2013-01 I-04 ORESTANO RUOLO AVVOCATO E FORMAZIONE

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2013-01 I-04 ORESTANO RUOLO AVVOCATO E FORMAZIONE
Salvatore Orestano
IL RUOLO DELL’AVVOCATO E LA
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FORMAZIONE CONTINUA
Sommario: 1. Il ruolo dell’avvocato. – 2. La riforma forense.
IL RUOLO DELL’AVVOCATO
Può ben ritenersi che l'avvocato che espleti il proprio mandato
secondo i canoni tradizionali è considerato il difensore tecnico del
suo assistito, facendosi esso altresì garante dei diritti delle parti
private nel processo penale e dei diritti di natura patrimoniale e
morale del suo patrocinato in tutti gli altri giudizi.
Tuttavia, tale raffigurazione appare limitativa, non contemplando essa aspetti fondamentali della professione forense: l’avvocato
innanzitutto svolge una funzione preparatoria alla difesa dei diritti,
in quanto esamina la situazione giuridica soggettiva in cui è coinvolto il suo assistito, funzione essenziale che si considera inclusa
nell'area del riserbo, cioè coperta dal segreto professionale (il c.d.
legal privilege – art. 6 della riforma forense) che si lega al rapporto tra avvocato ed assistito per tutta la durata del rapporto stesso
e si sottrae a qualsiasi controllo esterno, compreso quello relativo
alla disciplina antiriciclaggio.
Come ben sottolinea il prof. Guido Alpa, presidente del Consiglio Nazionale Forense, in un proprio scritto sul ruolo
dell’avvocato, il rapporto tra avvocato ed assistito è caratterizzato
«da un valore di natura sostanziale e processuale, la fiducia», che
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Relazione svolta presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università
degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 22 febbraio 2013.
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viene a mancare soltanto se la parte assistita revoca il mandato al
suo difensore o quest' ultimo lo dismetta.
Continua il prof. Alpa, evidenziando come «il difensore studi la
strategia della difesa, ed è uno degli attori del processo, parte essenziale anche là dove l'assistito non intenda nominarne uno di fiducia e non sia abilitato a difendersi da sé. Egli svolge il suo compito in modo dialettico con il difensore di controparte e nel dialogo
con il giudice: nel processo si dice che si tratti di un compito persuasivo perché diretto a convincere il giudice delle buone ragioni
del suo assistito; insomma svolge un ruolo così essenziale, nel
processo e fuori dal processo, che nella concezione pubblicistica
del processo, in particolare di quello penale e di quello civile accreditatasi nel nostro Paese, la sua viene definita una funzione di
rilevanza pubblica».
In proposito, va menzionata la Relazione del Guardasigilli al Re
sul Codice di procedura civile del 1940 che definisce l'avvocato
come un soggetto che svolge un ministero, che svolge quindi un
munus, e sottolinea che gli avvocati devono avere «piena coscienza dell'altezza morale e dell'importanza pubblica del loro ministero, che li chiama ad essere i più preziosi collaboratori del giudice»
(sub art. 82 c.p.c.).
V’è poi il pensiero di Piero Calamandrei, padre fondatore del
codice di procedura civile, proprio sulle caratteristiche della professione dell’avvocato: «Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere
prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere
gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire
come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di
comprensione, di dedizione e di carità.
Per questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando
il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al
quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere
qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia».
Non si tratta, quindi, di avere unicamente capacità o efficienza
tecnica, ma di impegno sociale, di implicazioni personali che vanno
tradotte in atteggiamenti e comportamenti che richiedono virtù
umane, che non si inventano al momento, ma che si coltivano
giorno dopo giorno.
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Parte Prima - Dottrina
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A questa riflessione se ne può aggiungere un'altra:
l’atteggiamento di compartecipazione e condivisione della vita e
dei drammi degli altri deve essere tipico dell’avvocato, che ha una
specifica sensibilità alle problematiche sociali ed umanitarie.
Il diritto, come ben sappiamo, è l’insieme di norme (leggi, regolamenti, consuetudini,…) che regola i rapporti tra gli individui, da
quelli familiari a quelli internazionali. Aiuta la vita di relazione ad
ogni livello ed ha come finalità l’instaurarsi di una società giusta,
nella quale gli interessi del singolo non prevalgano sul bene comune nonché sugli interessi della collettività.
Al riguardo, ben può essere citata la frase di Sant’Agostino che
più di ogni altra rende il senso vero della giustizia: «La giustizia è
quella disposizione dell’animo che, mentre custodisce il bene comune, accorda a ciascun uomo la dignità che gli è propria».
Il diritto di difesa e, quindi, il ruolo del difensore non è tracciato
una volta per sempre nella storia processuale di un Paese, perché
esso evolve secondo la mentalità, i valori, le ideologie ma anche le
conquiste della scienza giuridica: proprio la nostra esperienza dimostra come esso si sia sempre riproposto in discussione, al fine
di raggiungere le migliori garanzie che si debbono assicurare alla
persona.
Il difensore è dunque sì il garante, nel processo penale, dell'autonomia e dell'indipendenza dell'imputato nella condotta della
causa, un necessario “intermediario” dell'assistito nel processo,
ma è anche un soggetto il cui ruolo e le cui funzioni possono variare nel tempo e nello spazio. Tali funzioni dunque non sono immutabili. Per la verità, non sono neppure definitive le conclusioni a
cui la dottrina è giunta anche con riguardo a rapporti elementari
inerenti il rapporto tra l'avvocato e il suo assistito.
Esemplare, in questo senso, la qualificazione del rapporto tra
l'avvocato ed il suo assistito. Secondo il codice civile il rapporto è
classificabile nell'ambito del contratto d'opera intellettuale, tale
essendo l'oggetto della prestazione: quindi un contratto di lavoro
indipendente, che dà diritto ad una retribuzione, che implica una
responsabilità per inadempimento con conseguente risarcimento
del danno nel caso in cui la prestazione non sia eseguita secondo il
metro della diligenza professionale.
Si tratta di una attività intellettuale, che si può svolgere solo se
si è conseguito il titolo abilitativo, come prevede l'art. 33 Cost. E
tuttavia, oggi, con l’imperare della globalizzazione, assistiamo ad
un netto mutamento dei principi e dei cardini enunciati nella disciRassegna Forense – 1/2013
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plina civilistica (artt. 2222 ss.): intanto, la prestazione intellettuale
è assimilata ad un servizio, ampliandosi la disciplina comunitaria
che unifica l'attività intellettuale con quella d'impresa dal punto di
vista della concorrenza, in ciò ignorando la stessa Carta europea
dei diritti fondamentali che distingue invece la libertà di esercizio
del lavoro dalla libertà di esercizio dell'impresa. Quanto alla retribuzione, non si fa più riferimento a tariffe predisposte dal Consiglio nazionale forense e determinate in piena autonomia dal Ministero della Giustizia, ma piuttosto a “parametri” che saranno fissati con regolamento ministeriale, senza obbligo di parere del Consiglio nazionale forense, secondo i provvedimenti assunti dai Governi che si sono succeduti negli ultimi mesi. Come ha osservato il
prof. Alpa, «si è quindi verificato un vulnus a carico della categoria
professionale degli avvocati, i quali, nell'ambito della loro esperienza, meglio di qualsiasi altro valutatore avrebbero potuto suggerire le regole del compenso della prestazione intellettuale, salva
sempre restando la libertà delle parti di determinarlo secondo
propri accordi, e sempre che il compenso fosse rispondente a criteri di dignità e di decoro».
Con il c.d. decreto Bersani del luglio 2006 convertito in legge
nell’agosto dello stesso anno, è stato eliminato l’obbligo di rispettare i minimi di tariffa, nonché è stato abolito il divieto del c.d.
patto di quota lite, con conseguenze devastanti per gli appartenenti all’ordine forense, sia sul piano della violazione dell’obbligo
di non accaparramento di “clientela”, sia sulla statuizione da sempre esistente che impediva all’avvocato di divenire parte del rapporto che doveva curare come difensore.
Tutto ciò è stato posto in essere, ritenendosi che sia l’obbligo di
rispetto dei minimi di tariffa, sia il divieto del patto di quota lite
fossero un ostacolo alla libera circolazione dei servizi e quindi al libero gioco della concorrenza.
Tali modificazioni hanno irrimediabilmente trasformato la stessa
natura del rapporto tra difensore e assistito accentuandone gli aspetti privatistici anziché quelli pubblicistici.
Al “ministero” si sostituisce un semplice servizio, non dissimile
dalla fornitura di beni propria di un mercato qualsiasi, questa volta
il mercato professionale.
Proprio al mercato professionale, ai costi della difesa, e quindi
ai costi che i privati si debbono accollare per accedere alla giustizia, ci si appella, da parte di istituzioni sovranazionali come l'OECD
(Organisation of Economic Co-operation and Development), la
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Banca Mondiale degli Investimenti, o istituzioni nazionali come la
Banca d'Italia e l'Autorità per la Concorrenza e il mercato, e anche
da parte dei Ministeri della Giustizia e dello Sviluppo economico,
per escogitare tutti i possibili espedienti volti a ridurre i costi dei
processi, ridurre i costi della gestione dei tribunali, ridurre il peso
che nell'economia complessiva ha la funzione di amministrazione
della giustizia, che è tipica di ogni potere, del mondo occidentale
od orientale, come espressione delle funzioni dello Stato, da noi
codificate, per così dire, da Montesquieu in poi.
Ancora, il prof. Alpa chiarisce come «questa quasi parossistica
idea di riduzione dei costi ha finito perfino per ridurre il ruolo
dell'avvocato nel processo, oltre che l'incidenza delle sue spese. Si
sono così introdotti espedienti, ricorrendo a molteplici modificazioni
del codice di procedura civile, non sistematici ma "erratici" che dovrebbero assolvere a questo scopo: nel processo, la diminuzione
dei termini per ridurne la durata, la introduzione di sanzioni a carico
dell'avvocato in caso di inesatta applicazione delle regole, termini di
prescrizione e di decadenza, che hanno reso molto più complesso il
ruolo del difensore. Per talune materie, al fine di ridurre il contenzioso, si è ritenuto necessario (non più a pena di inammissibilità del
giudizio) far precedere il processo da una fase conciliativa obbligatoria, dinanzi a conciliatori o mediatori, senza necessità di avvalersi
di un avvocato; si sta riformulando la c.d. geografia giudiziaria, con
la soppressione dei tribunali minori, che pure assicurano la c.d. giustizia di prossimità, perché costituiscono una eccessiva spesa pubblica; si sono ridotti i riti processuali (ma in modo così contorto che
nella sostanza i riti si sono moltiplicati), si è proposto di ridurre i
gradi del processo, e persino le ragioni di accesso alla Corte di cassazione, tutto ciò al fine di ridurre il numero dei processi, smaltire
l'arretrato, scoraggiare l'accesso alla giustizia; si sono ancora quadruplicati i costi per l'instaurazione delle cause, ma sopratutto si
cerca di contenere il ruolo dell'avvocato, quasi che non si trattasse
più di un necessario intermediario e del più valido collaboratore del
giudice, ma di un personaggio eventuale, se non secondario in un
processo che è dominato dal giudice».
Questa linea economicistica, che si pone in contrasto con i principi costituzionali, appare anche in contrasto con i principi espressi
dalla Carta europea dei diritti fondamentali, che proprio alla giustizia, e quindi all'avvocato, dedica importanti disposizioni.
Tale nuova prospettiva finisce anche per incidere sulla qualificazione giuridica del rapporto con l'avvocato, certamente non semRassegna Forense – 1/2013
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plice nuncius del suo assistito come riteneva Francesco Carnelutti
in uno scritto del 1940, ma garante dei diritti costituzionali in piena autonomia rispetto all’assistito medesimo.
Fondamentale, al fine di delineare i principi che regolano ai
giorni nostri la professione forense, è senza dubbio la Risoluzione
del Parlamento europeo del 23 maggio 2006, in cui si esalta proprio il ruolo del difensore.
Innanzitutto il Parlamento europeo ha fatto propri i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che stanno anche alla base del codice deontologico oggi vigente nel nostro ordinamento, e cioè, testualmente:
- l'indipendenza, l'assenza di conflitti di interesse e il segreto/confidenzialità professionale quali valori fondamentali nella professione legale che rappresentano considerazioni di pubblico interesse;
- la necessità di regolamenti a protezione di questi valori fondamentali per l'esercizio corretto della professione legale, nonostante gli inerenti effetti restrittivi sulla concorrenza che ne potrebbero risultare;
- che lo scopo del principio della libera prestazione di servizi
applicato alle professioni giuridiche è quello di promuovere l'apertura dei mercati nazionali mediante la possibilità di offerta ai prestatori di servizi e ai loro clienti di beneficiare pienamente del
mercato interno della Comunità.
La Risoluzione ha ribadito che «qualsiasi riforma delle professioni legali ha conseguenze importanti che vanno al di là delle
norme della concorrenza incidendo nel campo della libertà, della
sicurezza e della giustizia e in modo più ampio, sulla protezione
dello stato di diritto nell'Unione europea, ed inoltre che la protezione adeguata dei diritti umani e delle libertà fondamentali cui ha
diritto ogni persona, nel campo economico, sociale, culturale, civile e politico, richiede che ogni persona abbia effettivo accesso ai
servizi legali forniti da una professione legale indipendente».
La Risoluzione ha poi insistito:
- «sugli obblighi dei professionisti legali di mantenere l'indipendenza, evitare conflitti di interesse e rispettare la riservatezza del
cliente [che] sono messi particolarmente in pericolo qualora siano
autorizzati ad esercitare la professione in organizzazioni che consentano a persone che non sono professionisti legali di esercitare
o condividere il controllo dell'andamento dell'organizzazione mediante investimenti di capitale o altro, oppure nel caso di partena52
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riati multidisciplinari con professionisti che non sono vincolati da
obblighi professionali equivalenti».
La Risoluzione si è preoccupata poi della remunerazione appropriata del difensore, «considerando che la concorrenza dei prezzi
non regolamentata tra i professionisti legali, che conduce a una riduzione della qualità del servizio prestato, va a detrimento dei
consumatori». Anche questo principio è stato violato dalla disciplina interna dapprima con la soppressione delle tariffe minime e di
poi con la soppressione delle tariffe massime, infine con la soppressione di ogni parametro tariffario, e ciò in spregio dei principi
dettati dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, la quale, con
molte sentenze, aveva legittimato il sistema italiano di determinazione del compenso del difensore.
Attesa poi la rilevanza sociale e la funzione pubblica esercitata
dagli avvocati, la Risoluzione si è preoccupata della approvazione
ed applicazione di codici di condotta, di regole deontologiche a cui
siano astretti tutti gli avvocati che esercitano la professione forense. Il codice italiano vigente è molto rigoroso sotto due aspetti,
perché obbliga l'avvocato a difendere (e mai tradire) l'interesse
dell'assistito, a non assumere il mandato o a dismetterlo quando
riscontri di essere in conflitto d'interesse con l’assistito, a non assumere mandati che non sarebbe in grado di eseguire diligentemente, a non moltiplicare i processi, a dissuadere l’assistito
dall'intraprendere un'iniziativa giudiziaria futile o del tutto infondata, a spiegare e richiamare l'attenzione dell'assistito sui profili di
legalità e correttezza, oltre che di opportunità, nella strategia difensiva, nella assunzione delle prove e così via, sì da mantenere il
rapporto con il patrocinato entro i binari della correttezza, ma rivendicando anche nei confronti del medesimo patrocinato un rapporto di indipendenza; tesi che nega, dunque, in radice la singolare concezione di Francesco Carnelutti che, come si è detto, voleva
equiparare il difensore al nuncius dell’assistito.
Soprattutto la Risoluzione:
- «riconosce pienamente la funzione cruciale esercitata dalle
professioni legali in una società democratica, al fine di garantire il
rispetto dei diritti fondamentali, lo stato di diritto e la sicurezza
nell'applicazione della legge, sia quando gli avvocati rappresentano e difendono i clienti in tribunale che quando danno parere legale ai loro clienti;
- ribadisce l'importanza delle norme necessarie ad assicurare
l'indipendenza, la competenza, l'integrità e la responsabilità dei
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membri delle professioni legali, con lo scopo di garantire la qualità
dei loro servizi, a beneficio dei loro clienti e della società in generale, e per salvaguardare l'interesse pubblico;
- ricorda alla Commissione che le finalità della regolamentazione dei servizi legali sono la protezione dell'interesse pubblico, la
garanzia del diritto di difesa e l'accesso alla giustizia, e la sicurezza nell'applicazione della legge e che per queste ragioni non può
essere conforme ai desideri del cliente».
Il codice deontologico forense dedica un intero titolo, il terzo, ai
rapporti tra avvocato e assistito. Ma prima ancora di pervenire alla
disciplina specifica del rapporto, vale la pena di ricordare la codificazione del dovere di fedeltà (art. 7), di diligenza (professionale:
art. 8), il dovere di segretezza e riservatezza (art. 9), l'indipendenza (art. 10), l'obbligo della difesa quando richiesto dalla legge
(art. 11), il divieto del conflitto di interessi (art. 12), l'obbligo di
verità che impedisce all'avvocato di dire cose false in giudizio o di
costruire prove false (art. 14); vi sono, altresì, obblighi di minor
importanza (di informazione, etc.) ma specificamente si contempla
il rapporto di fiducia, il divieto di conflitto d'interessi e l'inadempimento, di cui si è detto.
Questi principi, predisposti nel 1997 dal Consiglio nazionale forense, sono stati via via adeguati secondo le esigenze emerse dalla prassi applicativa, e anche in considerazione delle imposizioni
del legislatore nazionale.
L'insistenza del richiamo a questa Risoluzione è dovuta al fatto
che i principi in essa espressi sono condivisi da tutta l'Avvocatura
europea, e sono una garanzia di tutela del cittadino.
Ma qui non si tratta soltanto dei diritti del cittadino, si tratta anche di verificare in che modo essi si possano concretamente tutelare, cioè trasformare da enunciazioni solenni contenute nei testi costituzionali o comunitari nella pratica quotidiana che si vive nei tribunali. I diritti dei cittadini sono tutelati se sono tutelati i diritti degli
avvocati, i quali debbono avere il potere di difendere i cittadini dinanzi a qualsiasi giudice. È appunto il Protocollo d'intesa di tutte le
Avvocature d'Europa che - siglato a Parigi alcuni anni fa e intitolato
"Avocats dans le monde" - vorrebbe sostenere le cause dei diritti
fondamentali dinanzi a tutti i giudici del mondo proprio in virtù del
privilegio collegato con l'esercizio della professione forense.
È un fatto importante coniugare dunque i principi che garantiscono l'accesso alla giustizia e ad un processo "giusto" con i prin-
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cipi che garantiscono l'indipendenza e l'autonomia dei magistrati e
con l'indipendenza e l'autonomia della professione forense.
Ma i problemi della difesa non finiscono qui. Nonostante vi siano
chiari confini costituzionali e di diritto comunitario che ne definiscono il ruolo e la rilevanza, giorno per giorno occorre vigilare sulla loro osservanza e sui tentativi della loro violazione.
Per citare ancora il prof. Alpa, «il ruolo e le funzioni del difensore sono in costante evoluzione, e non è detto che questo percorso
evolutivo sia sempre diretto ad una migliorata applicazione dei
principi fondamentali riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e
dalla Carta europea dei diritti fondamentali.
Spetta proprio agli avvocati in primis, alla dottrina e ai giudici
far sì che l'avvocato, il più autorevole e utile collaboratore del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, possa continuare
ad esercitare il suo ministero con quella competenza, quella correttezza, autonomia ed indipendenza che sono essenziali perché
siano garantiti i diritti della difesa, perché l'avvocato possa obbedire alla legge ed alla propria coscienza, come diceva Piero Calamandrei, e senza curarsi d'altro. Cioè con il coraggio che la professione richiede e al tempo stesso la toga gli fornisce».
Nell’ottica sopra tracciata, appare essenziale approfondire il concetto di “Deontologia” (dal greco déon: dovere) che è stato coniato
in origine da Jeremy Bentham tra il 18° ed il 19° secolo, con la
formulazione della c.d. “teoria utilitaristica dei doveri” e con la previsione dei doveri connessi a determinati status o situazioni sociali.
In tale contesto, la deontologia forense costituisce, pertanto,
l’opera d’individuazione e di rilevazione dei comportamenti che la
vita e l’esperienza, professionali e non solo, degli appartenenti alla
classe forense - in un lasso storico plurimillenario - hanno individuato come consoni ed adeguati alla funzione di assistenza e difesa
del cittadino, ispirandosi all’etica individuale e sociale, oltre che al
rispetto delle norme poste dagli ordinamenti statuali via via vigenti.
Nonostante l’evoluzione della società abbia inevitabilmente
comportato un mutamento nel “sistema culturale”, resta tuttavia
la necessità per gli avvocati di una cultura interdisciplinare che
comporti l’attitudine ad apprendere, sia pure in sintesi e per concetti elementari, ogni altra scienza, al fine di potersi adeguare agli
svariati aspetti dell’attività difensiva.
Possiamo quindi definire come “arte forense” quel complesso di
conoscenze e di abilità che permettono all’avvocato di compiere
una valutazione molto ampia dell’interesse dell’assistito, agendo a
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volte anche come catalizzatore dei suoi turbamenti e «riducendo
la legge a misura di uomo», rendendola comprensibile al cittadino
e consentendo così a quest’ultimo di effettuare le proprie scelte in
piena consapevolezza.
Tutto questo, come ben si intuisce, è già deontologia; è cioè
quella parte della filosofia che tratta l’origine, la natura e il fine del
dovere, o - più modernamente - il complesso dei doveri inerenti
ad una particolare categoria professionale. Le norme deontologiche, pertanto, hanno una forte base etica, ma assumono, sul piano formale, natura di regole giuridiche obbligatorie, poiché si impongono con autorità e sono assistite da un sistema organico di
sanzioni, le quali possono avere un contenuto prevalentemente
morale (avvertimento, censura), ma possono anche incidere sulla
concreta capacità lavorativa di chi ne sia colpito (sospensione, radiazione).
Prima di esaminare la riforma forense (l. 31 dicembre 2012, n.
247), intendo, sia pur brevemente, tracciare il quadro normativo
preesistente, richiamando le disposizioni più significative, le quali
ci fanno ben comprendere come si sia sviluppata la nostra professione sino ai giorni nostri ed i cui principi sono stati, infatti, integralmente ripresi dalla citata, “nuova” normativa:
- l’art. 12 della Legge Professionale (r.d.l. n. 1578/1933): «Gli
avvocati debbono adempiere al loro ministero con dignità e con
decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia» (comma
1); «Giuro di adempiere i miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia e per gli interessi superiori
della Nazione» (comma 3);
- l’art. 14: «I Consigli dell’ordine degli avvocati ... b) vigilano
sul decoro dei professionisti; ...» (comma 1);
- l’art. 17: «Per l’iscrizione all’albo degli avvocati è necessario
... 3) essere di condotta specchiatissima ed illibata ...»;
- l’art. 38: «Gli avvocati che si rendano colpevoli di abusi o
mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti
non conformi alla dignità ed al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare» (comma 1);
l’art.
40
con
riferimento
alle
pene
disciplinari
dell’avvertimento e della censura, parla di “mancanza commessa”;
- l’art. 41: «la radiazione è pronunciata contro l’avvocato che
abbia comunque, con la sua condotta, compromesso la propria reputazione e la dignità della classe forense»;
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- l’art. 35 r.d. n. 37/1934, contenente la prescrizione che, nel
chiedere l’iscrizione all’albo, l’aspirante dichiari sul proprio onore
di non trovarsi in alcuno dei casi d’incompatibilità;
- l’art. 88 c.p.c., che richiama il dovere di tenere, in giudizio, un
comportamento informato a lealtà e probità;
- l’art. 89 c.p.c., che fa divieto di ricorrere, negli atti scritti e nei
discorsi fatti avanti il giudice, ad espressioni sconvenienti od offensive;
- gli artt. 380, 381 e 382 c.p., che sanzionano il patrocinio infedele ed il millantato credito del patrocinatore;
- l’art. 105, comma 4 c.p.p., che sancisce la responsabilità disciplinare per i casi di abbandono della difesa, di rifiuto di assumere la difesa d’ufficio, di violazione dei doveri di lealtà e probità e
del divieto dell’assunzione di più difese tra di loro incompatibili.
Va poi ricordata la l. 8 giugno 1874, n. 1938 (c.d. “Legge Zanardelli”), istitutiva dell’Ordine forense italiano, la quale già sanciva i principi a cui deve ispirarsi la professione forense.
Si legge nella relazione (rel. Oliva) sul progetto di legge, che la
riforma «era domandata dalla necessità di dichiarare e determinare con precisione e stabili norme, a garanzia dei diritti e degli interessi dei cittadini, non che della amministrazione della giustizia,
epperciò di un interesse eminentemente sociale e politico, i rapporti, i doveri, i diritti della difesa rimpetto all’Ordine giudiziario» e
viene sottolineato come quella del «giurista è una creazione della
civiltà italica. La Grecia ebbe oratori e filosofi, ebbe legislatori e
uomini di Stato ma la giurisprudenza mancò al complesso di quelle
splendide manifestazioni del pensiero ellenico; la giurisprudenza
nacque solo in Italia e trae le sue gloriose origini dalla storia di
Roma».
In tale relazione, viene poi evidenziato come «il ministero del
procuratore, secondo la legislazione vigente in Italia, è l’anima e
l’essenza del procedimento … omissis … Le funzioni del causidico,
una volta dichiarate necessarie nelle cause civili all’amministrazione
della giustizia, diventano e sono parte integrante e complementare
dell’ordinamento giudiziario. Lo stesso deve dirsi di quelle di avvocato, il cui intervento nelle cause civili, quantunque facoltativo, non
può però essere respinto ed escluso, e perciò è anche esso,
nell’ipotesi legislativa, un elemento proprio, uno dei congegni
dell’amministrazione della giustizia; questo carattere è poi spiccante nell’avvocheria, quando si tratta di cause penali. Perciò entrambe
le professioni di cui trattasi hanno nel loro esercizio la importanza e
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la gravità di pubbliche funzioni. Adunque il legislatore ha l’obbligo di
regolarle, di porre all’esercizio di codesti uffici di indole pubblica
quelle norme e quelle condizioni che meglio garantiscano l’ordine
pubblico … omissis … In altri termini, quelle del giudice e quelle del
difensore sono due funzioni sociali egualmente importanti alla retta
amministrazione della giustizia, e che concorrendo al raggiungimento di un identico fine comune, hanno però bisogno a tale effetto
di procedere colla piena e completa coscienza e padronanza della
propria autonomia… omissis …»
Alla luce di tali premesse, con tale legge veniva attribuito ai
Consigli dell’Ordine il potere di vigilanza e di repressione, in via disciplinare, delle mancanze e degli abusi degli Avvocati
nell’esercizio della professione (art. 24), con la previsione altresì
delle relative sanzioni (art. 26: avvertimento; censura; sospensione dall’esercizio della professione forense; cancellazione dall’albo).
LA RIFORMA FORENSE
Vanno ora esaminate le principali novità di cui alla citata legge
n. 247/2012, pubblicata sulla G.U. 18 gennaio 2013, n. 15 ed entrata in vigore, dopo la ordinaria vacatio legis, in data 2 febbraio
2013, sottolineando che si tratta di un provvedimento lungamente
atteso, assai contrastato all’esterno dell’Avvocatura, e discusso in
maniera approfondita dalle Camere, che dopo ben quattro anni di
trattazione, lo hanno approvato in modo plebiscitario; va ancora
sottolineato che il testo è una legge speciale che deroga alle disposizioni del codice civile e alla recente normativa sulle professioni (l. 14 settembre 2011, n. 148, art. 3, comma 5 e d.p.r. 7
agosto 2012, n. 137, regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali) e riforma organicamente la disciplina della
nostra professione.
La riforma rende la professione più moderna e tende, innanzitutto, alla tutela dei cittadini che devono potersi affidare ad una
prestazione professionale qualificata e trasparente; nonché alla
tutela dei giovani, praticanti ed avvocati, che potranno muoversi
in un mercato professionale concorrenziale che valorizza il merito;
essa, ancora, affida agli Ordini la funzione di garanzia
dell’interesse pubblico alla correttezza della giurisdizione.
È importante sottolineare come il testo in questione si apra con
il riconoscimento della rilevanza giuridica e sociale della funzione
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Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
difensiva (art. 1, comma 2) cui è collegato l’ordinamento forense e
con la enunciazione delle garanzie di indipendenza e autonomia
degli avvocati.
L’art. 2, commi 1 e 2, recita: «L’avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza, svolge le attività
di cui ai commi 5 e 6. 2. L’avvocato ha la funzione di garantire al
cittadino l’effettività della tutela dei diritti».
Libertà, autonomia, indipendenza e competenza costituiscono
anche i presupposti dell’assistenza legale stragiudiziale, che è riservata agli avvocati quando connessa all’attività giurisdizionale
(art. 2, comma 6): «Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e
che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico ed organizzato, è di
competenza degli avvocati».
Dunque, il contenzioso si può prevenire con la consulenza che si
può orientare verso forme di conciliazione anteriori alla causa o in
corso di causa, sempre che l’avvocato possa valutare liberamente
e consapevolmente la posizione giuridica dell’assistito e suggerirgli
le soluzioni conformi alla legge e più convenienti alla tutela dei
suoi interessi.
È evidente, inoltre, che solo una Avvocatura libera ed autonoma
può darsi regole di deontologia e può assicurare l’osservanza di
canoni destinati a disciplinare il corretto esercizio della professione
(art. 3, commi 2 e 3).
Queste premesse, fondate su valori indefettibili, costituiscono la
cornice del provvedimento.
Le nuove disposizioni, oltre a ricostruire in modo sistematico
l’intera normativa, introducono rilevanti novità, rispetto alla disciplina del 1933-1934 e succ. modificazioni, in gran parte già accolte dal testo che era stato approvato dal Senato nel 2010.
Dal punto di vista organizzativo degli studi professionali, si
amplia l’oggetto delle associazioni professionali, consentendo anche il coinvolgimento di liberi professionisti appartenenti ad altre
categorie professionali; si introduce così l’associazione in partecipazione tra avvocati e si rinvia ad un decreto legislativo delegato
la disciplina di società di avvocati secondo i tipi del codice civile,
ma senza soci di puro capitale: come si conviene alla specifica
attività esercitata dagli avvocati, che deve garantire l’assenza di
Rassegna Forense – 1/2013
59
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Salvatore Orestano
conflitti d’interesse; la trasparenza della organizzazione interna
e, soprattutto, la libertà delle scelte connesse con la tutela dei
diritti (artt. 4 e 5).
Viene ulteriormente rafforzato il segreto professionale, il c.d.
legal privilege che connota in modo particolare la nostra professione rispetto alle altre e le conferisce una superiore dignità: il testo parla di «rigorosa osservanza» e del «massimo riserbo sui fatti
e sulle circostanze apprese nell'attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché sullo svolgimento dell'attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale» (art. 6, comma 1).
Altro segno importante della elevatezza della Avvocatura è
l’impegno solenne, necessario per l’avvio dell’attività, espresso
con una formula che sostituisce quella ormai da molti ritenuta antiquata (ed ancora diffusa persino nei giuramenti dei magistrati)
della legge del 1933. Ancora una volta sono sottolineati i valori
della dignità e della funzione sociale della professione forense,
nonché i doveri di lealtà, onore e diligenza che debbono essere osservati nel suo svolgimento (art. 8).
L’impegno non è assunto in udienza, ma dinanzi al Consiglio
dell’Ordine in pubblica seduta.
Quanto alle specializzazioni, la cui esigenza è universalmente riconosciuta e si colloca nel disegno complessivo di qualificazione
dell’avvocato, si prevedono corsi formativi organizzati da Ordini e
Università; nel contempo, si è affermato il ruolo delle associazioni
specialistiche, ruolo peraltro fondamentale, che nei processi attuativi della legge potrà trovare ancor maggiore riconoscimento (art. 9).
Si prevede, quindi, che l’avvocato possa ottenere ed indicare il
titolo di specialista in vari rami del diritto, senza che questo comporti riserva di attività professionale, dopo aver seguito scuole e
corsi di formazione di durata non inferiore a due anni ovvero per
comprovata esperienza professionale, debitamente accertata dal
C.N.F., maturata nel settore oggetto di specializzazione.
Si ricorda, in proposito, che il 24 settembre 2010 il Consiglio
Nazionale Forense aveva già approvato un regolamento sulle specializzazioni forensi, disciplinante le aree di specialità professionale
e le modalità per acquisire il titolo di specialista. Come precisato
nel comunicato allora diffuso dal C.N.F., «il regolamento gioca
d’anticipo rispetto alla riforma forense, il ritardo dell’approvazione
della quale ha spinto il C.N.F. ad approvare l’articolato». Si afferma nel regolamento che «è specialista l’avvocato che ha acquisito,
in un’area del diritto fra quelle stabilite, una specifica e significati60
Rassegna Forense – 1/2013
Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
va competenza teorica e pratica, il cui possesso è attestato da apposito diploma rilasciato, in via esclusiva, dal C.N.F. stesso e che
deve essere conservata nel tempo secondo il principio della formazione continua».
In dettaglio, il regolamento individuava 11 aree di specialità
(diritto di famiglia; diritto della responsabilità civile e delle assicurazioni; diritto commerciale; diritto del lavoro; diritto industriale;
diritto della concorrenza; diritto tributario; diritto amministrativo;
diritto della navigazione; diritto dell’Unione europea; diritto penale) e stabiliva che l’avvocato può conseguire il diploma di specializzazione in non più di due aree. Per poter conseguire il titolo di
avvocato specialista doveva maturarsi un’anzianità di iscrizione
all’albo di almeno sei anni, bisognava aver frequentato continuativamente, per almeno un biennio, una scuola riconosciuta dal
C.N.F. (minimo di duecento ore di studio e esercitazioni) e, infine,
doveva superasi un apposito esame. Una sorta di corsia preferenziale era invece prevista per gli avvocati con almeno venti anni di
anzianità, che acquisivano per ciò stesso il titolo di specialista, con
un evidente effetto distorsivo sulla concorrenza a tutto vantaggio
degli avvocati più anziani.
Con sentenza del 9 giugno 2011, n. 5151, la prima sezione del
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio ha sancito la nullità del regolamento del C.N.F. Ha ritenuto il giudice amministrativo
che, trattandosi di materia riservata al legislatore statale, non risultava che il Parlamento avesse esercitato detta riserva, né riformando direttamente l’ordinamento della professione forense,
sede propria per l’introduzione di un istituto, quale quello delle
specializzazioni, prima inesistente, né attribuendo al C.N.F. la
competenza ad adottare in via regolamentare la disciplina delle
specializzazioni della professione legale. Dunque, secondo il Tribunale amministrativo non è dato comprendere da quale fonte normativa il C.N.F. avesse derivato la potestà di creare ex novo la figura professionale dell’avvocato specialista.
Sempre in questa linea, si prevede l’aggiornamento continuo,
come avviene ormai in tutti i Paesi europei (art. 11).
Segnatamente, così recita il menzionato art. 11: «Formazione
continua - 1. L’avvocato ha l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di
assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire
al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e
dell’amministrazione della giustizia.
Rassegna Forense – 1/2013
61
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Salvatore Orestano
2. Sono esentati dall’obbligo di cui al comma 1: gli avvocati sospesi dall’esercizio professionale, ai sensi dell’articolo 20, comma
1, per il periodo del loro mandato; gli avvocati dopo venticinque
anni di iscrizione all’albo o dopo il compimento del sessantesimo
anno di età; i componenti di organi con funzioni legislative e i
componenti del Parlamento europeo; i docenti e i ricercatori confermati delle università in materie giuridiche.
3. Il C.N.F. stabilisce le modalità e le condizioni per
l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento da parte degli
iscritti e per la gestione e l’organizzazione dell’attività di
aggiornamento a cura degli ordini territoriali, delle associazioni forensi e di terzi, superando l’attuale sistema dei crediti formativi.
4. L’attività di formazione svolta dagli ordini territoriali, anche
in cooperazione o convenzione con altri soggetti, non costituisce
attività commerciale e non può avere fini di lucro.
5. Le regioni, nell’ambito delle potestà ad esse attribuite
dall’articolo 117 della Costituzione, possono disciplinare
l’attribuzione di fondi per l’organizzazione di scuole, corsi ed eventi di formazione professionale per avvocati».
Come su cennato, l’obbligo di formazione continua è previsto
anche in altri paesi europei, quali, ad esempio: la Francia, in cui, a
seguito della riforma del 2004, è prescritto che la durata della
formazione sia di 20 ore per anno solare, mediante la frequenza di
corsi o convegni e la redazione di pubblicazioni; il controllo circa
l’effettivo assolvimento di tale obbligo da parte degli avvocati
francesi è affidato al Presidente dell’Ordine (il bâtonnier), che
svolge tale compito anche avvalendosi della collaborazione dei
Consiglieri da lui delegati; l’Inghilterra, in cui tutti i solicitors devono frequentare corsi di aggiornamento professionale per una
media di 16 ore per anno per tutto il corso della loro carriera ed
anche i barrister sono tenuti a seguire programmi di aggiornamento professionale ed anzi, nei primi tre anni di pratica, sono tenuti a
seguire un programma della durata di 45 ore; successivamente, la
durata è ridotta a 12 ore annue per tutto il resto della carriera.
Anche in Germania, dopo l’approvazione della legge federale 11
luglio 2002, recante la riforma della formazione dei giuristi, entrata in vigore il 1° luglio 2003, i Länder hanno modificato le proprie
leggi su tale tipo di formazione sin dagli studi universitari. In precedenza, essa era essenzialmente incentrata sulla preparazione al
“mestiere” di giudice; poiché, tuttavia, circa il 90% degli studenti
62
Rassegna Forense – 1/2013
Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
di diritto esercita poi la professione di avvocato, la formazione è
stata ridisegnata nel senso di conferire maggiore importanza alla
preparazione all’esercizio della professione di avvocato ed alla
specializzazione e ciò con una preparazione sia teorica, sia pratica.
Tornando alla riforma forense italiana, a maggiore tutela degli
assistiti si prevede, altresì, l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile professionale (art. 12).
Le regole sui rapporti con il “cliente” riprendono i principi del
codice civile e li articolano nel senso della libertà di determinazione del compenso, reintroducendo il divieto del patto di quota lite;
si prevede l’obbligo di comunicare al patrocinato le difficoltà
dell’incarico e le altre informazioni utili; tale obbligo non si estende al preventivo scritto, se non ve ne sia apposita richiesta
dell’assistito. Quando non convenuto pattiziamente, il compenso si
calcola secondo i parametri ministeriali, che devono essere aggiornati ogni biennio su proposta del Consiglio nazionale forense.
In mancanza di accordo, avvocato e cliente possono rivolgersi
all’Ordine forense per l’esperimento del tentativo di conciliazione e
per il rilascio di un parere di congruità della remunerazione pretesa dall’avvocato; si prevede anche il rimborso di oneri e contributi
anticipati e delle spese forfetarie (art. 13).
Il titolo II disciplina albi, elenchi, registri, le incompatibilità, il
patrocinio dinanzi alle Corti superiori, l’attività degli avvocati degli
enti pubblici.
Grande rilievo è dato al sistema ordinistico, che distingue
l’attività professionale intellettuale e difensiva da quella imprenditoriale. Nelle cariche rappresentative si tutela il principio di non discriminazione favorendo l’equilibrio tra i generi (art. 28); si estende a quattro anni la durata del mandato con il limite di due mandati, e si introducono incompatibilità con le altre cariche interne
all’Avvocatura.
Sono confermati e ampliati i poteri dei consigli territoriali (art.
29), salvi i procedimenti disciplinari, e viene istituito lo sportello
del cittadino (art. 30).
Ai procedimenti disciplinari provvedono i consigli distrettuali di
disciplina forense (art. 51).
Si tratta di collegi formati da avvocati, perché solo chi esercita
la professione forense può comprendere compiutamente la rilevanza delle violazioni commesse dai colleghi ed è in grado di promuovere, portandolo fino a conclusione, il procedimento in modo
legittimo e corretto. Sarebbe stata ultronea la presenza di magiRassegna Forense – 1/2013
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Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Salvatore Orestano
strati – peraltro già coinvolti con la pubblica accusa – oppure di
rappresentanti di categorie economiche e sociali, digiuni di nozioni
deontologiche e inesperti delle tecniche processuali.
Il provvedimento chiarisce alcuni punti importanti del procedimento, che si conclude dinanzi al Consiglio nazionale forense, al
quale si è conservata la funzione di giudice speciale, come prevista dalla legge istitutiva e come confermata dalla Costituzione
(art. 34). Anche questo è un segno distintivo della nostra professione rispetto alle altre e rispetto all’attività imprenditoriale.
Per l’accesso alla professione sono previste solo alcune limature
alla disciplina esistente, ed è probabile che nel prossimo futuro Governo e Parlamento ripensino l’ordine degli studi delle Facoltà di
Giurisprudenza, per far sì che anche la formazione universitaria sia
adeguata alle esigenze attuali, evitando il fenomeno della scelta casuale della Facoltà, l’eccessivo affollamento degli albi e il “parcheggio” nell’Avvocatura in attesa di migliori prospettive di lavoro.
Per i praticanti - escluso che il rapporto con il dominus si possa
configurare come di lavoro subordinato anche occasionale - si prevede, oltre al rimborso delle spese da essi sostenute per conto
dello studio, la corresponsione di una indennità o di un compenso
(dopo i primi sei mesi) commisurati all’effettivo apporto professionale, ma tenendo anche conto dei vantaggi che essi conseguono
per l’uso dei servizi e delle strutture dello studio nel corso del tirocinio (art. 41).
Dal complesso quadro normativo sopra tracciato, tanto con riferimento alla “vecchia” disciplina, quanto alle novità legislative su
menzionate, si rinviene che il Legislatore ha inteso enucleare i
principi informatori dell’innumerevole serie di comportamenti che
– nel tempo – la classe forense aveva, possiamo dire, standardizzato alla luce dell’etica individuale e sociale e del rispetto delle
norme positive, ritenendoli adeguati e necessari per il corretto
svolgimento della professione; il medesimo Legislatore ha, quindi,
demandato agli Organi istituzionali dell’Avvocatura la valutazione
della rispondenza o meno a tali principi delle singole, innumerevoli, condotte portate al loro esame.
Si può, quindi, affermare che l’intervento normativo statuale sulla deontologia forense ha operato una sintesi, partendo dalla realtà
della vita professionale in quanto meritevole di approvazione.
Di tale sintesi, costituiscono il portato i principi che tuttora ci
reggono: probità, dignità, decoro (di vita professionale e sociale in
genere), di lealtà, correttezza e fedeltà nell’esercizio professionale.
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Rassegna Forense – 1/2013
Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Il Legislatore ha, pertanto, conferito a questi generali principi
deontologici valenza di norma giuridica ed agli Organi Collegiali forensi la facoltà di creare, in applicazione di questi, la norma del
caso concreto.
La Deontologia Forense si è andata, così, formando, nei suoi articolati profili positivi, attraverso le decisioni disciplinari dei Consigli degli Ordini territoriali (secondo il nuovo testo in discussione,
sostituiti dai Consigli distrettuali di disciplina, di cui sopra) e la
giurisprudenza del C.N.F. (sempre secondo le nuove previsioni,
viene introdotta un’apposita sezione disciplinare del C.N.F.) e tutto
ciò in un procedimento, potremmo dire, inverso a quello che aveva portato il Legislatore del 1933 a “distillare” la deontologia vivente in norme di principio.
In proposito, non è revocabile in dubbio che tale compendio
normativo deontologico di fonte giurisprudenziale (che è fonte
creativa, a ciò legittimata dall’Ordinamento statuale) individui
norme di diritto: in tale ottica, è certo che il contenuto etico di tali
norme non ne infici la loro valenza giuridica.
Tale valenza, oltre che data dalle norme di legge sopra esposte
e da quelle che appresso esamineremo, è confermata dalla giuridicità e dalla rilevanza nell’ordinamento generale delle sanzioni che
la loro violazione comporta; dalla natura giurisdizionale (della seconda fase, avanti il C.N.F.) del procedimento disciplinare e dalla
competenza, in ultima istanza di legittimità, delle Sezioni Unite
della Corte Suprema di Cassazione.
In tale contesto, per comprendere a fondo la natura delle norme di cui stiamo parlando, risulta utile il richiamo alla decisione
delle sezioni unite civili della Corte Suprema di Cassazione, n.
222/2001, nella quale i doveri di lealtà e probità, dignità e decoro
professionali dell’Avvocato vengono esplicitamente ricondotti «a
quella regola dell’honeste vivere che costituisce il substrato di ogni
ordinamento giuridico».
La Corte Costituzionale (n. 110/1967) ha ritenuto il potere disciplinare quale espressione di un’autonomia concessa per la più
diretta ed immediata protezione dei fini che l’Ordine Forense deve
perseguire: si pensi alla funzione che la deontologia forense esplica per la corretta attuazione dell’art. 24 della Costituzione.
Sempre la Corte Suprema di cassazione (cfr., tra le tante, sez.
un. 23 marzo 2004, n. 5776) ha riconosciuto alla Deontologia Forense valenza di legge: «... nell’ambito della violazione di legge va
compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici
Rassegna Forense – 1/2013
65
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Salvatore Orestano
degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche valevoli
per gli iscritti all’albo ma che integrano il diritto oggettivo ai fini
della configurazione dell’illecito disciplinare».
Peraltro, va rilevato come, negli ultimi tempi, il Legislatore abbia invaso il campo, creando illeciti deontologici mediante
l’utilizzazione della legge primaria; ad esempio: è accaduto con il
T.U. delle spese di giustizia (d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 – artt.
85 e 128) a proposito del patrocinio a spese dello Stato e, più recentemente, con la previsione dell’illecito disciplinare derivante dal
mancato aggiornamento professionale (cfr. art. 3 d.l. 13 agosto
2011, n. 138, convertito in l. 14 settembre 2011, n. 148).
In tale quadro succintamente descritto, l’esigenza di una codificazione deontologica si è fatta sempre più pressante a partire dagli anni ’80. Alcuni Ordini territoriali hanno adottato proprie codificazioni e in tale periodo sono state elaborate proposte di codice
deontologico. Tale esigenza era presente anche a livello europeo,
tant’è che il C.C.B.E., in data 28 ottobre 1988, ha adottato il Codice deontologico forense europeo (modificato: il 28 novembre
1998; il 6 dicembre 2002 ed il 19 maggio 2006).
Come sopra specificato, in Italia, il dibattito è stato ampio ed
articolato, raccogliendo gli apporti delle voci più significative
dell’Avvocatura ed esso è stato poi recepito dal Consiglio Nazionale Forense che, all’esito dei lavori della Commissione appositamente insediatasi, è giunto ad approvare, in data 17 aprile 1997,
il Codice Deontologico Forense, poi, successivamente modificato
(precisamente: nel 1999; nel 2002, nel 2008 e, da ultimo, nel
2011).
In ogni caso, con l’adozione del codice, sono state superate le
varie obiezioni sollevate sull’opportunità della stessa codificazione
(ad esempio: impossibilità di prevedere tutte le ipotesi di violazione delle regole deontologiche; insuscettibilità delle stesse regole,
di natura essenzialmente etica, a trovar precisa identificazione e
classificazione; la codificazione sarebbe stata fonte di un maggior
contenzioso, identificando plurime ipotesi di violazioni disciplinari
ed ingenerando aspettative e moltiplicando recriminazioni da parte
dei terzi; la norma deontologica, una volta codificata, avrebbe
perduto la valenza etica e la vitalità che si traggono da coscienza
e cultura dell’Avvocato).
Rispondendo a tali obiezioni, si è, infatti, ritenuto che:
1) la codificazione e la tipizzazione degli illeciti garantisca la
certezza delle norme e consenta di integrare il principio di auto66
Rassegna Forense – 1/2013
Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
nomia ed autosufficienza della disciplina deontologica, in funzione
dei fini perseguiti dall’Ordinamento Forense, col principio di legalità; superando la concezione per la quale la contestazione di fatti
specifici, senza la determinazione di specifiche regole astratte di
cui tali fatti costituiscano violazione, possa in via di principio risultare insufficiente;
2) il contenuto, etico sì, ma a valenza giuridica, della norma
deontologica debba trovare, nei limiti del possibile, una precisa
formulazione che consenta uniformità applicativa;
3) la codificazione permetta la conoscenza immediata e preventiva delle norme, in particolar modo, ai giovani avvocati ed agli
avvocati stranieri, che non possono avvalersi di un’esperienza
pregressa;
4) non sia da trascurare l’effetto - se non creativo, certamente
incentivante - che la codificazione sviluppa una più diffusa e condivisa coscienza etica comune degli avvocati, condivisa dai cittadini, relativamente alla funzione ed alla figura del professionista forense;
5) eventuali incompletezze possano essere colmate con successivi interventi (e già si sono avute tre novelle ed altre se ne prevedono); così come possano trovar spazio adeguamenti alla realtà
che muta (e se ne è avuta ripetuta prova a proposito
dell’informazione sull’esercizio professionale);
6) non vadano, poi, dimenticati la funzione dell’interprete ed il
possibile ricorso all’analogia.
Comunque, a presidio dei principi fondamentali e della “deontologia vivente” nella classe forense, la norma finale del vigente Codice, che può essere definita più di apertura che di chiusura, sancisce che le disposizioni specifiche costituiscono «esemplificazione
dei comportamenti più ricorrenti» e non un limite all’applicazione
dei principi stessi.
Se, pertanto, prima della codificazione, ogni illecito deontologico veniva sanzionato col solo riferimento alla violazione dei generali principi di probità, dignità e decoro (di cui gli altri, pur generali, di lealtà, correttezza e fedeltà già costituiscono delle specificazioni), ora, con un sistema più definito, e nulla togliendo
all’operatività di tali principi, si sono identificate le regole esistenti,
vale a dire le ipotesi d’illecito come rilevate dai precedenti giurisprudenziali.
Come osserva Guido Alpa, Presidente del Consiglio Nazionale
Forense, i principi generali vanno specificati nel concreto; oggi,
Rassegna Forense – 1/2013
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Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
Salvatore Orestano
particolarmente, in presenza di una categoria forense sempre meno coesa sotto il profilo sociale e culturale e, quindi, sempre meno
informata a comportamenti etici comunemente avvertiti.
L’approvazione del Codice Deontologico Forense ha avuto,
quindi, la funzione di identificare e tipizzare le regole esistenti,
sulla scorta della giurisprudenza disciplinare e degli interventi dei
Consigli degli Ordini territoriali, collegandole all’enunciazione dei,
tuttora vigenti, fondamentali principi deontologici di cui sono lo
storico e giuridico risultato.
Va ancora evidenziato come la giurisprudenza disciplinare, fonte essenziale della deontologia positiva (costituendo l’unica verifica positiva dell’effettività delle norme), si esprima con uniformità
ancora maggiore sui casi concreti, integrando l’ermeneutica del
principio attraverso la regola specifica e, in questo processo, senza dubbio essa pone le basi per l’arricchimento, in qualità e quantità, dei tipi normativi.
Come detto, il vigente Codice è costituito da fondamentali regole deontologiche (i principi) e, ove è stato ritenuto possibile, da
canoni complementari (specificazioni tipizzate di comportamenti)
nell’ambito di ciascuna regola.
A parte le altre regole, va segnalato l’art. 13 del Codice deontologico che prevede il “dovere di aggiornamento professionale” nei
seguenti termini: «È dovere dell’avvocato curare costantemente la
propria preparazione professionale, conservando ed accrescendo
le conoscenze con particolare riferimento ai settori nei quali svolga
l’attività. I. L’avvocato realizza la propria formazione permanente
con lo studio individuale e la partecipazione a iniziative culturali in
campo giuridico e forense. II. È dovere deontologico dell’avvocato
quello di rispettare i regolamenti del Consiglio Nazionale Forense e
del Consiglio dell’ordine di appartenenza concernenti gli obblighi e
i programmi formativi».
Tale dovere di aggiornamento è, quindi, divenuto più cogente e
controllato con l’introduzione della menzionata “formazione continua”, in base a modalità non più libera bensì controllata ad opera
degli Ordini territoriali.
Il C.N.F., come noto, ha adottato un apposito Regolamento, entrato in vigore il 1° settembre 2007, in forza del quale, in linea di
principio (ferma restando la previsione di talune esenzioni, ad esempio per gli avvocati con iscrizione all’albo da almeno 40 anni),
gli avvocati e praticanti abilitati al patrocinio devono curare la
propria formazione attraverso la partecipazione obbligatoria ad
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Parte Prima - Dottrina
Il ruolo dell’avvocato e la formazione continua
eventi formativi, al fine di conseguire nel triennio almeno 90 crediti (sistema che verrà a breve superato), che devono essere poi
debitamente certificati presso gli Ordini territoriali.
Vorrei concludere il mio intervento riferendomi a voi “giovani”,
affinché, attraverso una formazione sempre più attenta e consapevole, rispettosa delle norme di deontologia – in ragione della responsabilità sociale che riveste il ruolo dell’avvocato – possiate
colmare il “ritardo culturale” in cui ormai da tempo l’Avvocatura è
caduta, dimenticando che tale professione intellettuale ha un rilievo pubblicistico, svilito attualmente dalle sterili regole del mercato, che vogliono la nostra professione sempre più simile al concetto di “impresa privata”.
Sempre attuali, in tale ottica, sono le parole di Piero Calamandrei che, nel 1947, in occasione del I Congresso Nazionale Forense, affermò: «La giustizia, al servizio della
quale è la nostra professione, è un impegno grave e solenne, che vale per la vita e per la morte»; ed ancora, va evidenziato quanto si legge nel preambolo del Codice Deontologico Forense Europeo del 1988, su richiamato, in cui – al
punto 1.1. rubricato come “la missione dell’avvocato” – si
legge: «In una società fondata sul rispetto della giustizia,
l’avvocato interpreta un ruolo eminente. La sua missione
non si limita alla esecuzione fedele di un mandato
nell’ambito della legge. In uno Stato di diritto l’avvocato è
indispensabile alla giustizia e a coloro di cui deve difendere
i diritti e le libertà; egli è tanto il consulente quanto il difensore del proprio cliente. La sua missione gli impone una
serie di doveri e obblighi, a volte in apparenza contraddittori, verso:- il cliente;- i tribunali e le altre autorità davanti
alle quali l’avvocato assiste o rappresenta il cliente;- la professione in generale e ciascun collega in particolare;- la società, per la quale una professione liberale e indipendente,
legata dal rispetto delle regole che essa stessa si è data, è
un mezzo essenziale per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo nei confronti dello Stato e degli altri poteri».
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