prodotti finiti non esistono ed esiste invece, come prassi, l’imperfezione, l’incompiutezza, l’inadeguatezza. 162 È un saggio di Sigmund Freud23a porsi per la prima volta compiutamente il problema. In tale lavoro, Freud si interroga, senza pervenire a una risposta standard, sulla durata del trattamento psicoanalitico, e anche sulla possibilità di pervenire a una totale guarigione, nonché sulle resistenze che ogni paziente presenta allo stesso trattamento. Ovviamente, le considerazioni freudiane valgono per il trattamento psicoanalitico, e sono da considerarsi eventualmente esaurienti e definitive quanto al momento in cui vengono scritte. Impossibile, dunque, generalizzarle in assoluto; ancora più arduo sarebbe poi considerarle qui come l'unico punto di riferimento, per molteplici ragioni e in particolare per la specificità della popolazione considerata, nonché per il fatto, evidente fin che si vuole ma che mette conto tenere in ogni caso in considerazione che non è previsto, né nel caso dell’Associazione né in quello del C.A.T., un rapporto terapeutico strettamente duale, tra un solo paziente e un solo terapeuta. Nel saggio citato, Freud solleva un problema davvero comune a ogni terapia e che, credo, distingue significativamente l'ambito del people processing da quelli più specificamente sociosanitari, che consiste in realtà nella definizione del termine guarigione. Mentre infatti nella medicina, soprattutto nella tradizionale medicina della terapia, è possibile fornire, per una specifica patologia, una definizione pressoché standard dei parametri che interessano la guarigione, ed esistono quindi strumenti diagnostici (quanto essi siano effettivamente affidabili non ci riguarda) per 23 Cfr.: Freud S., Analisi terminale e interminabile, in S. Freud, Opere, vol.XI, Boringhieri, Torino, 1979. 163 sostenere se si è pervenuti a una guarigione, ed è pertanto possibile prevedere tempi medi di durata della terapia, o dell'insieme delle terapie, necessarie per pervenire alla guarigione stessa, così non è per l'ambito delle terapie comunque afferenti il people processing, nonché per le cosiddette patologie della modernità. In tali ambiti, guarigione e durata della terapia assumono un significato fortemente individualizzato, variano da persona a persona, anche se ciò non significa assolutamente che i due termini siano evanescenti e inadatti al campo specifico di cui si parla. Ma vi è poi un altro fattore distintivo, che demarca l'ambito delle terapie afferenti al people processing dai campi più propriamente sociosanitari e soprattutto dalle terapie medicali. Tale fattore riguarda la inscindibile relazione tra guarigione e durata della terapia, negli ambiti di cui si stiamo occupando. Vi è una relazione diretta tra guarigione e durata della terapia24 perché, mentre in molte terapie di stampo medicale non molto è lasciato al contributo del paziente, negli ambiti del people processing il contributo soggettivo del paziente è assolutamente decisivo. Tale fenomeno è imputabile alle resistenze che il paziente, ogni paziente, il migliore dei pazienti, necessariamente oppone allorché le patologie che lo affliggono non siano di tipo evidentemente e meramente organico. Ogni paziente ha in sé forti spinte che lo porterebbero ad accontentarsi cioè di risultati parziali e provvisori che in realtà non lo porterebbero mai fuori dal nucleo 24 Cfr.: Donati P. (a cura di), La cura della salute verso il 2000, F. Angeli, Milano, 1989. 164 di problemi che egli stesso ha, almeno in parte, veduto, visto che a un certo punto ha deciso (non importa per quali ragioni) di curarsi, vale a dire di chiedere aiuto e di entrare in una relazione terapeutica. Il paradosso dell'alcolista di cui parla Gregory Bateson: «Sono stato bravo, posso premiarmi con un goccetto»25 non costituisce affatto una peculiarità dell'esperire vivente degli alcolisti: esso rappresenta il tratto comune delle cosiddette patologie della modernità. Tale fenomeno trova testimonianze nel materiale empirico raccolto. 6.11 Prevenzione e ricerca: un circolo virtuoso Pur non volendo citare come paradigma ciò che accade nella scienza medica, non si può non rilevare il gap tra quest’ultima e le scienze sociali sul piano non tanto della ricerca in generale, ma del legame pratico tra la ricerca ed i fenomeni esaminati. E’ opportuno notare che l’idea di prevenzione dei fenomeni, nelle scienze sociali, sembra slegata dalla ricerca e dai risultati di quest’ultima. Il caso della ricerca di cui qui parliamo sembra aprire una finestra interessante anche per le stesse scienze sociali, nel senso sopra indicato: potendo essa essere letta anche come ricerca di follow-up, ci dice quali sono state le buone pratiche che, nel tempo, hanno permesso ad un buon numero di persone senza dimora con 25 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi Edizioni, Milano, 1976. 165 problemi alcol-correlati di sopravvivere e, in parecchi casi, di ritrovare voglia di vivere e senso della vita. Come vedremo, ricerca di follow-up e prevenzione hanno tra loro, o possono avere nell’ottica qui proposta, un legame molto stretto. La prevenzione - primaria, secondaria e terziaria - costituisce un pilastro della cultura socio-sanitaria italiana almeno a partire dalla L. 833\78, la legge di riforma sanitaria. Tuttavia è il caso di sottolineare che, mentre in medicina il ruolo della prevenzione è evidente e consolidato, e così pure i contenuti di essa, ed è inoltre accertata la sua funzione dal punto di vista del mantenimento della salute, le cose stanno in modo ben diverso nel campo delle scienze sociali. In esse, la stessa definizione di prevenzione è vaga ed incerta. Può essere utile notare come, in medicina, le strategie e le azioni preventive derivino, in realtà, dallo studio cumulativo dei decorsi di specifiche malattie, vale a dire da efficaci ricerche di follow-up, ripetute nel tempo. Non nascono quindi, in medicina, le azioni preventive da teorie, più o meno raffinate, ma possiedono una forte circolarità con le ricerche sugli effettivi andamenti delle singole specifiche patologie nel tempo. Prima si capisce cosa “fa bene” e cosa “fa male” e, successivamente, si elaborano le strategie per rafforzare, in termini di prevenzione, ciò che fa bene e per scoraggiare, sempre in termini preventivi, ciò che fa male. Poco spazio è lasciato alle astrazioni e alle intuizioni, per brillanti che esse possano risultare. In medicina quindi si verifica la cosiddetta circolarità tra ricerca e prevenzione, ove è da sottolineare che il “primo movimento” è certo la ricerca, che poi si traduce in prevenzione ed infine in 166 ricerca sugli effetti delle strategie e delle azioni preventive messe in campo. In ogni disciplina consolidata, la conoscenza procede tramite prove ed errori, verso una cumulatività della ricerca scientifica. Nate in medicina, le ricerche di follow-up, cioè di ricaduta, hanno lo scopo di valutare l'efficacia dei trattamenti che hanno la finalità di guarire o di attenuare il peso di specifiche patologie. Le ricerche di follow-up, pertanto, costituiscono un test di efficacia rispetto a un trattamento, o ad una combinazione di trattamenti. Una ricerca di valutazione di efficacia, in sintesi, è si specifica ma non può in ogni caso partire da zero e prescindere dalla definizione comune, e scientificamente consolidata, del fenomeno studiato. Non si può in una ricerca di questo tipo, cominciare sempre da zero, fare insomma tabula rasa. Se questo accadesse all'interno delle discipline in cui essa è nata, la valutazione di efficacia avrebbe prodotto ben pochi risultati26. Questa ricerca-azione dà conto di una attività molteplice nei confronti dell’alcolismo, entro la cornice della vita senza dimora, che è venuta consolidandosi nel tempo per prove ed errori: ciò significa che non si è partiti da dogmi e che si sono scandite poi alcune certezze nell’approccio attraverso il fare di molti anni. Lo stesso incontro con il metodo Hudolin (e con lo stesso V. Hudolin in prima persona) è avvenuto per esigenze pratiche, avendo compreso l’A.S.M. che l’alcolismo, entro la vita senza dimora, non riusciva ad essere affrontato attraverso un approccio tradizionale, come effettivamente 26 Cfr.: Guidicini P., Pieretti G. (a cura di), Tra marginalità e povertà. Uno studio sulle politiche di intervento pubblico a Ravenna, Franco Angeli, Milano, 1988. 167 l’Associazione aveva fatto nei primi anni27. Così ovviamente è stato con i Club, conseguenza logica e per certi versi inevitabile dell’incontro con V. Hudolin: il rapporto si è sviluppato, per così dire, naturalmente e si è evoluto per ragioni eminentemente pratiche e verificate in termini di follow-up. Tutto ciò, infatti, dimostra, oltre ogni interpretazione soggettiva, sia nella parte quantitativa sia nella parte qualitativa, l’efficacia dell’azione combinata dell’A.S.M. e dei Club nel tempo, come già abbiamo evidenziato: ciò che qui va aggiunto è che lo dimostra nei termini inequivocabili di una ricerca di follow-up. Il follow-up dimostra che vi è elevata capacità di far rimanere agganciati soggetti alcolisti senza dimora. In questo senso si tratta di una attività di successo. E’ anche sconsolante, l’esito del follow-up, per coloro che, possedendo una immagine eufemistica e metafisica della condizione umana, si aspettano guarigioni a tutto tondo e magari pure perfette, proprio perché pensano che il binomio senza dimora-alcolismo sia una malattia. Da questo particolare punto di vista, nonostante gli indiscutibili passi avanti compiuti da molti soggetti seguiti negli anni, qualcuno avrà sempre qualcosa da dire. Sano/malato, normale/patologico, e via di questo passo, appaiono invece a chi scrive come schematismi binari da abbandonare in fretta, dovendoli invece sostituire, soprattutto nel caso presente, con alcune interpretazioni meno dogmatiche. In altre parole si dovrebbe, come spesso accade per ciò che afferisce 27 Cfr.: Remondini A., Alcol e persone …, Op. Cit. 168 la vita interiore, sostituire gli aut/aut con la logica et-et28. Ciò significa che è possibile, nel corso degli anni, ottenere una sorta di stabilizzazione che permette una sopravvivenza certa e spesso anche una vita dignitosa senza tuttavia garanzie assolute rispetto al rischio di ricadute (nell’alcolismo, nella vita senza dimora o più spesso in entrambi). Tali ricadute però, a ben guardare, non vanno considerate ricadute in senso pieno se, come è accaduto spessissimo negli anni, permane l’aggancio con l’A.S.M e/o con i Club. Diciamo questo perché, avendo ben chiara la situazione di partenza dei soggetti di cui parliamo, già il mantenimento di un rapporto o, se si preferisce, di una relazione terapeutica, costituisce un indicatore di successo. Il presente lavoro di ricerca-azione, infatti, propone a mio avviso una ridefinizione di successo nel trattamento, da cui è assente un approccio medicalizzante, del tutto estraneo dalle intenzioni. Tuttavia tenendo presente che lo scopo della ricerca non è in se quello di “dare numeri”, si può in ogni caso sottolineare che, pur in un quadro di accoglienza e promozione umana, i risultati vanno anche visti in termini di efficacia della proposta dell’Associazione San Marcellino. Se al termine proposta si sostituisce il termine trattamento il gioco è fatto. Qui efficacia significa capacità di tenere agganciati i soggetti nella prospettiva di una loro evoluzione ed autonomizzazione, da ottenersi comunque con i loro tempi ed i loro modi e pertanto in un arco temporale ben ampio. Efficacia significa 28 Cfr.: Remondini A., Alcol e persone …, Op. Cit. 169 anche operare nei termini della azione educativa. L’azione educativa appare evidente, in termini di efficacia, dal materiale analizzato. Educare, dal latino educere, vuol dire condurre fuori, portare fuori, fare emergere ciò che di migliore esiste già in una persona: non vuol dire, quindi, educare, sostituirsi a lui e tantomeno cercare di fargli fare o pensare cose che non fanno parte del suo patrimonio biopsichico. Significa aiutare a liberare il soggetto a liberare le latenze evolutive presenti e inabissate o non ancora emerse. Con ciò viene in luce la funzione di quello che oggi si chiama approccio dell’accompagnamento sociale29 che, applicato al contesto del presente lavoro, significa accettare, per gli utenti, da parte dell’A:S:M., un percorso lungo e ondivago, in ogni caso non lineare. L’affiancamento degli utenti ha significato non sottoporre gli stessi a pressioni selettive di sorta, né di natura temporale (“devi fare questo entro un tempo prestabilito”) e tantomeno dovute ad una logica strettamente condizionale (“io ti do questo se tu fai quella certa cosa”), che potremmo definire con il termine logica del rientro. Non promuovere una logica condizionale non vuol dire, si badi bene, da parte dell’Associazione, sposare una logica assistenzialistica in cui ogni atteggiamento dell’utente viene accettato o addirittura rinforzato. La stessa logica di funzionamento dei Club trova, con tale agire, notevoli punti di convergenza: non vi è mai una selezione permanente, così come non vi è mai l’attribuzione di una patente di guarigione a chi frequenta il Club, che è anzi 29 Cfr. Franchini R., Progetto educativo …, Op. Cit. 170 invitato a definirsi in permanenza alcolista e quindi a portarsi addosso for ever il segno della propria imperfezione . Si prende atto di una condizione umana che, come tutte, è attraversata dal solco di una mancanza e che, diversamente da molte, viene invitata a tenere a mente quel solco. Si può affermare che il lavoro dell’Associazione, e dei Club, nella loro azione combinata, tende a prevenire quello stato, così frequente e pur così poco maturativo all’interno della condizione umana, che la psicoanalisi lacaniana chiama beanza30. La beanza, che potremmo forse definire come una sorta di soddisfatta contemplazione di se stessi, viene intesa come il miraggio della padronanza delle proprie funzioni. Ovvero, in parole molto più povere di quelle di Jacques Lacan: il senso di dominio e di controllo, la sopravvalutazione di sé, il mancato senso del limite, l’illusione di non dipendere emotivamente da nessuno, l’idea grandiosa e magniloquente di “fare il proprio gioco”. Tutti questi si configurano come stati d’animo, sensazioni, umori che, come ben sanno gli operatori che si occupano di alcolisti senza dimora, costituiscono un sicuro habitat per lo sviluppo delle derive biografiche dell’emarginazione adulta grave. Nei percorsi nell’emarginazione adulta grave, nelle derive biografiche delle povertà urbane estreme, nei processi di decomposizione ed abbandono del Sé si riscontra frequentemente infatti una sorta di atteggiamento delirante che suona “tanto io ce la faccio da solo” che spesso, e non solo paradossalmente, si accompagna ad una 30 Lancan J., Una procedura per la passe, Rivista: La psicoanalisi, n. 17, Roma, 1995, p. 21. 171 richiesta di aiuto incondizionato nei confronti di strutture quali San Marcellino. E’ proprio smontando pezzo per pezzo tale idea prevalente (“farcela da soli”, “bastare a se stessi”) che l’azione educativa rivela la sua efficacia: né il volto compiaciuto della beanza e tantomeno il volto duro e metallico di chi non deve chiedere mai possono consentire un recupero della propria dimensione umana, senza la quale il recupero della mera dimensione sociale appare un risultato parziale. 172 Quando i pazienti entrano nel mio studio li accolgo a mente sgombra e li esamino per vedere chi e che cosa sono e perché sono venuti senza dare niente per scontato. Guardo semplicemente una persona, so soltanto che ho di fronte un essere umano. Milton Erickson CAPITOLO 7 LA RELAZIONE EDUCATIVA 173 7.1 La “pratica comunitaria” Il percorso proposto, pur affermando l'astinenza come unica soluzione di benessere, consiste nell'accompagnare e "scortare" la persona umana nella propria personale volontà di esistenza e nell'orientamento o riorientamento della propria vita quotidiana, consiste nell’accompagnare il soggetto a prendersi cura di sè. L’idea di base è quella di liberare l'individuo dal senso di colpa, risvegliando le sue capacità nascoste e dimenticate nel campo lavorativo e relazionale1. Restituire il gusto e la voglia di rivalutare l'essere di ciascun individuo con gesti di servizio e solidarietà, in cui la persona è coinvolta nelle relazioni con gli altri e agisce mediante la collettività: è questo il motore principale di tutta la “pratica comunitaria". Queste dichiarazioni di principi e di intenti rappresentano, in qualche modo, non solo la conferma della nostra adesione al modello precedentemente descritto, ma anche la convinzione che come il disinserimento dalla collettività è un processo attivo di degrado ed accumulo di sconfitte, allo stesso modo il reinserimento è un atto imposto dalla persona, è l'atto di cambiare, l'atto di produrre. 1 Remondini A., Alcol e persone…, Op. Cit. 174 7.2 Una esperienza educativa La storia di Giulio, un’adulto di 34 anni, fornisce un esempio di un’esperienza di relazione e di intervento educativo. La persona presa in considerazione è alcolista con un disturbo di personalità definita: patologia borderline2. L’inserimento di Giulio al Centro San Marcellino è avvenuto “per disperazione” dopo poco più di un anno che si trovava “in mezzo ad una strada”. Nel primo colloquio Giulio, in tono secco e deciso, comunica la sua ferma intenzione di non voler frequentare nessun centro per alcolisti: “Non voglio andarci, non è quello il problema, ho solo bisogno di un pasto, sono le circostanze che mi obbligano a chiedere un aiuto materiale, non sono un alcolista e non sono matto……mi hanno visitato un sacco di psicologi e psichiatri fin da piccolo, non capiscono, ho tentato il suicidio un paio di volte e mi hanno legato ad un letto di un reparto di psichiatria e imbottito di farmaci, sono stato male come un cane”. In generale, una presenza in struttura di un adulto annunciato da una doppia diagnosi (alcol e malattia mentale), è, negli ultimi tempi, una realtà che si manifesta sempre più frequentemente. La storia di Giulio, ottenuta attraverso la sua auto autobiografia, nei vari colloqui presso il Centro di Ascolto esprime chiaramente le difficoltà all’interno del nucleo 2 Cfr.: Kernberg O.F., Disturbi Gravi della Personalità, Boringhieri Editore, Torino, 1984. 175 familiare del ragazzo, strettamente correlate alla sua patologia e alla sua alcoldipendenza. Il quadro familiare si presentava caratterizzato da una certa distanza affettiva da parte dei genitori, con un’eccessiva rigidità di ruolo, legata ad un ambiente socioeconomico elevato. Giulio in diversi colloqui sottolineava la difficoltà presente nel suo mondo familiare: la figura paterna era descritta come “autoritario e poco presente”, la figura materna definita come fredda e anaffettiva, delegando, troppo spesso secondo Giulio, l’accudimento, dei figli a personale di servizio. Spesso ha dichiarato di sentirsi poco compreso nei suoi reali bisogni dai suoi familiari, nonostante economicamente potesse usufruire di molte disponibilità. Tale quadro familiare risponde molto bene alla famiglia descritta da Grinker e Werble3 e dell'interpretazione familiare-gruppale della personalità borderline dentro la quale Giulio non poteva che assumere uno stile di vita sadomasochistico, funzionante come difesa nei confronti di un’esperienza familiare distorta. L’aggancio iniziale, ottenuto concedendogli un “buono pasto” e accogliendo la sua rabbia, continuò e solo lentamente Giulio accettò di entrare in dormitorio; il suo arrivo non seguì la solita trafila. Giulio veniva accompagnato da una diagnosi psichiatrica che attestava una sintomatologia Borderline. Pure essendo quindi uno sconosciuto, come tutti gli utenti che arrivavano, era stato chiaro subito a tutti che 3 Werble B., Dyre RC, The Borderline Syndrome, Basic Books, New York, 1981. 176 non era una persona “qualsiasi”. L’attenzione che sarebbe stata diretta sul caso sarebbe sicuramente stata diversa dalla norma. 7.3 La storia Giulio ha 34 anni, un disturbo di personalità e un problema di abuso di alcol. E’ stato adottato all’età di otto mesi da una famiglia di imprenditori genovesi. La famiglia aveva già in precedenza adottato una bambina di due anni più grande. Della sua adozione Giulio dice di saperlo da sempre e che ogni volta che sua madre glielo ricorda gli viene da piangere di “felicità” perché vede sua madre come una vera madre, la sentiva vicina ma nello stesso tempo descrive un rapporto materno freddo e distaccato; la madre pur essendogli fisicamente più vicina del padre, viene percepita da lui sempre ad una certa distanza affettiva che definisce “freddezza”. Tale immagine contrastante della figura materna esprime la capacità di vivere unicamente delle relazioni oggettuali patologiche4. Per effetto della scissione, Giulio non è in grado di considerare nell’altro, in questo caso la madre, l’insieme delle qualità positive e negative. In lui prevalgono rappresentazioni degli altri contraddittorie che si alternano impedendogli di “riunire l’oggetto” nelle sue parti buone e cattive. 4 Cfr. Kernberg O.F., Op.Cit 177 La figura paterna è descritta lontana e fisicamente assente per motivi di lavoro. Giulio ha sempre vissuto i genitori come persone molto “inquadrate”, che seguivano in modo rigido le regole del loro ambiente socio-economico e politico. Non si è mai sentito di far parte veramente di questa famiglia, quando veniva sgridato dalla madre, pensava che lei lo facesse perché non era figlio suo. Anche dai parenti (zii, cugini) non si è mai veramente sentito accettato ed ha sempre pensato che fosse perché era figlio adottivo. L’unica persona con cui sente di aver avuto un rapporto autentico è stato il nonno che adesso è morto. Fin da bambino Giulio aveva mostrato segni di oppositività e di difficoltà relazionale con i genitori, la sorella e i coetanei. Aveva sempre manifestato insofferenza verso le regole, vissute come costrizioni, in tutti i contesti educativi in cui si era trovato: scuola, parrocchia, scout, ecc. Si descrive come un bambino molto sensibile, che si comportava male perché non si sentiva mai all’altezza della situazione. Il rapporto con la sorella è stato condizionato da questo senso di inadeguatezza e da invidia e gelosia nei suoi confronti. Giulio aveva problemi di studio: diventava incapace di uno sforzo di concentrazione non appena si sedeva davanti ad un libro di testo. Poteva sedersi davanti ai testi per ore, ma la sua mente vagava, faceva tentativi infruttuosi di concentrarsi su ciò che leggeva. Nessuno lo costringe a studiare, anche se deve essere menzionato che la sua famiglia da molto peso ai successi accademici e che entrambi genitori sono laureati e la sorella frequenta brillantemente l’Università. 178 Vorrebbe studiare ma non può; molto precocemente ha ricevuto una serie di doppi messaggi: da una parte era figlio loro, uno della famiglia, ma in realtà lo trattavano come diverso. Un altro doppio messaggio era “devi pulirti e avere cura di te” e secondariamente “lavarti ed aver cura di te sono atteggiamenti adulti”. Questi due messaggi potrebbero paradossalmente sintetizzati in “fai esattamente quello che ti diciamo, ma di tua iniziativa” e potrebbero essere elaborati in “ se non obbedisci saremo arrabbiati con te, ma se obbedisci solo perché te lo diciamo noi saremo lo stesso arrabbiati perché tu devi comportarti in modo indipendente”. Questa ingiunzione crea una situazione insostenibile. Il mondo della sua infanzia conteneva anche un’altra regola: ogni opposizione ai genitori era considerato un atto di cattiveria, che produceva disturbo e senso di rifiuto che aggravava ulteriormente quello dovuto al rifiuto dei suoi veri genitori ed alla diversità relativa alla sua adozione. Così, l’ingiunzione esplicita “devi obbedirci ed essere come uno di noi”, veniva rinforzata assegnando ad ogni atto di ribellione un significato intensamente negativo. Giulio ha vissuto una serie di situazioni determinate da ingiunzioni contraddittorie e appartenenti alla classe delle situazioni paradossali prodotte dal suo ambiente familiare. Non si è mai sentito ascoltato dai propri genitori, li ha vissuti come coloro che imponevano delle regole alle quali non esistevano deroghe; regole che ha sempre percepito come non accompagnate da un adeguato contatto emotivo. Ha sempre ricercato l’attenzione diretta e la considerazione da parte dei genitori, i quali però hanno delegato a persone di servizio l’accudimento dei figli. Quando richiede attivamente l’attenzione dei genitori gli viene detto “non annoiarci”, ma 179 quando scatena una cagnara (tentativi di suicidio, ubriachezza) ottiene rapidamente l’attenzione richiesta. Così i genitori prestano attenzione solo a quei comportamenti che non lo richiedono esplicitamente e, viceversa. Giulio ha descritto due tentativi di suicidio come tentativi estremi di attirare l’attenzione della sua famiglia. Il primo episodio è accaduto poco dopo che due sue cugine si sono suicidate, una buttandosi giù dalla finestra, l’altra ingerendo una forte dose di pastiglie. Decide di ingoiare una certa quantità di barbiturici ma viene raggirato: la quantità ingerita non produce nessun effetto. Decide allora di tagliarsi le vene. Anche questo tentativo fallisce. “Il secondo episodio è accaduto una sera, stavo male, ho provato a parlarne con i miei genitori ma mi hanno risposto al solito modo ed io mi sono tagliato le vene. Mi sono svegliato la mattina dopo ed ho visto un uomo che mi guardava e mi aggrediva verbalmente. Io ad un certo punto mi sono andato a sedere sul cornicione del balcone e lui (lo psichiatra) mi ha fatto ricoverare in un reparto presso l’ospedale psichiatrico”. Come risulta dalla diagnosi psichiatrica, il medico lo aveva trovato in uno stato di profonda agitazione psicomotoria, con minacce di violenza e tentativi dimostrativi di suicidio e per questi motivi decise per il ricovero coatto. Durante e dopo il suo ricovero si evidenziò una sintomatologia borderline con pensiero frammentato, ansia continua e relazioni affettive esplosive e brevi. I genitori erano impauriti e con scarsa consapevolezza dello stato di malattia del figlio. Dopo sei mesi di trattamento ambulatoriale e terapia familiare i genitori decisero di ricoverarlo in una clinica specializzata in farmacologia. La terapia 180 prescritta venne seguita saltuariamente da Giulio. Proseguì il trattamento ambulatoriale e i genitori, pur consapevoli e rassicurati, riuscirono a controllare meglio il suo comportamento e finalmente denunciarono l’abuso di alcol da parte del figlio. Giulio non ha mai investito positivamente in nessuno dei vari rapporti con psicologi e psichiatri che ha vissuto come la “lunga mano” dei genitori. Dopo circa due anni, ha appreso a contenere il suo comportamento, a riconoscere la propria patologia caratteriale ed a stabilire relazioni più profonde con i coetanei ed ha iniziato un’attività lavorativa, in entrambi i casi tuttavia in modo precario. A questo punto e per tali motivi il medico ha ritenuto che si potesse affrontare il problema “dipendenza da alcol” in modo radicale, sicuro che Giulio potesse sostenerlo: l’inserimento nei C.A.T.. Giulio però non ne ha voluto sapere e i genitori lo hanno costretto ad andarsene da casa. Trascorre circa un anno “per strada”. Infine giunge al Centro di Ascolto di San Marcellino. 7.4 L’intervento educativo La cosa che colpiva di più era la rabbia violenta e trattenuta quasi a stento, diretta contro tutto ma in modo particolare verso i suoi genitori. Dopo una valutazione attuata per mezzo di un certo numero di colloqui al C.d.A. e una attenta supervisione, abbiamo deciso di agire un intervento diversificato inserendolo temporaneamente presso “L’Angolo”, una delle strutture dell’Associazione, in 181 uno dei C.A.T. gestiti sempre dalla stessa organizzazione e chiedendo la collaborazione degli operatori del Centro di Salute Mentale di riferimento zonale. L’intervento e l’ipotesi di lavoro era mirata a una chiarificazione dei sentimenti verso i genitori e ad una diversa elaborazione dei suoi comportamenti reattivi. Le richieste fatte al suddetto servizio di solito si limitano all’individuazione e alla somministrazione di una terapia. L’inserimento si presenta, già dal primo gruppo, piuttosto difficoltoso. Giulio mostra segni di disagio: tamburella nervosamente le dita sulle ginocchia, non riesce a tenere ferme le gambe, suda. Interviene solo se interpellato e con tono aggressivo. Mostra notevoli difficoltà di relazione nel rapporto interpersonale di gruppo. In un colloquio individuale decidiamo di attuare un percorso diverso: niente gruppi, solo colloqui individuali settimanali. Dopo circa due mesi contrattualizziamo la somministrazione del farmaco “Antabuse” (evita, al paziente che lo ingerisce, di bere). Se una persona beve sotto l’effetto dell’antabuse, sta molto male o rischia il coma etilico, Giulio consapevole di ciò, accetta e i colloqui ora si svolsero in seguito, in un clima di sobrietà. La modalità di Giulio di relazionarsi è molto sensibile al messaggio che gli arriva dall’altro: quando sente che il suo interlocutore lo ascolta, gli si rivolge con un certo calore affettivo ed interesse e si rende disponibile lasciando da parte la sua rabbia. A volte aggredisce, altre assume un ruolo passivo. Soffre le conseguenze delle azioni altrui. Gli altri si impegnano in attività, e lui si impegna ad elaborare atteggiamenti interni, così da produrre, in termini di controllo reciproco, azioni specifiche da parte degli altri. 182 A volte assume un atteggiamento provocatorio, altre passa da un argomento all’altro senza un nesso logico. La mia reazione è ferma, cerco con lui di capire il perché di questi suoi attacchi, e non rispondo alle sue provocazioni. Con il passare del tempo, Giulio trova in me un riferimento solido e forte a cui potersi ancorare, a volte tenta di attuare le stesse dinamiche che innescava con i suoi genitori o con i vari analisti ma con scarsi risultati. Il mio tentativo è stato quello di capovolgere il significato da poter attribuire ad un’eventuale psicoterapia presso uno dei centri di Salute Mentale. Lui oscillava tra due identità distinte: quella alcolista e quella “del matto” e quindi faceva una terapia per l’uno o l’altro disturbo di personalità. Con il tempo è riuscito a dirsi finalmente che la terapia è “per se stesso”, non per il matto o per l’alcolizzato. Io sono riuscito a tenere integrato il mio ruolo, così come veniva connotato dall’istituzione di appartenenza, e cioè come operatore nel campo delle persone senza dimora con il loro bagaglio di problemi, a volte estermamente diversi ed altre, invece, molto simili, con la funzione educativa ad esso connessa. Intendo dire di avere accolto il problema dell’alcolismo come una delle manifestazioni comportamentali dell’utente, da non separare dai suoi modi relazionali in generale. All’integrazione dell’oggetto ha finito per corrispondere una possibile integrazione del soggetto. Il nostro rapporto educativo è durato circa 18 mesi. Attraverso i colloqui settimanali è stato possibile introdurre una parvenza di stabilità definendo con 183 precisione l’orario degli appuntamenti. Tale “cornice terapeutica” ha permesso a Giulio di vivere un’esperienza reale di continuità in uno spazio intimo relazionale. Ritengo opportuno inoltre rilevare l’importanza di un “lavoro in rete”, in questo caso con gli operatori del Servizio di Salute Mentale che hanno aderito al progetto riabilitativo. Giulio dopo circa due mesi ha deciso di partecipare alle sedute terapeutiche familiari presso il centro di salute mentale ed ha elaborato i risentimenti nei loro confronti. La loro situazione è ora molto più serena. - Ha instaurato, inoltre, una relazione affettiva con una ragazza e, pur sussistendo alcuni problemi legati al tipo di comunicazione e ai sentimenti di gelosia che a volte esaspera, continua a frequentarla con regolarità. - Ha intrapreso un’attività che mantiene con costanza e responsabilità. - Ha relazioni con alcuni amici serie e intime. - Partecipa a una seduta con gli operatori del S.S.M. settimanalmente, questa volta per sua scelta e non per imposizione della famiglia. Si sono liberate quindi delle aree in cui può sperimentare la continuità e non doversi difendere con l’oscillazione tra uno stato e l’altro, rinforzando la propria integrità. 184 7.5 L’intervento allargato Le modalità patologiche della famiglia di Giulio si esternarono anche nei rapporti con gli operatori del S.S.M. Il padre fin dall’inizio, si era mostrato assente e diffidente non partecipando costantemente alle sedute. La madre di Giulio si presentava come diversa, e solo da pochi compresa. L’intervento è stato indirizzato verso le dinamiche familiari privilegiando la comunicazione chiara tra i componenti, svelando i doppi messaggi inviati dai genitori e correggendo le risposte comportamentali di Giulio scatenate da tali ambigue comunicazioni. Agli atteggiamenti di diffidenza e sfiducia generali, gradualmente la madre prima, e in seguito anche il padre, si mostrarono più partecipi e interessati. Il comportamento della madre sembrava essere significativamente cambiato: cominciava a riconoscere i propri comportamenti contraddittori e incongruenti nei confronti di Giulio e funzionali al mantenimento di uno pseudo equilibrio familiare. Il coinvolgimento paterno, nel primo periodo limitato e sporadico, solo nella fase finale sembrava rivolto a nuovi incontri con il figlio. In questo periodo la famiglia cominciava a tendere verso un equilibrio comunicativo, basato sull’espressione dei propri sentimenti e riconoscendo i diversi ruoli familiari nel rispetto delle diversità soggettive. 185 I genitori cominciarono a vedere in una nuova ottica i comportamenti di Giulio, riconoscendo l’angoscia e il senso di vuoto che accompagnava il loro figlio nelle diverse esperienze che affrontava. Anche i comportamenti alcolistici cominciarono ad essere riconosciuti sotto questa prospettiva, Giulio non poteva che cercare sollievo attraverso queste esperienze. In questi gruppi, la famiglia ha potuto vedere, nel confronto con altre persone, come l’ambivalenza delle loro aspettative si manifestasse in una comunicazione da “doppio messaggio” che non poteva che generare confusione nel figlio. Veniva poi alla luce come tutto ciò avesse origine da una scarsa capacità di assunzione di responsabilità nella guida e nell’educazione del figlio, infatti, così come prima si erano rivolti a figure esterne (baby-sitter, insegnanti, ecc.), poi riversavano queste stese richieste ai terapeuti. Alla base di tali inadeguatezze c’era una scarsa stima di sé, relativa ai ruoli adulti genitoriali, espressa nella ricerca di queste maggiori autorità esterne a se stessi e alla famiglia. Per i genitori di Giulio accettare di mettere in discussione alcune modalità pedagogiche e educative non è stato facile, ma si è rivelato necessario per partecipare alla riabilitazione del loro figlio. 186 7.6 Considerazioni conclusive Fin dall’inizio Giulio mi ha messo alla prova, vista la sua scarsa fiducia di base. E’ stato possibile instaurare una buona relazione con lui solo mantenendo un atteggiamento comprensivo, non colpevolizzante e chiaro di fronte alle sue duplici, contemporanee e contraddittorie richieste. Inoltre, mantenendo l’intervento sul “qui e ora”, Giulio è riuscito a collegare i suoi comportamenti ai suoi sentimenti, percependoli sempre più chiaramente imparando, così, a sostituire con un comportamento positivo e responsabile quello autolesivo. Giulio ha oscillato sempre tra due identità: quella del matto e quella dell’alcolista. La situazione da parte sua era pressoché insostenibile e si è riusciti ad ottenere validi risultati solo attuando interventi diversificati ma sempre e solo diretti a “Giulio” e non all’ “alcolista” o al “pazzo” nel tentativo di riunire ciò che finora conviveva diviso. Ciò è servito ad integrare invece che a scindere e a stabilizzare anziché oscillare. Ora Giulio è maggiormente consapevole della sua integrità e identità, riconoscendo meglio i suoi stati interni. Il percorso è stato quello di far raggiungere a Giulio una tale stabilità da permettergli di continuare a scegliere un aiuto diverso per affrontare meglio le sue dinamiche e i suoi meccanismi più profondi. Il percorso comunitario e l’abbandono del comportamento alcolista hanno restituito a Giulio la dignità di soggetto; a questo punto è in grado di percepirsi come individuo con dignità. Non ha più bisogno di fondersi e di confondersi con 187 gli altri. Giulio aveva infatti scelto, a mio parere, la strada dell’alcol proprio per soddisfare questo tipo di problema. Attualmente si trova nella possibilità di riconoscere un proprio bisogno a differenza di prima, quando erano i genitori a scegliere per lui negandogli una propria capacità di autoriconoscersi e di autoaffermarsi. L’esperienza del senza dimora lo ha messo in contatto con i suoi laceranti sentimenti di solitudine e del suo bisogno di avere relazioni intime. Ha potuto imparare a riconoscere i suoi sentimenti prima di agirli senza filtrarli attraverso il pensiero. I genitori hanno cominciato a capire di avere partecipato alla costruzione del personaggio, Giulio, mantenendolo in uno stato di perenne dipendenza affettiva. Le azioni distruttive (acting-out) di Giulio potevano essere stemperate solo attraverso una rivisitazione dell’intenso legame affettivo con i genitori, qualsiasi intervento individuale si sarebbe rivelato limitato e parziale. Tali consapevolezze rappresentavano solo l’inizio di un cammino che necessariamente conduceva verso una psicologia familiare, funzionale all’analisi delle profonde dinamiche patologiche presenti nel nucleo familiare di Giulio. 188 PARTE TERZA CONCLUSIONI 189 Rinuncia alla tua memoria, e al tempo futuro del tuo desiderio; dimenticali entrambi, ciò che già sai e ciò che vuoi, per lasciare spazio a una nuova idea. Un pensiero, un’idea che nessuno rivendica può aggirarsi per la stanza, alla ricerca di un luogo ospitale. Bion, 1980 CAPITOLO 8 ALCUNE RIFLESSIONI… 190 Le scelte professionali a cui ho aderito, il corso di studi in coerenza con il progetto, e una più matura professionalità, si sostanziano in alcune linee di pensiero e di genere. Quando l’operatore si imbatte in una persona senza dimora, alcolista e/o con patologia psichiatrica, facilmente si sente un po’ naufrago: potrà vedersi crollare di fronte qualche certezza importante, vuoi tecnico-professionale, vuoi personale, ideale o ideologica. E’ un po’ come se affondasse un vascello, piccolo o grande, sul quale si aveva l’impressione di veleggiare sulle situazioni comprendendole e, perché no, risolvendole. All’interno di una relazione socioeducativa l’educatore, come un naufrago, dovrà ora guardare con altri occhi la realtà conosciuta. L. Carroll in Alice nel paese delle meraviglie1 descrive come Alice si trovi a dover giocare nel bizzarro regno della regina rossa: il terreno è tutto zolle, le palle da colpire con la mazza sono porcospini, gli archetti sotto cui spedirle sono carte da gioco viventi piegate in due e saltellanti, e la mazza che Alice si ritrova tra le mani è un simpatico fenicottero che si volta a guardarla in modo buffo. Ebbene che fare? Alice innanzi tutto scoppia a ridere. La nostra logica probabilmente ci lascerebbe indispettiti, cercheremmo di ricondurre le condizioni del gioco ad una possibilità di controllo, trasformando gli elementi imprevedibili in prevedibili. 1 Cft.: Carroll L., Alice nel paese delle meraviglie, Rizzoli - RCS Libri, Milano, 2001. 191 Per Alice le cose vanno diversamente. A lei le si apre la possibilità di cambiare gioco rimanendo all’interno del gioco stesso, non cercando di cambiare le regole imponendo le sue, ma vivendo all’interno del sistema di relazioni presenti. Prendendo in prestito l’esperienza di Alice, ora facilmente comprenderemo come lo specialista in educazione, all’interno di questo viaggio nella multiproblematicità, dovrà coraggiosamente staccarsi da i suoi schemi precostituiti per entrare nel nuovo sistema di relazioni che l’incontro con l’utente gli riserva. L’educazione fa parte della vita e non è solo preparazione alla vita, ad una vita che “verrà”. Non si finirà mai, nel solco del pensiero di Dewey, di sottolineare l’importanza di preparare noi stessi in quanto educatori, con l’autoeducazione, e con forme di educazione collettive, alla complessità, al pensiero divergente, critico, dialettico. E questo significa prepararci a vivere con la filosofia e, nello stesso tempo, impegna l’educazione a non ridursi ad un intervento di mera supplenza, per colmare le mancanze delle istituzioni formali e così pure a non ricollocarsi in posizioni subalterne ed ancillari rispetto ai poteri egemoni di turno, siano essi accademici e/o politici, ma a condurre l’uomo – tutti gli uomini – ad una ricerca permanente, che vuol dire da un lato non snaturare l’educazione attraverso una torsione didatticistica, dall’altro restituire all’azione educativa la sua funzione più autentica che è quella di consentire a tutte le generazioni, da quelle giovani a quelle meno giovani, di gestire i propri processi di apprendimento per la personale e collettiva sopravvivenza e libertà di scelta, poiché «la sopravvivenza è la motivazione fondamentale dell’apprendimento […] e 192 l’apprendimento consiste nel ricordare e ripetere in ogni occasione le scelte giuste»2. Ogni uomo risponde di queste scelte non solo a se stesso ma anche alla società in cui le compie. Con questa consapevolezza, Ettore Gelpi, si schiera, come scrive nel suo breve discorso intitolato “Aprite le finestre per un’aria educativa nuova”, contro un’educazione fondata sur des bases conformistes et conservatrices, considerandola ancora une belle aventure da non ridurre ad un oggetto da museo allo scopo di sfuggire alle nuove istanze di sviluppo dell’uomo essendo ben consapevole che gli adulti partecipano ai progetti educativi quando la loro ricaduta arreca, con evidenza, benefici per lo sviluppo personale, sociale, culturale, economico3. Nei momenti di crisi non ci si può continuare a ripetere. I nuovi paradigmi dell’educazione sono fondati su partecipazione e contenuti nuovi. Essi non possono svilupparsi nei circoli chiusi, asfittici, senza spazio aperto non solo all’innovazione educativa ma alla cultura e a nuovi progetti. Non c’e un manifesto nuovo per l’educazione ne a livello locale, ne a livello nazionale ed internazionale. Bisogna discostarsi dall’idea di progresso ereditata dall’illuminismo, che è di tipo escludente, perchè lascia fuori tutti quelli che non accettano di sottostare alle regole di un gioco che si fonda su di una soggettività astratta e su di una perversione del tempo. In passato il movimento educativo era il potente 2 Laporta R., Avviamento alla pedagogia, Carocci, Milano, 2001, p. 25. 193 comunicatore di novità educative, di creatività sperimentate, di difficoltà incontrate, di successi verificati, ora l’educativo sembra limitarsi ad una serie di tragiche statistiche senza che si oppongano a quelle statistiche strategie per oltrepassare queste chiusure. Le future azioni educative non possono essere né solitarie né romantiche, né derivanti da un desiderio individuale e saranno le azioni stesse a comunicare al più presto e con tutti i mezzi disponibili. La formazione alla conoscenza e alla relazione sociale è fondamentale per utilizzare le competenze, non per la distruzione degli altri, ma per lo sviluppo di tutti. L’attenzione per la complessità non passa attraverso il rafforzamento di un sistema di competenze per quanto articolato e sofisticato sia, ma attraverso la comprensione dei contesti e delle relazioni. In tale prospettiva «il problema dell’educazione permanente protratta per tutto l’arco dell’età adulta è in realtà il problema della condizione esistenziale del soggetto umano in quanto portatore di istanze di umanità generale e indivisa in situazioni (mancanza di lavoro, sfruttamento da mercificazione del lavoro, sottrazione di tempo libero da destinare ad attività corrispondenti a personali esigenze di libera realizzazione e di autonoma fruizione di beni culturali) che ostacolano o rendono impossibile la coltivazione dell’umanità universale in tutti e in ciascuno»4. 3 Gelpi E. 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