L` immagine-tempo - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
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L` immagine-tempo - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
Gilles Deleuze Cinema 2 L' immagine-tempo Milano, Ubulibri 1997 Capitolo 1 Aldilà dell'immagine-movimento 1. Contro coloro che definivano il neorealismo italiano a partire dal suo contenuto sociale, Bazin invocava la necessità di criteri formali estetici. Si trattava, a suo avviso, di una nuova forma della realtà, considerata dispersiva, ellittica, errante o oscillante, operante per blocchi, con legami volutamente deboli e avvenimenti fluttuanti. Il reale non era più rappresentato o riprodotto, ma ''mirato". Invece di rappresentare un reale già decifrato, il neorealismo mirava a un reale da decifrare, sempre ambiguo; per questo il piano-sequenza tendeva a sostituire il montaggio delle rappresentazioni. Il neorealismo inventava dunque un nuovo tipo di immagine, che Bazin proponeva di chiamare l'"immagine-fatto"1. Infinitamente più ricca di quella che combatteva, questa tesi di Bazin mostrava che il neorealismo non si limitava al contenuto delle sue prime manifestazioni. Le due tesi ponevano però entrambe il problema a livello della realtà: il neorealismo produceva un "di più di realtà", formale o materiale. Non siamo tuttavia sicuri che il problema si ponga in tal modo, a livello del reale, forma o contenuto. Non si pone piuttosto a livello del "mentale", in termini di pensiero? Se l'insieme delle immagini-movimento, percezioni, azioni e affezioni subiva un tale sconvolgimento, non si trattava innanzitutto dell'irruzione di un nuovo elemento, che avrebbe impedito alla percezione di prolungarsi in azione, per metterla in rapporto con il pensiero, e che avrebbe progressivamente subordinato l'immagine alle esigenze di nuovi segni che l'avrebbero portata aldilà del movimento? Quando Zavattini definisce il neorealismo come un'arte dell'incontro, incontri frammentari, effimeri, spezzati, mancati, cosa intende? Questo è vero per gli incontri di Paisà di Rossellini, o di Ladri di biciclette di De Sica. In Umberto D. De Sica costruisce la celebre sequenza che Bazin citava come esempio, la giovane servetta che al mattino entra in cucina, compie una serie di gesti meccanici e stanchi, pulisce un po', caccia le formiche con un getto d'acqua, prende il macinino da caffè, chiude la porta con la punta del piede proteso. E i suoi occhi incrociano il proprio ventre di donna incinta: è come se nascesse tutta la miseria del mondo. In una situazione comune e quotidiana, durante una serie di gesti insignificanti ma tanto più obbedienti a schemi senso-motori semplici, ecco sorta di colpo una situazione ottica pura, per la quale la servetta non ha né risposta né reazione. Gli occhi, il ventre, questo è un incontro... Certo, gli incontri possono assumere forme assai diverse, spingersi fino all'eccezionale, pur conservando la stessa formula. Prendiamo la grande tetralogia di Rossellini che, lungi dal segnare un abbandono del neorealismo, lo porta al contrario alla sua perfezione: Germania anno zero presenta un bambino che visita un paese straniero (ecco perché si rimproverava al film di non avere più quell'ancoraggio sociale ritenuto una condizione del neorealismo) e muore di ciò che vede. Stromboli terra di Dio mette in scena una straniera che avrà una rivelazione dell'isola tanto più profonda in quanto non dispone di alcuna reazione per attenuare o compensare la violenza di ciò che vede, l'intensità e l'enormità della mattanza del tonno ("era orribile..."), la potenza panica dell'eruzione ("sono finita, ho paura, che mistero, che bellezza, Dio mio..."). Europa 51 mostra una borghese che, dalla morte del figlio in poi, attraversa degli spazi qualsiasi e fa l'esperienza del caseggiato popolare, della bidonville e della fabbrica ("ho creduto di vedere dei condannati"). I suoi sguardi abbandonano la funzione pratica di una padrona di casa capace di mettere in ordine esseri e cose, per passare attraverso tutti gli stadi di una visione interiore, afflizione, compassione, amore, felicità, accettazione, perfino nell'ospedale psichiatrico dove la si rinchiude al termine di un nuovo processo alla Giovanna d'Arco: lei vede, ha imparato a vedere. Viaggio in Italia accompagna una turista colpita nel profondo dal semplice svolgimento d'immagini o di cliché visivi nei quali scopre qualcosa di insopportabile, qualcosa che va oltre il suo limite personale del sopportabile2. È un cinema del veggente, non più d'azione. Il neorealismo si definisce quindi per questa crescita di situazioni puramente ottiche (e sonore, benché ai suoi inizi non esistesse il suono sincrono), che si distinguono sostanzialmente dalle situazioni senso-motorie dell'immagine-azione del vecchio realismo. Forse questo è importante quanto la conquista con l'impressionismo, in pittura, di uno spazio puramente ottico. Qualcuno obietta che lo spettatore si è sempre trovato di fronte a "descrizioni", di fronte a immagini ottiche e sonore, e nient'altro. Ma non è questo il problema. Perché erano i personaggi a reagire alle situazioni; anche quando uno di loro era ridotto all'impotenza, era legato e imbavagliato, secondo gli accidenti dell'azione. Lo spettatore percepiva dunque un'immagine senso-motoria di cui era più o meno partecipe, poiché si identificava con i personaggi. Hitchcock includendo lo spettatore nel film aveva inaugurato il capovolgimento di questo punto di vista. Ma soltanto ora l'identificazione si capovolge davvero: il personaggio è diventato una specie di spettatore. Ha un bel muoversi, correre, agitarsi, la situazione nella quale si trova supera da ogni parte le sue capacità motorie e gli fa vedere e sentire quel che non può più essere teoricamente giustificato da una risposta o da un'azione. Più che reagire, il personaggio registra. Più che essere impegnato in un'azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito. Ossessione di Visconti è giustamente considerato il film precursore del neorealismo; lo spettatore è colpito in primo luogo dal modo in cui l'eroina nerovestita vien posseduta da una sensualità quasi allucinatoria. È più simile a una visionaria, a una sonnambula, che a una seduttrice o a un'innamorata (come più tardi la contessa di Senso). Per questo i caratteri con cui definivamo in precedenza la crisi dell'immagine-azione: la forma della bal(l)ade*, la propagazione dei cliché, gli avvenimenti che a malapena riguardano coloro cui capitano, insomma l'allentamento dei legami senso-motori, erano tutti caratteri importanti, ma solo a titolo di condizioni preliminari. Rendevano possibile, ma non costituivano ancora la nuova immagine. * Sull'uso deleuziano dei termini balade (andare a zonzo) e ballade (ballata), vedi la nota a p. 238 del I volume, L'immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984. Per quanto riguarda il vocabolario tecnico si fa riferimento alle scelte adottate nel primo volume, cfr. idem, p. 13 (N.d.T.). Quest'ultima è costituita dalla situazione puramente ottica e sonora, che si sostituisce al venir meno di situazioni senso-motorie. Più d'uno ha sottolineato il ruolo del bambino nel neorealismo, particolarmente in De Sica (poi, in Francia, in Truffaut): nel mondo adulto in effetti il bambino soffre di una certa impotenza motoria, che lo rende però ancor più capace di vedere e di sentire. Analogamente, la banalità quotidiana e cosi importante in quanto, sottomessa a schemi senso-motori automatici e già montati, è ancor più suscettibile, alla minima occasione di disturbo dell'equilibrio tra eccitazione e risposta (vedi la scena della servetta in Umberto D.), di sfuggire di colpo alle leggi di questo schematismo e di rivelarsi in una nudità, una crudezza, una brutalità visive e sonore che la rendono insopportabile, conferendole l'andamento di un sogno o di un incubo. Vi è dunque un passaggio necessario dalla crisi dell'immagine-azione all'immagine ottico-sonora pura. Talvolta è un'evoluzione che permette di passare da un aspetto all'altro: si comincia con dei film bal(l)ade, con legami senso-motori allentati e si raggiungono situazioni puramente ottiche e sonore. Talvolta i due aspetti coesistono nello stesso film, come due livelli di cui il primo serve esclusivamente da linea melodica all'altro. In tal senso Visconti, Antonioni, Fellini appartengono pienamente al neorealismo, malgrado tutte le loro differenze. Ossessione, il film precursore, non è soltanto una delle versioni di un celebre romanzo nero americano, ne la sua trasposizione nella pianura padana3. Nel film di Visconti assistiamo a un cambiamento molto sottile, all'avvio di un mutamento che riguarda la nozione generale di situazione. Nel vecchio realismo, ovvero quello che si atteneva all'immagine-azione, gli oggetti e gli ambienti avevano già una realtà propria, ma era una realtà funzionale, strettamente determinata dalle esigenze della situazione, anche se queste esigenze erano tanto poetiche quanto drammatiche (per esempio il valore emozionale degli oggetti in Kazan). La situazione si prolungava dunque direttamente in azione e passione. A partire da Ossessione, al contrario, compare qualcosa che non cesserà di svilupparsi in Visconti: oggetti e ambienti acquistano una realtà materiale autonoma che li fa valere per se stessi. È necessario quindi che i protagonisti, e non solo lo spettatore, investano del loro sguardo ambienti e oggetti, che vedano e sentano le cose e le persone, affinchè, irrompendo in una vita quotidiana preesistente, l'azione o la passione nascano. Così l'arrivo del protagonista di Ossessione, che prende una specie di possesso visivo dell'albergo, oppure, in Rocco e i suoi fratelli, l'arrivo della famiglia che, tutt'occhi e tutt'orecchi, tenta di assimilare l'immensa stazione e la città sconosciuta: quest'inventario" dell'ambiente, di oggetti, mobili, utensili eccetera, sarà una costante nell'opera di Visconti. Tanto che la situazione non si prolunga direttamente in azione, non è più senso-motoria, come nel realismo, ma innanzitutto ottica e sonora, investita dai sensi, prima che l'azione si formi al suo interno e ne utilizzi o ne affronti gli elementi. Tutto resta reale in questo neorealismo (vi siano scena o esterni) ma tra la realtà dell'ambiente e quella dell'azione non si stabilisce più un prolungamento motorio quanto piuttosto, tramite gli organi dei sensi liberati, un rapporto onirico4. Si direbbe che l'azione fluttui nella situazione, più che compierla o rafforzarla. È la fonte dell'estetismo visionario di Visconti. E La terra trema conferma in modo particolare questi nuovi dati. Certo, in questo primo episodio, il solo realizzato da Visconti, sono esposte la situazione dei pescatori, la lolla ingaggiata, la nascita di una coscienza di classe. Ma, appunto, questa embrionale "coscienza comunista" più che da una lotta con la natura e tra gli uomini dipende da una forte visione dell'uomo e della natura, della loro unità sensibile e sensuale, da cui i "ricchi" sono esclusi, e che costituisce la speranza della rivoluzione, aldilà dei fallimenti dell'azione fluttuante: un romanticismo marxista5. In Antonioni, fin dalla sua prima opera di grande respiro, Cronaca di un amore, l'indagine poliziesca invece di procedere per flash-back trasforma le azioni in descrizioni ottiche e sonore, mentre il racconto stesso si trasforma in azioni disarticolate nel tempo (l'episodio della cameriera che racconta rifacendo i gesti passati, oppure la scena famosa degli ascensori)6. L'arte di Antonioni continuerà a svilupparsi in due direzioni: uno sfruttamento sorprendente dei tempi morti della banalità quotidiana; poi, a partire da L'eclisse, un trattamento delle situazioni-limite che le spinge fino a paesaggi disumanati, a spazi svuotati che si direbbe abbiano assorbito i personaggi e le azioni per conservarne solo una descrizione geofisica, un inventario astratto. In Fellini, fin dai suoi primi film, non è solo lo spettacolo che tende a invadere il reale, è il quotidiano a organizzarsi continuamente in spettacolo ambulante e sono le concatenazioni senso-motorie a far posto a una successione di varietà sottomesse a proprie leggi di passaggio. Barthélemy Amengual formula una definizione valida per la prima metà di quest'opera: "II reale si fa spettacolo o spettacolare, e letteralmente affascina. (...) Il quotidiano è identificato con lo spettacolare. (...) Fellini raggiunge l'auspicata confusione tra reale e spettacolo" negando l'eterogeneità dei due mondi, cancellando non solo la distanza, ma la distinzione tra spettatore e spettacolo7. Le situazioni ottiche e sonore del neorealismo si oppongono alle situazioni senso-motorie forti del realismo tradizionale. La situazione senso-motoria ha come spazio un ambiente ben definito e presuppone un'azione che la sveli, o susciti una reazione che vi si adatti o la modifichi. Invece una situazione puramente ottica o sonora si stabilisce in quello che chiamiamo "spazio qualsiasi", sia sconnesso, sia svuotato (si troverà il passaggio dall'uno all'altro nell'Eclisse, dove i pezzi sconnessi dello spazio vissuto dalla protagonista, la borsa, l'Africa, l'avio-stazione, si compongono alla fine in uno spazio vuoto che raggiunge la superficie bianca). Nel neorealismo, i legami senso-motori hanno valore unicamente per i disturbi che li colpiscono, li allentano, li disequilibrano o li separano: crisi dell'immagine-azione. Non essendo indotta da un'azione più di quanto non si prolunghi in azione, la situazione ottica e sonora non è dunque né un indizio né un sinsegno. Parleremo di una nuova razza di segni, gli opsegni e i sonsegni. E certo questi nuovi segni rinviano a immagini molto diverse. Talora è la banalità quotidiana, talora sono circostanze eccezionali o circostanze limite. Ma soprattutto, talvolta, sono immagini soggettive, ricordi d'infanzia, sogni o fantasmi auditivi e visivi, in cui il personaggio non agisce senza vedersi agire, spettatore compiacente del ruolo da lui stesso recitalo, alla maniera di Fellini. Talvolta, come in Antonioni, sono immagini oggettive alla maniera di una constatazione (constat), foss'anche una constatazione d'incidente, definito da un quadro geometrico che tra i propri elementi, persone e oggetti, lascia ormai sussistere soltanto rapporti di misura e di distanza, trasformando questa volta l'azione in spostamento di figure nello spazio (per esempio la ricerca della donna scomparsa ne L’avventura)8. In questo senso al soggettivismo complice di Fellini si può opporre l'oggettivismo critico di Antonioni. Esisterebbero quindi due specie di opsegni, le constatazioni e le "instatazioni" (instats), veicoli gli uni di una visione profonda a distanza che tende all'astrazione, gli altri di una visione ravvicinata e piana che induce una partecipazione. Per certi aspetti, questa opposizione coincide con l'alternativa definita da Worringer: astrazione o Einfühlung. Le visioni estetiche di Antonioni non sono separabili da una critica oggettiva (siamo malati d'Eros, ma in quanto Eros stesso è oggettivamente malato: cos'è diventato ormai l'amore, in una società corrotta, che un uomo o una donna ne escono cosi disarmati, tristi, sofferenti sino ad agire e reagire così male dall'inizio alla fine?), mentre le visioni di Fellini sono inseparabili da un"'empatia", da una simpatia soggettiva (sposare anche la decadenza che porta a amare solo in sogno o nel ricordo, simpatizzare con quel genere d'amori, esser complici della decadenza, affrettarla perfino, per salvare qualcosa, forse, finche è possibile...)9. Per un verso o per l'altro sono problemi più profondi, più importanti dei luoghi comuni sulla solitudine e l'incomunicabilità. Le distinzioni, da una parte tra banale e straordinario, dall'altra tra soggettivo e oggettivo, hanno un valore, ma solo relativo. Valgono per un'immagine o una sequenza, ma non per l'insieme. Valgono ancora in rapporto all'immagine-azione, che mettono in discussione, ma non valgono già più completamente in rapporto alla nuova immagine che sta per nascere. Indicano dei poli fra i quali vi è costante passaggio. Infatti le situazioni più banali o quotidiane liberano "forze morte" accumulate pari alla forza viva di una situazione-limite (come, in Umberto D. di De Sica, la sequenza del vecchio che si tasta e crede di avere la febbre). Meglio ancora, i tempi morti di Antonioni non mostrano semplicemente le banalità della vita quotidiana, ma raccolgono le conseguenze o l'effetto di un avvenimento rilevante constatato per se stesso senza essere spiegato (la rottura di una coppia, l'improvvisa sparizione di una donna...). In Antonioni il metodo della constatazione ha sempre questa funzione di collegare i tempi morti e gli spazi vuoti: trarre tutte le conseguenze da un'esperienza passata decisiva, dopo che è avvenuta, dopo che tutto è stato detto. "Quando tutto è stato detto, quando la scena principale sembra conclusa, vi è quello che viene dopo..." 10. Anche la distinzione tra soggettivo e oggettivo tende a perdere d'importanza man mano che la situazione ottica o la descrizione visiva sostituiscono l'azione motoria. Si ricade infatti in un principio di in determinabilità, di indiscernibilità: non si sa più quel che nella situazione è immaginario o reale, fisico o mentale, non perché li si confonda, ma perché non si deve saperlo e non è più nemmeno il caso di domandarlo. Come se reale e immaginario si rincorressero l'un l'altro, si riflettessero l'uno nell'altro, attorno a un punto di indiscernibilità. Ritorneremo su questo punto, ma già Robbe-Grillet, nell'esporre la propria importante teoria delle descrizioni, comincia col definire una descrizione "realista" tradizionale: è quella che presuppone l'indipendenza dal proprio oggetto e stabilisce dunque una discernibilità tra reale e immaginario (si possono confondere, ma non restano di fatto meno distinti). Tutt'altra è la descrizione neorealista del nouveau roman: dal momento che essa sostituisce il proprio oggetto, da una parte ne cancella o ne distrugge la realtà, che trascorre nell'immaginario, ma dall'altra ne fa scaturire tutta la realtà che l'immaginario o il mentale creano attraverso la parola e la visione11. Immaginario e reale diventano indiscernibili. Robbe-Grillet ne diventerà sempre più consapevole nella riflessione sul nouveau roman e il cinema: le determinazioni più oggettivistiche non impediscono di realizzare una "soggettività totale". Questo era in nuce fin dagli esordi del neorealismo italiano e fa dire a Labarthe che L'année dernière à Marienbad (L'anno scorso a Marienbad) è l'ultimo grande film neorealista12. Già in Fellini questa o quell'immagine è evidentemente soggettiva, mentale, ricordo o fantasma, ma non si organizza in spettacolo senza diventare oggettiva, senza passare dietro le quinte, nella "realtà dello spettacolo, di quanti lo fanno, ne vivono, vi si coinvolgono": il mondo mentale di un personaggio si popola anche di altri personaggi proliferanti, sino a divenire inter-mentale, e arriva, per appiattimento delle prospettive, "a una visione neutra, impersonale (...), il mondo di noi tutti" (di qui l'importanza del telepata in Otto e mezzo)13. In Antonioni al contrario, si direbbe che le immagini più oggettive non si compongono senza diventare mentali e trascorrere in una strana soggettività invisibile. Non si tratta soltanto di applicare il metodo della constatazione ai sentimenti esistenti in una società e di trame le conseguenze che si sviluppano all'interno dei personaggi: Eros malato è una storia di sentimenti che va dall'oggettivo al soggettivo e passa all'interno di ciascuno. Sotto questo aspetto, Antonioni è molto più vicino a Nietzsche che a Marx; è l'unico autore contemporaneo ad aver ripreso il progetto nietzscheano d'una vera e propria critica della morale, grazie a un metodo "sintomatologico". Da un diverso punto di vista ancora, si osserva che le immagini oggettive di Antonioni, che seguono impersonalmente un divenire, ossia uno sviluppo di conseguenze in un racconto, subiscono ugualmente rotture rapide, inserimenti, "infinitesimali iniezioni di a-temporalità". Così, fin da Cronaca di un amore, la scena dell'ascensore. Ancora una volta siamo rimandati alla prima forma dello spazio qualsiasi: spazio sconnesso. La connessione delle parti dello spazio non è data, perché può esistere soltanto dal punto di vista soggettivo di un personaggio tuttavia assente, o perfino scomparso, non solo fuori campo, ma passato nel vuoto. Ne II grido, Irma non è soltanto il pensiero soggettivo ossessionante del protagonista che fugge per dimenticare, ma lo sguardo immaginario sotto il quale questa fuga avviene e raccorda i propri segmenti: sguardo che ritorna reale nel momento della morte. Nell'Avventura soprattutto, la donna scomparsa fa pesare sulla coppia uno sguardo indefinibile che da loro la sensazione continua di essere spiati e che spiega l'incoordinazione dei loro movimenti oggettivi quando, con il pretesto di cercarla, la coppia fugge. Anche in Identificazione di una donna, tutta la ricerca o l'indagine si compie sotto il supposto sguardo della donna partita, di cui non sapremo mai, nelle splendide immagini finali, se ha visto o meno il protagonista rannicchiato nella tromba delle scale. Lo sguardo immaginario fa del reale qualcosa d'immaginario mentre diventa contemporaneamente reale a sua volta e ci restituisce realtà. Come un circuito che cambia, corregge, seleziona e ci rilancia. Forse, a partire dall'Eclisse, lo spazio qualsiasi aveva raggiunto una seconda forma, spazio vuoto o abbandonato. E di conseguenza in conseguenza, i personaggi infatti si sono oggettivamente svuotati: più che dell'assenza di un altro, soffrono dell'assenza a se stessi (ad esempio Professione reporter). Questo spazio rinvia quindi ancora allo sguardo perduto dell'essere assente tanto al mondo quanto a sé e, come afferma Ollier con una formula valida per tutta l'opera di Antonioni, sostituisce al dramma tradizionale "una specie di dramma ottico vissuto dal personaggio"14. Insomma, le situazioni ottiche e sonore pure possono avere due poli, oggettivo e soggettivo, reale e immaginario, fisico e mentale. Danno però luogo a opsegni e sonsegni che li mettono in comunicazione continua e che, in un senso o nell'altro, assicurano i passaggi e le conversioni, in quanto tendono verso un punto di indiscernibilità (e non di confusione). Un tal regime di scambio fra immaginario e reale appare pienamente ne Le notti bianche di Visconti15. Non si può definire la nouvelle vague francese se non si cerca di vedere come ha ripercorso, per proprio conto, il cammino del neorealismo italiano, anche a costo d'andare in altre direzioni. Secondo una prima approssimazione, la nouvelle vague infatti riprende la strada precedente: dall'allentamento dei legami senso-motori (la passeggiata o l'erranza, la ballata, gli avvenimenti non-concernenti, eccetera) alla crescita di situazioni ottiche e sonore. In questo, ancora, un cinema del veggente sostituisce l'azione. Se Tati appartiene alla nouvelle vague, vi appartiene perché, dopo due film-ballata, manifesta pienamente quanto questi preparavano, un burlesque derivante da situazioni puramente ottiche e soprattutto sonore. Godard esordisce con alcune straordinarie ballate, da A hout de soufflé (Fino all'ultimo respiro) a Pierrot le fou (Il bandito delle 11) e tende ad estrarne tutto un mondo di opsegni e sonsegni che formano già la nuova immagine (in Pierrot le fou, il passaggio dall'allentamento senso-motorio, "non so che fare", al puro poema cantato e ballato, "la curva dei tuoi fianchi"). Queste immagini, commoventi o terribili, diventano sempre più autonome a partire da Made in U.S.A. (Una storia americana), che possiamo riassumere così: "un testimone che ci fornisce una successione di constatazioni senza conclusione o legami logici (...), senza reazioni propriamente concrete"16. Claude Ollier sostiene che con Una storia americana il carattere violentemente allucinatorio dell'opera di Godard si afferma per se stesso, in un'arte della descrizione sempre ripresa e sostitutiva del proprio oggetto17. Questo oggettivismo descrittivo è quindi critico e anche didattico, perché anima una serie di film, da Deux ou trois choses que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei), a Sauve qui peut (la vie) (Si salvi chi può la vita), dove la riflessione non poggia solo sul contenuto dell'immagine ma sulla sua forma, le sue possibilità e funzioni, le sue falsificazioni e creatività, sui rapporti, al suo interno, tra sonoro e ottico. Godard non ha nessuna compiacenza o simpatia per i fantasmi: Si salvi chi può... ci farà assistere alla scomposizione di un fantasma sessuale nei suoi elementi oggettivi, separati, visivi e poi sonori. Questo oggettivismo non perde mai la propria forza estetica. Al servizio in un primo tempo di una politica dell'immagine, la forza estetica ricompare per se stessa in Passion: la libera crescita di immagini pittoriche e musicali come tableaux vivants, mentre, all'estremità opposta, le concatenazioni senso-motorie sono soggette a inibizioni (la balbuzie dell'operaia e la tosse del padrone). In tal senso Passion porta a massima intensità quanto si andava preparando già in Le mépris (II disprezzo, quando si assisteva al fallimento senso-motorio della coppia nel dramma tradizionale, mentre, intercessore Fritz Lang, salivano sullo sfondo la rappresentazione ottica del dramma di Ulisse e lo sguardo degli dei. Attraverso tutti questi film, l'evoluzione creatrice propria di un Godard visionario. Per Rivette Le pont du Nord (II ponte del Nord) si direbbe abbia la stessa forza di ricapitolazione provvisoria che Passion ha per Godard. È la ballata di due strane donne che passeggiano: un'intensa visione dei leoni di pietra di Parigi assegnerà loro situazioni ottiche e sonore pure, in una specie di malefico gioco dell'oca, nel quale le due recitano nuovamente il dramma allucinatorio di Don Chisciotte. Eppure, sulla stessa base, Rivette e Godard sembrano tracciare i due lati opposti. In Rivette la rottura di situazioni senso-motorie, a vantaggio di situazioni ottiche e sonore, è legata a un soggettivismo complico, a un'empatia, che procede per lo più con fantasmi, ricordi o pseudo-ricordi, e vi rintraccia un'allegria e una leggerezza ineguagliabili (Céline et Julie vont en bateau, Céline e Julie vanno in barca, è, forse, con l'opera di Tati, uno dei più grandi film comici francesi). Mentre Godard si ispirava a quanto di più crudele e tagliente vi è nel fumetto, Rivette immerge il proprio tema fisso di un complotto internazionale in un'atmosfera di fiaba e gioco infantile. Già in Paris nous appartient (Parigi ci appartiene) la passeggiata culmina in una fantasticheria crepuscolare in cui i luoghi urbani hanno soltanto la realtà e le connessioni loro accordate dal nostro sogno. E Céline et Julie vont en bateau ci fa assistere, dopo la passeggiata-inseguimento della ragazza "doppia", allo spettacolo puro del suo fantasma, bambina dalla vita minacciata in un romanzo di famiglia. Il doppio, o meglio la doppia, vi assiste anch'essa con l'aiuto di caramelle magione; poi, grazie a una pozione alchemica, si introduce nello spettacolo senza più spettatori ma solo quinte, per salvare finalmente dal suo destino stereotipato la bambina, trasportata lontano da una barca: non esiste fantasmagoria più ridente. Duelle (Duale) non ha neppure più bisogno di farci passare attraverso lo spettacolo, bastano le eroine dello spettacolo, la donna solare e la donna lunare, che sono già passate nel reale e che, nel segno della pietra magica, braccano, fanno sparire o ammazzano i personaggi esistenti che farebbero ancora da testimoni. Si potrebbe dire che Rivette è il più francese degli autori della nouvelle vague. Ma "francese", qui, non ha nulla a che spartire con quel che si è chiamata l'essenza francese. E piuttosto nel senso della scuola francese d'anteguerra, quando questa scopre, sulla scia del pittore Delaunay, che non esiste lotta fra luce e tenebre (espressionismo), ma un'alternanza e un duello fra sole e luna, che sono entrambi luce, l'uno col costituire un movimento circolare e continuo dei colori complementari, l'altra un movimento più rapido e contrastante di colori dissonanti iridati, i due insieme con il comporre e proiettare sulla terra un eterno miraggio18. È Duelle. È Merry-go-round, in cui la descrizione fatta di luce e di colori ricomincia incessantemente per cancellare il proprio oggetto. E quanto Rivette porta al massimo grado nell'arte della luce. Tutte le sue eroine sono Figlie del fuoco, tutta la sua opera è sotto questo segno. In fin dei conti è il più francese dei cineasti, proprio nel senso in cui Gérard de Nerval poteva essere detto poeta francese per eccellenza, poteva essere chiamato il "gentile Gérard", cantore dell'île de France, così come Rivette cantore di Parigi e delle sue strade di campagna. Quando Proust si chiede cosa vi sia dietro a tutti questi nomi attribuiti a Nerval, risponde che in realtà vi è una delle più grandi poesie che esistano al mondo, e la pazzia stessa o il miraggio, ai quali Nerval soccombette. Perché se Nerval ha bisogno di vedere e di passeggiare nel Valois, ne ha bisogno come della realtà in grado di "verificare" la sua visione allucinatoria, al punto che non sappiamo affatto quel che è presente o passato, mentale o fisico. Ha bisogno dell'île de France come del reale che la sua parola e la sua visione creano, come dell'oggettività della sua pura soggettività: un'"illuminazione di sogno", un'“atmosfera bluastra e purpurea”, solare e lunare19. Si può dire lo stesso Rivette e del suo bisogno di Parigi. Cosicché, ancora una volta, dobbiamo concludere che, dal punto di vista dell'immagine ottico-sonora, la differenza tra oggettivo e soggettivo ha un valore solo provvisorio e relativo. Il più soggettivo, il soggettivismo complice di Rivette, è perfettamente oggettivo, poiché crea il reale con la forza della descrizione visiva. E, inversamente, il più oggettivo, l'oggettivismo critico di Godard, era già completamente soggettivo, poiché sostituiva la descrizione visiva all'oggetto reale, e la faceva penetrare "all'interno" della persona o dell'oggetto (Due o tre cose che so di lei)20. Da una parte e dall'altra, la descrizione tende verso un punto di indiscernibilità tra il reale e l'immaginario. Un'ultima domanda: come mai il crollo delle situazioni senso-motorie tradizionali, così com'erano nel vecchio realismo o nell'immagine-azione, lascia emergere solo situazioni ottiche o sonore pure, opsegni e sonsegni? Si noterà che Robbe-Grillet, quantomeno all'inizio della propria riflessione, era ancora più rigoroso: non ripudiava solamente il tattile, ma anche i suoni e i colori come inadatti alla constatazione, troppo legati a emozioni e reazioni, e prendeva in considerazione esclusivamente descrizioni visive, poiché operano con linee, superfici e misure21. Una ragione della sua evoluzione fu il cinema, che gli fece scoprire la potenza descrittiva dei colori e dei suoni, come in grado di sostituire, cancellare e ricreare l'oggetto stesso. Ma, ancor meglio, è il tattile che può formare un'immagine sensoriale pura, a condizione che la mano rinunci alle proprie funzioni prensili e motrici per accontentarsi di un puro toccare. In Herzog, assistiamo a uno sforzo straordinario per offrire alla vista quelle immagini propriamente tattili che caratterizzano la situazione degli esseri "senza difesa" e si combinano con le grandi visioni degli allucinati22. In maniera completamente diversa, è Bresson a fare del tatto un oggetto della vista per se stessa. Lo spazio visivo di Bresson, infatti, è uno spazio frammentato e sconnesso, le cui parti hanno però un raccordo manuale progressivo. La mano ricopre dunque, nell'immagine, un ruolo che supera infinitamente le esigenze senso-motorie dell'azione, che addirittura si sostituisce al volto dal punto di vista delle affezioni e che, dal punto di vista della percezione, diventa il modo di costruzione di uno spazio adeguato alle decisioni dello spirito. Così, in Pickpocket (Borsaiolo), sono le mani dei tre complici a connettere i pezzi di spazio della Gare de Lyon, proprio perché non prendono un oggetto, ma lo sfiorano, lo arrestano nel suo movimento, gli danno un'altra direzione, se lo trasmettono e lo fanno circolare in questo spazio. La mano raddoppia la propria funzione prensile (d'oggetto) con una funzione connettiva (di spazio); e dunque l'occhio tutt'intero a raddoppiare la propria funzione ottica con una funzione propriamente "aprica", secondo l'espressione di Riegl, che designa un toccare proprio dello sguardo. In Bresson, gli opsegni e i sonsegni sono inseparabili dai veri e propri tatsegni che ne regolano forse i rapporti (sarebbe questa l'originalità degli spazi qualsiasi di Bresson). 2. Benché abbia subito fin dagli esordi l'influenza di certi autori americani, Ozu elaborò in un contesto giapponese un'opera che, per prima, sviluppò situazioni ottiche e sonore pure (arrivò però molto tardi al sonoro, nel 1936). Gli europei non lo imitarono, ma lo raggiunsero con mezzi propri. Egli resta tuttavia l'inventore degli opsegni e dei sonsegni. L'opera prende una formabal(l)ade, viaggio in treno, corsa in taxi, escursione in autobus, tragitto in bicicletta o a piedi: l'andata e ritorno dei nonni di provincia a Tokyo, le ultime vacanze di una figlia con la madre, la scappatella di un vecchio... Ma l'oggetto è la banalità quotidiana catturata sotto forma di vita familiare nella casa giapponese. I movimenti di macchina si fanno rari: le carrellate sono "blocchi di movimento" lenti e bassi, la cinepresa sempre bassa è il più delle volte rissa, frontale o ad angolo costante, le dissolvenze sono abbandonate a vantaggio del semplice cut. Quel che è sembrato un ritorno al "cinema primitivo" è al tempo stesso l'elaborazione di uno stile moderno sorprendentemente sobrio: il montaggio-taglio, che dominerà il cinema moderno, è un passaggio o una punteggiatura puramente ottica tra immagini, che agisce direttamente e che sacrifica tutti gli effetti sintetici. Ugualmente interessato è il suono, perchè il montaggio-taglio può culminare nel procedimento "un piano, una battuta" rubato al cinema americano. Ma m questo caso, come in Lubitsch, si trattava di un'immagine-azione funzionante da indizio. Ozu invece modifica il senso del procedimento, che attesta ora l'assenza di intreccio: l'immagine-azione scompare a vantaggio dell'immagine puramente visiva di ciò che è un personaggio, e dell'immagine sonora di ciò che egli dice, poiché natura e conversazione del tutto banali costituiscono l'essenziale della sceneggiatura (per questo contano solo la scelta degli attori, per il loro aspetto fisico e morale, e la definizione di un dialogo qualsiasi, apparentemente senza soggetto preciso)23. È evidente che questo metodo prevede fin dall'inizio dei tempi morti e li fa proliferare nel corso del film. Certo, man mano che il film procede, si potrebbe credere che i tempi morti non valgano più solamente per se stessi, ma raccolgano l'effetto di qualcosa d'importante: il piano o la battuta sarebbero così prolungati da un silenzio, un vuoto abbastanza lunghi. Eppure, in Ozu, non vi sono affatto il notevole e il comune, situazioni-limite e situazioni banali, con un effetto le une sulle altre o l'insinuarsi delle une nelle altre. Non siamo d'accordo con Paul Schrader nell'opporre, come fossero due fasi, "il quotidiano" da una parte e dall'altra "il momento decisivo", "la disparità", che introdurrebbe nella banalità quotidiana una rottura o un'emozione inesplicabili24. Questa distinzione sembrerebbe più valida, a rigore, per il neorealismo. In Ozu tutto è ordinario o banale, anche la morte e i morti che sono oggetto di un naturale oblio. Le famose scene di lacrime improvvise (quella del padre di Samma no Aji, Un pomeriggio d'autunno o Il gusto del saké, che scoppia a piangere silenziosamente dopo il matrimonio della figlia, quella della figlia di Banshun. Tarda primavera, che sorride a fior di labbra guardando il padre addormentato e poi si ritrova sull'orlo del pianto, quella della figlia di Dernier caprice che, fatta un'osservazione acida sul padre morto, scoppia poi in singhiozzi) non indicano un tempo forte che si contrappone ai tempi deboli della vita corrente, e non vi è ragione alcuna di invocare come "azione decisiva" l'affiorare di un'emozione soffocata. Il filosofo Leibniz (che non ignorava l'esistenza dei filosofi cinesi) mostrava che il mondo è formato di serie che si compongono e convergono in maniera molto regolare, in obbedienza a leggi ordinarie. Le serie e le sequenze, però, ci appaiono soltanto per parti limitate, e in un ordine scompigliato o mescolato, cosicché noi crediamo a rotture, disparità e discordanze come a cose straordinarie. Maurice Leblanc ha scritto un bel feuilleton che arriva a una saggezza Zen: Balthazar, il protagonista, "professore di filosofia quotidiana", insegna che nella vita non esiste nulla di notevole o singolare, che le avventure più strane si spiegano facilmente e tutto è fatto di cose ordinarie25. Semplicemente, bisognerebbe dire che in virtù delle concatenazioni, per natura deboli, dei termini delle serie, queste ultime sono costantemente scompigliate e non appaiono nell'ordine. Un termine ordinario esce dalla propria sequenza, spunta in mezzo a un'altra sequenza di cose ordinarie, in rapporto alle quali ha l'apparenza di un momento forte, di un punto notevole o complesso. Sono gli uomini a introdurre lo scompiglio nella regolarità delle serie, nella continuità corrente dell'universo. Esiste un tempo per la vita, un tempo per la morte, un tempo per la madre, un tempo per la figlia, ma gli uomini li mescolano, li fanno sorgere in disordine, li rendono conflittuali. E il pensiero di Ozu: la vita è semplice e l'uomo non cessa di complicarla "agitando l'acqua cheta" (così fanno i tre compari di Akibiyorì, Tardo autunno). E se dopo la guerra l'opera di Ozu non conosce affatto quel declino a volte annunciato, è proprio perché il dopoguerra confermerà questo pensiero, ma rinnovandolo, rafforzando e superando il tema della contrapposizione fra generazioni: il giornaliero americano si scontra con il giornaliero giapponese, urto di due quotidianità che si esprime persino nel colore, quando il rosso Coca-cola o il giallo plastico fanno brutalmente irruzione nella serie di tinte slavate, atone, della vita giapponese26. Come dice un personaggio de II gusto del saké se fosse avvenuto il contrario, se il saké, il samisen* e le parrucche da geisha fossero penetrate all'improvviso nella banalità quotidiana degli americani...? A questo proposito ci sembra che la Natura non intervenga, come pensa Schrader, in un momento decisivo o in una rottura manifesta con l'uomo quotidiano. Lo splendore della Natura, di una montagna innevata ci dice soltanto una cosa: Tutto è ordinario e regolare, Tutto è quotidiano! Essa si accontenta di riannodare ciò che l'uomo ha spezzato, ripara ciò che l'uomo vede infranto. E quando un personaggio esce per un attimo da un conflitto familiare o da una veglia mortuaria per contemplare la montagna innevata, è come se cercasse di riparare l'ordine scompigliato delle serie nella casa, ma restituito da una Natura immobile e regolare, come fosse un'equazione che ci rende ragione delle rotture apparenti, "des tours et retours, des hauts et des bas", secondo la formulazione di Leibniz. La vita quotidiana lascia sussistere soltanto legami senso-motori deboli e sostituisce l'immagine-azione con immagini ottiche e sonore pure, opsegni e sonsegni. In Ozu non esiste linea di universo che congiunge dei momenti decisivi e i morti ai vivi, come in Mizoguchi; non esiste neppure lo spazio-soffio o inglobante che nasconde una domanda profonda, come in Kurosawa. Gli spazi di Ozu sono elevati allo stato di spazi qualsiasi, sia per sconnessione, sia per vacuità (e anche in questo Ozu può essere considerato uno dei primi inventori). I falsi raccordi di sguardo, di direzione e anche di posizione d'oggetti sono costanti, sistematici. Un caso di movimento di macchina ci da un buon esempio di sconnessione: in Bakushu (Prima estate) la protagonista avanza in punta di piedi per sorprendere qualcuno in un ristorante, mentre la cinepresa arretra per mantenerla al centro del quadro; poi la cinepresa avanza lungo un corridoio, non più quello del ristorante, ma quello della casa nella quale la protagonista è già rientrata. Quanto agli spazi vuoti, senza personaggi e senza movimento, sono interni svuotati dei loro occupanti, esterni deserti o paesaggi della Natura. In Ozu acquistano un'autonomia che immediatamente non possiedono, neppure nel neorealismo che mantiene loro un valore apparente relativo (in rapporto a un racconto) o risultante (una volta spenta l'azione). Essi raggiungono l'assoluto, come contemplazioni pure, e assicurano immediatamente l'identità fra mentale e fisico, reale e immaginario, soggetto e oggetto, mondo e io. Corrispondono in parte a quanto Paul Schrader chiama "stasi", Noël Burch "pillow-shots", Donald Richie "nature morte". * Samisen: strumento giapponese a pizzico (N.d.T.). Il problema consiste nel sapere se non sia tuttavia necessario stabilire una distinzione all'interno di questa stessa categoria27. Tra uno spazio o paesaggio vuoti e una natura morta, volendo essere precisi, vi sono sicuramente molte somiglianze, funzioni comuni e passaggi insensibili. Ma non sono la stessa cosa, una natura morta non si confonde con un paesaggio. Uno spazio vuoto ha valore innanzitutto per l'assenza di un contenuto possibile, mentre la natura morta si definisce per la presenza e la composizione di oggetti che si avvolgono in se stessi o diventano il loro proprio contenente: così il campo lungo del vaso quasi alla fine di Tarda primavera. Oggetti di tal genere non si avvolgono necessariamente nel vuoto, ma possono lasciar vivere e parlare dei personaggi in un certo flou, come la natura morta con vaso e frutta di Tokio no onna (Donna di Tokio) o quella con frutta e mazze da golf di Kanu-jo wa nani wo wasuretaka (Quello che la signora ha dimenticato). Come in Cézanne, i paesaggi vuoti o squarciati non hanno gli stessi principi di composizione delle nature morte piene. Capita di esitare tra i due, tanto le funzioni possono sconfinare e le transizioni farsi sottili: in Ozu, ad esempio, la stupenda composizione con bottiglia e faro, all'inizio di Ukigusa Monogatari (Storia di erbe fluttuanti). La distinzione non è soltanto quella fra vuoto e pieno che, in quanto duplice aspetto della contemplazione, è alla base di tutte le sfumature o di tutti i rapporti nel pensiero cinese e giapponese. Se gli spazi vuoti, interni o esterni, costituiscono situazioni puramente ottiche (e sonore), le nature morte ne sono il rovescio, il correlato. Il vaso di Tarda primavera si inserisce fra il sorriso a fior di labbra della figlia e le sue lacrime nascenti. Vi è divenire, cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. E il tempo, il tempo in persona, "un frammento di tempo allo stato puro": un'immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento. La notte che si muta in giorno, o viceversa, rinvia a una natura morta sulla quale piove una luce in calando o in crescendo (La femme d'une nuit, Dekigokoro, Cuore capriccioso). La natura morta è il tempo, perché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo stesso non cambia, non potrebbe cambiare che in un altro tempo, all'infinito. Nel momento in cui l'immagine cinematografica si confronta nel modo più ravvicinato con la fotografia, se ne distingue anche nel modo più radicale. Le nature morte di Ozu durano, hanno una durata, i dieci secondi del vaso: questa durata del vaso è precisamente la rappresentazione di ciò che permane, attraverso la successione di stati mutevoli. Anche una bicicletta può durare, ovvero può rappresentare la forma immutabile di ciò che si muove, a condizione di permanere, di rimanere immobile, appoggiata contro il muro (Ukigusa Monogatari). La bicicletta, il vaso, le nature morte sono immagini pure e dirette del tempo. Ciascuna è il tempo, ogni volta, sotto questa o quella condizione di ciò che cambia nel tempo. Il tempo è il pieno, cioè la forma inalterabile riempita dal cambiamento. Il tempo è "la riserva visiva degli avvenimenti nella loro giustezza"28. Antonioni parlava dell'"orizzonte degli avvenimenti", ma ricordava che il termine per gli occidentali è duplice, orizzonte banale dell'uomo, orizzonte cosmologico inaccessibile e sempre sfuggente. Di qui la distinzione del cinema occidentale in umanesimo europeo e fantascienza americana29. Suggeriva che per i giapponesi, poco interessati alla fantascienza, non è la stessa cosa: è uno stesso orizzonte che lega il cosmico e il quotidiano, il durevole e il mutevole, un solo e medesimo tempo come forma immutabile di ciò che cambia. Così, secondo Schrader, si definivano la natura o la stasi, come la forma che lega il quotidiano in "qualcosa di unificato, di permanente". Non vi è nessun bisogno di invocare una trascendenza. Nella banalità quotidiana, l'immagine-azione e anche l'immagine-movimenio tendono a scomparire a vantaggio di situazioni ottiche pure, ma queste scoprono legami di un nuovo tipo, che non sono più senso-motori e che mettono i sensi liberati in rapporto diretto con il tempo, con il pensiero. Questo è il prolungamento molto particolare dell'opsegno: rendere sensibili il tempo, il pensiero, renderli visivi e sonori. 3. Una situazione puramente ottica e sonora non si prolunga in azione più di quanto non sia indotta da un'azione. Essa fa cogliere, si presume faccia cogliere qualcosa d'intollerabile, d'insopportabile. Non una brutalità come aggressione nervosa, una violenza ingrandita che si può sempre estrarre dai rapporti senso-motori nell'immagine-azione. Non si tratta neppure di scene di terrore, benché a volte vi siano cadaveri e sangue. Si tratta di qualcosa di troppo potente, o di troppo ingiusto, ma a volte anche di troppo bello, che quindi eccede le nostre capacità senso-motorie. Stromboli, una bellezza troppo grande per noi, come un dolore troppo forte. Può trattarsi di una situazione-limite, l'eruzione del vulcano, ma anche della più banale, una semplice fabbrica, un terreno abbandonato. In Les carabiniers (I carabinieri) di Godard, la militante recita qualche formula rivoluzionaria, altrettanti cliché; ma è talmente bella, d'una bellezza intollerabile per i suoi carnefici, da costringerli a coprire il suo volto con un fazzoletto. E questo fazzoletto, ancora sollevato dal respiro e dal mormorio ("fratelli, fratelli, fratelli...") diventa esso stesso intollerabile per noi spettatori. In ogni modo qualcosa, nell'immagine, è diventato troppo forte. Già il romanticismo si proponeva questo scopo: cogliere l'intollerabile o l'insopportabile, il dominio della miseria, e in tal modo divenire visionario, fare della visione pura un mezzo di conoscenza e d'azione30. Eppure, in ciò che pretendiamo di vedere non vi sono tanto fantasma e sogno, quanto apprensione oggettiva? Meglio ancora, non abbiamo una simpatia soggettiva per l'intollerabile, un'empatia che penetra quel che vediamo? Questo significa allora che l'intollerabile stesso non è separabile da una rivelazione o da un'illuminazione, come da un terzo occhio. Fellini simpatizza con la decadenza solo a condizione di prolungarla, di estenderne la portata "fino all'insostenibile " e scoprire sotto i movimenti, i volti e i gesti un mondo sotterraneo o extra-terrestre, "poiché il carrello diventa strumento di decollo, prova dell'irrealtà del movimento", e il cinema diventa non più impresa di riconoscimento ma di conoscenza, "scienza delle impressioni visive, che ci obbliga a dimenticare la nostra stessa logica e le abitudini della nostra retina" 31. Ozu stesso non è il custode dei valori tradizionali o reazionari, ma il maggior critico della vita quotidiana. Egli deriva l'intollerabile perfino dall'insignificante, a condizione di stendere sulla vita quotidiana la forza di una contemplazione piena di simpatia o di pietà. L'importante è sempre che il personaggio o lo spettatore, e tutti e due insieme, diventino visionari. La situazione puramente ottica e sonora risveglia una funzione di veggenza, contemporaneamente fantasma e constatazione, critica e compassione, mentre le situazioni senso-motorie, per quanto violente, si rivolgono a una funzione visiva pragmatica che "tollera" o "sopporta" quasi ogni cosa, dal momento che è presa in un sistema di azioni e di reazioni. In Giappone, come in Europa, la critica marxista ha denunciato questi film e i loro personaggi, troppo passivi e negativi, a volte borghesi, a volte nevrotici o marginali, e che sostituiscono all'azione modificatrice una visione "confusa"32. Ed è vero che, nel cinema, i personaggi da ballata sono poco interessati perfino da quanto capita loro: sia alla maniera di Rossellini, la straniera che scopre la fabbrica, sia alla maniera di Godard, la generazione dei Pierrot-le-fou. Ma proprio la debolezza dei concatenamenti motori, i legami deboll sono adatti a liberare grandi forze di disintegrazione. Sono personaggi stranamente vibranti in Rossellini, stranamente comuni in Godard e Rivette. In occidente, come in Giappone, sono colti durante una mutazione, sono essi stessi dei mutanti. A proposito di Due o tre cose che so di lei, Godard disse che descrivere è osservare delle mutazioni". Mutazione dell'Europa dopo la guerra, mutazione di un Giappone americanizzato, mutazione della Francia nel '68: non è il cinema che si allontana dalla politica, diventa totalmente politico, ma in altro modo. Una delle due donne che passeggiano nel Pont du Nord di Rivette ha tutti gli aspetti di una mutante imprevedibile: in un primo tempo ha la capacità di identificare i Max, membri dell'organizzazione di asservimento mondiale, prima di subire una metamorfosi nel bozzolo ed essere trascinata poi nelle loro fila. Analoga l'ambiguità di Le petit soldat. Un nuovo tipo di personaggi per un nuovo cinema. Poiché quel che capita loro non gli appartiene, non li riguarda che a metà, essi sanno estrarre dall'avvenimento la parte irriducibile all'accadere: quella parte di inesauribile possibilità che costituisce l'insopportabile, l'intollerabile, la parte del visionario. Era necessario un nuovo tipo di attori: non solo quegli attori non-professionisti ai quali si era riallacciato il neorealismo ai propri esordi, ma quelli che potremmo chiamare dei non-attori professionisti o meglio degli "attori-medium", capaci di vedere e di far vedere più che d'agire, capaci talvolta di restare muti, talvolta d'intavolare una conversazione qualsiasi all'infinito, piuttosto che di rispondere o seguire un dialogo (come in Francia Bulle Ogier o Jean-Pierre Léaud)34. Le situazioni quotidiane, come pure le situazioni-limite, non si segnalano per qualcosa di raro o di straordinario. È solo un'isola vulcanica di poveri pescatori. È solo una fabbrica, una scuola... Passiamo a fianco di tutto questo, anche della morte, anche degli incidenti, nella nostra vita abituale o in vacanza. Vediamo, più o meno subiamo una potente organizzazione della miseria e dell'oppressione. E non siamo privi di schemi senso-motori per riconoscere queste cose, sopportarle o approvarle, comportarci di conseguenza, tenuto conto della situazione, delle nostre capacità, dei nostri gusti. Possediamo degli schemi per voltarci dall'altra parte quando questo è troppo sgradevole, per ispirarci la rassegnazione quando è troppo orribile, per farci coinvolgere quando è troppo bello. Osserviamo a questo proposito che anche le metafore sono astuzie senso-motorie che ci suggeriscono qualcosa da dire quando non si sa più che fare: sono schemi particolari, di natura affettiva. Un cliché è appunto questo. Un cliché è un'immagine senso-motoria della cosa. Come dice Bergson noi non percepiamo la cosa o l'immagine intera, ne percepiamo sempre meno, ne percepiamo solo quel che siamo interessati a percepire, o piuttosto quel che abbiamo interesse a percepire, in ragione dei nostri interessi economici, delle nostre convinzioni ideologiche, delle nostre esigenze psicologiche. Abitualmente percepiamo dunque soltanto cliché. Ma se i nostri schemi senso-motori si inceppano o si rompono, allora può apparire un altro tipo d'immagine: un'immagine ottico-sonora pura, l'immagine intera e senza metafora, che fa sorgere la cosa in se stessa, letteralmente, nel proprio eccesso d'orrore o di bellezza, nel proprio carattere radicale o ingiustificabile, perché essa non deve più essere "giustificata", nel bene e nel male... L'essenza della fabbrica sorge e non si può più dire "bisogna pure che le persone lavorino...". Ho creduto di vedere dei condannati: la fabbrica è una prigione, la scuola è una prigione, letteralmente, non metaforicamente. Non si fa seguire l'immagine di una prigione a quella di una scuola: sarebbe indicare semplicemente una somiglianza, un rapporto confuso tra due immagini chiare. Al contrario bisogna scoprire gli elementi e i rapporti distinti che ci sfuggono in fondo a un'immagine oscura: mostrare in cosa e come la scuola è una prigione, i grandi complessi edilizi sono delle prostituzioni, i banchieri sono degli assassini, i fotografi sono degli imbroglioni, letteralmente, senza metafora35. È il metodo di Comment ça va (Come va) di Godard: non accontentarsi di cercare, fra due foto, se "va" o "non va", ma "come va" per ciascuna e per entrambe. Questo era il problema sul quale si chiudeva il nostro precedente studio, strappare ai cliché un'immagine vera e propria. Da una parte l'immagine ricade continuamente allo stato di cliché: perché si inserisce in concatenazioni senso-motorie, perché organizza o induce essa stessa queste concatenazioni, perché non percepiamo mai tutto ciò che vi è nell'immagine, perché essa è fatta per questo (affinché noi non ne percepiamo tutto, affinché il cliché ci nasconda l'immagine...). Civiltà dell'immagine? In realtà è una civiltà del cliché, in cui tutti i poteri sono interessati a nasconderci le immagini, non necessariamente a nasconderci la stessa cosa, ma a nasconderci qualcosa nell'immagine. Dall'altra, contemporaneamente, l'immagine tenta continuamente di bucare il cliché, di uscirne. Non si sa fino a dove può portare una vera e propria immagine: l'importanza di diventare visionario o veggente. Non basta una presa di coscienza o un cambiamento nei cuori (benché ci sia anche questo, come nel cuore della protagonista di Europa 51, ma se non ci fosse nient'altro tutto ricadrebbe allo stato di cliché, si sarebbero semplicemente aggiunti altri cliché). Talvolta occorre ripristinare le parti perdute, ritrovare tutto quel che non si vede nell'immagine, tutto quel che le è stato sottratto per renderla "interessante". Ma a volte, al contrario, bisogna fare dei buchi, introdurre vuoti e spazi bianchi, rarefare l'immagine, sopprimere al suo interno molte cose, aggiunte per farci credere che si vedeva tutto. Bisogna dividere o fare il vuoto per ritrovare l'intero. Il difficile è sapere in che cosa un'immagine ottica e sonora non è anch'essa un cliché, al massimo una fotografia. Non pensiamo solamente al modo in cui queste immagini ci ripropongono il cliché, appena sono riprese da autori che le usano come formule. Ma a volte non sono i creatori stessi a pensare che la nuova immagine deve competere con il cliché sul suo stesso terreno, a porre l'enfasi sulla cartolina postale, a esagerare, a parodiarla, per cavarsela meglio (RobbeGrillet, Daniel Schmid)? I creatori inventano inquadrature ossessive, spazi vuoti o sconnessi, perfino nature morte: in un certo modo arrestano il movimento, riscoprono la potenza dell'inquadratura fissa, ma questo non significa risuscitare il cliché che vogliono combattere? Per vincere non è certo sufficiente parodiare il cliché, e nemmeno farvi dei buchi e vuotarlo. Non è sufficiente scompigliare i legami senso-motori. Bisogna associare all'immagine otticosonora forze immense che non sono quelle di una coscienza puramente intellettuale, e nemmeno sociale, ma di una profonda intuizione vitale36. Le immagini ottiche e sonore pure, la macchina fissa e il montaggio-taglio definiscono e implicano proprio un aldilà del movimento. Ma per la precisione non lo arrestano né nei personaggi, né nella cinepresa. Fanno sì che il movimento non possa essere percepito in un immagine senso-motoria, ma colto e pensato in un altro tipo di immagine. L'immagine-movimento non è scomparsa, ma esiste ormai solo come la prima dimensione di un'immagine che continua a crescere di dimensioni. Non stiamo parlando di dimensioni dello spazio, poiché l'immagine può essere piana, senza profondità, e acquistare in ciò tante più dimensioni o potenze che eccedono lo spazio. Possiamo indicare sommariamente tre di queste potenze crescenti. Prima di tutto, mentre l'immagine-movimento e i suoi segni senso-motori non erano in rapporto che con un'immagine indiretta del tempo (dipendente dal montaggio), l'immagine ottica e sonora pura, i suoi opsegni e sonsegni, si legano direttamente a un'immagine-tempo che ha subordinato il movimento. Questo capovolgimento fa non più del tempo la misura del movimento, ma del movimento la prospettiva del tempo: costituisce tutto un cinema del tempo, con una nuova concezione e nuove forme di montaggio (Welles, Resnais). In secondo luogo, mentre l'occhio accede a una funzione di veggenza, gli elementi non solo visivi ma anche sonori dell'immagine intrecciano rapporti interni tali che l'intera immagine debba essere "letta" non meno che vista, leggibile nella stessa misura in cui è visibile. Per l'occhio del veggente come dell'indovino, è la "letteralità" del mondo sensibile che lo costituisce come libro. Anche in questo, ogni riferimento dell'immagine o della descrizione a un oggetto presupposto come indipendente non scompare, ma si subordina ora agli elementi e ai rapporti interni che tendono a sostituire l'oggetto, a cancellarlo man mano che appare, dislocandolo sempre. La formula di Godard "non è sangue, è rosso", smette d'essere unicamente pittorica e assume un senso propriamente cinematografico. Il cinema costituirà un'analitica dell'immagine, che implica una nuova concezione del sezionamento, tutta una "pedagogia" che si eserciterà in forme diverse, per esempio nell'opera di Ozu, nell'ultimo periodo di Rossellini, nel periodo di mezzo di Godard, negli Straub. Insomma la fissità della cinepresa non rappresenta la sola alternativa al movimento. Anche mobile, la cinepresa non si accontenta più certe volte di seguire il movimento dei personaggi, o altre volte di compiere lei stessa movimenti di cui questi non sono che l'oggetto, ma in tutti i casi subordina la descrizione di uno spazio a funzioni del pensiero. Non si tratta della semplice distinzione tra soggettivo e oggettivo, reale e immaginario, si tratla al contrario della loro indiscernibilità, che doterà la cinepresa di un ricco insieme di funzioni e comporterà una nuova concezione del quadro e delle reinquadrature. Si avvererà il presentimento di Hitchcock: una coscienza-cinepresa non più definita dai movimenti che è in grado di seguire o di compiere, ma dalle relazioni mentali in cui può entrare. Diventando colei che interroga, risponde, obietta, provoca, teorematizza, congettura, sperimenta, secondo la lista aperta delle congiunzioni logiche ("o", "dunque", "se", "perché", "in effetti", "benché"...), o secondo le funzioni di pensiero di un cinéma-vérité che, come dice Rouch, significa piuttosto verità del cinema. Questo è il triplice capovolgimento che definisce un aldilà del movimento. Bisognava che l'immagine si svincolasse dai legami senso-motori, che cessasse d'essere immagine-azione per diventare un'immagine ottica, sonora (e tattile) pura. Ma questa non era sufficiente, bisognava che entrasse in rapporto con altre forze ancora, per sfuggire al mondo del cliché. Bisognava che s'aprisse su rivelazioni potenti e dirette, quelle dell'immagine-tempo, dell'immagine leggibile e dell'immagine pensante. In tal modo infatti gli opsegni e i sonsegni rinviano a dei "cronosegni", dei "lectosegni" e dei "noosegni"37. Nell'interrogarsi sull'evoluzione del neorealismo a proposito del Grido, Antonioni affermava di tendere a fare a meno della bicicletta — naturalmente la bicicletta di De Sica. Questo neorealismo senza bicicletta sostituisce l'ultima ricerca di movimento (la ballata) con un peso specifico del tempo che si esercita all'interno dei personaggi e li mina dal di dentro (la cronaca)38. L'arte di Antonioni è come l'intreccio di conseguenze, strascichi ed effetti temporali che derivano da avvenimenti fuori campo. Già in Cronaca di un amore, l'indagine ha come conseguenza di provocare il seguito di un primo amore, e per effetto di far risuonare due desideri di omicidio, al futuro e al passato. È un intero mondo di cronosegni, sufficiente a far dubitare della falsa evidenza secondo la quale l'immagine cinematografica è necessariamente al presente. Se siamo ammalati d'Eros, diceva Antonioni, lo siamo in quanto Eros stesso è malato; ed è malato non semplicemente perché vecchio o superato nel proprio contenuto, ma perchè e catturato nella forma pura di un tempo che si lacera tra un passato già finito e un futuro senza uscita. Per Antonioni esiste solo la malattia cronica, Chronos è la malattia stessa. Per questo i cronosegni non sono separabili dai lectosegni, che ci costringono a leggere nell'immagine altrettanti sintomi, cioè a trattare l'immagine ottica e sonora come qualcosa anche di leggibile. Non solo l'ottico e il sonoro, ma il presente e il passato, il qui e l'altrove, costituiscono elementi e rapporti interni che debbono essere decifrati e possono essere compresi soltanto in una progressione analoga a quella di una lettura: fin da Cronaca di un amore, spazi indeterminati vengono disposti in scala solo più tardi, tramite ciò che Burch definisce un "raccordo a percezione ritardata"39, più vicino a una lettura che a una percezione. In seguito, l'Antonioni colorista saprà trattare le variazioni di colore come dei sintomi e la monocromia come il segno cronico che invade un mondo, grazie a tutto un gioco di modificazioni deliberate. Ma già Cronaca di un amore rivela un'"autonomia della cinepresa", quando rinuncia a seguire il movimento dei personaggi o a fare cadere su di essi il proprio movimento, per operare continuamente delle reinquadrature come funzioni di pensiero, noosegni che esprimono le congiunzioni logiche di successione, di conseguenza o anche d'intenzione. Note 1 André Bazin, Che cos’è il cinema? Milano, Garzanti, 1973, p. 229 (e si vedano tutti i capitoli sul neorealismo). Amédeé Avfe, nel riprendere e sviluppare la tesi di Bazin, le conferisce un'accentuata espressione fenomenologica: "Du premier au second néo-réalisme", in Le néo-réalisme italien, “Etudes cinématographiques", n. 32-35, 1964. 2 Su questi film, cfr. Jean-Claude Bonnet, Rossellini ou le parti pris des choes, in "Cinématographe", n. 43, gennaio 1979. Questa rivista ha dedicato al neorealismo due numeri, il 42 e il 4 3, dal titolo perfettamente consono, Le regard néo-réaliste. 3 Il romanzo di James Cain, 11 postino suona sempre due volte, ha dato luogo a quattro versioni cniematograliche: Pierre Chenal (L'ultima svolta, 1939), Visconti (1942), Garnett (1946) e Rafelson (1981). La prima ha molti punti in comune con il realismo poetico francese e le ultime due con il realismo americano dell'immagine-azione. Jacques Fieschi fa un'analisi comparata molto interessante dei quattro film: in "Cinématographe" , n. 7O, settembre 1981, pp. 8-9 (si farà riferimento anche al suo articolo su Ossessione, in idem, n. 42). 4 Questi temi sono analizzati in Visconti, "Etudes cinématografiques", n. 26-27, 1963, in particolare negli articoli di Bernard Dort e René Duloquin (cfr. Duloquin, a proposito di Rocco e i suoi fratelli, p. 86: "Dalla scalinata monumentale di Milano al terreno abbandonato, i personaggi fluttuano in una scena di cui non colgono i confini. Sono reali, anche la scena lo è, ma non la loro relazione che è affine a quella di un sogno"). 5 Su questo "comunismo" nella Terra trema, cfr. Yves Guillaume, Visconti, Parigi, Ed. Universitaires, 1966, p. 17 seg. 6 Cfr. il commento di Noël Burch, Prassi del cinema, Parma, Pratiche editrice, 1980, pp. 76-82. 7 Barthélemy Amengual, "Du spectacle au spectaculaire", in Fellini I, "Etudes cinématographiques", n. 28-29, 1963. 8 Pierre Leprohon ha insistito su questa nozione di constatazione in Antonioni, cfr. Antonioni, Parigi, Seghers, 1965. 9 Fellini ha spesso rivendicato questa simpatia per la decadenza (ad esempio, "non è un processo fatto da un giudice, è un processo fatto da un complice", in Amengual, cit., p. 9). Antonioni, al contrario, mantiene di fronte al mondo, ai sentimenti e ai personaggi che vi appaiono, un'oggettività critica nella quale si può scorgere un’ispirazione quasi marxista: cfr. l'analisi di Gérard Gozlan, in "Positif", n. 35, luglio l960. Gozlan richiama il bel testo di Antonioni: come è possibile che gli uomini si sbarazzino facilmente delle proprie concezioni scientifiche e tecniche quando si rivelano insufficienti o inadatte, mentre restano legati a convinzioni e sentimenti "morali" che fanno solo la loro infelicità, anche quando inventano un immoralismo ancor più malato? (Il testo di Antonioni è riportato da Leprohon, op. cit., pp. 104-106). 10 Michelangelo Antonioni, "Cinéma 58", settembre 1958. E la frase di l.eprohon. op. cit., p. 76: "Il racconto può essere letto soltanto in filigrana, attraverso immagini che sono conseguenze e non più atto". 11 Alain Robbe-Grillet, “Tempo e descrizione nel racconto odierno” ne Il nouveau roman, Milano, Sugar editore, 1965, p. 149. Avremo spesso bisogno di fare riferimento alla teoria della descrizione in questo testo di Robbe-Grillet. 12 13 14 André Labarte, in "Cahiers dn cinéma", n. 123, settembre 1961. Amengual, op. cit., p. 22. Claude Ollier, Souvenirs écran, Parigi, Cahiers du cinéma-Gallimard, 1981, p. 86. Ollier analizza gli scarti e le iniezioni nelle immagini di Antonioni, il ruolo dello sguardo immaginario che raccorda le parti di spazio. Si farà anche riferimento all'eccellente analisi di Marie-Claire Ropars-Wuilleumier, che mostra come Antonioni non passi solo da uno spazio sconnesso a uno spazio vuoto ma, contemporaneamente, da una persona che soffre dell'assenza di un'altra, a una persona che soffre ancora più radicalmente di un'assenza a se stessa e al mondo ("L'espace et le temps dans l'univers d'Antonioni" in Antonioni, Etudes cinématographiques", n. 36-37, 1964, pp. 22, 27-28, testo ripreso ne L'ecran de la mémoire. Parigi, Seuil 1970). 15 Cfr. l'analisi di Michel Esteve, "Les nuits blanches ou le jeu du réel et de l'irréel", in Visconti, "Etudes...", cit. 16 Georges Sadoul, Chroniques du cinema français,, I, Parigi, Christian Bourgeois éditeur, 10/18, p. 370. 17 Ollier, op. cit., p. 23-24 (sullo spazio in Una storia americana). 18 Abbiamo visto in precedenza questo senso particolare della luce nella scuola francese d'anteguerra, specie in Grémillon. Ma Jacques Rivette lo porta a un livello superiore, riallacciandosi alle concezioni più profonde di Robert Delaunay: "Al contrario dei cubisti, Delaunay non cerca i segreti del rinnovamento nella presentazione degli oggetti, o più esattamente della luce a livello degli oggetti. Egli ritiene che la luce stessa crei delle forme, indipendentemente dai propri riflessi sulla materia. (...) Se la luce distrugge le forme oggettive, porta con sé in compenso il proprio ordine e il proprio movimento. (...) Delaunay scopre allora che i movimenti che animano la luce sono diversi a seconda che si tratti del Sole o della Luna. (...) Associa ai due spettacoli fondamentali della luce in movimento l'immagine dell'universo, sotto forma del globo terrestre presentato come il luogo di eterni miraggi", Pierre Francastel, Du cubismo a l'art abstrait, Robert Delaunay, Parigi, Bibliothèque de l'Ecole pratique des hautes études, 1957, pp. 1929. 19 Marcel Proust, "Gerard de Nerval", in Contro Sainte-Beuve, Torino, Einaudi, 1974. Proust conclude la sua analisi ricordando che un sognatore mediocre non torna a rivedere i luoghi visti in sogno, perché non è che un sogno, mentre un vero sognatore vi si reca proprio perché è un sogno. 20 Già per Questa è la mia vita Godard diceva che "il lato esteriore delle cose" deve permettere di rendere "la sensazione dell'interiore": "come rendere l'interno? Beh, appunto restando prudentemente all'esterno", come il pittore. E Godard presenta Due o tre cose che so di lei come se aggiungesse una "descrizione soggettiva" alla "descrizione oggettiva" per dare una "sensazione d'insieme", Jean-Luc Godard par ]ean-Luc Godard, Parigi, Belfond, 1968, pp. 509, 394-395. 21 Robbe-Grillet, op.rif.,p. 92. 22 Emmanuel Carrère ha mostrato questo "tentativo di approccio alle sensazioni tattili" in Werner Herzog, Parigi, Edilig, 1982, p. 25: non solo in Land des Schweigens und der Dunkelheit (Paese del silenzio e dell'oscurità) che mette in scena dei ciechi-sordi, ma in Kaspar Hauser, che fa coesistere grandi visioni oniriche con piccoli gesti tattili (per esempio la pressione di pollice e dita quando Kaspar si sforza di pensare). 23 Donald Richie, Ozu, Ginevra, Ed. Lettre du blanc, 1980, pp. 15-26: “Nell'accingersi a scrivere la sceneggiatura, forte del proprio repertorio di temi, raramente si chiedeva di quale storia si sarebbe trattato. Si chiedeva piuttosto di quali persone sarebbe stato popolato il suo film. (...) A ogni personaggio era attribuito un nome e una quantità di caratteristiche generali appropriate alla sua situazione familiare, padre, figlia, zia, ma pochi tratti identificabili. Il personaggio cresceva, o piuttosto cresceva il dialogo che gli dava vita (...) aldifuori di ogni riferimento all'intreccio o alla storia. (…) Benché le scene d'apertura siano sempre scene fortemente dialogate, il discorso non ruota apparentemente attorno ad alcun soggetto preciso. (…) II personaggio era quindi costruito, modellato, quasi esclusivamente attraverso le conversazioni che faceva”. E, sul principio "un piano, una battuta", cfr. pp. 143-145. 24 Paul Schrader, Trascendental style in film: Ozu, Bresson, Dreyer (estratti in “Cahier du cinema”, n. 286, marzo 1978). Diversamente da Kant, gli americani non distinguono affatto il trascendentale dal trascendente: di qui la tesi di Schrader che attribuisce a Ozul un gusto per "il trascendente", che rintraccia anche in Bresson e perfino in Drever. Schrader distingue tre "fasi dello stile trascendentale" di Ozu: il quotidiano, il decisivo e la "stasi" come espressione del trascendente stesso. 25 Vedi Maurice Leblanc, La vie extravagante de Balthazar, Parigi, Le livre de poche, 1979. 26 Sul colore in Ozu cfr. le belle osservazioni di Renaud Bezombes in "Cinématographe" n. 41, novembre 1978, p. 47, e n. 52, novembre 1979, p. 58. 21 Si farà riferimento alla bella analisi del "pillow shot" e delle sue funzioni di Noël Burch: sospensione della presenza umana, passaggio all'inanimato, ma anche passaggio inverso, perno, emblema, contributo alla 'pianezza' dell'immagine, composizione pittorica, in Pour un observateur lointain. Parigi, Cahiers du cinéma-Gallimard, 1982, pp. 175-186. Ci chiediamo solo se non è il caso di distinguere due cose diverse in questi “pillow shots”. Lo stesso valore per quelle che Richie chiama “nature morte”, op. cit., pp. 164170. 28 Dogen, Shôbôgenzo, Parigi, Ed. de la Diffénce. 29 Cfr. Antonioni, L’horizon des événements in "Cahiers du cinema", n. 290, luglio 1978, p. 11, che insiste sul dualismo europeo. Riprende brevemente questo tema anche in un'intervista ulteriore, mostrando che i Giapponesi pongono in maniera diversa il problema (cfr. n. 342, dicembre 1982). 30 Paul Rozenberg vi vede l’essenziale del romanticismo inglese in Le romantisme anglais, Parigi, Larousse. 31 J.M.G. Le Clezio, “L’extra-terrestre”, in Fellini, “l’Arc”, n. 45, p. 28. 32 Sulla critica marxista dell’evoluzione del neorealismo e dei suoi personaggi cfr. Le néo-réalisme, “Etudes…”, cit., p. 102. E sulla critica marxista al Giappone, in particolare contro Ozu, cfr. Noël Burch, op. cit., p. 283. Bisogna sottolineare che in Francia la nouvelle vague, nel suo aspetto visionario, ha incontrato viva comprensione da parte di Sadoul. 33 Cfr. Jean-Luc Godard par…, cit., p. 392. 34 Marc Chevrie analizza la recitazione di Jean-Pierre Léaud come “medium” in termini analoghi a quelli di Blanchot in “Cahiers du cinéma”, n. 351, settembre 1983, pp. 31-33. 35 La critica della metafora è presente tanto nella nouvelle vague, in Godard, quanto nel nouveau roman, in Robbe-Grillet (Il nouveau…, op. cit.). È vero che, più di recente Godard si vanta di una forma metaforica, per esempio a proposito di Passion: “i cavalieri sono la metafora dei padroni…” (in “le Monde”, 27 maggio 1982). Ma, come vedremo, questa forma rinvia a un’analisi genetica e cronologica dell’immagine, molto più che una sintesi o comparazione d’immagini. 36 A proposito di Cézanne, D.H. Lawrence ha scritto un importante testo a favore dell’immagine e contro i cliché. Mostra come la parodia non sia una soluzione; e nemmeno l’immagine ottica pura, con i suoi vuoti e le sue sconnessioni. A suo parere, Cézanne vince la battaglia contro i cliché più nelle nature morte che nei ritratti e nei paesaggi, cfr. “Introducion à ces peintures”, in Eros et le chiens, Parigi, Christian Bourgois éditeur, pp. 253-264. Abbiamo visto come le stesse osservazioni si applicavano a Ozu. 37 “Lectoseno” rinvia al lekton greco o al dictum latino, che designa il dato espresso di una proposizione, indipendentemente dal rapporto di questa con il proprio oggetto. La stessa cosa vale per l’immagine quando è presa intrinsecamente, indipendentemente dal suo rapporto con un supposto oggetto esterno. 38 Testo di Antonioni, citato da Leprohon, op. cit., p. 103: “Oggi che abbiamo eliminato il problema della bicicletta (parlo metaforicamente, cercate di capirmi aldilà delle parole), è importante capire cosa vi è nella mente e nel cuore di quest’uomo cui è stata rubata la bicicletta, come si è adattato, cosa gli è rimasto di tutte le esperienze passate della guerra, del dopoguerra, di tutto ciò che è accaduto nel nostro paese”. Per il testo su Eros malato, idem, pp. 104-106. 39 Noël Burch è uno dei primi critici ad aver mostrato che l’immagine cinematografica doveva essere letta, non meno che vista e intesa; e questo a proposito di Ozu, cfr. Pour un observateur…, op. cit., p. 175). Ma già in Prassi…, cit., Burch dimostrava come Cronaca di un amore instaurasse un nuovo rapporto tra racconto e azione e rendesse alla cinepresa un’“autonomia” molto prossima a una lettura, cfr. pp. 76-82; e, sul “raccordo a percezione ritardata”, p. 3