festa sociale 2010

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festa sociale 2010
FESTA SOCIALE 2010
Il Presidente e il Consiglio Direttivo della Sezione è lieta di invitare Soci
e simpatizzanti del CAI Padova alla tradizionale Festa Sociale:
DOMENICA 12 DICEMBRE
RISTORANTE AL CAMPANILE di Ronchi di Villafranca
(in centro al paese)
Ore 12,30
Ore 15,00
Ore 15,30
Ore 16,00
Ore 16,30
PROGRAMMA
Pranzo Sociale con menù dedicato
Esibizione del Coro del Cai di Padova
Premiazione Premio Marcolin
Premiazione Soci cinquantennali e venticinquennali
Proiezione del film "I mati de le corde"
In una sala attigua si potrà ammirare l'esposizione:
45 ANNI DI STAMPA SEZIONALE
a cura della Redazione del CAI Padova
Sarà possibile consultare i Notiziari e le altre testate pubblicate dalla
nostra Sezione dal 1964 ad oggi.
Dalle 15,30 alle 17,30
Animazione per bambini a cura di Fabio Della Casa
Truccabimbi, giochi di gruppo, giocoleria, giochi di ballo, sculture di palloncino
Il pranzo va prenotato alle segreteria della Sezione
entro venerdì 10 dicembre.
Vi aspettiamo numerosi!
CLUB ALPINO ITALIANO - Sezione di Padova
Galleria S. Bernardino, 5/10 - Tel. 049 8750842 - [email protected]
sommario
Club Alpino Italiano
Sezione di Padova
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Cronache
1° International Trad Climbing Meeting; Arrampicata TRAD(izionale). Il Convegno
CAAI a Ceresole Reale; La nostra Mergherita alp(INA); Il Progetto Montagna Amica
14 Dialoghi
Pensando ad Adriana Valdo
16 Diario Alpino
Storia e storie sulle Grandes Jorasses; Toni Gianese e le Grandes Jorasses; Una
traccia sul lenzuolo bianco; In due sulla Cresta des Hirondelles; Quando mi parlarono del Ladakh; Verticali di calcare; Con 3 piedi sul San Matteo; Valle dell'Orco;
Pilier Gervasutti; Iran: tra trekking d'alta quota e turismo nell'antica Persia; Giro
del Monviso 9-11 luglio 2010
65 In libreria
66 Itinerari Alpini
Week-end "plaisir" in Svizzera
72 Alpinismo Giovanile
Relazione Accompagnatori; A diventar Grandi si inizia da Piccoli; Trekking sull'Alta
Via n. 1
82 Commissione Ecursionismo
Bilancio del XII Corso di Escursionismo; XII Corso di Escursionismo Avanzato
86 Scuola di Alpinismo
Il 7° Corso di Alta Montagna; Corso di Alta Montagna 2010; 42° Corso di Alpinismo
94 Gruppo Veterani
I Veterani di Padova incontrano gli altri gruppi seniores
95 Ricordiamo
Antonio "Nino" Portolan; Livio Bolzonella
SEMESTRALE
SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI
35121 Padova - Gall. S. Bernardino, 5/10
Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected]
Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD
Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06
DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva
VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi
COORDINAMENTO: Francesco Cappellari
COMITATO DI REDAZIONE: Renato Beriotto, Federico Bernardin, Giuliano Bressan, Daniela Grigoletto, Luigina Sartorati, Caterina Secco, Tonino Tognon, Leri Zilio,
IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa
IN COPERTINA: 45 anni di Stampa Sezionale
3
3/2010
cronache
di Giuliano Bressan
1° International Trad Climbing Meeting
Valle dell’Orco
Si è svolto sulle mitiche
pareti della valle dell’Orco
dal 19 al 25 settembre il 1°
International Trad Climbing Meeting, organizzato
dal Club Alpino Accademico Italiano; una settimana
ideata e organizzata allo
scopo di favorire lo scambio di esperienze fra arrampicatori di tutto il mondo e valorizzare la scalata
“trad” in valle. Molto diffuso in Gran Bretagna questo
stile di arrampicata “tradizionale" permette, nelle
varie fasi di assicurazione
e di progressione, l’utilizzo
esclusivo di nut, di friend
e al massimo di qualche
chiodo, ancoraggi che vanno successivamente recuperati per lasciare rigorosamente la via e la parete
pulite; niente spit quindi
o altre protezioni che rimangono sulla roccia.
Le grandi pareti della
valle dell’Orco e di tante
altre strutture di bassa
valle, rappresentano senza dubbio il terreno e il
palcoscenico ideale per
il ritorno a questo stile
di scalata che a dispetto
del nome è tutto fuorché
vecchio:
“tradizionale”
ma non “tradizionalista”.
Non bisogna scordare che
su queste severe, granitiche strutture è nato all’inizio degli anni settanta il
“Nuovo Mattino”. Sull’onda
della contestazione sessantottina che influenzò
anche l’alpinismo, seppure con qualche
anno di ritardo
rispetto alle rivolte studentesche,
questa
nuova
corrente, generata in un clima di
rottura, pose fine
ai codici di comportamento, alle
gerarchie,
agli
steccati che condizionavano l'alpinismo. Su tutto
prevalevano
il
piacere e il gusto
dell'arrampicata
fine a se stessa:
non aveva quindi più valore la lotta con l'Alpe e
la conquista della cima.
Il nuovo movimento alpinistico prese il nome di
"Nuovo Mattino", dal titolo
di un articolo di Gian Piero
Motti sulla "Rivista della
Montagna";. Questo suo
breve scritto, tratto dalla
vecchia guida della Valle
dell’Orco (Tamari Editori),
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ne rappresenta sinteticamente il manifesto e il
pensiero:
" ...sarei molto felice se
su queste pareti potesse
evolversi sempre maggiormente quella nuova
dimensione dell'alpinismo
spogliata di eroismo e di
gloriuzza da regime, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un'atmosfera
gioiosa, con l'intento di
trarne, come in un gioco, il
massimo piacere possibile da un'attività che finora
pareva essere caratterizzata dalla negazione del
piacere a favore della sofferenza..."
Sulla scia del mito californiano della Yosemite
Valley, un'ampia schiera
di arrampicatori, molti di
essi torinesi, aprì in valle dell’Orco una serie di
itinerari per i tempi (anni
settanta), futuristici; non
a caso la valle dell'Orco
era definita la "Yosemite
Valley del Piemonte". Personaggi del livello di Motti,
Kosterlitz, Grassi, Manera
(solo per citarne alcuni!),
si cimentarono nell'aprire
itinerari storici, seguendo
le numerose linee logiche
e mai banali presenti in
queste magnifiche pareti, ribattezzate con nomi,
come ad esempio il Caporal e il Sergent, che si
riconducono al modello
americano. Trascorsi gli
anni settanta e ottanta il
Nuovo Mattino è tramon-
cronache
tato con le sue utopie e
contraddizioni, diventando
ormai oggetto di storia.
Tornando in valle dell’Orco,
sono passati ormai quasi
quarant’anni dalla scoperta delle sue severe pareti;
tutto passa, ma negli ultimi anni nuove generazioni
di arrampicatori inglesi,
francesi e tedeschi hanno
riscoperto dopo periodi di
abbandono uno dei più bei
posti di arrampicata in Europa. Il fascino di questa
valle sta forse nella sua
storia in permanente bilico
fra oblio ed esaltazione.
“Il Club Alpino Accademico è uscito dai luoghi
comuni che lamentano la
scarsità di iniziative per
valorizzare la scalata Trad
in Valle, e con un enorme
sforzo organizzativo dei
suoi volontari e il concreto aiuto degli sponsor, ha
organizzato un meeting
sul modello di quelli che
si svolgono da anni in Gran
Bretagna e negli USA”.
Al meeting hanno partecipato 46 arrampicatori, provenienti da ben 14
paesi di tutto il mondo,
designati dalle maggiori
organizzazioni di alpinismo e arrampicata; l’Italia era rappresentata,
solo per citare qualche
nome, da Alessandro Gogna, Manrico Dell’Agnola,
Rolando Larcher, Michele Caminati, Mauro Calibani e Roberto Vigiani.
Con base operativa a Ceresole Reale i vari parte-
cipanti, coordinati dagli
accademici Mauro Penasa, Claudio Picco, Andrea
Giorda, Maurizio Oviglia,
hanno nelle varie giornate arrampicato fra loro,
ripetendo le vie classiche
e aprendo nuovi itinerari, toccando con mano le
ultime tendenze emerse
in valle in fatto di arrampicata trad e non. Nella
sala polivalente dell’ex
Grand Hotel il programma prevedeva inoltre una
serie di incontri di grande
interesse aperta a tutti.
In occasione del meeting
era stato infine organizzato un’Open Day sui massi
del Caporal, proprio alla
base della famosa parete,
una giornata aperta a tutti, cui erano stati invitati
diversi forti arrampicatori e boulderisti; lo scopo
non era certo di fare una
competizione ma piuttosto
di arrampicare tutti assieme, forti e meno forti per
confrontarsi sul granito
della valle dell’Orco. Maurizio Oviglia, cui era stata
affidata dalla direzione
del meeting l’organizzazione di questa giornata,
ha lavorato più di un anno
su questo progetto aprendo e sistemando allo scopo più di trenta monotiri.
Purtroppo le condizioni
meteorologiche,
sin’ora
ottime, si sono proprio
guastate nella giornata di
venerdì, costringendo gli
organizzatori a sospendere l’incontro, ripreso
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però seppure
in parte il sabato mattina con
il ritorno del bel tempo.
Il meeting, una vera e
propria festa dell’arram-
picata, ha riscontrato un
notevole successo e si è
concluso con il convegno
nazionale del Club Alpino
Accademico che aveva ovviamente come tema l’arrampicata Trad.
Giuliano Bressan
cronache
di Francesco Cappellari
ARRAMPICATA TRAD(izionale)
Il convegno CAAI a Ceresole Reale
In occasione del Meeting
Internazionale di arrampicata “Trad” tenutosi in Valle dell’Orco, il Club Alpino
Accademico Italiano ha
organizzato il suo convegno annuale, questa volta
a Ceresole Reale.
Il convegno, proprio per
l’occasione, è stato allargato a tutti gli alpinisti partecipanti al meeting ed ha
avuto come ospiti illustri
alcune tra le più spiccate personalità del mondo
della montagna e della
specialità di cui si andava a
discutere.
l’accento proprio sul nuovo
termine coniato.
È seguita una succosa relazione da parte di Lindsay
Griffin, alpinista e giornalista inglese, sulla storia
dell’arrampicata dal 1970
ad oggi.
“Il “Trad” è un movimento
che arriva sulle Alpi dal
Regno Unito dove gli arrampicatori, sia per etica,
sia per la salvaguardia
delle rocce non particolarmente robuste, scalano
con il solo uso di protezioni
veloci, quali nut e friend,
anche alle soste.
Il termine “Trad”, come
stava proprio nel titolo del
Convegno, sta per tradizionale.
Si penserà quindi ad un
semplice ritorno ai metodi
e alle mentalità del passato, ma proprio per il fatto
che quel “izionale” è stato
messo tra parentesi i relatori e la platea hanno avuto
modo di porre attenzione
su molti temi di differenziazione.
È chiaro che un’arrampicata di questo tipo presuppone un rischio maggiore
ma, soprattutto dove non
c’è un reale pericolo di
vita, è anche di maggiore
soddisfazione. Una controtendenza rispetto ai metodi
usati negli ultimi anni sulle
Alpi, soprattutto Occidentali, dove l’arrampicata
super-protetta ha preso
particolarmente piede.
In Inghilterra vige una regola non scritta dove l’apritore di una via si assume la
responsabilità del tipo di
Ha aperto la discussione
Marco Blatto che ha posto
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chiodatura e i ripetitori si
adeguano e rispettano la
via senza aggiungere altre
protezioni. Questo ha fatto in modo che si possano
trovare in una stessa area
di arrampicata itinerari di
diversa concezione, dalla
via “trad” a quella super
protetta con fix e spit e i
due diversi stili convivono
pacificamente.
Fino agli anni ’60 si usavano
protezioni particolari come
sassi circondati da un cordino, si incastravano i nodi
stessi dei cordini oppure si
utilizzavano semplici bulloni con cavi metallici rivettati. Si inventarono quindi
i primi nut che permisero
una protezione più sicura
soprattutto sugli itinerari
in fessura e l’etica arrampicatoria si rivolse quindi
all’accettazione dell’uso
del chiodo solamente alle
soste anche se, man mano
che le difficoltà aumentavano, sono stati fatti degli
strappi alla regola.
In realtà comunque è netta
la sensazione che gli alpinisti di qualche decennio
fa fossero più coraggiosi
di quelli odierni. Sotto l’influenza francese, infatti,
molti arrampicatori inglesi
tornavano in patria attrezzando sempre più le vie a
spit, portando una specie
di regressione sull’etica
fino ad allora adottata ma
indubbiamente innalzando
il limite delle difficoltà tecniche ad un livello mai raggiunto precedentemente.
cronache
Ora l’arrampicata sportiva
viene utilizzata dagli scalatori di punta per poter salire di livello in arrampicata
“trad”. Ma la verità è anche
un’altra e sta nella consapevolezza che gli arrampicatori inglesi sono “matti”,
probabilmente accettano
una dose di rischio maggiore rispetto ai loro colleghi
continentali. Se vogliamo
cercare altre motivazioni
le possiamo trovare sul
tipo di roccia che si trova
in Regno Unito, una roccia
non molto abbondante (non
ci sono poi così tanti siti), e
di qualità non eccellente
(in molti casi arenaria che
si consuma con l’utilizzo
dei chiodi classici) ma comunque con il vantaggio di
poter utilizzare protezioni
veloci. Chiude il cerchio
etico il fatto che tutti hanno un grande rispetto per
gli arrampicatori del passato e comunque di chi ha
aperto un nuovo itinerario,
tanto che indiscutibilmente
non viene richiodato se non
dopo il consenso dell’apritore.”
Lindsay Griffin ha poi proseguito facendo un excursus storico sull’evoluzione
degli ultimi anni.
“Il crocevia dell’evoluzione
degli ultimi 30 anni si è avuta quando un francese dal
nome Michel Piola aprì nel
1980 una nuova via a spit
sui Pelerins, nel gruppo
del Monte Bianco. Gli diede
il nome di “Nostradamus”
proprio per significare che
si trattava dell’inizio di
un’evoluzione. La polemica
si accese feroce ma è indubbio che fu un trampolino di lancio per una nuova
concezione dell’alpinismo,
o meglio dell’arrampicata
in alta montagna. Si potevano ora guardare linee
mai viste prima, non dover
necessariamente seguire i
punti deboli e logici di una
parete. Si poteva percorrere itinerari di placca prima
improteggibili. Dopo “Nostradamus” l’arrampicata
non è stata più la stessa.
Questa rivoluzione, soprattutto nel gruppo del
Monte Bianco, ha permesso la discesa lungo lo stesso itinerario in quanto le
soste stesse venivano attrezzate con spit e catene
per le calate. Conseguentemente non era più necessario arrampicare con
gli scarponi, che fino ad
allora erano necessari per
poter scendere dalla via
normale, magari con neve
e ghiaccio. Si cominciò ad
arrivare alla base delle
pareti con i materiali da
ghiaccio, per poi cambiarsi
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le calzature e l’abbigliamento. Ci si cambiava in
pratica anche la mentalità.
Si sapeva che per qualsiasi problema (cambiamento
del tempo, difficoltà troppo
elevate, stanchezza) si poteva ritornare sani e salvi
alla base. E l’uso delle leggere scarpette d’arrampicata fu valutato, dal mondo
conservatore, come mezzo sleale verso gli itinerari
di alta montagna. Era nata
la cosiddetta arrampicata
“plaisir”.
Un esempio è quanto accaduto sulla Ovest delle Petit
Jorasses. Per saire la classicissima via di Contamine
si doveva letteralmente
attraversare la montagna
con le conseguenti complicazioni legate ad una
pericolosa discesa in corda doppia (fino a metà del
secolo scorso la discesa in
corda doppia era l’ultima
ratio da prendere in considerazione). Negli anni ’90
Piola aprì “Anouk” e tutto
cambiò. Da qualsiasi punto
della via classica si poteva
attraversare e scendere
per la via moderna che ha
le soste attrezzate a spit.
È indubbio che da allora è
cronache
cambiato di gran lunga il
tipo di impegno.
Altro aspetto da considerare è: dove finisce la via?
Alla fine delle difficoltà
tecniche o in cima?
Pensiamo al Supercouloir
al Mont Blanc du Tacul. Da
quando sono state attrezzate le doppie tutti scendono dalla fine delle difficoltà. C’è da dire che nessuno
si è particolarmente arrabbiato, diciamo ha fatto
comodo a tutti…
In pratica continuiamo a
cambiare l’obiettivo cambiando anche il contorno, il
modo di raggiungerlo.
Facendo un altro esempio,
nel 1965 Bonington e Harlin
salirono il pilastro di destra del Brouillard fino alla
fine delle difficoltà. Avrebbero voluto continuare per
la cresta fino alla cima del
Monte Bianco ma a causa
di una tempesta improvvisa furono costretti a rientrare. Fu loro riconosciuta
la salita ma uno dei quattro
(Beley) si chiese: ma abbiamo veramente finito la via?
Questo creò un precedente
e nel ’73 tornò con altri e si
alzò un po’ di più pensando
di averla così completata.
Sta di fatto che in realtà
non esistono regole in alpinismo. Ognuno si crea gli
obiettivi a propria misura.
È necessario però codificare i comportamenti per
proteggere il cuore dell’attività.
I motivi sono e saranno
sempre personali ma il
modo con cui arrampichiamo è giusto sia condiviso da
criteri comuni. Non lasciare tracce, salire sempre
più nelle difficoltà con minor attrezzatura è definito
alpinismo progressivo.
L’eterno problema consiste
che viviamo in un mondo
sempre più arrivista dove
l’importante è raggiungere il risultato tralasciando
molte volte il metodo utilizzato.
La bella esposizione, accompagnata da fotografie,
ha lasciato il posto ai commenti di Alessandro Gogna,
noto alpinista della fine del
secolo scorso ed ora fulgido critico e storico.
“Il libro che ho scritto nel
1981 “100 nuovi mattini”
faceva molte profezie ma
le ha cannate tutte.
Parlava di “ri-creazione”,
cioè che si sarebbe assistito ad un’epoca di pulizia
tornando ad attrezzare le
vie come erano state aperte, ma non è stato proprio
così. Si è, anzi, sviluppata
l’arrampicata sportiva.
Ora ci sono molti auspicabili segnali che qualcosa
sta cambiando nel senso opposto. D’altro canto
l’alpinismo da quando è
nato è a onde, vive di alti e
bassi e di contrapposizioni, senza per questo dare
un’accezione negativa alla
parola “basso”. Le epoche
di Preuss con l’arrampicata in libera, addirittura
senza l’uso della corda
può essere definita l’onda
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positiva e quella di Fichtl,
Dülfer e Dibona con un
buon uso di chiodi come
onda negativa.
Si è vissuto in seguito l’antagonismo tra Occidentali
ed Orientali e ancora l’era
dell’artificiale a goccia
d’acqua con l’uso dei chiodi
a pressione e quella della
libera a tutti i costi. Da una
parte, grazie alla grande
spettacolarizzazione, l’artificiale era legittimato dai
media che davano molto
spazio come ad esempio
per la via Colibrì in Lavaredo, ma dall’altra fu
considerato da alcuni una
specie di autogol in quanto
così facendo qualsiasi parete diveniva possibile con
la cessazione del “gioco
dell’alpinismo”.
In questo contesto Messner denunciava l’assassinio dell’impossibile mentre
più a Est Enzo Cozzolino
dimostrava con i fatti che
esisteva un altro modo di
fare alpinismo, fatto di vie
nuove aperte in arrampicata libera con uso parco
di chiodi.
Queste contrapposizioni
forniranno entrambe grandi realizzazioni ed è indubbio che l’uso dei chiodi ha
permesso un’evoluzione
tecnica che altrimenti non
ci sarebbe stata. Pensiamo
ad esempio a Cassin che
salì la Torre Trieste, il Badile e le Grandes Jorasses.
È indubbio che senza l’uso
dei chiodi di protezione, e a
volte di progressione, non
cronache
sarebbe riuscito in tali imprese. Cassin inoltre con
la sua opera si può considerare il primo globalizzatore nella storia dell’alpinismo.
Un’ulteriore contrapposizione degli ultimi 30 anni si
vive a chiare lettere in Himalaya. Si è passati dalle
grandi spedizioni allo stile
alpino, dai gruppi formati
da 20 o 30 alpinisti a gruppetti di quattro o sei persone che in modo leggero,
senza ossigeno e senza
l’uso di portatori d’alta
quota riescono in difficilissime realizzazioni. Di fronte, contemporaneamente,
vediamo le spedizioni commerciali che attrezzano la
via all’8000 con una fila di
corde fisse simili a ferrate e fanno trovare pronti
i campi bene allestiti con
le bombole di ossigeno al
posto giusto per un cliente
sempre più esigente perché ha sborsato denaro.
Ed infine, tornando alle
pareti di casa, si vive oggi
la contrapposizione tra arrampicata sportiva, o “plaisir, e il “trad” inteso come
creatività nell’attrezzarsi
e proteggersi la salita. E
quindi vengo all’importanza di questo meeting che ha
finalmente ridato dignità
all’alpinismo, quello dove è
contemplata la componente rischio. Per contro mi
viene da proporre all’arrampicata “plaisir” il nuovo
nome di “admin climbing”
cioè l’unica arrampicata
che certi amministratori
locali oramai ammettono
sulle pareti del loro territorio. Naturalmente la provocazione vuole risvegliare
la coscienza degli alpinisti
che una volta di più devono difendersi dagli attacchi
verso la libertà di un gioco
quale l’arrampicata è.
È seguito un intervento di
Eric Svab che, illustrando
con parole ed immagini la
sua attività “trad”, ha posto l’accento sul rispetto
da dare agli apritori di una
via. Chi vuole affrontare
certi itinerari deve essere
consapevole della difficoltà e del relativo rischio e
quindi dovrà prepararsi ed
allenarsi, sia fisicamente
che tecnicamente, in modo
adeguato senza lasciare
nulla all’improvvisazione.
Il gioco potrebbe costare
molto caro.
L’intervento di Maurizio
Oviglia, grande chiodatore e spittatore della Valle dell’Orco come pure di
molte pareti della Sardegna, è andato ad interessare i flussi storici che esso
stesso ha vissuto. Ora che
si torna a rivivere un flusso tradizionalista si dice
in difficoltà per la chiodatura, a volte eccessiva,
praticata sulle sue pareti.
Ma, si chiede: “è giusto ora
schiodare tutte quelle vie
dove ci si può proteggere
in modo veloce oppure potrà essere rispettata l’etica del momento in cui le
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vie in questione sono state
aperte?”.
L’argomento ha aperto un
animato dibattito tra gli
intervenuti come quello
di Ugo Manera (“ma noi
aprivamo senza spit e tanti chiodi e quindi possiamo dire che già noi negli
anni ’60 arrampicavamo in
trad”) o quello di Maurizio
Carcereri (“sono d’accordo in un’evoluzione verso
la tradizione ma stiamo
attenti a non cambiare le
carte in tavola senza dare
informazione. L’importante è lasciare l’esistente
nelle condizioni attuali altrimenti ci troveremmo ad
assistere al rischio che gli
arrampicatori si trovino la
via inaspettatamente sprotetta”).
Ha completato il quadro
degli interventi il famoso
arrampicatore “trad” Tom
Randall, un giovane inglese
specializzato nell’apertura
di nuove linee nel puro stile.
Le sue peregrinazioni gli fa
preferire la Valle dell’Orco rispetto a Yosemite in
quanto “nella valle italiana
ci sono, incredibilmente,
ancora tanti problemi da
risolvere e l’avventura su
una nuova via trad per me
è ben più importante di 100
vie famose e blasonate”.
Francesco Cappellari
cronache
di Leri Zilio
La nostra Margherita alp(INA)
Il guerriero Margot ha superato anche le ultime selezioni, e ora è Istruttore
Nazionale di Alpinismo,
titolo difficile ed ambito di
cui possono fregiarsi solo
poche donne in Italia. È
una “prima” anche per la
Scuola del CAI di Padova,
perché mai nella sua lunga e gloriosissima storia ci
fu un esponente del gentil
sesso che raggiungesse
un tale risultato. Ora è accaduto, ed è bello e significativo che la rivoluzione
l'abbia portata Margherita
Michelotto, una donna entusiasta e tenace, con un
cuore ed una grinta grandi
come una casa. Lei non è
certo una novizia all'interno della Scuola, perché
sono molti anni che partecipa come istruttore ai
corsi che vengono organizzati. Tutti ormai conoscono
quel furetto agile che sale
rapido per ogni dove, e
Rocca Pendice non sarebbe più la stessa se non vi
risuonasse il nome Margot
chiamato da più parti. Ora
che è mamma, è un po'
meno assidua, ma appena
pargolo e lavoro lo permettono scorribanda imperterrita a più non posso.
La sua è sempre stata una
vita in salita. Ha lottato intrepida contro molte difficoltà, conquistandosi le
cose con la ferocia positiva
delle sue sole forze. Ma
nonostante le sberle subite, e da lei comunque subito restituite, non ha mai
perso la sua carica vitale
ed ottimista. Sono proverbiali la sua energia e il suo
entusiasmo, non solo per
la montagna ma per la vita
tutta. Curiosissima, appassionata di cinema e letteratura, predilige i grandi
russi (Tolstoj e Dostoevskij), l'incommensurabile
Primo Levi, la sofisticata Marguerite Yourcenar.
Grande è anche la passione per la storia dell'alpinismo, molla e stimolo che
la portano in montagna a
ripercorrere le vie classiche sulle orme dei grandi
del passato.
Il suo è un alpinismo a 360°
perché, pur prediligendo
la roccia, non disdegna gli
itinerari d'alta montagna,
le cascate e lo sci alpinismo. Tra le molte ascensioni da lei realizzate, mi
piace ricordare la cresta
Kuffner sul Mont Maudit
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con il compianto amico Albano Giacomini, e ancora
sul Monte Bianco la cresta
di Rochefort e la nord della
Tour Ronde. In Dolomiti le
ascensioni sono molteplici, con classicissime come
lo spigolo nord dell'Agner,
la “Don Chisciotte” in Marmolada, la “Steger” in Catinaccio, la “Frish-Corradini” sulla Pala del Rifugio
e la “Preuss” sul Campanil
Basso.
Io ho il ricordo vivissimo
di una nostra avventura sulla Pala di Socorda
nei Dirupi di Larsec. Era
ottobre, la giornata molto corta ci costrinse a un
bivacco imprevisto sulla
cima dopo aver percorso
la “Schubert” sulla parete
sud. Fu una notte lunga e
fredda. Non avevamo né
cibo né sacco da bivacco,
ma Margherita fu stoica
come uno spartano. Brontolò per un po' e mi cazziò
ben bene anche, ma poi il
giorno dopo, riscaldata da
un bel sole, si ritrovò felice
di questa esperienza. Un
bivacco in pieno autunno
non è cosa di tutti i giorni.
Un'esperienza forte che ti
lascia una gioia e un'euforia difficilmente spiegabili.
Durante la discesa tornò
ad essere radiosa e ciarliera come al solito, svelta
e veloce, colmo l'animo di
quelle sensazioni rudi e
forti che solo la montagna
può dare.
Leri Zilio
cronache
di Francesco Cappellari
Il Progetto Montagna Amica
Così è chiamata la nuova iniziativa partita
dalle Scuole Venete Friulane Giuliane volta ad informare il popolo degli utenti della
montagna affinché siano consapevoli dei
pericoli insiti nella frequentazione di tale
ambiente.
In particolare ci si rivolgerà alla collettività con strumenti e tecniche in uso per:
• la progressione in sicurezza
• l’autosoccorso
• il soccorso organizzato
promuove la collaborazione con i vari Enti
più significativi e sensibili che si occupano
della sicurezza in ambiente montano per
stabilire insieme le linee guida comuni da
applicare ai progetti che si articolano a livello regionale, impegnando direttamente nell’organizzazione e gestione delle
iniziative i corrispondenti Organi Tecnici
Periferici del CAI e le strutture decentrate delle organizzazioni e degli enti di carattere nazionale.
Si tratta di un’attività informativo-formativa ad ampio spettro, lunga ed impegnativa, che richiede il coinvolgimento dei
vari organismi competenti facenti capo al
nostro Sodalizio e agli Enti ed Organizzazioni che perseguono le medesime finalità, promuovendo la collaborazione tra
essi.
Il progetto mira ad offrire un segnale positivo in contrasto con la tendenziale comunicazione negativa offerta dai media
ed è denominato:
“MONTAGNA AMICA”.
IL TARGET
Dai dati elaborati dal Corpo Nazionale
Soccorso Alpino e Speleologico si rileva
che il 95% degli incidenti in montagna
coinvolge persone che non sono soci CAI.
Questo significa che la grande maggioranza dei frequentatori della montagna
non transita per le strutture formative del
CAI ed è quindi necessario promuovere e
sviluppare una campagna informativa e di
sensibilizzazione dedicata al grande pubblico.
Il progetto sarà quindi indirizzato all’ampio bacino d’utenza dei frequentatori della montagna, mirando a coinvolgere tutti
i soggetti interessati alle varie discipline
amatoriali e sportive che si svolgono in
montagna attraverso l’attività di informazione e formazione e la gestione di eventi
locali gestiti dai titolati volontari del CAI
e dagli altri soggetti qualificati appartenenti alle Organizzazioni che concorrono
all’attuazione del progetto.
SOGGETTI PROMOTORI
Il Club Alpino Italiano attraverso questa
iniziativa intende promuovere una vasta
campagna di sensibilizzazione ed informazione a livello nazionale sul tema della
prevenzione degli infortuni in ambiente
montano.
Il CAI, con le sue 491 Sezioni presenti
sull’intero territorio nazionale dotate di
organi tecnici qualificati cui sono affidati dalla legge e dallo Statuto i compiti di
formazione e prevenzione nella frequentazione della montagna, si propone come
presidio permanente, attivo tutto l’arco
dell’anno, a favore di una frequentazione
della montagna in sicurezza.
PRIMA FASE
Dall’11 dicembre 2010 al 31 gennaio 2011
“PREVENZIONE E SICUREZZA IN AMBIENTE INNEVATO”
SOGGETTI PROMOTORI
• Club Alpino Italiano:
GR – Raggruppamenti Regionali
CNSASA Commissione Nazionale Scuole
di Alpinismo, Sci Alpinismo, Arrampicata
Libera, Sci Fondo Escursionistico
A livello nazionale il Club Alpino Italiano,
attraverso i propri organismi preposti alla
prevenzione ed in collaborazione tra loro,
indica le caratteristiche del progetto e
11
cronache
SVI – Servizio Neve e Valanghe del CAI
• AINEVA – Associazione Nazionale Neve
e Valanghe
• Collegi Regionali Guide Alpine
• Collegi Regionali Maestri di Sci
• Comitati Regionali FISI
• Servizi Regionali Neve e Valanghe
• Soccorso Alpino del Corpo Forestale
dello Stato
• Soccorso Alpino della Guardia di
Finanza
in generale, del rischio di frequentazione
della montagna in ambiente innevato; lo
scopo principale è quello di creare sensibilità, ovvero, accrescere la consapevolezza dei rischi e dei limiti personali.
L’iniziativa si rivolge a tutti i frequentatori
della montagna invernale, siano essi sci
alpinisti, sciatori (in pista o fuoripista),
escursionisti a piedi o con le racchette da
neve, snowboarder, etc.
Si intende pertanto raggiungere un pubblico più vasto, esterno all’ambiente del
CAI, che possiede poca o nessuna conoscenza in materia di rischio valanghe. In
questo senso, i promotori si impegnano
ad attivare tutti i canali e i mezzi a loro
disposizione per colmare tale lacuna.
PREVENZIONE E SICUREZZA
IN AMBIENTE INNEVATO
UTENZA A CUI SI RIVOLGE
Il primo appuntamento ha ad oggetto la
prevenzione del rischio valanghe e, più
La Sezione di Padova del Club Alpino Italiano, nell'organismo della Scuola di
Alpinismo F. Piovan, risponde prontamente all’importante iniziativa
organizzando una serata dal titolo:
PREVENZIONE INCIDENTI IN VALANGA
Relatore: Edoardo Usuelli – Comandante Stazione Soccorso Alpino della
Guardia di Finanza del Passo Rolle
VENERDÌ 17 DICEMBRE ORE 21,00
SALA DIEGO VALERI – Via Diego Valeri, Padova
INGRESSO LIBERO
Per l'anno 2011 la Scuola di Alpinismo F. Piovan organizza il
43° CORSO DI SCIALPINISMO SA1
Le domandi di iscrizione si riceveranno dall'1 al 3 dicembre 2010
dalle 18,00 alle 19,30 presso la Sede Sociale.
12
Nota dalla Redazione:
Il seguito alla pubblicazione nello scorso notiziario del resoconto a firma di
Federico Battaglin “Marmolada parete Nord. Discesa con gli sci” la redazione
sente il bisogno di esprimere un chiarimento.
Una rilettura più attenta al contenuto di alcuni brevi passaggi, ove l'autore
non dimostra rispetto per il proprio compagno, richiede di ribadire che il
notiziario sezionale è espressione di un movimento che propugna sentimenti
e valori quali la fraternità, la pari dignità e il profondo rispetto fra compagni,
ritenendoli elementi fondamentali nella pratica alpinistica in comune.
Sul notiziario del Cai Padova sono sempre stati pubblicati - salvo doppioni o
materiali chiaramente fuori tema - tutti gli scritti inviati dai soci, all'insegna
di un costruttivo scambio delle esperienze e dei pensieri che animano
il mondo dell'alpinismo. Alla luce di questo episodio, tuttavia, si ritiene
necessario vigilare maggiormente su eventuali posizioni che potrebbero
indurre perplessità sui fondamenti dello spirito associativo, riservandoci di
contattare gli autori dei contributi per segnalare le incongruenze con quanto
sopra ricordato e, nel caso, di intervenire.
Ciò è da parte nostra dovuto nei confronti del bagaglio morale e culturale
appreso e condiviso e del nostro compito di diffonderlo, con questo ed altri
mezzi.
Per la Redazione,
Giovanni Piva
Importante
La scadenza per la presentazione degli articoli da inserire nel prossimo
Notiziario è il 20 maggio 2011.
Onde evitare spiacevoli equivoci il materiale deve essere depositato presso
la sezione nell’apposita cartellina preferibilmente su CD accompagnato
da una stampa.
Si prega di fornire testi in “word” e foto con didascalie a parte, nonché un
recapito telefonico.
Si può anche spedire via mail all’indirizzo:
[email protected]
dialoghi
di Flavia Fodde
Pensando ad Adriana Valdo
Non è necessario avere un’approfondita conoscenza delle leggi che governano
la materia per comprendere come sia
possibile che più elementi dotati di una
certa affinità chimica, combinandosi tra
loro, diano origine ad un prodotto dalle
caratteristiche sorprendenti. Gli esempi potrebbero essere molteplici, se solo
li conoscessi, ma vista la mia ignoranza
sull’argomento dò per buono e acquisito
quanto affermato e lo considero come un
postulato assunto solo per via intuitiva.
Tuttavia, se ciò è vero con le singole microscopiche molecole, figuratevi cosa può
accadere quando tre persone complesse
tamente quella atleticamente più dotata.
I muscoli rinforzati in kevlar, i polmoni di
gore-tex le permettono di essere competitiva anche nei confronti della gran
parte dei maschi che, sventurati loro, la
affiancano nelle imprese sportive. Datele
un obiettivo da raggiungere, una cima da
scalare ed un qualsiasi mezzo per farlo,
dalla bicicletta al monopattino passando
per gli sci e le scarpette da running ed il
gioco è fatto con agilità e senza tanto patire. Dotata di carattere bonario, sbrigativo e pratico, liquida qualsiasi questione
dall’economico finanziario, allo sportivo
amoroso, con la stessa facilità con la quale polverizza i dislivelli più impegnativi.
Questa sua potenza ed efficacia di azione
non intacca tuttavia nulla della sua femminilità soprattutto quando, inguainata in
trasparenti tutine bianche da far crollare
la mandibola ad un asceta, cavalca la sua
bici provocando nel pubblico maschile
una anomala emissione ormonale, che
ovviamente li stronca. Unico suo insuccesso il giro vita di Lucio, ma contro il paranormale nulla è possibile.
Il secondo elemento del composto è Lorenza o Lola o Fernanda, tre nomi d’ignota origine per chi invece meriterebbe di
essere chiamata semplicemente Sorriso.
Anche lei dotata di forza fisica e capacità polmonare notevole, trova però nella
grazia il proprio punto di forza. Non esiste traversia o difficoltà sia alpinistica sia
esistenziale, che Lorenza non sappia affrontare con lucidità e coscienza. La forza
di carattere e la sua serenità le spianano
i dislivelli più arditi portandola con il suo
proverbiale sorriso in vetta. E non crediate che tanta grazia possa inficiarne la forza: guardatela mentre contrae un bicipite
in arrampicata e capirete di doverle sempre il massimo rispetto alpinistico. Affidabile e coscienziosa cresce quattro figli,
tre dei quali partoriti con biblico dolore ed
il quarto consegnatole a circa vent’anni in
affido permanente. Nonostante questo le
e distinte si combinano mettendo assieme parte della loro energia e delle loro
caratteristiche fisiche. Su questa materia sono più ferrata e ho giustappunto un
esempio eclatante che chiamerò processo ELFOS ovvero Elena, Lorenza e Flavia
on ski, uno spettacolo che vi incanterà.
Una rapida descrizione degli elementi
che danno vita al composto potrà meglio
chiarirne l’eccezionale valore.
Dei tre soggetti in questione Elena è cer14
dialoghi
sue labbra non sono mai state sporcate
dal turpiloquio e nessuno le ha mai sentito pronunciare “vaffanculopirla” quantunque, immaginiamo, abbia avuto più di
un’occasione.
Parlare del terzo elemento mi è un po’ più
difficile giacché rappresenta l’io narrante, ma tenterò comunque una descrizione lucida e onesta utilizzando sempre la
terza persona per mantenere il distacco
necessario.
Rispetto alle sue compagne Flavia è certamente quella meno dotata atleticamente o quantomeno ottiene performance
che dipendono molto dalla quantità di
ferro circolante nel suo sangue. La si potrebbe definire una donna a ciclo continuo
(n.d.r. questa chi la capisce la capisce,
non intendo spiegarla) che presenta muscoli e capacità polmonari più adatte ad
una Gran Fondo di Uncinetto Punto Alto
che ad una delle numerose cronoscalate alle quali l’amica Elena la sottopone.
Nonostante sia cosciente che la natura
sia stata per lei più matrigna che madre,
non si sottrae a nessuna sfida alpinistica
proposta, facendo così della caparbietà
la propria nota caratteriale più evidente
(il primo che sottintende testardaggine
uguale stoltezza, lo stronco).
Ora, si dà il caso che, durante una normale stagione scialpinistica questi tre
elementi, per motivi del tutto casuali,
incrocino i loro destini riuscendo così a
trovarsi tutte e tre in vetta ad una montagna. La presenza dell’una per l’altra catalizza ed esalta le potenzialità e capacità
sciistiche dei singoli soggetti a tal punto
che, avendo a disposizione un pendio giustamente lavorato dal sole e dal freddo, il
gruppo dà vita ad un gesto atletico capace
di esprimere potenza ed eleganza come
poche volte accade in natura.
Eccole là, acquattate sul ciglio del pendio
a scrutare dove la curva possa essere
meglio condotta eseguendo traiettorie
veloci e perfette. Osservano attente come
felini pronti al balzo, tra di loro si guardano e poi via, una dietro l’altra, potenti, eleganti, tenaci. Saettano disegnando sulla
neve arabeschi preziosi, descrivendo volute gentili, le braccia larghe quasi a voler
prendere il volo. Si inclinano, scivolano,
saltano come seguissero una linea già
segnata. Ora morbide, ora nervose assecondando i capricci del terreno, domando
le difficoltà e vincendole. Il cuore batte, i
muscoli bruciano, le labbra si serrano. Via
veloci danzando sino al fondo del pendio.
Si fermano una vicina all’altra come fosse
un’ala che si richiude per poi riaprirsi per
un altro volo. E un altro ancora. Il gesto,
preciso e potente, sottende la felicità che
lo genera. Sono tre donne diverse, vivono
vite diverse e diverse emozioni ma in quel
momento la felicità è comune, il tempo è
sospeso ed è questo che guida i loro corpi e grazie a questo non invecchieranno
mai.
Quando a settant’anni si fermeranno infondo all’ennesimo pendio, loro, guardandosi si vedranno come trent’anni prima sul Gran Paradiso.
Flavia Fodde
Queste riflessioni hanno preso spunto
dall'incontro con l'Accademica del CAI
Adriana Valdo che con i suoi 70 anni e più
continua a praticare lo sci alpinismo.
15
diario alpino
di Caterina Secco
Storia e storie sulle Grandes Jorasses
È amore, il più grande
e terrificante che mi sia
stato concesso di vivere.
Un amore non codificato,
senza regole, abitudini,
quotidianità, convenzioni.
Un amore che trascina al
di là del tempo e dello spazio in una dimensione fatta di entusiasmo, allegria,
sconcerto, risate, angoscia, desolazione, incanto.
Perduto. È un amore che
porta alla perdizione.
Lo so. È la montagna.
Quiete di vento e silenzio in
una sera d'estate. Vedo le
fronde degli alberi in controluce sul crinale del pendio. Sono sdraiata a terra e
scrivo.
A tratti. La mia mente è
confusa, la concentrazione
è scarsa e meccanica.
Sento ancora la stanchezza di 14 ore di parete. La
testa avulsa dal corpo si
lamenta, abbandonata e
accecata dal riverbero
delle rocce. Le membra
gridano la contraddizione
brutale di un simile amore.
Il movimento è cessato
all'improvviso. Lo sforzo
intenso e prolungato si è
dissolto. La parete nord
del Piccolo Màngart di Coritenza è un ricordo bruciante, un sogno ormai decomposto.
Sopra le deserte vallate
ormeggiate sul fiume procedono nuvole calme e regolari che scorrono verso
la foce lasciando pallidi
disegni sui campi.
Lentamente
volgo
lo
sguardo in lontananza
all'immensità indefinita.
“Scrivi di gente morta?”.
“ Non sono morti”.
“Sì, o è come se lo fossero”. Marco è beffardo e ha
colpito. C'è attesa.
Avrebbe aspettato ancora,
naufragando nel silenzio.
Il suo corpo è alle mie
spalle e abbandona una
lunga ombra davanti a sé.
Rispondo senza vederlo. Il
suo profilo sull'erba è inquietante.
“Racconto la bellezza”.
Non mi volto. L'orizzonte è
16
sempre più velato.
So che mi guarda, vede
ogni particolare. So che
sorride. È una certezza.
“Che cos'è?” La domanda
è pacata, ma ha l'urgenza
del comando. La risposta
è secca e non ammette replica. Il gioco si fa sottile.
“È tutto ciò che riusciamo
a cogliere mentre sta passando. È l'effimero. Percepisci il bello di qualcosa
quando ne vedi insieme la
bellezza e la morte. Forse
essere vivi consiste proprio in questo: cercare ripetutamente gli istanti che
muoiono. È indifferenza,
anche. Arriva dopo, alla
fine di tutto. Ne sono sicura”. Intravvedo il porto
che si avvicina e le luci intermittenti dei fari in piena
notte, dopo la magnificenza e la crudeltà della burrasca in alto mare.
È un uomo alto ed elegante. I suoi capelli sono folti e
neri. Ha un corpo atletico,
definito, sensuale. Anni di
scalate, alte cime, ghiac-
diario alpino
ciai, viaggi, scorribande in
moto nel deserto hanno
fermato per lui il tempo.
Gli occhi di un blu profondo, ironici e decisi, penetrano dentro di me con forza e mi lasciano esposta,
annientata. È bello.
Mi alzo e cammino sul crinale; mi volto verso il pendio che digrada bruscamente fino al fondovalle,
là dove scorre il fiume. Più
oltre è incertezza, un'immensità nebbiosa che si
confonde e fa tutt'uno con
la mia anima.
Non posso non guardarlo.
Ha l'aria sprezzante e dolcissima di chi sa che presto lo seguirò. È inevitabile
che lo si faccia. Al limite
del ragionevole. E lo si sa
per sé soli.
Non c'è nulla di scontato.
È bene essere impeccabilmente indifferenti, nel
successo e nella disfatta,
nella gioia e nel dolore.
L'unico modo per affrontare lo straordinario e allucinato mistero di questa vita.
Rincorrere se stessi, non
smettere di cercarsi e di
cercarsi ancora, incessantemente, in un moto perpetuo. Le possibilità sono
infinite e infinite le condanne. Ironia voluttuosa che
sconcerta e ammalia.
Tranquillità. È palpabile e
leggera.
Il mio compagno conosce
bene la montagna, è affidabile e generoso. Ne adoro la capacità intuitiva, la
velocità di azione, la deter-
minazione in parete.
Qualcosa succederà, è
imminente. Solo qualche
istante. Lo si sente nel
profumo di muschio della
sera che avanza. Lo si sente nella bellezza della luce
che incupisce.
“Preparati
a
partire.
L'estate regala cinque o
sei giorni di bel tempo. Andiamo a vivere la “tua storia”. Annegherai i tuoi occhi scuri nel ghiaccio delle
Grandes Jorasses. I tuoi
morti, i tuoi eroi ti accompagneranno. Li grazierai di
nuova vita.”
Arriva come uno schiaffo.
I suoi occhi fanno paura
quanto sono blu.
Lo guardo, sorride. “Vorrei
non amare così, è un'onda
lunga. Tu e la montagna
siete una cosa sola”.
Non rispondo.
Avevo una conoscenza
vaga delle Grandes Jorasses fino alla sera di un
anno prima, quando, alla
sede del CAI di Dolo, Lorenzo mi svelava un mondo nuovo.
Un sorriso gentile, il suo.
Comunica
concretezza,
precisione, amore per la
montagna e per la storia
delle imprese alpinistiche.
Titolo della conferenza:
“Grandes Jorasses. La via
alla leggenda. Dall'alpinismo eroico ai giorni nostri”. Una presentazione
ricca, chiara, ben documentata. Lorenzo raccontava la storia, la spiegava
e commentava le foto. Si17
curo, tranquillo, e alla fine
soddisfatto: la serata è riuscita bene. Mi ha lasciato
un senso di appagamento
e compiutezza.
Lorenzo è nato a Padova
il 14 aprile 1964 e abita a
Dolo, in provincia di Venezia, ma il cognome Menegus tradisce origini cadorine. È nipote di Natalino
Menegus, che con Marcello Bonafede ha costituito
una delle cordate di punta
dell'alpinismo dolomitico
negli anni '60.
Un uomo aperto, cordiale,
che ama il buon vino, di cui
è più che un intenditore, e
la buona tavola. È da sempre assiduo frequentatore
della montagna, oltre che
appassionato lettore di testi di alpinismo.
Da qualche anno al CAI di
Dolo organizza serate di
storia alpinistica. Interessanti i suoi incontri monografici dedicati alla figura
di Paul Preuss, alla parete
nord-ovest della Civetta,
al Monte Bianco. E dulcis
in fundo il gruppo delle
Grandes Jorasses.
Dimentico Marco. La sua
immagine si estingue, sul
crinale. Resta la sua assenza, priva di spessore.
Non gli concedo di aprirsi
un ulteriore varco verso di
me e rileggo le pagine che
ho scritto. Torno alla replica mentale di quella sera.
Ricordo alcuni elementi
cruciali e riprendo a scrivere.
diario alpino
Le Grandes Jorasses sono
un gruppo di cime formate da rocce granitiche e
situate nella parte settentrionale del massiccio del
Monte Bianco, sulla linea
di confine tra l'Italia e la
Francia. Nel versante italiano sovrastano Courmayeur, in Valle d'Aosta, nel
versante francese dal
gruppo scende il ghiacciaio di Leschaux.
Il nome “Jorasses” sembra
derivare dal termine celtico “juris”, che significa “foresta d’alta quota”. Il tema,
molto diffuso nell’area alpina in varie forme, ricorre
nel noto “Jura”, la catena
di alture ginevrine che con
le sue rocce ricche di fossili ha dato il nome al “Giurassico”. Si suppone che
la zona della Val Ferret,
ai piedi delle Grandes Jorasses, sia stata un tempo ricoperta di fitti boschi
e consacrata alle divinità
celtiche.
Non posso non sorridere.
E un senso di appartenenza mi frastorna. “Juris”
era il cognome di mia madre. Suggestioni.
Sulle Grandes Jorasses
si susseguono sei vette,
in fila da ovest a est per
la lunghezza di 1 km, sei
punte: la “Young” (3.996
m), la “Margherita” (4.066
m), la “Elena” (4.045 m),
la “Croz” (4.110 m), la
“Whymper” (4.198 m), la
“Walker” (4.208 m), collegate da una cresta che
offre una delle più affascinanti traversate dell'arco
alpino, un percorso nel
vuoto là dove il ghiaccio, il
granito e la neve si dissolvono nell'aria rarefatta dei
4.000 metri di quota.
Le sei punte sono delimitate a nord-ovest dal Colle
de Hirondelles (3.480 m) e
a est dal Colle dei Grandes
Jorasses (3.825 m).
La parete sud, sul versante italiano, è un susseguirsi, per 2.600 metri,
di creste e gole profonde,
con ghiacciai stretti e non
La parete Nord delle Grandes Jorasses: 1) Mc Intire di sinistra; 2) Linceul; 3) Sperone Walker;
4) Mc Intyre-Colton; 5) Couloir dei Giapponesi; 6) Sperone Croz
18
diario alpino
sempre praticabili; la normale alla cresta è una via
di media difficoltà, paragonabile forse alla normale
al Cervino.
La parete est domina il
ghiacciaio del Fréboudze
con i suoi 800 metri tutti
verticali.
La più maestosa è la nord.
1.200 metri di altezza per
quasi 1 chilometro di lunghezza: un granito verticalissimo, solcato da canaloni di ghiaccio e neve, su
cui si stagliano due enormi
pilastri, gli speroni della
punta Croz e della punta
Walker. La nord è una delle più grandi pareti delle
Alpi.
Dall'inizio del secolo scor-
so molte cordate di celebri
alpinisti si sono cimentate nella conquista delle
Grandes Jorasses.
Al 24 giugno del 1865 risale
la prima ascensione della
punta Whymper, compiuta
da Edward Whymper, Michel Croz, Christian Almer
e Franz Biner.
Il 30 giugno del 1868 è la
volta della Walker, ad opera di Horace Walker, Melchior Anderegg, Johann
Jaun e Julien Grane.
La punta Margherita e la
punta Elena sono salite
nel 1898 da Luigi Amedeo
di Savoia-Aosta con le guide Joseph Petigax, Laurent Croux, César Ollier e
il portatore Félix Ollier. È
lui a battezzarle, in onore,
rispettivamente, della zia
Margherita e della cognata
Elena d'Orléans.
La salita della parete nord
diviene ben presto uno dei
grandi problemi delle Alpi.
Il primo tentativo è datato
1907: l'inglese Geoffrey W.
Young e la guida svizzera
Joseph Knubel arrivano
molto probabilmente fino
alla crepacciata, o poco
più.
Il 10 agosto 1928 Armand
Charlet ed Evariste Croux,
due delle più grandi guide
di quegli anni, con gli italiani Piero Zanetti e Leopoldo Gasparotto, insieme
all'americano Albert Rand
Herron, attaccano lo spe-
La via di Cassin, Tizzoni ed Esposito allo Sperone Walker
19
diario alpino
rone Walker, ma superato
il primo zoccolo rinunciano. Gli scarponi ferrati non
permettono di salire le
fessure verticali e ghiacciate.
I materiali e la tecnica
sono ancora insufficienti,
la preparazione e l'audacia
alpinistica non bastano.
E arriva il 1931.
L'1 luglio Anderl Heckmair
e Gustl Kroner raggiungono la parete, ma fuggono
evitando una grande frana.
Il 23 luglio Armand Charlet, insieme a Dillerman
e Simond, prova il Croz,
all'apparenza più semplice, ma desiste.
L'8 agosto Leo Rittler e
Hans Brehm attaccano risalendo il canalone e muoiono.
Il 13 agosto Heckmair e
Kroner tornano, trovano i
corpi degli alpinisti di Monaco di Baviera e rientrano.
Provano poi Hans Ertl e
Toni Schmid, che conquisterà la nord del Cervino.
L'anno successivo vede
i tentativi di Hermann
Bratshko, con i fratelli
Emil e Karl Rupilius, e con
Karl Schreiner. Nel 1933 si
cimenta Willy Welzenbach,
con Drexel e Schulze.
Sono grandi alpinisti, e
tutti, dopo aver assaggiato
le difficoltà iniziali, si ritirano senza successo.
È la volta degli italiani:
Lino Binel e Amilcare Cretier, Gabriele Boccalatte
e Renato Chabod, Luigi
Carrel e Pietro Maquignaz
di Valtournanche, con lo
stesso Cretier ed Enzo Benedetti.
Ancora si cimentano Charlet con Coutourier, senza
ottenere risultati migliori.
Più o meno tutti arrivano
alla crepacciata terminale o la superano di poco.
Nessuno riesce ad andare
oltre i 3.200 metri di quota.
Solo il 14 agosto dell'anno successivo Giusto Gervasutti, il futuro vincitore
della est, e Piero Zanetti
arrivano a 3.500 metri.
Evitano lo sperone, perché
troppo difficile, e il canalone, perché troppo pericoloso, e decidono di salire
lo sperone Croz. Non sono
fortunati e, dopo aver toccato la quota massima fino
ad allora mai raggiunta,
sono colpiti da un violento
temporale che li costringe
a scendere.
La via è ormai indicata e la
corsa alle Grandes Jorasses cambia ritmo.
Il 5 luglio Charlet e Robert
Greloz giungono a 3.700
metri molto velocemente,
ma si bloccano in prossimità di una fascia strapiombante.
Il 9 e 10 luglio Raymond
Lambert e Loulou Boulaz,
di Ginevra, salgono senza
fortuna la sinistra orografica del canalone centrale.
Il 28 luglio i tedeschi Martin Mayer e Ludwig Steinauer sono respinti dal
tempo pessimo e dalle
scariche di pietre.
20
Il 29 Rudolf Peters e Peter
Haringer bivaccano all'attacco.
Il 30 arrivano Charlet e
Ferdinand Belin, Gervasutti, Chabod e tre austriaci. Le cordate si alternano
in parete. È un continuo
rincorrersi e sorpassarsi che si conclude con un
niente di fatto. La sera tutti sono costretti a rientrare per le cattive condizioni
meteorologiche e la presenza di uno strato troppo
duro e spesso di ghiaccio.
Solo Peters e il compagno
non scendono. Il 31 superano la fascia strapiombante e il nevaio sommitale, spingendosi 80 metri
più in alto, fino a sfiorare
i 4.000 metri, ma fanno
marcia indietro perché arriva la bufera.
Haringer, senza piccozza
e senza ramponi, scivola
e muore. Peters si salva a
stento, dopo 5 bivacchi.
Solo nel 1935 le due punte
della parete nord, la Croz e
la Walker, sono calpestate
dai passi lenti, affaticati e
incerti di un uomo.
Il 28 e 29 giugno Peters
vince con Mayer lo sperone Croz, con il terzo bivacco in vetta. Un successo
meritato per un alpinista
che l'anno precedente era
stato considerato un bugiardo, perché sembrava a
tutti impossibile che fosse
passato dove non era riuscito a passare Charlet.
La seconda ascensione è
dell'1 e 2 luglio, ad ope-
diario alpino
ra di Gervasutti, Chabod,
Boulaz e Lambert: è la prima ripetizione.
La terza è compiuta da
Toni Messner e Ludwig
Steinauer, dal 7 al 9 luglio.
Risolto il problema dello
sperone Croz, che vede
ancora una decina di ripetizioni, l'attenzione si sposta sullo sperone Walker,
la vera cima delle Grandes
Jorasses.
Dopo un anno di pausa,
nel 1937, Pierre Allain ed
Eduard Frendo attaccano,
ma sono subito respinti dal
maltempo.
L'1 agosto del 1938 Allain
e Jean Leininger partono
convinti, arrivano al primo
grande risalto, percorrono una placca, passano
dei terrazzi e delle cenge, e raggiungono il punto
chiave: un diedro triplo,
obliquo a sinistra e molto duro, di circa 30 metri.
Lo superano, ma di fronte
all'impressionante risalto
mediano scendono sconfitti, forse intimoriti dalla
difficoltà dell'impresa.
Destino voleva che solo
qualche giorno dopo ce
l'avrebbero fatta due alpinisti che non erano mai
stati nel gruppo del Monte
Bianco.
E siamo a quello che Alessandro Gogna ha chiamato
“il capolavoro di Riccardo
Cassin”. “Grande capacità, risoluzione sbrigativa
in ogni problema, risultato. Questo il segreto di un
uomo che ha sempre man-
tenuto i criteri di prudenza,
ma che ha saputo spingere
i limiti della sua audacia a
valori sensazionali. In più,
compagni di prim'ordine.
Ratti, Esposito e Tizzoni
non erano semplici secondi di cordata; erano uomini
capaci di andare in testa
ogni momento, ma che in
Cassin riconoscevano il
capo indiscutibile” (Alessandro Gogna, Grandes
Jorasses, Sperone Walker,
40 anni di storia alpinistica, 1969, pp. 31,32).
Cassin si muove con in
mano una semplice cartolina della parete inviatagli
dall'amico giornalista Vittorio Varale. È il 30 luglio:
insieme a Ugo Tizzoni arriva sul Monte Bianco. Dopo
una prima ispezione allo
sperone considera la parete “percorribile”.
I due hanno bisogno di
materiale e di un terzo
di cordata; scendono a
Courmayeur e aspettano
Luigi Esposito, che arriva
il 2 sera.
È stato detto che i tre hanno salito le Grandes Jorasses con leggerezza e
incoscienza, senza un'adeguata preparazione culturale e senza esperienza
di alta montagna. Gogna,
mettendo in rilievo al contrario l'abilità, il fiuto eccezionale e l'elevato grado
di allenamento dell'alpinista italiano, gli rimprovera
l'illogicità del superamento diretto del primo risalto,
che Cassin rimonta senza
21
seguire il diedro Allain.
“Ancora un aspetto deve
essere messo in chiaro. Il
famoso intuito di Cassin.
Egli ha saputo guidare la
sua cordata dalla base
alla vetta senza esitazioni,
senza provare a destra e
a sinistra. Passaggi come
il pendolo e le placche
nere esigono, nella prima
ascensione, un fiuto eccezionale. Basti pensare
che tutte le cordate, anche
oggigiorno, sono sempre
perplesse alla base delle
placche nere, perché non
si capisce assolutamente
dove si possa passare. E
che oggi ci sono i chiodi, a
mostrare la via. Cassin ha
commesso un solo errore,
che è stato fatto passare
per abilità. Il primo risalto è stato da lui superato
direttamente, senza usufruire del diedro Allain,
superato pochi giorni prima, e perdendo quindi un
mucchio di tempo. Naturalmente la sua soluzione
è più diretta, e più a filo
sperone. Ma è illogica. Qui
entra in questione l'aggettivo “elegante”. Chi dice
che la sua soluzione è più
elegante parte dal criterio
che più una via è diretta e
difficile, e più è bella. Io
invece considero più elegante, perché più aderente
agli schemi tradizionali, il
diedro Allain, che sfrutta
il punto più debole della
parete. Questione di gusti.
Dicevo prima che questa
dirittura è stata fatta pas-
diario alpino
sare per abilità. In effetti
le difficoltà, già estreme,
sono così prolungate (e
quindi gloria e incenso
all'alpinista), però il non
essersi accorto che a sinistra c'era un passaggio più
conveniente non segue la
tradizione, secondo me, di
un genio delle traversate e
degli accorgimenti, come
Cassin” (Gogna A., op. cit.,
pp. 36,37).
E va da sé. Prendiamo atto
dell'opinione di un esteta
qual è Gogna. Ogni grande alpinista ha le proprie
convinzioni e la perfezione
non è di noi mortali.
Cassin, Esposito e Tizzoni
Il giorno 3 all'una di notte
Cassin e compagni partono.
Oltrepassano la crepacciata terminale e, progredendo tra solido granito
e lastroni di ghiaccio, superano una nutrita serie
di ostacoli considerevoli.
Cassin sale sulla sinistra
del filo dello sperone, va
oltre un diedro strapiombante, attraversa sotto un
tetto, si infila in una fessura obliqua a destra e arriva
finalmente in un pianerottolo.
I tre hanno raggiunto il
punto dove era arrivato
Allain in altezza, anche se
molto spostato a sinistra.
Proseguono lungo placche, percorrono una solcatura ghiacciata, sempre
sul filo dello sperone, fino
a una stretta cengia che
li fa andare verso destra,
alla base di un lungo diedro di 75 metri, dove decidono di bivaccare. Non
si preoccupano di qualche
nuvola poco rassicurante, segnale che avrebbe
senz'altro intimorito altri,
più pratici dell'andamento
del tempo in quella regione. “È questa la loro forza,
la loro superiorità sugli
“occidentali”. Non è incoscienza perché sanno di
poter resistere alle prove”
(Gogna A., op. cit., pp. 39).
Superato il diedro, la salita
prosegue su ghiaccio.
A Cassin sfugge di mano
il martello e gli rimbalza
sul naso ferendolo. Non è
grave e si infila in un camino ghiacciato fin sotto
a un grande tetto. A destra è possibile superare
una placca molto esposta
e attraversare. A un certo
punto è impossibile andare oltre. Cassin scende
22
allora nel vuoto per dieci
metri e con un pendolo arriva ad afferrare un piccolo spuntone. I compagni lo
seguono. Ora non possono
più tornare indietro. Dopo
uno strapiombo bagnato
incontrano delle placche
nere dove l'arrampicata si
fa confusa e diventa sempre più impegnativo individuare la linea di salita.
Ed è un continuum di fessure, strapiombi, lastroni,
placche. Siamo al secondo
bivacco, mentre il cielo si
è coperto, tanto che Gervasutti e Ottoz nello stesso
istante stanno bivaccando
alla base dello sperone
dopo essere scesi, intimoriti dall'arrivo del brutto
tempo. La cima della Torre
grigia non è lontana.
Durante la notte la bufera
non si scatena e a mattina
il cielo in più punti è sereno.
Dopo le placche Cassin e
compagni riprendono il filo
dello sperone, superano
un nevaio ed entrano in un
canale che scarica ghiaccio e presenta difficoltà
estreme.
Incomincia a nevicare. A
destra una lama staccata
permette il passaggio verso un altro diedro camino;
la neve cade abbondante
e copre velocemente la
parete. Sulla cresta terminale un vero e proprio
nubifragio con scariche
elettriche molto forti li tiene inchiodati per mezz'ora.
Quando riprendono trova-
diario alpino
no sugli appigli una crosta
gelata. Arrivano in vetta
alla punta Walker in piena
tormenta.
La discesa è problematica.
Il tempo è brutto e impedisce la visibilità. Si preparano a superare la notte
bivaccando per la terza
volta. Aspettano 15 ore
prima di potersi muovere.
Scendono alle 7 del giorno
seguente e vengono accolti al rifugio Boccalatte
nell'entusiasmo generale.
Lo sperone della punta
Walker è vinto.
Dopo la prima ascensione,
la prima invernale e la prima solitaria saranno opera di alpinisti italiani.
Passano cinque anni. Nel
luglio del 1943 i francesi
Gaston Rebuffat ed Eduard
Frendo partono per ripetere la salita alla punta
Walker. Il tempo è bello.
Rebuffat sale a lato del
diedro Allain lungo una
fessura, usando per lo più
chiodi e staffe. Il maltempo li respinge all'uscita del
diedro di 75 metri. Rebuffaut scivola e cade, ma arriva alla base salvo.
Tornano all'attacco nel
1945. Rebuffat ripercorre la fessura individuata la volta precedente. Si
schiaccia un dito tra un
chiodo e un moschettone.
La borraccia dell'acqua
vola via. Frendo scivola
per venti metri e perde il
martello.
Due bivacchi ed escono in
vetta: è la prima ripetizio-
ne a sette anni dall'apertura della via.
Dopo lo scacco del 1938,
Pierre Allain ritorna sulla
Walker nel 1945. L'annata
è secca, la neve scarsa;
le scariche di sassi lo costringono a scendere.
Ce la farà l'anno dopo, insieme a René Ferlet, Guy
Poulet e Jacques Poincenot, con un solo bivacco.
Una pietra sul viso e un
sasso in testa a Ferlet, un
volo a pendolo di un altro
membro della cordata non
impediscono ai quattro di
raggiungere la cima, dove
li accoglie un forte vento.
Ma Allain racconterà l'impresa con tono umoristico,
ridimensionando la difficoltà della salita.
Sempre nel 1946 i francesi Lionel Terray e Louis
Lachenal hanno successo
dopo metri scalati nella fitta nebbia, immersi per ore
in una violenta tempesta di
grandine e neve. Salgono
lungo una variante difficile, pericolosa e non logica,
che li porta nel canale tra
la Walker e la Whymper,
un vero e proprio colatoio
da valanga.
”Ma la domanda più assillante, più terribile che si
pongono non riguarda il
pericolo, non riguarda le
previsioni di scampo. Dove
siamo? Per un po' si tenta
di rispondere con il ragionamento, poi ci si perde,
ci si rassegna a non poter
rispondere. Ma la domanda rimane sempre. Se
23
l'uomo si trova proiettato
in un luogo tremendo, sia
pur senza via d'uscita, ma
di cui conosca le generalità, le coordinate, insomma, soffrirà senza dubbio
di meno di chi invece non
sappia assolutamente nulla e veda intorno a sé solo
degli oggetti ostili e indifferenti, il cui corso naturale proseguirà certamente anche dopo un evento
tragico... tragico per chi?
La tragedia è solo umana,
e questo non è posto per
uomini” (Gogna A., op. cit.,
pp. 69).
La quinta ascensione, del
1947, è opera di Karekine
Gurekian, Marcel Mallet e
P. Ravel. 18 ore di arrampicata e un bivacco a 50
metri dall'uscita.
Seguono le ripetizioni degli italiani. Un primo tentativo di Walter Bonatti e
Camillo Barzaghi fallisce
dopo la fessura diagonale
obliqua di 12 metri, troppo
bagnata.
Il 1949 vede il secondo tentativo di Bonatti, che sale
insieme a Mario Bianchi,
Andrea Oggioni e Emiliano
Villa, tra i giovani alpinisti
emergenti in quegli anni.
Ripetono la fessura Cassin
in condizioni meteorologiche avverse.
È il 21 luglio del 1950 quando i tedeschi Hermann
Buhl e Kuno Rainer raggiungono la vetta in piena
bufera, percorrono tutta
la cresta e scendono per il
Col de Jorasses.
diario alpino
Walter Bonatti alle prese con le Grandes Jorasses in inverno
L'anno dopo hanno successo Anderl Heckmair ed
Hermann Koellensperger,
dopo tre bivacchi, nuovamente sotto il maltempo,
e al limite della resistenza
umana.
Ci sono ancora numerose
ripetizioni prima di arrivare alla prima ascensione
femminile di Loulou Boulaz, l'alpinista che ha salito con Lambert, Gervasutti
e Chabot lo sperone Croz.
Si segnalano per la velocità Jean Couzy, Jean Franco
e Pierre Leroux nel 1952.
Siamo al 26 luglio dello
stesso anno quando i ginevrini Eric Gauchat e Marcel
Bron, appena diciottenni,
Raymond Dreier e Claude Asper, Pierre Bonant e
Loulou Boulaz affrontano
in due cordate lo sperone
Walker, nonostante i numerosi lampi a sud nella
notte ad annunciare che i
15 giorni di bel tempo era-
no al termine. La salita registra diversi incidenti. Un
masso cade sullo stomaco
di Bonant che sta parecchio male e, in preda a
convulsioni e vomito, procede a fatica fino a dover
essere issato a forza. La
neve pesante e continua
rende lenta la progressione. Al camino di 80 metri
un masso enorme cade
24
e si spezza in mille frammenti che gettano tutti nel
vuoto. Si salvano restando
appesi ai chiodi e Loulou
viene ferita in fronte. Sono
colpiti da slavine, scivolano e volano, ma continuano. Quando cessa la neve
arriva il vento da nord e
porta il sereno. Il gelo si
fa terribile. Come automi, affamati e disidratati,
portano a casa la vita, ma
il bilancio è pesante: tranne Asper gli altri subiscono mutilazioni alle dita dei
piedi e delle mani.
Si apre ora un nuovo capitolo nella storia delle
Grandes Jorasses: la salita dello sperone Walker in
invernale, una meta ambita da tutta l'élite alpinistica europea.
È la terza grande invernale delle Alpi a dover essere risolta, dopo la nord
dell'Eiger e la nord del
Cervino.
Nel 1961/62 falliscono i
tentativi di alpinisti francesi, tedeschi e jugoslavi.
Sono gli italiani Walter
Bonatti e Cosimo Zappelli
ad arrivare in vetta per la
prima volta d'inverno. Lo
fanno in stile classico, con
onestà e semplicità, e con
mezzi tradizionali. La loro
è la 50a ripetizione. Bivaccano 5 volte.
Dopo tre mesi di preparazione Bonatti e Zappelli
attaccano, il 24 gennaio
1963, senza razzi e senza radio, nel rispetto del
principio
dell'autosuffi-
diario alpino
cienza. In un gran sacco
di 25 kili, che trascinano
a fatica, sono racchiusi i
viveri: zucchero, cioccolata, biscotti, tè, dadi, caffè,
caramelle, vitamine, frutta secca. A sera hanno il
tempo per scolpire qualche gradino nel ghiaccio e
viene la notte. Bivaccano
all'attacco a -25°. Sono a
3.000 metri e hanno sopra alla testa una parete
di ghiaccio e roccia che li
sovrasta per 1.200 metri.
Alle prime luci escono dai
sacchi piuma, sistemano
con accuratezza il materiale e, tra imprecazioni,
fretta e nervosismo, iniziano a salire un ghiaccio duro e verdastro dove
è necessario gradinare.
Passano la prima notte
fermi, immobili: 13 ore immersi nel freddo intenso. Il
giorno dopo il vento soffia
forte e porta una tormenta di neve, che si attutisce
solo verso sera. Mangiano
qualcosa e si preparano ad
affrontare un'altra gelida
notte: la temperatura è di
-30°. Il giorno dopo il tempo è pessimo e solo a metà
giornata si intravvede la
possibilità di un miglioramento. Prendono viveri per
tre giorni e abbandonano il
saccone. Ingeriscono tutto
quello che riescono a ingerire: formaggio grana,
datteri, cioccolata, biscotti. Riempiono gli zaini il più
possibile e ripartono.
Il bivacco della terza notte
è meno pesante e si assopiscono. Arrampicano
con equilibrismi al limite dell'umano, tra roccia,
ghiaccio e neve fresca. Il
quarto bivacco è molto
scomodo e ormai i sacchi
sono incrostati di ghiaccio.
Il barometro è in diminuzione. Il giorno successivo
progrediscono a -35° in
1968. Alessandro Gogna affronta la Nord in solitaria
25
diario alpino
piena bufera di neve. Trascorrono la notte nei sacchi a pelo induriti cercando di non prendere sonno.
Il freddo eccessivo non li
farebbe più svegliare. È il
quinto bivacco in parete,
e sono in cima. La loro discesa estenuante tra pendii nevosi, creste e canaloni dura 10 ore.
La seconda invernale,
sempre del 1963, è opera
di Renè Desmaison e Jacques Batkin. I due riescono nell'impresa nonostante una pesante bufera di
vento e neve. All'orgoglio
iniziale della conquista segue una riflessione pacata di Desmaison: “Pauvre
homme, où est ta victorie?
Il y a quelques instants
seulement, tu étais simplement heureux d'etre
encore vivant”.
Resta ora da compiere la
prima solitaria dello sperone Walker.
L'impresa è portata a termine da Alessandro Gogna
ed è datata 8 luglio 1968.
Usa la corda solo nei passaggi più difficili, per non
perdere troppo tempo.
Delle placche nere scrive:
“Stranamente non sento
paura. Eppure qui tutto è
pauroso, il vuoto, la solitudine, il muro che ho di
fronte, il canalone terribile alla mia destra. È difficile esprimere la sensazione di sicurezza che ho.
Sono convinto che uscirò
al di sopra di queste placche, che non mi potranno
fermare; e nello stesso
tempo non mi sento tanto
superiore da non temerle. Questo secondo me
è il vero coraggio. Saper
affrontare un problema,
dopo averlo risolto dentro
di sé e averne vagliate tutte le difficoltà” (Gogna A.,
op. cit., pp. 142).
Velocità di progressione,
padronanza della situazione, lucidità, prontezza di
riflessi nel ragionamento e
nell'azione, e quasi un sesto senso, una “proprietà
medianica” nel sentire la
linea di salita e gli eventi.
Gogna si ribella alla vista
di un chiodo a pressione
piantato nel mezzo di una
placca. “Una rabbia impotente. Anche se lo spaccassi a martellate, rimarrebbe ugualmente il buco,
a testimoniare che sulla
Walker è stata commessa
una vera e propria profanazione, su un passaggio
che con una semplicissima
piramide umana avrebbe
potuto essere risolto ancora più facilmente ... Non
credevo proprio che si potesse arrivare a tal punto
di incapacità e di mistificazione” (Gogna A., op. cit.,
pp. 145).
A 1.000 metri di altezza, di
fronte alla difficoltà di un
tratto repulsivo, coperto di
ghiaccio e neve, consapevole dell'elevato pericolo
di caduta l'alpinista decide: “Basta, questa è l'ultima solitaria che faccio. Se
ne esco fuori, è la fine del
26
mio alpinismo solitario.
Tanto, io non sono un orso
selvatico di natura, non mi
piace star solo, non sono
venuto qui per combattere me stesso, o per ritrovare la pace interiore. Era
il “problema”, che volevo
aver l'onore di risolvere;
una volta risolto questo,
cosa potrei fare per aggiungere qualcosa di nuovo nella storia dell'alpinismo e dentro di me? Una
volta salita questa via meravigliosa, effettuata questa formidabile scalata solitaria, non esisterebbe più
una salita su cui fare un
exploit maggiore. E io da
solo non mi diverto, anzi
tribolo. E tribolare per tribolare, tanto vale soffrire
per qualcosa che ne valga
la pena” (Gogna A., op. cit.,
pp. 148).
Gogna bivacca in cima, a
4.160 metri, sull'altro versante.
Dopo le tre prime italiane
dello sperone Walker altre
numerose linee di salita sono
tracciate sulla parete nord
delle Grandes Jorasses.
Lo spigolo della punta
Margherita e lo spigolo
della Young sono vinti nel
1958, lo sperone Whymper
nel 1964.
Dopo 9 bivacchi, nel 1968,
Desmaison e Robert Flematti conquistano il Linceul con una famosa diretta radio.
Nel 1973 Giorgio Bertone,
Michel Claret e Desmaison
completano la Via Gousse-
diario alpino
ault, già tentata nel 1971
e abbandonata tristemente per la morte di Serge,
l'alpinista da cui prende
il nome: è la direttissima
alla nord dello sperone
Walker.
Non è più storia, ormai. È
cronaca. E si entra nel regno dei record di velocità.
Nel 1977 Jean Marc Boivin
sale i 750 metri del Linceul
di Flematti e Desmaison in
2 ore e 45 minuti.
Il 28 dicembre 2008 lo
svizzero Ueli Steck percorre in sole 2 ore e 21
minuti la Colton - Mc Intyre, una goulotte aperta il
5 e 6 agosto del 1976 in 24
ore da Nick Colton e Alex
Mc Intyre. Stabilisce così il
nuovo record della parete
e centra un eccezionale
tris di salite in velocità sulle tre grandi pareti nord
delle Alpi: Eiger, Cervino
e Grandes Jorasses. La
temperatura
all'attacco
era di -16°C e l'alpinista
svizzero, come di consueto, aveva con sé il minimo
di attrezzatura: piccozze,
ramponi, 50 metri di corda
dyneema da 5 mm, 2 chiodi
da ghiaccio, 4 moschettoni,
un attrezzo per fare sicura
e 2 chiodi normali.
È tempo di chiudere il computer. Il buio mi circonda.
Cerco di guardare ancora
lontano, fino all'estinzione del mio sguardo, fino al
mio accecamenRifornimento al Rifugio Boccalatte
to. Ascolto.
È come se non
avessi mai visto,
mai guardato,
mai sentito.
La spossatezza
si è impadronita
di me. Mi sento
vuota, scarnificata.
L'assenza
di
Marco si fa pesante. Lo cerco.
Tra qualche giorno calpesterò il
ghiaccio e la roccia delle Grandes Jorasses.
L'idea
assume
una forma solida
e prende le sembianze di un mondo
che per me ha già
una dimensione.
27
Le Grandes Jorasses, uno
degli spettacoli più grandiosi della natura: scariche di sassi e ghiaccio, detriti, frane, macigni in volo,
enormi pietre che esplodono, proiettili di roccia,
nuvole di polvere, luci e
ombre delle cime.
Io sono niente. Ho lo
sguardo spento di chi avverte un profondo senso di
inadeguatezza.
“La tua storia su quella
montagna sarà incomparabile”. La voce di Marco è
calda e rassicurante. “Troverai una sovrapposizione
tra gli elementi che dilagano ora nella tua mente e la
realtà che vivrai in prima
persona.
Una comunanza che è solo
apparenza, illusione.
Il miracolo della montagna
non consiste nella restituzione di una somiglianza
esteriore tra gli attori che
calpestano il suo suolo e
violano le sue vette, ma
nella valorizzazione delle
peculiarità che contraddistinguono gli uomini rendendoli unici nel palcoscenico della natura e della
vita. La conoscenza della
storia delle ascensioni ti
offre la chiave per vivere
la tua inalienabile grandezza. Sorridi”.
E un altro capitolo si apre:
privato, intimo, inebriante,
irripetibile.
È grandioso arrampicare
su uno splendido granito.
Caterina Secco
diario alpino
di Lucio De Franceschi
Toni Gianese e le Grandes Jorasses
Estate 1976:
ricordo un campeggio in Val Ferret
scarse indicazioni sul luogo, per le scarsissime tracce presenti o per la troppa
sicurezza di essere nella corretta direzione, sta di fatto che dopo un percorso
affascinante quanto inutile tra un dedalo
di crepacci, alle prime luci dell’alba ci trovammo la strada sbarrata da una voragi-
Come gli ultimi anni, anche quell’estate
la Scuola F. Piovan di Padova organizzò
quella che pomposamente veniva definita
la “settimana di aggiornamento” e altro
non era che l’occasione per
gli Istruttori della Scuola di
visitare luoghi allora ben più
lontani di adesso. Quell’anno si pensò di andare sul
M. Bianco e così anche due
neofiti (peraltro già in odore
di Istruttori) come me e Giuliano Bressan furono invitati
a farsi un’esperienza su quei
ghiacciai fino allora a noi
sconosciuti.
Naturalmente c’erano anche i “vecchi”
della Scuola, come Mauro
Osti, Andrea Cassutti, Vittorio Poli ecc., ma tra tutti
naturalmente
spiccavano
le figure di Sergio Billoro e
Toni Gianese. Quell’estate
dunque eravamo tutti smaniosi di muoverci dal campeggio e così dopo aver fatto
a gruppetti un paio di salite
classiche quali il Dente del
Gigante e la Cresta Kuffner
al Mont Maudit, assieme a
Sergio e altri amici pensammo di affrontare la normale
delle Grandes Jorasses. Anche Toni Gianese, assieme a
Sergio Carpesio nello stesso periodo aveva tentato la
salita ma qualche centinaio
di metri sopra il rifugio aveva desistito ed era tornato
a valle. Dopo la faticosissima salita per
giungere al Rif. Boccalatte, l’indomani
alla luce delle pile frontali cominciammo
a risalire il Ghiacciaio di Planpincieux in
direzione della nostra meta. Vuoi per le
ne glaciale insuperabile dove capimmo
che “la via giusta era smarrita”. Fu giocoforza tornare al rifugio con le pive nel
sacco, ma la cosa più bella fu che quando
ci voltammo per scendere ci accorgem28
diario alpino
mo che almeno una ventina di persone ci
avevano seguito (alcune delle quali ci avevano fatto anche i complimenti per aver
trovato un bel percorso tra i crepi) ignare
di finire anche loro la giornata sul bordo
di quell’enorme e invalicabile crepaccio.
Il CAI in quell’occasione perdette uno dei
pilastri non solo della Scuola di Alpinismo ma anche della Sezione; tutti conoscevano Toni, chi appunto perché ci aveva
arrampicato assieme, chi ci aveva sciato
(partecipò un paio di volte alla Marcialonga ed effettuò la traversata sci alpinistica delle Pale di S. Martino) ma anche dal
fatto che lui viveva la Sezione e lo si trovava spesso in sede dove si chiacchierava
molto volentieri e spesso si intavolavano
anche accese discussioni di montagna e
non solo. Per anni fece parte della Commissione Culturale e dentro alla Scuola
di Alpinismo portò sempre molte idee e
anche molte critiche costruttive che per
noi giovani appena entrati erano un punto
fermo che, anche dopo molto tempo dalla
sua scomparsa, hanno costituito e continuano di fatto ancora oggi ad essere un
riferimento per tutti.
Estate 1979
Toni Gianese per noi era una figura carismatica; in Italia fu uno dei primi Istruttori Nazionali e divenuto cieco a seguito
di una malattia continuò ad arrampicare
percorrendo moltissime salite per niente
banali, dal Campanile Basso alla Piccola
di Lavaredo, dal Monte Bianco allo spigolo del Velo, dal Cervino al Cimòn della
Pala. E a quest’ultima cima dedicò il titolo
del libro edito proprio nel 1976 dove raccolse tutte le sue esperienze alpinistiche
da “non vedente” accompagnato da molti
amici della Scuola e non, tra i quali appunto io e Giuliano (ultimi arrivati), Sergio Billoro, Sergio Carpesio, Vittorio Poli,
Graziano Mingardo Paolo Lincetto. E proprio con quest’ultimo ed un altro amico
quell’estate del 1979 decise di ritentare la salita precedentemente fallita alle
Grandes Jorasses. Oltre che salire questo importante 4000 voleva anche essere
pronto per affrontare alla fine dell’anno
la spedizione organizzata dal CAI di Padova al Cerro Tupungato nelle Ande Argentine. Raggiunto il Rifugio Boccalatte
nel primo pomeriggio, mentre Paolo era
all’interno, Toni, assieme all’altro amico,
si sedette sulla terrazza esterna a prendere un po’ di sole. All’improvviso un grido, Paolo corse fuori di corsa per vedere
che sulla terrazza era rimasto seduto
solo l’amico, Toni era scomparso, caduto
sul sottostante Ghiacciaio di Planpincieux
probabilmente per aver perso l’equilibrio
mentre si alzava; un incidente inspiegabile che anche l’amico vicino non ha mai
saputo chiarirne fino in fondo l’origine.
Lucio De Franceschi
29
diario alpino
di Francesco Cappellari
Una traccia sul lenzuolo bianco
Nelle pagine di montagna
di ogni alpinista si trovano
molteplici caratteristiche.
Ce ne sono di gloriose,
talvolta ne troviamo di tragiche, molte sicuramente
anonime, altre ancora che
rimangono nella memoria
anche se mai trascritte.
Le stagioni, i flussi e le deviazioni mi hanno portato a
frequentare molte persone
ed altrettante montagne e
due di queste, una persona
e una montagna, hanno segnato una fase essenziale
della mia vita alpinistica.
Erano gli anni delle grandi corse con l’auto da est
a ovest della Val Padana,
e viceversa. Frequentavo
le valli piemontesi e valdostane più di un indigeno
di quelle regioni. L’inverno
mi portava nella Valle di
Cogne o in Val Varaita o in
Valsavaranche, Val di Rhemes. Sempre alla ricerca
del ghiaccio più effimero.
L’estate invece era per le
grandi ascensioni in Monte
Bianco dai granitici accessi.
Ma esisteva anche un’altra
possibilità, una voglia strana che mi faceva praticare
le ascensioni nel grande
massiccio nella stagione
meno opportuna, cioè l’inverno.
C’è da dire che non era
semplice pazzia ma il più
delle volte vera necessità.
Se volevo arrampicare su
ghiaccio di alta montagna
avevo capito che solo d’inverno potevo andare sul
sicuro: condizioni delle pareti, ridotto rischio di scariche, tempo più stabile.
Erano i primi di marzo del
1997. Poche settimane prima con Piero Mioni ero salito sulla goulotte Nord Est
del Freboudze e durante
tutta la salita non potevamo non sognare di salire
proprio lì di fronte, quella
linea magica che, rettilinea e bianca, sale appena
a sinistra dello Sperone
Walker fino a raggiungere
la Cresta des Hirondelles
ad una quota di circa 4000
metri.
La linea invitava ma non
potevamo nemmeno non
pensare alla sostanziale
differenza tra l’ascensione che stavamo facendo
e il Linceul. Lunghezza
(più o meno il doppio), ripidezza, altitudine. Quello
che ci preoccupava di più
fu tuttavia il pensiero che
su quella via non sarebbe
stato molto semplice tornare in caso di problemi.
In inverno avevo già affrontato più volte linee di
ghiaccio, spesso anche
impegnative, ma tutte permettevano di scendere per
lo stesso itinerario, evitando così le problematiche
legate all’innevamento e
alle grandi traversate.
Sul Linceul non poteva
essere così. L’unica via
possibile, o almeno la più
veloce, sarebbe stata verso l’alto. Solo all’uscita
saremmo potuti scendere
30
con una serie di corde doppie lungo la cresta.
L’8 marzo affrontammo
per l’ennesima volta i quasi 500 chilometri fino a
Courmayeur. Il tempo di
riordinare i materiali e la
funivia di Punta Helbronner ci sputò, d’un fiato, sul
ghiacciaio.
Avevamo gli sci ai piedi
ma tra gli sci e i piedi non
c’erano i soliti scarponi da
sci alpinismo bensì quelli da ghiaccio. La discesa
per la Vallée Blanche, lo
sapevamo, non fu proprio
divertente. Sembravamo
due bambini alle prime
armi, sempre a spazzaneve, busto in avanti e braccia larghe. Ed uno zaino da
far spavento.
Quando ci inoltrammo nel
ghiacciaio del Leschaux,
grazie soprattutto all’improvvisa solitudine, ci accorgemmo veramente che
il Monte Bianco era grande
e che le Grandes Jorasses
forse ancora di più.
Salimmo al rifugio, in quella stagione non gestito.
Qualche straniero ci faceva compagnia. La mattina
lasciammo il materiale superfluo e, ancora col buio,
ci incamminammo sotto la
parete.
Piero batteva traccia e
portava lo zaino più grosso per permettermi di risparmiare le forze in vista
della salita. Chi conosce il
mio compagno di cordata
può bene immaginare con
diario alpino
quale lena e forza abbia
impresso le sue peste su
quella neve.
Alle prime luci aggirammo la crepaccia terminale,
molto aperta, tramite una
traversata a sinistra per
poi rientrare verso destra
sopra il pauroso baratro.
Venne il mio turno che prevedeva una tirata fino in
vetta. 1200 metri tra i 65° e
gli 80°. Le difficoltà più alte
sono concentrate nelle prime lunghezze, quando ci si
deve incuneare all’interno
di un canalino veramente ripido. Il ghiaccio non
permetteva protezioni, in
effetti si trattava di neve
compressa che lasciava
infiggere perfettamente le
piccozze ma avrebbe accolto le viti senza alcuna
possibilità di tenuta. E così
feci, per qualche filata, i
60 metri della corda senza poter mettere nessuna
protezione, e tutto questo
sugli 80° di inclinazione.
Si sa, in certi momenti non
si può assolutamente sbagliare e quindi la determinazione e la concentrazione arrivano al massimo.
Dopo circa 150 metri il pendio si attenuò leggermente
e si trasformò in un largo
“lenzuolo” che diede subito l'impressione di essere
interminabile. Le lunghezze di corda si succedevano
veloci. Il ghiaccio, ora vivo,
consentiva una progressione esclusivamente sulle punte dei ramponi. Da
metà i polpacci non ne po-
tevano più tanto che cercavamo di affaticare il più
possibile le braccia, contro
ogni rigore stilistico, per
poterli riposare.
Partivo, mettevo un chiodo, poi un altro e finalmente era l’ora di fermarsi per
far salire Piero. E così per
dieci, cento, mille tiri di
corda.
Le luci rosse della sera
quasi ci sorpresero. Presi
dall’azione non c’eravamo
ancora resi conto che si
stava facendo tardi. In inverno il freddo e la ridotta
durata del giorno, rappresentano i maggiori problemi nelle lunghe courses.
Durante tutto il giorno ci
avevano fatto compagnia
due ragazzi sloveni che in
genere se ne stavano alla
nostra destra, molte volte
erano rimasti parecchio
indietro, ma giunti quasi
alla fine della via ci avevano raggiunti.
L’uscita verso la cresta des
Hirondelles rappresentò il
vero problema del giorno,
visto che oramai s’era fatto
buio. Facemmo, aiutandoci
reciprocamente, un tiro di
corda all’interno di un canalino roccioso che speravamo ci avrebbe portato
fuori dalla via. Purtroppo
avevamo ancora roccia sopra la testa e ci trovavamo
in una situazione dove non
era possibile fermarsi.
Bisognava uscire a tutti i
costi. Optammo di comune
accordo di tentare l’uscita
diretta in cresta tramite
una traversata che non
sembrava dover essere
troppo lunga e complicata.
Riunimmo le cordate e
partì uno dei due Sloveni.
Loro contavano su di noi
in quanto avevano una sola
corda con conseguente bel
problema sulle corde doppie. In cambio uno di loro
salì per primo quel tratto.
Aspettammo almeno un
paio d’ore prima che ci re-
L'interminabile "lenzuolo"
31
diario alpino
cuperasse, avevamo ormai
perso le speranze. Ci accorgemmo poi che giunto
in cresta scoprì di non avere alcuna possibilità di assicurazione tanto che, con
pazienza, piantò uno spit in
un rigonfiamento roccioso
che spuntava dalla neve.
Sinceramente ancora oggi
mi chiedo come si può
aver l’idea di portarsi gli
spit e la varia attrezzatura
per piantarli in una via di
ghiaccio delle Grandes Jorasses ma tant’è che quella volta, sinceramente,
non feci tante discussioni
di ordine etico.
Ci riunimmo sull’esile cresta intasata di neve. Nemmeno lì si poteva bivaccare. L’unica alternativa
era rappresentata da una
corda doppia nel vuoto del
buio pesto e da quell’unico aggancio creato artificialmente che prendeva
il nome di spit ma di artigianale fabbricazione slovena.
Ci calammo e, non senza
fortuna, dopo quasi 60 metri di totale buio, trovammo
un’esile cengia dove poterci stendere.
Lavorammo fino alle 2 di
notte per liberarla dalla
neve. Fu un’attività frenetica e positiva in quanto
ci faceva ridurre le ore di
fredda attesa del giorno.
Ci fermammo a riposare.
Piero non aveva nessun
materiale da bivacco, io
un piumino leggero e un
sacco. Ci sedemmo come
Piero Mioni al risveglio al primo sole sulla parete Est
delle Grandes Jorasses
a fare il trenino, io con le
gambe dentro il sacco, Piero avvolto a me. Continuò
in un movimento convulso
per tutta la notte mentre
ci scambiavamo il misero
piumino per scaldarci alla
meglio.
Gli sloveni erano più attrezzati: possedevano un
sacco da bivacco matrimoniale! E dormirono per ben
quattro ore.
Confidavamo nell’alba, nel
sorgere del sole. Ma chi ha
provato sa quanto ci metta
a salire, soprattutto d’inverno. Se poi si è senza
sacco a pelo…
E l’alba, come sempre,
arrivò per farmi il miglior
regalo di compleanno che
potessi ricevere: il calore. Ci trovavamo nell’immensa parete Est delle
Jorasses, quella percorsa per la prima volta da
32
Gervasutti in quella che,
indubbiamente, fu la sua
massima realizzazione. I
costoni ripidissimi, i ghiacciai sospesi, assumevano
man mano una colorazione sempre più accesa. E il
giorno fu!
Le corde doppie furono
interminabili, credo una
trentina, tanto che approdammo di nuovo al ghiacciaio del Leschaux che era
ormai primo pomeriggio.
Tornammo al rifugio a recuperare il materiale per
scendere in tutta fretta
al trenino di Montenvers.
L’ultima corsa che ci portò
a Chamonix fu un altro dei
regali che non si possono
dimenticare.
Francesco Cappellari
diario alpino
IL LINCEUL
Il Linceul è il grande pendio trapezoidale
di ghiaccio della parte orientale della parete Nord delle Grandes Jorasses, tra lo
Sperone Walker e la Cresta des Hirondelles. La via si snoda lungo delle goulottes
di cui due sono notevoli. Superba via di
ghiaccio, diventata relativamente classica; è molto esposta alla caduta di sassi
e della cornice sommitale. Le goulottes
d’attacco sono molto ripide (sino a 80°).
La via esce verso i 3950 m sulla Cresta
des Hirondelles. La discesa si effettua
sia salendo per questa cresta e seguendo
la via normale delle Grandes Jorasses,
sia scendendo la Cresta des Hirondelles
(diverse doppie) e il versante Nord delle
Hirondelles (doppie); quest’ultima è la discesa più pratica poiché riporta al circo di
Leschaux. Difficoltà: TD+
ce furono riprese il 15-22 marzo 1968 da
P. Desailloud sino molto in alto nel pendio
di ghiaccio. 2ª salita: i cecoslovacchi O.
Blecha, Y. Bortel, Y. Diezka, V. Kagnyar,
27-29 luglio 1968 raggiungono la cresta
nello stesso punto dei primi e proseguono per questa sino in vetta (3 bivacchi). 3ª
salita: gli jugoslavi J. Azman, J. Brojan, Z.
Kofler, 6-8 giugno 1970. 4ª salita (1ª solitaria): Y. Ghirardini, 22-28 febbraio 1975.
A partire dagli anni ‘70, grazie all’introduzione di nuovi materiali e ad una nuova
tecnica di ghiaccio (piolet-traction), questa via viene percorsa spesso, generalmente in giornata. Il 12 settembre 1977 J.
M. Boivin raggiunse la cresta in ore 2,45
dall’attacco.
(fonte: Cai Bolzaneto)
NOTE STORICHE
Prima ancora che la parete Nord delle
Grandes Jorasses venisse salita, nel luglio del 1930 F. Rigele, W. Welzenbach, K.
Wien superarono la crepaccia di una delle due goulottes rinunciando poco oltre.
Un altro tentativo venne effettuato dallo
stesso Welzenbach con E. Schulze (luglio
1933). Passarono 30 anni prima che il Linceul venisse ancora tentato: L. Berardini
e R. Paragot, nel febbraio del 1963, salirono la goulotte di destra e attaccarono
il lenzuolo; nell’estate del 1964 J. Harlin
e D. Haston giunsero allo stesso punto
dopo aver risalito la goulotte con una salita obliqua partendo dalla base dello sperone Walker. 1ª salita: René Desmaison
e Robert Flematti, 17-25 gennaio 1968. I
francesi, sorpresi dalla tormenta rimangono per 3 giorni bloccati in parete dentro
una tenda. Sempre con il maltempo riescono a fatica e senza più viveri ad uscire
in cresta alle 13 e 30 del 25 gennaio. Non
rimane loro che scendere con estenuanti
doppie sulla via di salita con ulteriore bivacco alla base della parete. Le loro trac33
diario alpino
di Leri Zilio
In due sulla Cresta des Hirondelles
Cresta delle rondini perché nel 1873, quando L.
Stephen e i suoi compagni si accingevano a fare
la prima ascensione e la
prima traversata del Colle sottostante la cresta,
scorsero sulla neve immacolata innumerevoli puntini neri che si rivelarono poi
essere rondini morte, forse colpite da un fulmine.
Immagine triste e curiosa,
il mistero di una morte di
gruppo, e la decisione immediata di dedicare a loro
il Colle e la Cresta a quel
tempo innominati. La Cresta, che risulterà essere
il primo problema risolto
sulle Grandes Jorasses,
era stata percorsa in discesa da Croux, Young e
Jones che avevano escluso
ogni possibilità di riuscire
a salirla. Essa per decenni
risultò essere inaccessibile, con un tratto chiave
che respingeva i più forti
alpinisti di inizio secolo. La
famosa fessura sopra la
forcella a V ricacciò le cor-
date di Mummery e
Rey, Ryan e Lochmatter, Mayer e Dibona, Young e Knubel. Cresceva così
il mito dell'impossibilità di salirla, e
con esso la corsa a
vincerla per primi.
Il merito del successo è tutto di A. Rey che,
alcuni giorni prima della
scalata vittoriosa, riuscì a
superare la famosa fessura durante un sopralluogo.
Sfruttò abilmente i chiodi
lasciati da Croux durante
la discesa, e l'attrezzò per
il tentativo successivo. È
un buon quinto, strapiombante e viscido, e ancora
adesso rabbrividisco al ricordo del flusso gelato che
vi colava copioso durante
la mia salita con Gianrino Gottardo. L'acqua mi
penetrava dal collo e dalle braccia, e dopo avermi
ben dilavato e torturato,
se ne usciva allegramente
dai pantaloni. Fu un tratto
percorso quasi in apnea,
34
ricordava alcune lontane
esperienze speleologiche,
un dejà vu che non avrei voluto rivivere. E di speleologico c'era anche la scarsa
visibilità. Fummo avvolti
tutto il giorno dalle nuvole, barriera impenetrabile
che oltre a precluderci un
panorama
sicuramente
invidiabile, pesò come un
macigno sul nostro morale. Morale sul quale già
gravitava una partenza
dal bivacco Gervasutti a
dir poco rocambolesca.
Colpa di condizioni meteo
bizzarre e capricciose, capaci di risvegliarci la notte
prima con pioggia e lampi, ricacciarci quindi nelle
cuccette scornati e delusi
per la salita che sarebbe sicuramente saltata,
e poi risvegliati alle sette del mattino da un sole
che spaccava le pietre.
Per noi quindi una partenza con l'affanno, sensi di
colpa, niente colazione e
scarpinata sul ghiacciaio
ad un orario vergognoso.
Per fortuna avevamo già
fatto una ricognizione il
giorno prima e così fu un
bel vantaggio conoscere
l'avvicinamento. La salita
è un susseguirsi di pare-
diario alpino
tine, canalini ingombri di
neve e traversate continue alla ricerca dei punti
più agevoli e facili. Il tiro
più tecnico ed obbligato è
quello della fessura, per
il resto uno deve districarsi nel ginepraio dato
dalle innumerevoli ipotesi
di itinerario, e così è molto
facile sbagliare e perdere
tempo. Tempo che per noi
era preziosissimo vista la
tarda quasi impiegatizia
ora di partenza. Proseguimmo lungo l'itinerario
quasi sempre in conserva,
alternandoci al comando
e raggiungemmo la cima
verso le sedici, finalmente rischiarati da un ottimo
sole. Ora il problema era
la discesa perché scelleratamente nessuno dei
due l'aveva ben studiata,
e così dovemmo affidarci
ai ricordi di un precedente “passaggio” di Gianrino.
Dapprima puntammo verso punta Whymper e poi
pigliammo decisamente a
sinistra dove intravedemmo un paletto d'alluminio
per le doppie. Eravamo
proprio sopra il grande seracco (più o meno un centinaio di metri d'altezza) che
qualche anno prima, crollando parzialmente, causò
la morte di quattro alpinisti veronesi. Ci calammo
lungo il suo fianco sinistro
con due doppie ed un po'
arrampicando su sfasciumi rocciosi, e poi, sgomenti e trepidanti, lo attraversammo alla sua base
verso destra, occhi rivolti
all'insù a pregarlo, lui così
alto, incombente e minaccioso, di non crollare, ma
di stare lì buono ancora
per un po'. Le relazioni
parlano di scendere lungo
la cresta della Whymper,
ma noi sbagliammo scegliendo di rimanere nel
ghiacciaio complicandoci
così ulteriormente la vita.
In questo caso ci difettarono prudenza ed intuito a
scapito di molta stoltezza
e pazzia. Scendemmo così
lungo il ghiacciaio, sempre
con il mostro sopra la testa, e sempre con il problema di superare crepacci e
piccoli seracchi. Alcune
doppie le attrezzammo su
roccette, altre lo scaltro
Gianrino le “inventò” incastrando sassi sul ghiaccio
da usare come ancoraggi.
Il “mostro” fu clemente e
non si mosse, intanto sopraggiunse il buio, ma noi
eravamo ormai nella mo35
rena. Fu con grande gioia
che intravedemmo il primo
ometto, e poi il secondo,
finché una luce in lontananza ci indicò l'ubicazione del rifugio Boccalatte.
Verso mezzanotte ne varcammo la soglia con l'animo rinfrancato.
Leri Zilio
GRANDES JORASSES
Punta Walker (4208 m)
Cresta des Hirondelles (A.
Rey, Gaia, Rivetti – Chenoz,
Matteoda, Ravelli)
IV, V – 730 m
Ripetizione del 4 luglio
2004
Gianrino Gottardo – Leri
Zilio
diario alpino
di Cristina Piazzon
Quando mi parlarono del Ladakh
Quando mi parlarono del
Ladakh, la prima cosa che
feci fu di andarlo a cercare
nella carta geografica, non
sapevo bene dove fosse, le
conoscenze che avevo erano state apprese dai racconti di chi già c’era stato
ma ero del tutto sprovvista
delle informazioni necessarie per affrontare un
viaggio di 21 giorni di cui
15 di trekking.
Le informazioni peraltro
non sono di facile acquisizione. Fatta eccezione per
la guida di Marco Vasta,
non esiste nient’altro, più
completa invece la bibliografia francese.
Il Ladakh è definito come
il paese degli alti valichi,
la sua capitale Leh, dove
arriveremo dopo un paio di
giorni a Dehli, è a 3500 m
di altitudine; la cittadina è
famosa per il Palazzo Reale che sembra una versio-
ne in miniatura del potala
di Lhasa, e per ospitare
frequentemente il Dalai
Lama.
La regione del Ladakh è
racchiusa tra le catene
montuose del Karakorum
e dell'Himalaya, e comprende le regioni di Jammu e Kashmir e, solo dal
1974, è stato aperta al turismo.
La popolazione è composta
per poco più della metà da
buddisti ed il resto da musulmani sciiti, con una piccola minoranza di induisti.
A differenza del Kashmir,
con cui confina, gli episodi
violenti sono rarissimi, e
buddisti e musulmani convivono in modo pacifico.
Il viaggio è stato preparato con cura da Lucio De
Franceschi, che del Ladakh è invece un grande conoscitore essendoci stato
più volte. L’itinerario pre36
vedeva un lungo percorso
che partendo da Lamayuru (famosa per un grande
monastero buddista) proseguiva incontrando Wanla, Chilling, Skiu da dove si
sarebbe dovuti proseguire
imboccando la
Markha
Valley, dopo la quale il
trekking avrebbe dovuto
concludersi con la salita
dello Dzo Jongo di 6050
metri.
Partenza come prevista il
24 luglio, scalo a Istanbul
con breve sosta per poi
raggiungere Delhi.
Il viaggio aveva inizio… Tutti noi, un gruppo di dodici
persone Lucio con Elena,
Francesco con Rossella,
Massimo, Roby, Lorenza
e Massimo Loreggian, Fabrizio e Roberta, Chiara e
la sottoscritta, non immaginavamo che avremmo
vissuto non solo l’avventura del viaggio, ma avrem-
diario alpino
mo avuto come compagna
la dea bendata, che nel destino degli umani determina spesso la differenza.
Dopo un paio di giorni passati a Delhi, raggiungiamo
Leh, da dove partiamo in
jeep per raggiungere Lamayuru, famosa per l’importante monastero buddista e da dove inizierà il
nostro trekking il giorno
successivo 29 luglio. Con
noi venti cavalli, i portatori la nostra guida Padma
Dorjay e un formidabile
cuoco nepalese che anche nei momenti peggiori
ci preparerà sempre degli
ottimi piatti.
Prima tappa Wanla a 3155
m che raggiungiamo percorrendo le sponde di un
fiume lungo un canyon
molto suggestivo e il giorno successivo arriviamo
a Hinju a 3850 m da dove
cominciamo a notare che
i famosi cieli ladakhi, blu
cobalto, in realtà sono
spesso macchiati da nuvoloni carichi di pioggia che
di lì a poco cominceranno
a scaricare.
Nei
giorni
successivi
proseguiamo
portandoci a quote più elevate; il 2
agosto superiamo il Dung
Dung La, un passo a 4650
m, e raggiungiamo Chilling, un piccolo villaggio
dove andiamo a visitare
alcuni laboratori della lavorazione del legno e del
rame.
Il giorno successivo 3 agosto, con un percorso bre37
diario alpino
ve e non faticoso di solo
150 metri di dislivello,
incontriamo l’impetuoso
Zanskar, un fiume carico
di fango che 30 km a valle si getta nell’Indo; e così
buona parte della giornata
la trascorriamo nell’attraversamento di detto fiume
per mezzo di una rudimentale teleferica che mette a
dura prova il nostro spirito
di avventura.
Raggiungiamo Skiu a 3650
m e ci accampiamo lungo
il fiume Markha che il giorno dopo avremmo dovuto
guadare per imboccare
appunto la Markha Valley
ma nella notte comincia a
piovere a tal punto che il
giorno successivo la nostra guida, ci comunica
che i cavalli non avrebbero potuto guadare il fiume,
che nel frattempo si era
visibilmente ingrossato;
decidiamo così di attendere un giorno nella speranza che il livello dell’acqua
diminuisca. Il tempo tuttavia non migliora e anzi la
notte successiva una parte
dell’accampamento viene
invasa dall’acqua. A quel
punto prendiamo la decisone di cambiare percorso
puntando a raggiungere
Leh attraverso i monti superando lo Stok La e quindi
pur con il maltempo partiamo, per la verità con un
certo ritardo, in direzione
di Shingo.
Il percorso comporta l’attraversamento del fiume
innumerevoli volte in condizioni non facili perché il
letto si è notevolmente ingrossato e l’acqua portava
giù pietre detriti, e rivoli di
fanghiglia molto simile a
delle sabbie mobili.
Raggiungiamo il campo e
38
grazie a un breve intervallo di clemenza del tempo,
alle quattro del pomeriggio riusciamo a montare
le tende. Finché assaporiamo un momento di
pausa, notiamo un piccolo
gruppo che si avvia in direzione opposta da dove noi
eravamo arrivati, e tutti
ci chiediamo il motivo del
loro andare giù per la valle
invece di fermarsi…
Dopo appena un’ora la
pioggia accompagnata a
grandine riprende inclemente e sapremo solo dopo
alcuni giorni che proprio
quel pomeriggio il gruppo
che avevamo incontrato
verrà travolto da un fiume
di acqua e fango e purtroppo per quattro di loro non
ci sarà più nulla da fare;
fino a quel momento non
eravamo consapevoli della
portata del nubifragio che
diario alpino
investiva anche il Pakistan
e la Cina, e tuttavia durante la notte Lucio assieme
alla guida e ai cavallanti
hanno continuamente sorvegliato il livello del fiume
che a quel punto faceva un
rumore impressionante.
Il giorno successivo superato il Ganda La di 4900
m raggiungiamo Rumbak
sotto una pioggia incessante e poco dopo aver montato le tende oramai fradice
il campo viene investito da
colate di fango, mentre da
ogni pendio franano lingue
di terra mescolata a sassi
ed è giocoforza, su consiglio di Padma, evacuare il
campo per andarci a riparare in una casa ladakha
nelle vicinanze che raggiungiamo dopo una breve
e veloce corsa attraverso
un pendio franoso non del
tutto rassicurante.
Raggiunta l’abitazione in
cui siamo ospitati molto
cordialmente,
apprendiamo via radio e da altri
trekkers ospiti con noi, la
portata del nubifragio; veniamo informati che Leh è
stata colpita molto duramente, che ci sono molti
morti e dispersi tra cui diversi turisti alcuni dei quali
intrappolati nella Markha
Valley, che sono stati recuperati con gli elicotteri
e nello stesso tempo la
nostra guida riceve notizie
dalla sua famiglia venendo
a sapere che il suo villaggio è in parte distrutto e
che in molti hanno abbandonato le case.
A quel punto il pensiero
va alle nostre famiglie e a
come poter fare per tranquillizzarli, sapremo solo
a viaggio finito che alcuni
nostri parenti contattavano la Farnesina per ricevere notizie e che un componente del nostro gruppo
era dato per disperso; for-
tunatamente dopo innumerevoli tentativi con un
telefono locale stabiliamo
un contatto con un amico
a Delhi che riuscirà ad avvisare i nostri familiari in
Italia.
A quel punto il morale di
tutti è piuttosto a terra
e, dopo un altro giorno di
sosta, non appena si ripristinano le condizioni per
poter superare lo Stok La
di 4900 m, l’ultimo passo
che ci separa dalla pianura, partiamo anticipando il
rientro a Leh di due giorni.
Lo spettacolo che troviamo è impressionante, la
città è isolata perché le
due camionabili che la
raggiungono da Srinagar e
da Manali sono impraticabili. Gruppi di volontari si
uniscono per organizzare
soccorsi immediati, e anche noi daremo il nostro
contributo passando due
giorni a spalare fango con
mezzi di fortuna nel devastato ospedale locale.
Il 13 lasciamo il Ladakh
alla volta di Delhi dove visiteremo il fantastico Taj
Mahal; ma subito dopo il
nostro decollo da Leh vedo
con malincuore tutte le
cime innevate e mi riprometto di convincere Lucio
a ritornare un'altra volta.
Cristina Piazzon
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diario alpino
di Daniela Grigoletto
VERTICALI
DI CALCARE
Verdon, Céuse, Buoux, Orpierre, Alpes d’Haute Provence. France.
Gli anelli di corda si sfilano rapidi dalla
mano.
Sento le mezze andare in tensione oltre lo
spigolo della cengia.
Non vedo dove, ma ho teso il filo.
La prima doppia sul Verdon.
Un’àncora sottile infissa nel vuoto.
Dal ciglio della gola ora posso guardar
giù.
La mia faccia è al sole ma l’aria densa e
umida sale dal basso,
dove il fiume ancora dorme all’ombra.
Sto a mezz'aria tra le striature calde delle
pareti già assolate
e il tumulto verde e polveroso del fondovalle.
Intorno è una vertigine di linee, cadon tutte al centro,
tra il groviglio dei mulinelli d’acqua
e il disordine dei giardini pensili.
Ora verticalità e luce combaciano.
Giallo, oro, bruno, poi bluastro, grigio, argenteo.
Levigato, lucido, attraente.
Il vuoto ora è pieno di colore e traccia segni sulle placche.
Brevi appigli, lunghi intagli, qualche solco,
mille increspature sul calcare.
Itinerari fantastici verso il sole affacciato
al ciglio.
Nel desiderio di inseguirlo
comincia il gioco rovescio e circolare della salita.
La prima doppia sul Verdon
Martel, il divoratore di profondità cui è dedicato l’omonimo sentiero che costeggia
sinuosamente il corso del torrente sino
al Point Sublime, con tre giorni e mezzo
di rocambolesca navigazione a mezzo di
rudimentali canotti e col suffragio della
popolazione locale.
Nel 1963 vennero tracciate le prime vie
sulla parete del Teillon, vicino a Castellane, ad opera dei nizzardi Dufranc, Gounand e Kennis, mentre nel 1966 i marsigliesi Guillot, Kelle, Andrè, Coqueugniot,
Domenech e Chabert aprirono le prime
vie sulle falesie di St. Maurin.
Ma fu nel 1968, che si aprirono realmente
le danze sul palcoscenico del Verdon, con
le vie lunghe aperte nel cuore delle gole,
tra cui la celebre “Demande”, spaccatura
naturale di 320m che solca l’intera parete, oppure l’Eperon Sublime, Luna Bong,
la Paroi Rouge, ad opera di Guy Heran e
i suoi amici…e a la Palud, piccolo paese
della Provenza, cominciarono a riunirsi
scalatori da ogni parte della Francia.
Gli anni ’70 videro crescere lo splendore
del settore de l’Escalès, sulla riva destra del Verdon, con l’apertura di itinerari come Ula e il Dièdre des Aixois. La
…forse il moto rovesciato dello stile Verdon, che scende dall’alto per poi tornarvi,
ben rappresenta la rivoluzione culturale e sociale che in esso si svolse negli
anni ’80, quando “l’arrampicata si sciolse
dall’alpinismo” per divenire gesto armonico e leggero, danza estrema e scanzonata
sulle difficoltà più spinte della roccia.
Ma torniamo un attimo indietro….
Les Gorges, le gole, furono discese ed
esplorate per la prima volta nel 1905,
dall’avvocato-speleologo Alfred Eduard
42
diario alpino
realizzazione della “Routes de Crètes”, la
strada delle creste, rese gli avvicinamenti irrisori e qualcosa cominciò a cambiare
nel modo d’arrampicare: si abbandonò
l’artificiale, si abbandonarono le fessure
e ci si immerse nelle grandi placche grigie e lavorate, tracciando le cosiddette vie
a “goccia d’acqua”, si cominciarono a lasciare protezioni in loco e si cominciò ad
attaccare le vie calandosi dall’alto. Sono
gli anni di Guyionar, Troussier, Fouque e
ancora di Jaques Perrier (Pschitt) con la
sua mitica Pichenibule.
Negli anni ’80 il Verdon divenne teatro indiscusso di gesta e gesti di una bellezza
straordinaria e indimenticabile, la sua
fama e la sua magia si diffusero in tutto il
Con la testa affollata di miti passati e tiri
sognati decidiamo di ripercorrere una
delle linee più classiche della parete,
“la Demande”, aperta da Coqueugniot e
Guillot nel 1968. È forse la linea più evidente della valle, una fessura profonda e
arcuata che si attacca direttamente dal
sentiero Martel; incide l’intero fianco della gola per smorzarsi sull’orlo sommitale
e frastagliato del settore de l’Escalès,
sulla riva destra del Verdon. La logica
dell’itinerario è perfetta, la sua bellezza
impeccabile, un taglio netto fra due speroni compatti.
Ettore Bona sul tiro finale della “Derobée”,
variante 6c+.- Gorges du Verdon
Tracciato della “Demande”, tratto iniziale della
fessura arcuata.
mondo e i grandi nomi di Manolo, Patrick
Edlinger, Patrick Berhault, Catherine
Destivelle, Lynn Hill e ancora Bestagno,
Potié, Moffat e molti altri, si affacciarono
sulle sue gole sfidandosi in danze sublimi ed estreme, rivoluzionarie e giocose,
e diedero così vita ad una nuova epoca e
ad un nuovo stile, quello dell’arrampicata
Arrampicare è solo assecondare. Assecondare questa linea scura che si contorce e curva nelle prime lunghezze, per poi
aprirsi e scindersi nel cuore della parete,
dove muta in larga spaccatura rossastra
e surreale. Lucida per le tanti mani che
l’han toccata, scavata e poi scolpita dallo
scorrere incessante delle acque, fatta di
sportiva fine a sé stessa, piacere e libertà
in armonia col vuoto.
43
diario alpino
La libertà a portata di mano
Il piacere di stare sul ciglio, a fine via
Settore Dent d’Aire
vuoto, quando s’allarga in profondo diedro
aperto e levigato, questa fessura sembra
attrarti ed ammaliarti mano a mano che
la insegui. È come se ci finissi progressivamente dentro. Ti costringe a strisciare
di schiena e insinuarti nel fondo cieco del
camino; così finisci per mescolarti completamente alla materia della via, alla
sua pietra che graffia e scivola, alla polvere che respiri e soffi via, a quel po’ di
terra che sta sulle rugosità della roccia.
Diventi quell’elemento che sta in mezzo al
vuoto del diedro aperto, e istintivamente,
maldestramente, cerchi di riempirlo.
a La Palud (consigliamo camping Municipal), ostello della gioventù, diversi Gites e
vari alberghi
Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre
Settori: Rive Gauches (riva sinistra del
Verdon - accesso da Aiguines) e l’Escalès ( riva destra del Verdon, accesso da La
Palud – settore storico)
Info sui siti: www.planetmountain.com,
www.ukclimbing.com, www.coronn.com
(guida completa scaricabile o acquistabile on line, altrimenti la nuova edizione è in
vendita a La Palud)
Note: consigliamo gli itinerari da noi
percorsi per la bellezza e l’esposizione,
consapevoli che ce ne saranno infiniti altri altrettanto meritevoli: settore de
La Dérobée, settore della Dent d’Aire,
via classica La Demande; consigliamo,
infine, di percorre il sentiero Martel sul
fondo delle gole e magari accertarsi che
ci sia la navetta di ritorno, visto che noi
abbiam dovuto rifarlo in senso contrario.
Infine, ho scoperto che quelle specie di
condor che ti puntano mentre arrampichi
appartengono alla famiglia dei Grifoni,
Gorges du Verdon – carta d’identità:
Indirizzo: Hautes Provence, da Nizza per
Castellane ed infine a La Palud,710 km da
Padova - quota da 600 circa sul fondo delle gole a 900 m s.l.m. a La Palud
Roccia:splendido calcare grigio compatto
Numero di vie: più di 1000
Esposizione: tutte, prevalentemente a sud
e est per le vie sulla Riva destra e a nord e
ovest per la le vie sulla riva sinistra
Difficoltà: 4a – 8c
Tipo arrampicata: tecnica su placca a gocce
Logistica: sei campeggi nei dintorni, due
44
diario alpino
rincorrono le termiche al fianco di chi arrampica, la gente si accalca sui belevedere per seguire i loro volteggi e commentare la tua salita.
vani, tante facce, tanto magnesio sulle
dita, qualcuno dorme al riparo dei profondi tetti, altri attendono che il sole cali per
iniziare il loro gioco verticale…
Stare a Céuse è anche stare a guardare,
guardare questo nastro d’argento che si
srotola luminoso tra la terra ocra e il cielo terso, quasi fosse un corpo, levigato e
disteso, che l’acqua veste con un abito a
strisce lunghe.
Le vie risalgono le strisce, che l’acqua
disegna cadendo, e chi sale è poco più
di una goccia, nella distesa uniforme di
quest’onda sollevata e ferma.
Di giorno Céuse arde di sole e pietra calda, ma è all’imbrunire che si risveglia, è
al tramonto che il corpo disteso si scuote
e si rialza e lascia che la luce gli coli addosso, sulla testa e poi sui fianchi, fino a
bagnar le punte dei piedi, affondate nella
terra che diventa rossa.
È alla sera che occorre fermarsi a guardare, con gli occhi scaldati dalle infinite
striature che si mescolano, con l’aria che
si fa fresca sulla pelle e chiude il sipario
delle danze verticali.
CÉUSE
Céuse sta in piedi sopra la collina.
La sua bellezza sfacciata domina la pianura verdastra coi suoi campi quadrettati;
spicca da ogni lato, da ogni verso, da ogni
punto cardinale….impari in fretta il suo
profilo, soprattutto all’imbrunire, quando
la “mezza luna” scolpita al centro diventa
un mezzo cerchio quasi esatto che interrompe la sua cresta e pare sorriderti da
lontano.
L’accesso alla falesia è un sentiero nella
macchia che sa di lavanda e timo, caldissimo e quasi mediterraneo, la logistica è
semplice…un campeggio solo, una clientela solo, una strada solo…poche case e
poche auto, un bel silenzio e un bel buio,
fatto di tende addormentate e stelle sparpagliate sopra.
I settori di arrampicata al contrario sono
una decina per un totale di più di 300 itinerari, ai piedi delle vie tanti ragazzi gio-
“Muro di Berlino”, settore storico e straordinario della falesia di Céuse
45
diario alpino
Céuse – carta d’identità:
Indirizzo: Hautes Alpes, circa 20 km da
Gap, 580 km da Padova, quota da 1600 a
1800 m s.l.m.
Roccia: 3 km di splendido calcare compatto a buchi e rigole
Numero di vie: 300, chiodatura a spit e resinati riattrezzata da poco, parsimoniosa
ma nuova
Esposizione: Ovest, Sud e Est, è un ferro
di cavallo
Difficoltà: 4a - 9a+
Tipo arrampicata: placca o strapiombo
Logistica: Camping Des Guérins situato
ai piedi della falesia e lungo il sentiero
d’accesso, hotel Muret a Sigoyer, qualche
Gites rural disperso nella campagna circostante
Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre
Settori: sono in tutto 14 ma consigliamo
di non perdere le Maitres du monde, la
Grande Face, la Demi lune e il celebre
Muro di Berlino.
Info sui siti: www.planetmountain.com ,
www.ukclimbing.com (area Hautes Alpes)
Note: consigliamo di spostarsi lungo le
strade secondarie panoramiche, che attraversano caratteristici borghi medievali
– “sentiero dei villaggi fortificati”.
Buoux sta in una gola, accovacciato sul
letto d’un piccolo rio, in parte sommerso
dall’intreccio di piante che lo cingono. È
una falesia magnifica, un calcare corallino e spugnoso ornato di verde, un verde ondulato, carico, che s’attorciglia fra
i rami più scuri e porta l’ombra ai piedi
delle vie.
Céuse domina l’orizzonte senza rivali,
ti cattura gli occhi fissandoti dall’alto;
Buoux ti afferra da sotto e ti trascina nel
suo labirinto di arbusti bassi e fiori violacei. Il suo volto seminascosto si rivela
solo da vicino, solo se lo cerchi, se frughi
fra le sue cenge sfalsate e i suoi camminamenti accennati, se segui una traccia
nella boscaglia e arrivi a metterci le mani
con la faccia stupita.
Solo allora ne percepisci la bellezza e la
verticalità, l’imponenza dei suoi muri lavorati e divergenti in tante linee, ti accorgi
che alle volte è quasi arancione, altre rossastra, scopri che non è levigata e compatta come le altre placche ma è sfaccettata e contorta in tutte le direzioni, scaglie
orizzontali, conche, pilastri, forme ruvide
e acuminate, poi tonde e sporgenti, non
possiede la consistenza liscia e regolare
delle muraglie di calcare ma piuttosto la
forza centrifuga delle zone di mare basso,
dove correnti e conchiglie han scolpito un
tempo il loro mondo e lascian ora che tu
giochi sul loro dorso.
BUOUX
T’accorgi di Buoux solo all’ultima curva. Percorri chilometri di calcare brullo
e dorsali terrose chiedendoti dove si sia
nascosto. Lungo strada cespugli radi e
pochi colori, per lo più chiari, richiaman
luoghi quasi di mare, mangiati dal sole e
seccati dal vento. Non capisci bene in che
posto sei e che volto abbia veramente.
In effetti Buoux è un mondo che sta sotto.
Il negativo della pianura. Passate quattro
o cinque case in pietra, la strada fa una
manciata di curve strette verso il basso,
scava la pianura e ci finisce sotto, spalancando l’uscio a un nuovo mondo.
Buoux – carta d’identità:
Indirizzo: Vaucluse (Luberon), Provenza
del sud – 770 km da Padova, 145 da Gap quota da 300 a 500 m s.l.m.
Roccia: calcare organogeno, calcarenite
e calcare grigio compatto
Numero di vie: 500, spit e resinati in ottimo stato
Esposizione: ovest, sud e nord
Difficoltà: 4a - 8c
Tipo arrampicata: varia – placca, fessura
Logistica: camping a Bonnieux o a Apt, diversi Gites d’étape nei dintorni
46
diario alpino
Giocando con le forme gialle di Buoux, settore “Autoroute”
Orpierre – carta d’identità:
Indirizzo: 130 km a sud di Grenoble e 170
a nord di Marsiglia, quota 920 m s.l.m.
Roccia: calcare grigio compatto
Numero di vie: 210, chiodatura a fix e spit
in ottimo stato
Esposizione: tutte
Difficoltà: 4c – 8a
Tipo arrampicata: varia – placca, fessura
Logistica: camping: Princes d’Oranges,
diversi Gites d’étape nei dintorni (consigliamo Le Moulin)
Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre
Settori: ce ne sono 8, consigliamo la via
Voyage sul Quiquillon
Info sui siti: www.planetmountain.com,
www.ukclimbing.it (area Hautes Alpes)
Note: splendido contesto naturale e storico, arrampicata di tutte le difficoltà.
Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre
Settori: sono in tutto 35, consigliamo fra
i tanti le Fakir, il Pilier de fourmis, Mur
zappa, TCF, Stix
Info sui siti: www.planetmountain.com,
www.ukclimbing.it (area Vaucluse), www.
coronn.com
Note: consigliamo di visitare il forte medievale di Buoux, situato sull’altro fianco
della valle e completo di chiesa, abitazioni e cisterne scavate nella roccia, camminamenti, ponti levatoi, nonché splendida
finestra sulla falesia di Buoux in tutta la
sua estensione.
In realtà, il nostro breve tour della Provenza ha percorso un anello fermandosi a Céuse, Orpierre, Buoux ed infine in
Verdon. Spendo ancora qualche riga per
descrivere Orpierre, un borgo medievale
circondato da pareti arcuate e impreziosito da una caratteristica guglia, le Quiquillon, che domina il paese, regalando
suggestive linee di salita.
Daniela Grigoletto
47
diario alpino
di Roberto Ciri
Con 3 piedi sul San Matteo
La Punta San Matteo e il ghiacciaio di Dosegù
Nonostante i 2.560 m del
Rifugio Berni e la notte serena, la mattina era piuttosto calda e lasciava presagire una giornata di sole
caldissima sul ghiacciaio,
tanto più che la partenza
era stata ritardata alle 6
anziché alle 5.
La neve nei pendii di accesso al vallone del ghiacciaio di Dosegù era, infatti,
piuttosto bagnata e rendeva il cammino difficoltoso
per i tratti in cui si affondava. Era così per me e per
gli altri cinque amici con
cui avevamo progettato la
salita dei 3.678 m del Monte San Matteo, nel gruppo
dell’Ortles-Cevedale, ma
per uno di loro era anche
peggio, dovendo fare affidamento su un solo piede
e due stampelle.
Già, risalire un lungo
ghiacciaio saltellando su
una gamba e appoggiandosi su due stampelle con
dei dischi di gomma per
non affondare nella neve…
Ma Oliviero era ben abi-
tuato a tale fatica, dopo
trent’anni e più di 600 cime
salite così. Si risvegliò dal
coma senza la gamba sinistra dopo un incidente in
moto intorno ai venti anni,
e da quel giorno la sua vita
cambiò. Sparì una gamba
ma spuntarono le ali, nella sua testa prima di tutto,
così dopo soli sei mesi era
di nuovo in montagna ad
imparare a camminare di
nuovo e scalare come poteva. Col tempo affinò la
tecnica, l’equilibrio, la volontà, l’allenamento e tornò a scalare montagne che
anche poche persone con
due gambe scalano, come
il Cervino, il Gran Capucin,
lo spigolo nord del Pizzo
Badile e centinaia di altre cime, per roccia e per
ghiaccio.
Conoscendo le sue imprese non mi preoccupai
di proporgli una salita in
ghiacciaio, pur sapendo
che preferiva la roccia,
sapevo bene che avrebbe fatto le scarpe a tutti,
48
pian piano, semplicemente
camminando su una gamba e due stampelle. Ma la
neve fonda all’inizio del
percorso non era stato un
buon modo di cominciare
la giornata, comportando
tanta fatica inutile in più e
rallentandoci un bel po’. Gli
altri quattro, Marco, Matteo, Piercarlo e Emanuele,
erano un bel po’ avanti ed
ogni tanto si fermavano ad
aspettarci, ciononostante
continuavamo ad accumulare ritardo. Ad una loro
proposta di lasciar perdere la salita al San Matteo e
salire una cima più bassa
e vicina in modo da restare
tutti insieme, Oliviero rispose che eravamo lì per il
San Matteo e quello doveva essere. Io ero d’accordo
con lui e così proseguimmo. Ma gli imprevisti continuavano a presentarsi:
affondamenti sulla neve,
pause, una stampella che
perde una vite ed il puntale
(per fortuna Oliviero aveva
un set di ricambi)…
Ad una ulteriore sosta dopo
aver raggiunto gli altri dico
a Marco di lasciarmi la
corda da 30 m e di andare
avanti loro facendo cordata a quattro, noi saremmo
arrivati.
“Sei sicuro?”, credo abbia
chiesto qualcuno.
“Ho esperienza più che
sufficiente per affrontare
questa salita e Oliviero ne
ha più di noi tutti messi insieme, per cui proseguiamo”, risposi.
diario alpino
Fu in quel momento che
la mia determinazione
prese il sopravvento definitivamente, mi disse che
saremmo arrivati in vetta
anche io e lui e non mi abbandonò fino al rientro in
rifugio, 11 ore dopo la partenza. Poco prima, data
la lentezza e il tempo che
passava, avevo avuto un
momento di dubbio, pensando che forse sarebbe
stato meglio lasciar perdere perché ci avremmo
messo una vita a salire.
Ma poi è scattato qualcosa in me, partendo da una
specie di preghiera rivolta a me stesso, e mi sono
detto che avrei camminato
al suo fianco fino in cima.
Arrivati sul ghiacciaio la
neve era finalmente ben
dura e si procedeva senza
affondare, ramponi ai piedi e speditamente. Dopo il
primo ripiano quasi orizzontale un tratto più ripido portava alla seraccata
di destra del ghiacciaio di
Dosegù. Tutti salivano sul
lungo pendio all’estrema
destra che evitava il pendio
con i crepacci, effettuando
un percorso più largo e
lungo, di conseguenza più
faticoso. Io e Oliviero decidiamo di risalire il ripido
pendio ghiacciato dato che
i crepacci erano ben coperti di neve dura e c’era
già una traccia che saliva,
risparmiando così tempo e fatica. Il ghiacciaio
era in condizioni perfette,
Sopra: Risalita del ghiacciaio di Dosegù
Sotto: L'arrivo in vetta
completamente coperto
di neve dura e così non ci
leghiamo per tutta la salita fino alla sella sotto la
cima. Lungo il pendio ripido si intuiva qualche taglio
che segnalava la presenza
di crepacci sottostanti e,
infatti, una delle stampelle di Oliviero si infila in un
buco e si storce sotto il
peso di Oliviero che ci cade
sopra.
“È proprio una giornata
sfigata”, dice lui.
49
Io mi limito a premere con
una mano sulla stampella
curvata e appoggiata alla
neve dura, raddrizzandola
in un attimo.
“È addirittura più dritta di
prima, bravo!” mi dice.
Sbuffa un po’ per la fatica e gli imprevisti, così gli
chiedo
semplicemente:
“Dubbi?”. “No!”, risponde
con decisione e fermezza.
Il tono e la tranquillità di
quel “no” mi fa capire con
chi ho a che fare e che quel
diario alpino
muscoli delle gambe che
negli ultimi anni mi danno
il tormento. Ma la lezione
di Oliviero è semplice: “i
nostri limiti sono prima di
tutto nella nostra testa”,
come dice lui.
Roberto e Oliviero in vetta
giorno avremmo messo
3 piedi sulla cima del San
Matteo.
Usciti dal pendio crepacciato riprendiamo la salita
nella massima tranquillità, alternando zone quasi
pianeggianti a tratti più
ripidi e faticosi, per lo più
fianco a fianco chiacchierando beatamente, tant’è
che non sentivo la fatica
per l’aumento di quota e il
mio scarso allenamento.
Gli altri alpinisti e scialpinisti che passavano si
fermavano e guardarci, a
fare delle foto, a parlare
con Oliviero, a complimentarsi increduli per la sua
forza di volontà. Già, un
esempio per tutti, prima di
tutto per me che ogni tanto mi lamento di fastidi ai
Così, dopo 5 ore di chiacchiere, cammino, foto,
filmati di lui che sale,
e ancora discorsi sulla
montagna, le cime, le vie,
le persone, la famiglia, il
passato, gli amici, i figli,
raggiungiamo beatamente e senza fiatone la sella
a oltre 3.500 m, sotto la
cima. C’è ancora la maggior parte degli altri alpinisti che sta scendendo
faccia a monte sul tratto
ripido e gradinato che dalla
sella porta al pendio finale
o che era ferma a riposare
sulla sella. Ci riposiamo
un po’ anche noi e ci le-
ghiamo in cordata lasciando gli zaini sulla sella, Oliviero mette delle punte
apposite alle stampelle in
modo da ramponare anche quelle e poi mi avvio
verso la rampa ghiacciata lasciandolo presso una
nicchia fra roccia e neve
ad aspettare il recupero
della corda. Il pendio è ripido ma con grossi buchi
delle impronte di passaggio e si sale senza alcuna difficoltà, tant’è che in
un attimo mi ritrovo sulla
cresta chiedendomi come
mai tutti facessero tante
difficoltà a salirlo e scenderlo… Dopo aver piantato
per bene la piccozza nella
neve dura ed aver agganciato un moschettone recupero la corda e dico ad
Oliviero di salire. Per un
momento mi sono detto
“Ma guarda cosa stai fa-
La cresta di salita alla cima
50
diario alpino
cendo, stai recuperando
come tuo compagno di
cordata un personaggio
come Oliviero Bellinzani,
l’uomo con le ali che senza
una gamba in montagna, e
nella vita, ha superato difficoltà più grandi di quanto tu potrai mai fare”. Mi
sento contento ed onorato
di averlo accompagnato in
questa salita. Infatti, l’ho
solo accompagnato, camminandogli a fianco o dietro o davanti, non l’ho portato su io, ma la sua forza
fisica e di volontà.
Il pendio ripido comporta
qualche difficoltà in più per
lui, ma io lo lascio salire
senza tenerlo in tiro, come
avrei fatto con qualsiasi
altro compagno di cordata
al mio pari. Un basso gradino di roccia da risalire,
un tratto di larga cresta e
poi il pendio finale a 45°. Lì
incontriamo gli altri amici
che scendono, non li avevamo più visti, ma vederli lì
sotto la cima mi sorprende
un po’: o ci avevano aspettato ancora o dopotutto non
eravamo andati poi così
piano! Qualche battuta con
loro, qualche altra chiacchiera con la gente che si
ferma a complimentarsi
con Oliviero, fra cui varie
persone che aveva incontrato su altre cime chissà
dove, e dopo cinque ore e
quaranta minuti di salita
siamo a pochi metri dalla
vetta. Oliviero mi chiede
di farlo passare avanti per
arrivare in vetta per primo e gli lascio volentieri il
posto, non aveva di certo
bisogno di me come guida! Pochi metri di cresta e
siamo sulla bianca punta
del San Matteo, a 3.678 m
di altezza, sotto un cielo
blu ed un sole scintillante.
Una stretta di mano, come
sempre quando si arriva
in cima, qualche foto, una
pausa chiacchierando con
altri sulla vetta, una veloce
contemplazione delle cime
e dei ghiacciai intorno e giù
per il pendio, faccia a valle per entrambi, fino alla
cresta. Lì faccio di nuovo
sicura a Oliviero che poi si
slega e prosegue da solo
fino alla sella. Recupero
la corda, scendo il ripido
tratto sempre faccia a valle e lo raggiungo. Il resto
del popolo della montagna
è già sceso, ci sono ancora
due persone in cima e altri
sei ritardatari che salgono.
Ci rifocilliamo un po’ e poi
giù per il ghiacciaio.
Sotto il sole cocente la
neve sta mollando e si comincia ad affondare, ma
non troppo, procediamo
veloci fino al pendio crepacciato e lo discendiamo
lungo il percorso di salita. Oliviero si diverte in
una bella scivolata seduto
con freno-stampella anziché freno-piccozza! Nella
parte bassa del ghiacciaio
decidiamo di tagliare verso
destra per evitare il resto
di nevaio e il pendio mo51
renico del mattino che lo
aveva fatto sgobbare. Già
dal mattino avevamo deciso che saremmo scesi sul
lato scoperto in modo da
sfruttare rocce e sassi su
cui lui cammina più agevolmente. Iniziamo così un
percorso del tutto nuovo,
seguendo alcuni ometti
che ci portano su un dosso su cui finiscono. Da lì
ci inventiamo il percorso
scendendo brevi risalti
rocciosi, qualche campo di
neve, sassi e ghiaie, fino a
raggiungere il lato opposto
del vallone dopo aver attraversato il torrente su un
ponte di neve. Scendiamo
agevolmente con il solito
orientamento a vista, io
vado avanti in avanscoperta e un paio di volte da dietro Oliviero mi corregge la
direzione. Tendo a distaccarlo un po’, ma continuo a
tenerlo a vista e so sempre
dove si trova. La discesa
da quel lato del vallone è
piuttosto lunga e il caldo
la rende più faticosa. Nella
parte bassa troviamo una
traccia sbiadita, chissà da
quanti anni nessuno passa
di lì, e alla fine raggiungiamo il letto del torrente e il
ponte dell’Amicizia che ci
riporta al sentiero per il rifugio Berni. Ancora campi
di neve, prati zuppi d’acqua, prati fioriti e infine il
rifugio. Io tendo a velocizzare il passo ma Oliviero
è giustamente stanco almeno quanto me, e mi dice
di salutarci lì così posso
diario alpino
Relazione della salita:
Tornando al Passo Gavia con il San Matteo sullo sfondo
andare a casa, dato che ho
un po’ di premura di tornare in tempo per mettere a
nanna il mio bimbo.
“Siamo partiti insieme e
torniamo insieme”, gli rispondo.
“Questa è una bella cosa”,
dice lui, “il mio amico
Max mi avrebbe lasciato
qua…”.
Un cartello segnaletico indica il sentiero per il San
Matteo: tempo 5 ore, noi
ne abbiamo impiegate 5 e
40 minuti, pause comprese, direi buono!
rivare per le ore 20, in tempo per abbracciare Alessandro e dargli la buona
notte. Ringrazio Oliviero,
gli stringo forte la mano
e gli dò appuntamento ad
una futura uscita, stavolta
in roccia. Prima di salire in
auto guardo un’ultima volta la vetta del San Matteo
con il bianco fazzoletto del
ghiacciaio ai suoi piedi, lo
ringrazio, oggi mi ha permesso di fare qualcosa
di speciale: salire la sua
cima con tre piedi!
Dopo 11 ore torniamo al
punto di partenza. Il rifugista si complimenta con
noi, ci ha seguito con il binocolo in salita e discesa.
Lo lascio chiacchierare
con Oliviero, io non ho fatto niente di speciale, lui sì!
Telefono a casa, dovrei ar52
Punta San Matteo
Ver. SW - 3678 m
Regione: Lombardia - Alpi
Retiche - Gruppo Ortles
Cevedale
Provincia: Sondrio
Punto di partenza: Rif.
Berni (q. 2560 m) - Passo
Gavia
Versante di salita: SW
Dislivello di salita: 1120 m
Dislivello totale: 2240 m
Tempo di salita: 5,00 h
Tempo totale: 8,00 h
Difficoltà: EEA - AG - PD
Periodo consigliato:
giugno - luglio
Introduzione:
La Punta San Matteo è una
importante cima nel gruppo Ortles-Cevedale circondata da grandi ghiacciai, spesso salita durante
la Traversata delle Tredici
Cime, dal Pizzo Tresero
al Monte Cevedale o viceversa. La via di salita qui
descritta corrisponde alla
via normale standard da
SW, partendo dal Rif. Berni, poco dopo il Passo Gavia. Si tratta di una salita
facile e senza problemi se
effettuata ad inizio stagione quando i crepacci sul
ghiacciaio di Dosegù sono
chiusi e il ghiacciaio ben
ricoperto di neve. In stagione avanzata può diventare problematica per la
presenza di ghiaccio vivo
nel pendio di accesso al
ghiacciaio e nel ripido pendio sotto la cima. La salita
diario alpino
può essere effettuata senza pernottare al Rif. Berni,
ma si consiglia di partire
comunque all'alba per approfittare del rigelo notturno della neve sul ghiacciaio e non trovarla troppo
molle al ritorno.
Accesso:
Il Passo Gavia è raggiungibile sia dalla Valtellina,
passando per Sondrio,
Bormio e S. Caterina Valfurva, che dalla Val Camonica, salendo da Ponte di
Legno. Il Rif. Berni si trova
lungo la strada poco prima
del Passo Gavia, per chi
sale da S. Caterina Valfurva, o poco dopo per chi
sale da Ponte di Legno.
Descrizione della salita:
Dal Rif. Berni scendere
per ponticello ai prati sottostanti e seguire le indicazioni per il San Matteo.
Invero si hanno due possibilità di accesso:
1) si attraversano i prati in
direzione del vecchio rifugio abbandonato e si segue
il sentiero che sale ad un
dosso, lo valica e riscende nel vallone di accesso
al ghiacciaio (in tal caso
si deve prima salire e poi
scendere un dislivello di
un centinaio di metri)
2) oppure si segue il sentiero sulla sinistra che
fornisce l'accesso al Pizzo Tresero, passando per
il ponte dell'Amicizia e,
senza passare il ponte, seguire il sentierino o campi
innevati che risalgono il
vallone sulla sinistra oro-
grafica del torrente e portano a ricongiungersi al
sentierino che scende dal
dosso (in tal caso si evita
di salire e poi ridiscendere
il dosso).
Raggiunto il vallone di
accesso al ghiacciaio si
risale il ripido pendio morenico sulla destra che
conduce alla dorsale morenica e poi verso sinistra
ai pianeggianti campi innevati di accesso alla fronte
del ghiacciaio di Dosegù.
Si attraversa la zona quasi pianeggiante e si risale
un primo pendio che porta
ad un'altro pianoro sotto
la seraccata del ghiacciaio. Se le condizioni lo permettono si può risalire la
seraccata sulla sinistra
per pendio non troppoo
ripido (35-40°) ma non
troppo lungo, con qualche
crepaccio ben coperto ad
inizio stagione e si accede
al pianoro superiore. Altrimenti si risale il ripido
(40°, ghiaccio vivo a stagione inoltrata) e più lungo pendio a destra della
seraccata, con un ampio
arco da destra a sinistra
e si raggiunge il pianoro.
Si prosegue attraverso il
pianoro risalendo un altro breve pendio, un terzo
pianoro ed un altro pendio,
passando sotto il Monte
Mantello, fino a raggiungere il pendio finale che
porta all'evidente sella
nevosa compresa fra la
cima a destra e una punta
rocciosa a sinistra.
53
Raggiunta la sella si segue verso destra la cresta
per qualche decina di metri fino alla base del ripido
pendio-canale di una ventina di metri a destra di un
gendarme roccioso. Lo si
risale (45°) raggiungendo
un forcellino, si risale un
basso gradino roccioso (se
senza neve) e si segue la
larga cresta di neve fino ad
una selletta. Da qui si sale
direttamente il ripido pendio a destra del seracco
pensile (40-45°, ghiaccio
vivo a stagione inoltrata)
da cui si esce sulla cresta
NE, seguendo la quale per
pochi metri si raggiunge la
grande croce di vetta.
Discesa:
Come per la salita.
Data della salita:
27/06/2010
Relazione fotografica su:
www.vienormali.it/montagna/fotoscalate.asp
Roberto Ciri
diario alpino
di Daniela Grigoletto
e Ettore Bona
Valle dell'Orco
Francesco Marra sul tiro chiave dell'"Apparizione del Cristo Verde". Sergent
Improvvisiamo un viaggio in Valle dell’Orco. A dire il vero improvvisare con la
Vale che lavora in un’agenzia di viaggi è
alquanto simbolico, tanto che la veranda
dell’igloo “Marra-Sandi” mi appare come
un bazar turco, ordinatamente stipato e
minuziosamente allestito. Anche il campeggio “La Peschiera” è degno del miglior tour operator, laghetto con trote e
barbecue al coperto, vista granito a 360°,
accesso immediato alle pareti…poca gente e sempre sorridente…tutti ottimi presupposti per restare in questa valle recondita ai piedi del Gran Paradiso.
ti dorme sotto i piedi e sta buono buono
finché gli cammini sulla testa. Ogni tanto alza il collo e fa una piega dove poter
metter le mani. Ti muovi in punta di piedi
per non svegliarlo, lento, delicato, leggero, sfiori appena con le mani la sua
schiena stesa al sole. Poi il guscio regolare e tondo della sua corazza si spacca in
scaglie e schegge e ti infili in un universo
di blocchi e angoli… fa improvvisamente
buio e il sole si perde tra le fessure cieche
e i diedri scuri.
In Valle dell’Orco esistono tre strutture
principali, aperte sulla scia dell’enfasi da
Yosemite, il Sergent, il Caporal e il Totem
bianco…(le prime due con chiaro e un po’
irriverente rimando al più celebre Capitan d’oltreoceano, la terza ispirata a un
caratteristico larice secco che resiste a
metà parete). Strutture di 400-600m dove
si arrampica in stile trad più o meno spinto con soste ben attrezzate e qualche spit
d’incitamento lungo i tiri.
In effetti dopo la prima pantagruelica colazione, durante la quale abbiamo tutto il
tempo per scegliere l’itinerario, cuocere
le uova, studiare le varie tipologie di climbers foresti e locals che si aggirano nei
dintorni, scansionare tutte le singole venature del granito ed entusiasmarci come
bambini sul tornello d’entrata al parco
giochi, attacchiamo la storica parete del
Sergent, lungo la via l’”Apparizione del
Cristo Verde”.
La voglia di scrivere due righe su questa
valle è nata dal piacere d’esser lì e dal desiderio di condividerlo con altri. Una sorta
di locandina pubblicitaria per quest’angolo
di Piemonte che fu teatro, trent’anni fa, di
Muoversi sulle placche di granito è come
accarezzare un antico drago. Uno di quei
rettili dalla pelle ruvida, argentea, che
54
diario alpino
grandi rivoluzioni nella filosofia dell’arrampicata e che oggi restituisce la gioia
semplice e pulita d’una salita vecchio stile.
Ci permettiamo, allora, di consigliare
qualche itinerario da noi percorso, sperando vi regali lo stesso stupore e lo stesso entusiasmo.
Torre d’Aimonin: Pesce d’Aprile. Aperta da Kosterlitz, Motti, Manera, Morello,
Bianco il 31 marzo del 1973. Difficoltà D
sup., max. 5c. Sviluppo 170 m. Itinerario
storico e di grande bellezza. Discesa a
piedi o in doppia lungo una delle vie moderne.
Caporal: Diedro Nanchez. Aperta nel
1974 da Trentaz, Bonelli, Galante, Motti,
Pessa. Prima salita in libera Marco Bernardi nel 1980. Difficoltà ED inf. se si sale
in libera, altrimenti TD sup., max 6b, 5a
obbl. Sviluppo 160 m. La via è in parte
chiodata, 3 spit e chiodi, soste spittate.
Grande via “granitica” e bellissimo percorso in libera, passaggi atletici e continui da proteggere.
Sergent: Apparizione del Cristo Verde.
Aperta da Caneparo, Mochino, De Giorgi
nel 1986. Difficoltà TD, max. 6b, 6a obbl.
Sviluppo 330 m. Bella e lunga via di aderenza, richiodata a spit (20 in tutta la via)
nel 2000. Discesa in doppia lungo la via.
Sergent: Nautilus. Aperta nel 1982 da
Giorda, Perucca, Ogliengo. Difficoltà TD
inf, max. 5c o 5a/A1. Sviluppo 270 m. Arrampicata caratteristica all’interno di un
profondo camino che incide la prima parte.
Daniela Grigoletto sulla via "Pesce d'aprile" Torre d'Aimonin.
Daniela Grigoletto e Ettore Bona
Francesco Marra ai piedi del Sergent
55
diario alpino
di Valentina Sandi
e Francesco Marra
È passato qualche giorno da che siamo in valle e
abbiamo appena iniziato a
conoscere la roccia e ad
apprezzarne l'ambiente.
Al mattino ci alziamo e
facciamo colazione guardando le pareti che incombono sulla tenda e cercando con lo sguardo le linee
più famose.
abbiamo imparato che si
tratta di itinerari impegnativi, specie per noi così
poco abituati ad incastri ed
aderenza, che richiedono
tecnica e testa.
Oggi puntiamo al Nautilus,
è nel settore destro della
parete del Sergent, appena sopra al campeggio.
Valentina Sandi sul primo tiro dell'"Apparizione del
Cristo verde". Sergent
C’è un clima diverso tra gli
arrampicatori qui in valle...un ritmo ed un modo di
andare su roccia che non
conoscevo. Sento la calma
quando mi sveglio. Manca
quella sensazione di fretta
e di stretto che si ha nelle sveglie all'alba per le
pareti dolomitiche. E non
ne sento la mancanza! Le
linee, infatti, non sono lunghe e le discese in doppia
sulla via.
Nei giorni scorsi, però,
Aperta nel 1982 la linea è
logica ed elegante ed è conosciuta per il profondissimo camino che caratterizza la prima parte (e incute
un doveroso timore).
Se usate la guida rock paradise potete tranquillamente lasciarla in tenda
e procedere a caso, sarà
più semplice trovare sia il
settore che la via... In realtà abbiamo attaccato una
bella linea della parete che
ci siamo trovati davanti
56
dopo 2 ore di vagabondaggio guida-alla-mano. Ma
ora mi trovo sulla cengia
mediana sotto la parte alta
della parete, senza volerlo
abbiamo attaccato la via
giusta!
L'avevo sospettato passando di fianco ad un profondo camino poco fa ma
evidentemente l'abbiamo
evitato con una variante
tanto breve quanto entusiasmante che aumenta di
poco la difficoltà della via
e da continuità allo stile di
arrampicata.
Vi sarà però utile sapere
che la parete è divisa in due
parti da una cengia mediana molto grande (tanto che per raggiungere la
seconda parte della via si
cammina per un centinaio
di metri) e che dal sentiero
di approccio non si riesce
mai a vedere la parte alta
della parete.
L'arrampicata è bella, incastri di dita in fessure
ruvide e nette, bei diedri,
tratti in placca fortunatamente non estremi, anche
qualche incastro di pugno
e di mano. Strano prendere confidenza con questo
stile di scalata.
In doppia siamo di nuovo
sulla cengia. Recuperiamo lo zaino dal cespuglio e
mettiamo via il materiale.
Corde e imbraghi sotto, i
moschettoni attaccati ad
un cordino, i friend per ultimi, “Il casco è meglio te-
diario alpino
nerlo, siamo ancora sotto
alla par... Ehm..” ci guardiamo, ridiamo. Più che
sotto la parete siamo ancora in cengia, vero Vale?!?
Ricordatevi di portare anche friend piccolini ma soprattutto ricordatevi di non
slegarvi e mettere via tutto
una volta che vi siete calati
sulla cengia mediana, anche se sembra un sentiero
vi manca un'altra doppia!
Ah già, dimenticavo… è una
delle vie più facili della
valle raggiungendo “solo”
il VI (qui lo chiamano 5c),
poco più nella variante.
Come tipico della valle le
soste sono tutte attrezzate a spit e per la calata ma
la via ha molti pochi chiodi
(ma tante fessure!). Friend
e nut sembrano entrare da
soli nella roccia?
Anche solo passeggiando
alla base delle pareti del
Sergent si respira la storia
del Nuovo Mattino: non mi
era mai capitato di toccare
con mano (ad un metro da
terra!!!) vie che hanno fatto
la storia dell'arrampicata
Trad come la Fessura della Disperazione!
Qui ci si riconcilia con l’arte di arrampicare, fine a
se stessa, per il solo divertimento. Il grado perde
il significato che ormai ha
assunto
nell’immaginario collettivo, così come la
chiodatura. Il clima È semplice, gli arrampicatori di
tutte le età e nazionalità
sono accampati tra fornelli, materassini e friend. Si
vedono facce stanche ma
sorridenti, pare proprio
che ognuno sia qui per ingaggiarsi in una propria
personale sfida al granito,
serenamente, senza prestazioni.
Valentina Sandi e
Francesco Marra
Ettore Bona sul bellissmo diedro della via "Pesce d'aprile" - Torre d'Aimonin
57
diario alpino
di Fabio S.
Pilier Gervasutti
Chi ha salito in prima ascensione il Pilier
Gervasutti?
Il “Fortissimo!” Appunto Giusto Gervasutti, rispondo io ad un esame culturale.
No! La mia sicurezza vacilla. Divento accomodante, un po’ in difesa e non parlo.
Il mio esaminatore, tranquillo e discreto,
parla della salita. Di Fornelli e Mauro, salitori della via che dedicarono proprio a
Gervasutti che perì su quelle rocce.
Risultato: insufficienza all’esame di storia
dell’alpinismo e orecchie come quelle di
un coker. Mi vergogno come un cane ma
lo smacco mi apre nuove possibilità.
Ho sempre guardato al “Pilier” come ad
un appuntamento importante, non estremo ma molto impegnativo. Il Bianco pretende molto, anzi di più. Tempi, fatica, e
anche fortuna.
Parto con Leri per questa avventura con
grande speranza. Oramai ci alleniamo un
po’ in base al tempo e alla voglia, quasi
mai assieme, sperando di non incontrare
situazioni spiacevoli.
Venerdì dormiamo a La Palud, all’aperto sul cassone del pick-up. Tante stelle e
un po’ d’aria ma si dorme bene. E così il
sabato ci vede salire con la prima funivia.
Al “Torino” una chiacchierata con Leo, un
the e via in ghiacciaio. Arriviamo alla base
del Pilier alle 10,30 e tocca a me il primo
tiro.
Sono le 11 e la fessura sprotetta e verticale mi impegna più mentalmente che
per altro.
L’avevo salita già una volta, quasi vent’anni fa, in occasione della salita del Supercouloir utilizzandola come variante d’attacco, ma non me la ricordavo così dura!
Bah, l’età!
Andiamo benone e ci alterniamo sui vari
tiri di corda, a volte appoggiati, a volte
verticali, comunque sempre proteggibilcon nut e friend. Non perdiamo troppo
tempo e saliamo spediti. La temperatura è gradevole e la roccia eccellente e
di soddisfazione. Le mani si aggrappano
senza timore e le suole aderiscono senza
scivolare. Il granito è dei migliori, senza
dubbio.
Ci portiamo abbastanza in alto e il bivacco si preannuncia abbastanza comodo,
58
diario alpino
seduti, assicurati e con il maestoso panorama della Vallée Blanche.
Dentro i sacchi, vicini vicini, aspettiamo
l’alba, alle 6 di mattina, quando il sole illuminerà la parete e pian piano ci riscalderemo.
Abbiamo poco da mangiare e da bere ma
ce lo facciamo bastare.
Si riparte, abbiamo bivaccato ben alti sulla parete, o almeno ne siamo convinti. Ed
invece le lunghezze si susseguono ancora
numerose, questo Pilier non finisce mai.
Il secondo giorno arrampichiamo fino alle
2 del pomeriggio arrivando alla base della fatidica Torre Rossa.
E qui nasce il problema! L’uscita originale della via ci sembra impraticabile, con
tratti verticali di misto e ghiaccio e così
decidiamo di calarci per il Supercoluloir
Gabarrou. Solo più tardi capiremo, vedendola con un’altra prospettiva, che era
abbastanza appoggiata e facile.
La discesa in doppia per il couloir è tranquilla, sicura e veloce. Alle 10 di sera siamo alla base, sul ghiacciaio, sempre più
stanchi ma oramai al sicuro. A volte la
stanchezza e l’età giocano brutti scherzi
ma una volta messi i piedi sulla neve del
ghiacciaio, alla base della parete, ci sentiamo in pace con il mondo. Sicuri di meritare cibo e riposo.
La via è incredibile, con lunghezze stupefacenti per verticalità e qualità della roccia, sempre proteggibile e qualche tratto
all’ombra con neve fa parte del gioco.
Con Leri è ormai consuetudine. Arrampichiamo sempre meno assieme ma ogni
tanto ci viene voglia di andare a fare qualche bella impresa. E ci troviamo d’accordo
su tutto, le cose vanno bene e la voglia di
arrampicare viene prima dei reumatismi.
I recuperi sono ahimé un po’ più lunghi di
una volta, ma va bene così, va molto bene
così!
Fabio S.
59
diario alpino
di Giovanna Galeazzo
IRAN: tra trekking d’alta quota e turismo nell’antica Persia
“Vacanze, vacanze“ che
bella parola!!! e potendole
anche fare, che bellissima
cosa!!!
Si inizia così i primi di Luglio 2010 - “così tardi”! direte voi - ma per noi è normale, a pensare alla meta
di quest’anno… questo no,
quest’altro neppure, quello bellissimo ma costa
troppo, questo meraviglioso ma troppo lontano e
così di idea in idea, quando timidamente comincia
a far capolino il vecchio
desiderio di Federico: andare in Iran. Credo di non
averci pensato neppure
dieci secondi, la mia risposta è stata immediata: si!!
Partenza 8 agosto, rientro
22 agosto. E così il giorno
9, dopo aver fatto scalo a
Istanbul, in poche ore ci
troviamo a Teheran. Che
strana sensazione trovarsi
in un paese temuto da tutti, ma io ero sicura che le
notizie che ci arrivano con
i giornali erano un po’ distorte e avevo voglia invece di conoscere personalmente questo paese, per
quanto il poco tempo me
lo avesse permesso. Il primo impatto per noi donne
è l’immediata trasformazione del nostro apparire:
appena messo piede in
aeroporto a Teheran iniziamo ad indossare il velo,
in quanto obbligatorio per
tutte, indipendentemente dalla religione, in tutti i
luoghi pubblici, ripristinato dall’ayatollah Khomeini
Il vulcano Damavand dall’inizio del sentiero
a Gusfand Sara a 3000 metri
dopo la sua salita al potere
nel 1979, poiché lo Scià di
Persia aveva cercato di toglierlo.
La prima parte del nostro
viaggio, in quanto appassionati di montagna, non
poteva non prevedere un
breve trek, breve ma intensissimo in quanto puntavamo alla salita della
cima più alta del Medio
Oriente in soli due giorni: il
vulcano Damavand 5671m,
nella catena dell’Elburz. È
uno dei simboli dell’Iran
ed è raffigurato sulle banconote da 10.000 IR. E così
ci allontaniamo subito
dall’aeroporto di Teheran
per dirigerci verso nordest. Dormiamo a 2200 metri di altezza per iniziare un
po’ il nostro ridotto acclimatamento. Qui troviamo
le nostre due splendide
60
guide che ci avrebbero accompagnati in cima, delle
persone veramente uniche. L’indomani si riparte
per la seconda tappa, raggiungiamo Gusfand Sara a
3000 metri con le jeep, da
qui iniziamo a camminare e
arriviamo al rifugio a 4250
metri dove pernottiamo… o
meglio, dove dormiamo un
po’ di ore poiché ci aspetta l’alzataccia per la salita
in cima. E così alle 5.00
del mattino in piedi, un po’
tardi per i nostri gusti, ma
così ci era stato imposto
dalle guide, colazione veloce e partenza alle 6.00!!!
Che salita infinita, ma che
grande soddisfazione la
cima! Le nuvole che purtroppo accerchiavano solo
la cima, si confondevano
con le esalazioni sulfuree.
Le foto di rito e poi giù di
diario alpino
nuovo al rifugio, dove passiamo un’altra notte: in totale, tra salita e discesa, ci
abbiamo impiegato 12 ore
continue di cammino.
E così, contenti che il Damavand ci aveva permesso di salire fino in cima,
l’indomani ritorniamo a
Teheran che riusciamo a
visitare per un giorno, prima di prendere un volo interno che ci avrebbe portato nel cuore dell’antica
Persia. Facendola breve, a
Teheran abbiamo visitato i
fasti del Palazzo Golestan,
un monumento agli eccessi della dinastia Qagiara
(1848-1896), il museo Nazionale dell’Iran, il museo
del Vetro e della Ceramica,
il parco della terza moglie
dell’ultimo Scià di Persia
Farah Diba, e altro ancora
e l’immancabile bazar.
Il giorno seguente quindi
volo verso Shiraz, arrivati all’aeroporto ci siamo
diretti immediatamente a
Persepoli, il magnifico sito
archeologico che incarna la grandezza e il crollo
dell’impero degli Achemenidi 550-330 a.C. e poi a
Pasargade, dove l’austera
e semplice Tomba di Ciro
si erge nella Pianura di
Morghad.
Successivamente ci siamo spostati a Yazd, la città
più antica dell’Iran: è una
delle mete più interessanti
e suggestive, incastonata fra due deserti, non ha
cose spettacolari come
Persepoli, ma si ammira
nel suo insieme, è il luogo
ideale dove passeggiare
senza meta, e perdersi nel
dedalo di vicoli dell’antico
centro storico, ammirare
le torri del vento e le case
in mattoni di fango della
Le antiche rovine di Persepoli
61
città vecchia e la magnifica
moschea del Jameh.
Abbiamo proseguito poi
per Isfahan, la maestosa
capitale dello scià Abbas,
che con le imponenti moschee, i ponti incantevoli,
la sublime Imam Square,
ci ha letteralmente catturati. E ci ha catturato nel
vero senso della parola
l’immenso bazar, una città
nella città…
E poi di nuovo a Teheran
chiudendo il cerchio in un
susseguirsi di città e paesi uno più bello dell’altro,
tanto che guardando a malincuore dall’alto dell’oblò
dell’aereo che ci stava riportando in Italia ci dicemmo “qui ci ritorneremo”
magari a salire di nuovo il
Damavand, ma con gli sci!
Giovanna Galeazzo
diario alpino
di Alessandro Zampieri
Giro del Monviso 9 -11 luglio 2010
Appunti di un’escursione
speciale……in posti speciali……in compagnia d’amici
speciali
con scambi di battute tra
noi e l’autista. Da lontano
si vede già la “montagna
ben visibile”, la sua imponente forma piramidale ci
nel lontano 1863 gli venne
l’idea di fondare un club
che riuscisse ad unire tutti
gli alpinisti e amanti della
montagna dando origine
Da venerdì 9 a domenica 11
luglio 2010 ho avuto la fortuna e il piacere di far parte di un “gruppetto d’eletti”
che si sono spinti fino in
Piemonte ad esplorare il
maestoso Monviso.
All’inizio ero dubbioso se
iscrivermi, perché non mi
ero mai spinto in un giro
così impegnativo, ma ora
dopo aver vissuto questa
fantastica
esperienza…
posso
tranquillamente
affermare… per fortuna
c’ero anch’io!
Le difficoltà affrontate e il
sonno perso… ne sono valse la pena… essendo state
ampiamente ricompensate dai fantastici panorami
che abbiamo potuto contemplare!
Il viaggio fino a Pinerolo (TO) è stato lungo ma
si è svolto pazientemente
all’insegna
dell’euforia
rassicura e c’invita ad arrivare il prima possibile.
Arriviamo a Crissolo, punto di parcheggio del pullman. Veniamo suddivisi
in gruppetti e fatti salire
in un bus navetta che ci
accompagna fino al Pian
del Re (2020 m), punto di
partenza dell’escursione.
Incuriositi come bambini
immagazzinavamo tutto
quello che si poteva vedere e ricordare, soprattutto
i colori dei fiori che si materializzavano tra una curva e l’altra.
Ed eccoci finalmente…
si ergeva davanti a noi il
maestoso Mons Vesulus
che, con i suoi 3841 m, ci
accompagnerà per tutta
l’escursione. Fa uno strano effetto immergere le
mani dove nasce il Po e
sentire vicino a noi lo spirito di Quintino Sella che
alla nostra magnifica associazione del “Club Alpino Italiano”.
Raggiungiamo rapidamente i laghi Fiorenza (2130
m) e Chiaretto (2277 m)
dalla stupenda colorazione, scortati dallo sguardo
vigile e per niente impaurito di un “animale con
le corna” che ci osserva
dall’alto. Successivamente transitiamo alla Rocca
Trunè (2600 m) e all’ampio Colle di Viso (2650 m)
e dopo circa 3 ore e 650
m di dislivello raggiungiamo il Rifugio Quintino
Sella (2640 m). Veniamo
smistati in due piani, ci accaparriamo la branda e di
corsa approfittiamo della
doccia calda per una divina e meritata lavata fino
all’ultima goccia e ai suoi
4 euro del gettone pagati
per averla. La cena arriva
62
diario alpino
subito dopo e con essa gli
scambi d’emozioni e sensazioni che proviamo. Poi
tutti fuori ad attendere
l’oscurità che arriva quasi
alle 22. Qualcuno si ritira
già in branda e altri come
me (e te pareva) rimaniamo fuori a ciacolare e ridere, osservando le luci dei
paesini che s’intravedono
in lontananza. Poi tutti a
nanna… o quasi! Qualcuno
riesce subito a prendere
sonno, altri come me (e
te ripareva) nonostante i
preventivati tappi portati
via potrebbero raccontare
le cose che succedono in
uno stanzone di un rifugio.
I veri montanari sopportano anche questo dicono
sempre ma… è meglio che
non mi spinga in altre considerazioni. Posso solo affermare che forse era meglio dormire fuori anche
al freddo… piuttosto che
all’interno di quattro mura
intrise da mix vari.
Dopo forse un’ora di sonno
completamente rimbambiti ci trasciniamo a fatica
a fare colazione che viene
però consumata in fretta
ed è buffo incrociare gli
sguardi delle persone con
gli occhi gonfi e assonnati. Foto di gruppo, zaino
straimbottito sulle spalle
e partenza per la seconda giornata di cammino.
Passiamo i Laghi delle
Sagnette (2580 m), Passo
Gallarino (2727 m), Passo
Chiaffredo (2764 m), Lago
Bertin (2640 m), Grange
del Rio (1988 m), Fontana
della salute (2036 m) ed
arriviamo, dopo circa 6 ore
di cammino e circa 700 m
di dislivello al Rifugio Vallanta (2450 m), appena in
tempo prima della pioggia
e grandinata tipica della
montagna. Veniamo accolti da un bel cagnone di
San Bernardo bianco che
ci guarda e ci concede il
permesso di entrare.
Inizia anche in questo caso
la corsa ad accaparrarsi
il presunto posto migliore
per dormire. Per nostra
fortuna il rifugio è dotato
di varie camere e con le
amiche e amici di vecchia
data occupiamo una ca-
pressioni della scarpinata
odierna,
contemplando
la bellezza della natura
che scrutiamo all’esterno. Arrivata l’ora di cena
ci catapultiamo di corsa a
tavola e mangiamo frettolosamente le delizie preparate. Al termine il simpatico gestore del rifugio,
ci raccontò alcuni episodi
particolari accaduti durante gli anni d’onorato
servizio, allietandoci la serata. Il buio anche questa
sera arriva intorno alle 22
però fa più freddo rispetto
ad ieri. Cicchetto collettivo
e brindisi di gruppo e poi
tutti in branda per il meritato e desiderato riposo.
mera, con vista panoramica, con lo stesso nome del
rifugio. Acquistiamo l’ennesimo gettone per 4 euro
e ci lasciamo accarezzare
dall’acqua calda per una
meritata doccia. Rientrati in camera e sdraiati sul
letto ci scambiamo le im-
Anche questa notte però si
è trasformata in un incubo.
Basta, infatti, che una sola
persona del gruppo inizi a
ronfare che per tutti gli occupanti della camera parte il calvario. Ovviamente
è successo quello che si
sperava di scongiurare.
63
diario alpino
Sto giro forse dopo 2 o 3
ore di sonnecchiamenti e
ancora più rimbambiti di
ieri andiamo a fare colazione controvoglia. Sistemati gli zaini dando l’ultimo sguardo al panorama
e dopo l’immancabile foto
di gruppo ripartiamo per
il terzo ed ultimo giorno di
viaggio.
La giornata si presenta
fredda e grigia e finalmente indossiamo le cose pesanti che avevamo messo
dentro lo zaino per precauzione. La stanchezza e
lo stress del non dormire
sono presenti in parecchi
di noi.
Prendiamo il sentiero fino
al Passo di Vallanta (2811
m) scendendo sul lato
francese passando accanto al Lac Lestio (2510 m)
dove ha origine il torrente
Guil. Giunti su un ripiano
a quota 2450 m deviamo
in mezzo ai pascoli raggiungendo il Rifugio du
Viso (2460 m). Il sole e la
temperatura più gradevole
non tardano ad arrivare.
Giunti al bivio del Grand
Vallon (2430 m) incrociamo
dei cuccioli di marmotta, a
lato del sentiero, che incuranti dei pericoli masticano tranquillamente senza
preoccuparsi della nostra
presenza. Raggiungiamo
in mezzo alla neve il Colle
delle Traversette (2950 m)
il punto più alto dell’escursione dopo circa 850 m di
dislivello in salita. Panorama irreale, inimmaginabi-
le, da favola, di una bellezza fantastica, che resterà
impresso per sempre in
ognuno di noi. Il pranzo al
sacco non l’abbiamo degustato interamente poiché
eravamo rapiti dalla bellezza della natura che ci
circondava e ci sembrava
superfluo mangiare con
tutto quello che avevamo
davanti a noi.
Ci sentivamo piccoli ed insignificanti di fronte a queste opere divine.
A malincuore iniziamo la
discesa con 1250 m di dislivello, risultati impegnativi per le nostre gambe e
ginocchia.
In ambientazioni lunari
scendiamo dapprima al
bivio del Colle dar Moine
(2480 m) e poi arriviamo in
ordine sparso al Pian del
Re, luogo da dove eravamo
partiti.
Ripensare al giro e a tutti quei posti che abbiamo
avuto la fortuna di contemplare, a distanza di
un paio di mesi, subentra
il desiderio di ritornare a
riassaporare le speciali
sensazioni provate allora.
Siamo partiti con alcune
persone che non conoscevamo e siamo ritornati con
nuovi amici tutti accomunati dalla stessa passione
per la montagna.
Ringraziamenti particolari vanno rivolti ai nostri
condottieri Fabio, Marco e
64
Michele che ci hanno accompagnato, nonostante
la loro giovane età, con
la sicurezza di veterani,
dandoci gli stimoli giusti e
regalandoci parole di conforto anche nei momenti
più impegnativi quando
affiorava il classico dubbio
“chi me l’ha fatto fare”!
Una menzione d’onore va
anche fatta al nostro amato autista Massimo (grazie
Massimo) che ci ha portato
e riportato tutti sani e salvi
a casa e che nei giorni che
ci ha aspettato ha contribuito attivamente ad incrementare le storie piccanti
degli abitanti del luogo!
Grazie al tempo che è stato clemente con noi… perché di solito in queste zone
piove, piove, piove e ancora piove!
Grazie alla macchina digitale che ha impresso indelebilmente le 400 foto che
ancora oggi rivedo piacevolmente!
Grazie alla compagnia e
alle emozioni condivise
con tutti/e gli/le amici/che
di viaggio con la speranza
di rivederci in altre escursioni.
Alessandro Zampieri
in libreria
Bruno Detassis e le sue vie di Omar Oprandi
Idea Montagna Editoria e Alpinismo
160 pagine a colori - Euro 18,00
In libreria da dicembre
Bruno Detassis, il Re del Brenta, viene celebrato oggi attraverso
questo volume.
Un’attenta biografia, un ricordo dei suoi momenti particolari e
delle sue frasi celebri che l’hanno consacrato a punto di riferimento per tutti gli alpinisti trentini, e non solo.
La relazione di 33 delle sue più belle vie nel Gruppo del Brenta.
La cavalcata compiuta da Omar Oprandi, assieme all’amico Franz
Nicolini, sulle tracce del vecchio Bruno.
Escursionismo Invernale vol. 2
di Francesco Carrer e Luciano Dalla Mora
Idea Montagna Editoria e Alpinismo
304 pagine a colori - Euro 24,00
In libreria da dicembre
Va finalmente a conclusione, con questo volume, la grande ricerca degli autori riguardante gli itinerari di escursionismo invernale
sulle Prealpi venete. Dopo il vol. 1, comprendente le zone veronesi
e vicentine, siamo ora a percorrere 56 itinerari nelle aree di Monte
Grappa, Col Visentin, Alpago, Cansiglio e Cavallo.
Le precise relazioni, compendiate da notizie culturali e storiche,
permettono di godere in sicurezza ambienti da favola.
CON LE CIASPE SULL’ALTOPIANO DEI seTTe COMUNI
CLUB ALPINO ITALIANO
Inverno sull'Altopiano dei Sette Comuni con le racchette da
neve “ciaspe” di Mario Busana e Alberto Manzan
In libreria da dicembre
Due amici, del CAI di Asiago – Sette Comuni, Mario Busana e Alberto Manzan, propongono ventuno itinerari raccolti nella guida
n. 3, edita dalla “Commissione per le pubblicazione del CAI”,
CoN le CiaSpe
della nuova collana di “Itinerari Naturalistici e Geografici AttraSUll’altopiaNo dei
verso le Montagne Italiane”.
seTTe COMUNI
3
Percorsi da fare con le racchette da neve “ciaspe”, per far conoscere un altro Altopiano, lontano dalle piste da sci e dagli impianti di risalita, per far vivere all’escursionista “piccole” avventure in un Wilderness fuori porta.
Ci sono località con nomi evocativi di leggende cimbre, come i boschi della Horna
Huta, ai piedi del Monte Verena, frequentati solo da cervi e caprioli; la romita Valle
Del Portule, regno incontrastato dei camosci; la boscosa Val di Nos, che una leggenda
cimbra elegge a dimora gli Elfi e del loro capo Baldrich o la foresta della Longalaita, in
Val d’Assa, la più vecchia dell’Altopiano dei Sette Comuni, scampata miracolosamente
alle distruzioni della Grande Guerra, testimone silenziosa di un mondo ormai perduto.
La scoperta del fascino della montagna invernale e di questi luoghi, è affidata completamente ai lettori-escursionisti che sapranno cogliere pienamente l’intento degli
autori.
Euro 10,00
CLUB ALPINO ITALIANO
itiNerari NatUraliStiCi e
GeoGraFiCi attraVerSo
le MoNtaGNe italiaNe
con note storiche, botaniche e faunistiche
Mario BUsANA
alberto MANzAN
65
itinerari alpini
di Giuliano Bressan
Week-end “plaisir” in Svizzera
Il Poncione di Cassina Baggio
Desiderate arrampicare su un buon granito, avete voglia di fare un po’ di strada
per conoscere posti e montagne diverse
dalle mete usuali, siete ben allenati, disponete infine di un week-end lungo?
Bene, allora vi consiglio queste due salite
“plaisir” nella verde e ordinata Svizzera,
più in particolare nel Canton Ticino, in val
Levantina e in val Bedretto. Gli itinerari
possono essere percorsi tranquillamente partendo nel pomeriggio di venerdì e
tornando nel tardo pomeriggio della domenica. Faido e Airolo, punti di partenza
delle nostre vie, distano rispettivamente
da Padova 380 e 390 km (3,30 - 4 ore circa). Dal punto di vista logistico è possibile
pernottare a Faido e ad Airolo (o RoncoBedretto); la scelta dipende esclusivamente da quale salita volete fare per prima. In ogni caso la distanza fra Faido e
Airolo è di circa 25 km (mezz’ora scarsa).
Per la via sul Poncione di Cassina Baggio è
possibile pernottare al Ristorante All'Acqua (Airolo) tel. +41(0)918691185 o all’Al-
bergo Stella Alpina (Ronco-Bedretto) tel.
+41(0)918691714; per la salita sulle Placche di Freggio, si consiglia l’Albergo Pedrinis (Fontana di Scribar - Faido), a conduzione familiare, tel. +41(0)918661241.
Prima di partire non vi resta che consultate bene le precise previsioni del meteo svizzero (www.meteosvizzera.ch) e…
buon divertimento!!!
PONCIONE DI CASSINA BAGGIO (2621 m)
Via Dr Gruen Nils
Primi salitori:
Ruedi Büschlen e Jürg von Känel, 1992
Difficoltà: 6a (5c obbligatorio)
Esposizione: sud
Sviluppo: 12 lunghezze (sviluppo 400 m
circa)
Tempo salita: 5,00 - 6,00 ore
Attrezzatura:
ottima a spit, utIli comunque nut e friend.
Periodo: estate e inizio autunno.
Avvicinamento e attacco: poco prima del
tunnel del S. Gottardo (CH) uscire dall'au66
itinerari alpini
tostrada ad Airolo-Bedretto e seguire le indicazioni per la val Bedretto e il
Neufenenpass; dopo dodici
km circa si raggiunge la
località All'Acqua (1614 m)
dove si può alloggiare. Per
raggiungere l’attacco della
via sono possibili due soluzioni:
- Seguire le indicazioni
per il sentiero che conduce alla capanna Piansecco (1980 m) dove è pure
possibile pernottare (tel.
+41(0)8691214). A un bivio,
sulla destra si raggiunge
in breve la capanna (40 minuti); proseguendo invece
a sinistra si giunge in vista del Poncione,
verso cui si risale per tracce lungo detriti
sino alla base della parete (1,30 ore).
- Salire per pochi chilometri lungo la
strada in direzione di Nufunen fino a un
piccolo parcheggio a destra di un tornante; seguire l’evidente sentiero sino alla
base della parete (1,10 ore).
La parete è caratterizzata da un ampio
canalone che ne incide la metà superiore: il nostro itinerario si sviluppa alla sua
destra. L'attacco si trova poco sopra e
a destra di alcune caratteristiche rocce
rosse. Il primo tratto si può salire anche
slegati per rocce levigate (fare attenzione!) o, meglio, aggirandolo da destra per
comode e semplici rampe (soluzione consigliata, specialmente in discesa). L’inizio
della via è caratterizzato da un evidente
spit in placca.
N.B. Nella stessa zona attaccano altre due
vie, che salgono a sinistra di questa qui
descritta. Sono, rispettivamente, "Herbstwind", che sale pressoché in verticale
e, a sinistra di pochi metri, "Piccadilly di
Bedretto", itinerario molto frequentato.
La via su un rugoso e appigliato granito si
sviluppa lungo stupende placche di ade-
Sulla via Dr Gruen Nils
renza, ma anche su diedri e
fessure; l’ambiente è molto
bello con ottima esposizione al sole.
Relazione
1° tiro: salire lungo la placca con alcuni passi delicati
e proseguire per un breve
diedro appoggiato. Salire
quindi a sinistra un ampio
spigolo, lasciando a destra una liscia placca (5b).
Sosta sopra l'avancorpo.
2° tiro: proseguire dritti lungo facili gradoni
per 30 metri circa (3a).
3° tiro: dalla sosta salire lungo un breve salto verticale e proseguire poi prevalentemente
lungo belle placche (lunghezza molto lunga - 5c).
4° tiro: risalire una fessura
per alcuni metri e proseguire per una bella lama che
forma un diedro appoggiato.
Quasi al suo termine traversare a destra in placca
raggiungendo una cengia;
67
itinerari alpini
nistra per più facili rocce
e superare quindi un primo risalto per una breve
placca e un corto diedro.
Seguire una corta cengia
e salire lungo uno strapiombante e impegnativo
diedro (6a, A0 - utile una
staffa); per rocce più semplici raggiungere la sosta.
11° tiro: salire lungo uno
spuntone portandosi in un
evidente diedro che si risale
direttamente oppure fuori
sulla sua destra (delicato).
Superare un risalto e proseguire obliquamente verso destra sino in sosta (5c).
12° tiro: salire per alcuni
metri in placca fino alla base di una fessura verticale che si supera con passaggi
atletici (5b). Proseguire direttamente per
rocce più semplici sino a una cengia; superare un breve muretto e salire poi per
un breve tratto di rocce abbattute sino
alla sosta nei pressi della cima.
Discesa: si scende lungo la via di salita
con diverse corde doppie (è possibile, saltando la sosta del settimo tiro, raggiungere direttamente la sosta della quinta
lunghezza).
Sulla via Dr Gruen Nils
da questa continuare sempre in placca
con alcuni passi delicati (buoni appigli e
appoggi non subito visibili dal basso - 5c).
5° tiro: salire a destra con partenza delicata lungo la placca (5c) e proseguire
quindi più facilmente sino alla sosta.
6° tiro: risalire una placca a sinistra
di un canale e al suo termine traversare a destra fino a una sosta un
po' scomoda (lunghezza breve - 5c).
7° tiro: superare un muretto; proseguire
dapprima diritti in placca e poi traversare
per un lungo tratto verso destra. Al termine del traverso abbassarsi leggermente,
portandosi con passaggi un poco delicati in
un diedro che si risale fino alla sosta (6a).
8° tiro: salire lungo un verticale diedro
(tratto molto bello) e proseguire successivamente su più facili rocce (attenzione
a qualche sasso mobile). Uscire sulla sinistra (tratto delicato) e proseguire più
facilmente in placca sino alla sosta (5c).
9° tiro: proseguire in obliquo verso sinistra, lungo una difficile fessura
fino a una cengia (tratto molto impegnativo). Continuare quindi in placca
alla destra di un diedro e infine salire direttamente alla sosta (5c, 6a).
10° tiro: traversare in obliquo verso si-
Riferimenti bibliografici:
- Mazzucchelli Davide, Arrampicate
Sportive e Moderne fra Varese e Canton Ticino, Edizioni Versante Sud, 1998
- Von Känel Jürg, Plaisir Sud, Filidor,
2003
PLACCHE DI FREGGIO (1970 m)
Via del Veterano
Primi salitori: Franz Anderrüthi, Sigi
Bachmann e Paul Tschümperlin, 1989
Difficoltà: 4, 5a, 5b, passaggi di 6a (5c obbligatorio) - valutazione globale D+
Esposizione: sud-sud est (l'arrampicata si svolge a un’altezza mode68
itinerari alpini
rata ed è quindi sconsigliabile salire
l’itinerario in giornate troppo calde).
Dislivello: 600 m (sviluppo di circa 1100
m) Tempo salita: 6,30-7,00 ore
Attrezzatura: la via è ben attrezzata con chiodi tradizionali integrati da
spit; nei passaggi più impegnativi la
chiodatura è molto ravvicinata (sufficienti 10 rinvii e una corda da 50 m).
Periodo: estate e inizio autunno.
Avvicinamento e attacco: dall'autostrada A2 Chiasso-Lucerna, uscire a Quinto
al paese di Freggio (1037 m). È possibile
parcheggiare in una piccola area poco
prima della chiesa. La via molto bella si
sviluppa, con difficoltà moderate su ottimo granito, lungo una serie di grandi e
appoggiate placconate immerse nei boschi ben visibili sopra l'abitato di Freggio;
la prima parte della salita si articola con
un andamento diagonale (diversi traversi)
verso sinistra.
Per raggiungere l’attacco seguire sulla
sinistra la stradina che attraversando il
In arrampicata sulla via del Veterano
e seguire, voltando a sinistra, la strada
cantonale verso Faido. Dopo pochi chilometri svoltare a sinistra in direzione
di Osco (indicazione stradale); percorsi circa due chilometri dal bivio si arriva
paesino conduce, con breve discesa su
sterrato, nel bosco; dopo un breve tratto si arriva a un bivio e si prosegue sulla
destra per un sentiero in leggera salita
(scritta sbiadita "vet via" su un masso).
69
itinerari alpini
Continuare lungo il sentiero (segni gialli
e ometti) sino all’attacco della via (15-20
minuti); poco prima si raggiunge una sorgente di acqua freschissima, cui si perviene in seguito seguendo il sentiero di
discesa.
L’itinerario completo è costituito da 23
tiri; è comunque possibile dopo il 13° tiro
abbandonare la via uscendo sul sentiero
di discesa.
Relazione
1° tiro: salire verticalmente su placca appoggiata (varie possibilità); 30 m, 4.
2° e 3° tiro: proseguire per facili rocce
fino alla base di una vasta placconata; 75
m, 3.
4° tiro: salire leggermente a sinistra lungo la placca, dapprima lungo un’esile fessura poi esclusivamente in aderenza; 35
m, 4 e passaggi 5a.
5° tiro: proseguire verticalmente fino in
sosta; 30 m, 3 e 4.
6° tiro: salire direttamente per un breve
tratto e quindi continuare in obliquo a sinistra su un bel traverso, esposto ma ben
ammanigliato; sfruttando infine un'ottima
fessura si arriva alla sosta su un albero;
40 m, 3 e 4.
7° tiro: salire verticalmente per 5 m circa
sino a uno strapiombo (5c) che si può facilmente aggirare a sinistra; superato lo
strapiombo, si prosegue poi, con facile traverso a sinistra, fino alla sosta, 35 m, 5c e 3.
8° tiro: proseguire verticalmente in direzione di un piccolo diedro che si supera direttamente con bella arrampicata;
uscire sulla destra e risalire la successiva placca pervenendo al suo termine alla
sosta; 45 m, 6a o 5a e A0.
9° tiro: continuare verso sinistra
con un facile traverso; 20 m, 3 e 4.
10° tiro: salire verticalmente su una placca dapprima su un tratto appoggiato e appigliato, poi in totale aderenza sino alla
sosta; 35 m, 4 e 5a.
11° e 12° tiro: traversare a sinistra per un
paio di metri lungo facili rocce e quindi
proseguire verticalmente fino alla sosta
successiva; 55 m, 3, 4 e 5a.
13° tiro: traversare verso sinistra su impegnativa placca, poco appigliata, stando
Sulle placche della via del Veterano
70
itinerari alpini
alti nella prima metà e abbassandosi poi nella seconda (spezzone di corda su spit); proseguire più facilmente fino a una
sosta su albero; 45 m, 5a.
Dalla sosta è possibile uscire
dalla via raggiungendo facilmente il sentiero di discesa.
La seconda parte della via, dal
14° al 23° tiro, si svolge con
difficoltà sempre contenute
(4, passaggi di 5a) sino al suo
termine sul bosco sommitale.
Attenzione: dall’albero bisogna
proseguire in traverso a sinistra
evitando di farsi portare fuori
via dalla prima serie di spit che
si incontra (è una variante).
Discesa: dal termine della via
risalire il bosco per tracce fino
a raggiungere il sentiero di discesa che si segue verso destra
(faccia a valle). La discesa, non
molto comoda ma ben marcata con segni gialli e numerosi
ometti, si svolge spesso su terreno impervio che richiede attenzione (qualche breve tratto è
attrezzato con spezzoni di corda)
ed è assolutamente da evitare
nel caso si sia fatto buio (risalti
verticali). In circa due ore si raggiunge la sorgente d'acqua vicino all'attacco della via.
È altresì possibile la discesa in
corda doppia (2 corde da 50 m);
tutte le comode soste sono attrezzate con anelli per la calata.
Riferimenti bibliografici:
- Von Känel Jürg, Plaisir Sud,
Filidor, 2003
Giuliano Bressan
Sulla via del Veterano
71
alpinismo giovanile
Relazione accompagnatori
Alpinismo Giovanile Gruppo 18/23
rivati alle 21 ca, ovviamente il rifugio era
stato avvisato sull’orario di arrivo. Abbiamo cenato e poi siamo rimasti in rifugio a
chiacchierare piacevolmente, facendo conoscenza tra di noi, in quanto il tempo era
inadatto a continuare un breve giro in notturna previsto nei dintorni. Il giorno dopo
abbiamo fatto la salita al vicino Monte
Specie, ed al rientro, una breve pausa di
mezz’ora per illustrare il funzionamento
e l’impiego dell’ARVA. I ragazzi si sono dimostrati tutti interessati.
Nell’ambito di una lunga discussione sulla tendenza giovanile nel frequentare la
montagna e l’ambiente del CAI in generale, in questi ultimi anni è stato osservato
che in linea di massima i giovani, conclusa
l’attività di alpinismo giovanile al compimento del 18 anno di età, non continuano
a frequentare l’ambiente del CAI e della
montagna in generale, e pare che letteralmente si ‘dileguino’, per ripresentarsi
poi in genere dopo i 25 anni. Questo si
verifica anche per i ragazzi normalmente
più affezionati.
Alla ricerca della motivazione di questo
periodo di abbandono, e nel tentativo di
riavvicinare i giovani all’ambiente, la nostra sezione CAI di Padova ha deciso di
proporre per l’anno 2010 un nuovo Gruppo di Alpinismo Giovanile per la fascia dai
18 ai 23 anni.
Essendo per sua natura pionieristica, la
proposta degli accompagnatori è partita
da zero e si è rivolta ad un piccolo gruppo
di ragazzi (12, max 15), cercando di indovinare un ventaglio di uscite e attività che
potessero essere apprezzate da questa
nuova fascia. Ha tentato quindi di proporre uscite diverse da quelle tradizionali
dell’alpinismo giovanile, tendenzialmente
più varie ed impegnative perché rivolte ad
una fascia di età più grande, autonoma,
esigente.
Abbiamo iniziato con una Ciaspolata notturna di due giorni, proposta nel fine settimana di luna piena del 30 e 31 Gennaio
2010, avente come meta il Rifugio Vallandro, e con una breve salita prevista per
il giorno dopo. Siamo partiti nel primo
pomeriggio con l’intenzione di far perdere scuola il meno possibile, ma abbiamo
notato che molti ragazzi con l’occasione
sono stati a casa fin dalla mattina.
Siamo arrivati con il pulmino alle ore
17:00 al parcheggio di partenza della gita;
tutti presenti, l’idea ha avuto successo,
peccato per il tempo perché abbiamo trovato una serata di neve. Al rifugio si è ar-
Da metà aprile abbiamo inoltre iniziato
un ciclo settimanale di preparazione atletica, sia per conoscere l’attitudine dei
ragazzi in vista delle uscite, che come
motivo di aggregazione. Prevista corsa di
durata via via crescente ed esercizi vari
a completamento. Sono venuti sempre
costantemente almeno la metà dei partecipanti, a volte anche di più, in base alle
varie disponibilità.
La seconda uscita è stata effettuata in
Casera Brendol ai Piani Eterni, l'1 e il
2 Maggio, per non far perdere lezioni a
scuola. Anche questa uscita ha incontrato
curiosità e approvazione.
Abbiamo effettuato una lezione di teoria
circa un mese prima, informativa su come
si fa e cosa sia necessario procurarsi per
il bivacco. Il giorno dell’uscita, i ragazzi
già molto motivati e preparati hanno affrontato senza difficoltà il dislivello in salita di 1.100 mt. Abbiamo poi tutti insieme
preparato la legna per la stufa, la cena
sui fornellini a gas e dormito nei sacchi a
pelo, giocato a carte e chiacchierato fino
a circa le 23. L’uscita è piaciuta ed ha suscitato molto interesse.
L’uscita di prova in ferrata è stata effettuata a Cima Capi (Arco di TN) con le due
ferrate Susatti e Foletti, è stata anche
questa superata brillantemente, anche da
alcuni ragazzi che non avevano mai percorso una ferrata. La ferrata successiva,
sui Campanili del Latemar, della durata
72
alpinismo giovanile
di 1:15 diventate 2:30 con i
ragazzi che si attardavano
a far foto… ! è quindi stata
all’altezza del gruppo, ed
è piaciuta nonostante la
traversata proposta fosse
molto lunga.
Dietro richiesta dei ragazzi, è ripartito ad inizio
Settembre dopo la pausa
estiva il gruppo di corsa
infrasettimanale, che si
protrarrà fino a metà Ottobre, condizioni meteo
permettendo.
La prova di orientamento
svoltasi il 26 Settembre sul Monte Venda nei nostri colli Euganei, che per la ns.
esperienza non cattura molto l’attenzione
dei ragazzi, è stata resa piuttosto difficile
per indurre i partecipanti a ragionare il
più possibile sull’individuazione del percorso e sull’analisi della cartina topografica. Nonostante all’inizio non abbia
suscitato come prevedibile un gran entusiasmo, alla fine ha comunque riscosso
un buon successo, data la varietà del percorso e della prova .
di frequentare la montagna; è possibile
coinvolgere i giovani, che si dimostrano
volenterosi di imparare, più in ambiente
che con lezioni teoriche in sede; è possibile coinvolgerli anche in attività extra
corso. I ragazzi si sono dimostrati, al di là
delle nostre aspettative, decisamente recettivi ed aperti alle esperienze, preparati
fisicamente e mentalmente ad affrontare
le ‘fatichÈ della montagna, socievoli tra
di loro tanto che i classici ‘gruppetti’ che
si notano nei corsi più giovani, qui tendono a sfumare e comunque si dimostrano
aperti e piuttosto rispettosi verso gli altri
ragazzi.
Alcuni ragazzi del corso, da poco conosciutisi, hanno già frequentato insieme
quest’anno anche il Corso di Alpinismo
della Scuola, con nostro vero piacere;
perciò riteniamo che l’attività si possa
essere dimostrata efficace e propedeutica per attirare l’attenzione dei giovani ed
incentivare la partecipazione più ampia
all’interno del sodalizio .
Infine, la prossima ed ultima uscita è prevista ad Ottobre ancora in Casera Bregolina Grande sulle Dolomiti Friulane, prevede già un buon numero di partecipanti
che dimostrano di ripetere con piacere
l’esperienza di inizio attività.
Il corso ‘sperimentalÈ così proposto si
è in sostanza dimostrato positivo ed appetibile. Abbiamo notato che deve però
essere proposto in modo dinamico, con
attenzione verso le aspettative dei giovani, con la capacità di ‘aggiustarÈ dove
necessario il tiro per non perdere l’attenzione del ragazzo, cercando di proporre
uscite che siano da un lato di un certo
impegno, dall’altro non difficili, e varietà nel proporre modi nuovi e poco noti
Sandro e Valeria
73
alpinismo giovanile
di Michele Selmin
A diventar Grandi si inizia da Piccoli
Ogni giorno sentiamo parlare d’investimenti a breve a medio o a lungo periodo,
di fluttuazioni dei mercati, d’investimenti
a rischio...
Forse tutto questo sembra centrare poco
con noi che andiamo in montagna, ma a
guardar bene qualche attinenza possiamo trovacela; andiamo a cercarla.
Anche quest’anno l’alpinismo giovanile
si è arricchito, ed oltre ai bambini dagli 8
agli 11 anni ed il gruppo dei ragazzi dai 12
ai 17 anni, si è aggiunto un gruppetto di
giovani dai 18 ai 23 anni.
La montagna per noi è anche divertimento, allegria, gioco, è passare una bella
serata in rifugio dopo l’escursione, è fare
esperienza di gruppo perché da soli si arriva poco lontano e non si possono condividere le belle esperienze fatte.
Tante altre cose porta in se la montagna
ed è compito nostro scoprirle nelle prossime esperienze.
L’alpinismo giovanile è anche questo, la
fatica, l’impegno, la tenacia, la gioia, lo
stupore, l’amicizia, il silenzio, la riflessione, è cercare di seminare uno stile, dei
valori, dei comportamenti che la montagna racchiude in se e che devono essere
svelati e compresi.
Il lavoro di un anno inizia tempo prima con
il pensare cosa proporre, valutare i percorsi, cercare che siano belli e divertenti
e arricchire tutto questo con dei contenuti
propri della montagna.
Per noi accompagnatori quello che ci gratifica maggiormente è l’allegria dei bambini, il desiderio di crescere dei ragazzi,
la ricerca di nuove esperienze arricchenti
dei giovani.
La montagna è salita e salire è fatica, impegno, costanza, tecnica ed allenamento.
La si sale in compagnia, non da soli, c’insegna a mettere insieme i ritmi di passi
diversi, accelerare o rallentare perché
con un nostro compagno tra una chiacchierata e una risata possiamo condividere la meta.
La montagna è bellezza, i panorami mozzafiato che si ammirano dalle vette, i colori che in ogni stagione cambiano.
La montagna è anche silenzio;
silenzio perché la fatica è tanta e bisogna
risparmiare le forze;
silenzio per ascoltare il proprio corpo che
armoniosamente risponde ai nostri comandi;
silenzio per riflettere, per guardarci attorno e pensare a ciò che ci circonda, alla
storia dei luoghi che calpestiamo, a chi è
passato prima di noi e per quale motivo
ha percorso quei sentieri;
silenzio per meravigliarci della natura, di
un fiore che è riuscito a sbocciare pur essendo radicato in poca terra, dei camosci
che si arrampicano sulla roccia con agilità e sicurezza.
Forse l’affinità con l’economia può ora
essere più chiara, anche se in ambiti diversi ciascuno di noi investe su se stesso e sugli altri. Nel nostro ambito è un
investimento a lungo termine è un seme
piantato che porterà frutto nei tempi e nei
modi che non conosciamo, ma con la certezza che sarà.
Un ringraziamento a voi genitori che ci
accordate la fiducia di accompagnare i
vostri figli sui sentieri, e di contribuire
per quello che possiamo in quest’investimento.
Michele Selmin
74
alpinismo giovanile
Trekking sull’Alta Via n°1
dal lago di Braies al Passo Falzarego 27-30 agosto 2010
Quest’anno abbiamo proposto ai ragazzi
dell’alpinismo giovanile quattro giorni in
montagna percorrendo una parte dell’Alta Via N°1 e precisamente dal lago di Braies al Passo Falzarego.
Hanno partecipato 20 ragazzi e 5 accompagnatori. L’esperienza, nuova per il nostro gruppo, è stata ben accolta e vissuta
da tutti.
Noi accompagnatori abbiamo proposto di
tenere un diario dove ognuno poteva scrivere le proprie impressioni riguardo le
giornate trascorse. Ecco, dalla penna dei
ragazzi cosa ne è uscito.
stanchezza sono felice di essere qui insieme alle mie amiche.
Ciao ciao
Mery
Oggi siamo arrivati al rifugio Biella, abbiamo percorso due forcelle e dopo una
pioggia molto forte siamo riusciti ad arrivare al rifugio! Evviva!
Francesca P.
Oggi verso le 5 siamo finalmente arrivati
al rifugio Biella. Il freddo ci aveva gelato perché è arrivato un temporale ed un
vento terribile qualche metro prima del
rifugio stavamo per morire!!!!!Quando
siamo arrivati non riuscivamo neanche
a slacciare gli scarponi perché avevamo
freddo!!! Ma poi quando ci siamo scaldate
eravamo contente e soddisfatte!!!
Sofia e Benedetta
27/08/2010
Siamo partiti da Lago Braies verso le
11:00. Ora finalmente siamo in rifugio al
calduccio dopo aver fatto una fresca doccia a base di acqua piovana. Le mie gambe non esistono più comunque a parte la
75
alpinismo giovanile
Oggi verso le 17.00 siamo arrivati al rifugio Biella. Verso metà della camminata è
arrivato un forte temporale, eravamo tutte congelate!!!!
Arianna
vato il sospirato sole serale. La cena era
molto buona. Dopo cena, su richiesta degli istruttori, siamo andati a letto come le
galline!
Filippo, Marco, Luca
Primo giorno del trekking è stato molto
faticoso ma anche divertente; abbiamo
preso una pioggia molto forte e finalmente sono arrivata al rifugio Biella (dove faceva molto più caldo)!!!
Dopo un lungo tragitto siamo finalmente
arrivati al lago di Braies, da dove siamo
partiti per raggiungere il rifugio. A metà
tragitto è iniziato uno “slavaccione” (molto slavaccione) e dopo essere arrivati ci
siamo subito bevuti un the caldo.
Anna
28/08/2010
Siamo arrivati alle 15:00 circa. In questo
rifugio-hotel è tutto più grande e grazioso. Durante il viaggio abbiamo visto qualche marmotta e, dopo parecchie mezzore, siamo arrivati!!! Ciao ciao
Maria
Oggi siamo partiti dal rifugio Biella e dopo
una lunga e faticosa camminata siamo
arrivati al rifugio Fanes. Nel tragitto abbiamo visto marmotte e alla fine, quando
mancava poco, abbiamo iniziato a chiedere a tutti i passanti quanto mancava!!!
Non ce la facevamo più ma ora siamo
preoccupate per domani… ci aspetta una
giornata ancora più faticosa!!!
Benedetta
Come prima giornata di escursione non
è stata il massimo! Queste affermazioni
derivano dal fatto che dopo una camminata normale è arrivato, nel primo pomeriggio (un’ora prima dell’arrivo in rifugio)
un forte “scaravasso” nel quale ci siamo
“sbrombati”!!! Nonostante avessimo ombrelli e mantelle.
Esperienze – La veduta dal rifugio è stata
comunque meravigliosa quando è arri-
Oggi sabato 28 agosto 2010 ore 8:32 e
54 secondi p.m. sto scrivendo le mie memorie di questo giorno. È stata una bella
76
alpinismo giovanile
giornata con poca pioggia e c’erano delle
enormi marmotte. La passeggiata è stata
tranquilla ma lunga.
Finisco ora le mie memorie – stesso giorno ore 8:36 e 4 secondi p.m.
P.S. C’è puzza di piedi
Alberto Zenere
al rifugio non ci posso ancora credere che
sono arrivata!!!
È stata TROPPO faticosa… ma sono orgogliosissima di essere arrivata!!!
Benny
La camminata di oggi è stata particolarmente carina; dopo il primo rifugio per
via delle minacciose nuvole nere, arrivati
al rifugio Fanes, sono rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare che sia
all’esterno che all’interno più che un rifugio sembra un hotel. Credo che in montagna quello che conta sono la passione
per dove si va, la compagnia ed il divertimento.
Luca Giacon
Questa mattina ci siamo dedicati ad un’attenta osservazione delle montagne disposte attorno al rifugio Biella prima di iniziare la nostra camminata. L’escursione è
stata abbastanza lunga ma bella perché il
paesaggio era suggestivo e non abbiamo
preso la pioggia come il giorno precedente. Quando siamo arrivati abbiamo visto il
rifugio che era talmente bello da sembrare un albergo. Complessivamente è stata
una bella escursione.
Marco Giacon
Oggi è stata una strana giornata: abbiamo visto……… una mucca che stava masticando una maglietta. Inoltre la mafia
delle marmotte si era data appuntamento
lungo il percorso (erano in tante) e assomigliavano non proprio vagamente a dei
scoiattoli palestrati.
Riccardo Reffo
Rifugio Lagazuoi m 2752 ore 19:03
Oggi è stata una giornata solare, lunga
ma divertente. I primi ci hanno messo
esattamente 7 ore, 5 minuti e 54 secondi.
Ora stiamo a Sottomarina beach… adesso
è ora di mangiare…
Alberto Zenere
Seconda tappa al rifugio Fanes
Se devo dire la verità le passeggiate sono
troppo faticose per me; poi per gli altri non
lo so! Oggi siamo partiti dal rifugio Biella
e siamo arrivati al rifugio Fanes; durante
il tragitto però abbiamo preso una pioggia
leggera (anche piacevole).
Greta
“Oggi abbiamo fatto una lunga ma bellissima passeggiata, ma la cosa più bella
che mi piace ricordare è quando siamo
arrivati alla forcella del Lago, perché era
meravigliosa e si vedeva anche la Marmolada….”
Marco Giacon
29/08/2010
Oggi siamo partiti dal rifugio Fanes per
arrivare al Lagazuoi… è stato faticosissimo… non ce la facevo più; è stata la passeggiata più lunga di tutte… ora che sono
77
alpinismo giovanile
In questa fredda mattinata siamo partiti dal rifugio Fanes; dopo essere arrivati
ad una croce li vicino, abbiamo visto una
mucca che stava masticando una maglietta. Dopo un pezzo di strada abbiamo
attraversato una forcella da dove si aveva
una vista magnifica delle montagne che
la circondavano; arrivati al rifugio, dopo
un cammino un po’ in pendenza, siamo
andati a vedere le camere che con mia
delusione avevano dei letti a castello piccolissimi; comunque ciò che conta è quello che ci circonda qui, che è affascinante
e che batte il mare, a cui invece manca
qualcosa.
Luca Giacon
tappa, ogni 10 minuti liberi e perfino ora,
l’ultimo giorno, dopo la neve ed il freddo,
al primo raggio di sole Filippo (N.B. Ha
fatto tutto il tragitto sotto la neve con i
pantaloni corti) sta prendendo il sole… e
per fortuna oggi ci risparmia il suo petto
nudo.
Le ragazze e Giada
Il trekking tanto ci è piaciuto
perché emozioni forti abbiam vissuto
A volte è stato faticoso
Ma il paesaggio era meraviglioso
Mucche, cavalli, marmotte regnan padroni
Tra massi, pini mughi e nuvoloni
Stelle alpine abbiam fotografato
E un bel panino poi abbiamo mangiato
Ad ogni pausa in mezzo ad un prato
Harry Potter mostrava il suo petto abbronzato;
gli accompagnatori ci facevano bere e poi
sudare
ma noi non trovavamo mai un posto per
pisciare
Ma Alberto tra i mughi si è imboscato
E Verkhia l’ha fotografato.
Dopo tanta fatica era bello arrivare
E non vedavamo l’ora di cenare
Ma le femmine erano schizzinose
E consideravano le cene pietose
Ma dopo cena era bello giocare
E a letto tanto spettegolare
Ma quanti odori la sera togliendo gli scarponi
Nelle camere puzzavamo come i caproni
Sole, vento, neve e tempesta
Questo trekking è stato una festa.
I venti partecipanti al Trekking alta via n°1
– 27-30 agosto 2010
30/08/2010
Appena svegliati, che meraviglia, eravamo immersi nella neve. Insieme alla neve
delle bellissime nuvole nascondevano il
passo dove dovevamo andare… e pensare
che siamo in agosto con la neve!!!
Ci siamo messi in marcia incappucciati con berretti e guanti di lana ed ha cominciato a nevicare… sembravano palline
di polistirolo. Intorno a noi un paesaggio
meraviglioso, le montagne innevate. Che
bello… sembra già Natale!!! E dalle palline di polistirolo siamo passati a fiocchi di
neve soffici che ci hanno tutti ricoperti.
Ma adesso siamo al bel calduccio di un rifugio e finalmente è ritornato il sole.
Aspettiamo il pullman con il cuore colmo
di gioia per le emozioni vissute fino ad
ora, ma triste per il ritorno a casa.
Luca Giacon
Gruppo delle ragazze: Arianna, Anna, Sofia, Benedetta, Greta, Maria, Francesca.
Bello il trekking anche se faticoso, ma
siamo contente perché tra noi è nata una
bella amicizia che speriamo continuerà
anche dopo… Quanti cerotti per le vesciche che ci siamo scambiate: evviva compeed!!!
P.S. Attualmente sconvolte perché ad ogni
78
alpinismo giovanile
di Francesca Tiso
e Giulia Capitanio
Trekking lungo l’antica Via del Sale
11-17 LUGLIO 2010
“ecco quello che si prova!!!”
Fatica, gioia, impegno, curiosità, soddisfazione, determinazione, passione… e ce
ne sarebbero molti altri da elencare, ma
questi sono i sentimenti che meglio ci ricordano quella settimana.
Quest’ anno, per la prima volta, il C.A.I.
di Padova ha partecipato alla settimana di
trekking internazionale organizzato dall’
U.I.A.A. (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche). Il trekking, organizzato dalla Sez. del C.A.I. di Sanremo, si
è svolto lungo le antiche Vie del Sale tra la
Liguria e il Piemonte.
Il ritrovo per tutti i ragazzi partecipanti
era a Sanremo. Arrivati all’hotel abbiamo passato un intero pomeriggio tra le
vie della città, iniziando a conoscerci. Il
gruppo, formato da 20 ragazzi, comprendeva spagnoli, catalani, un sudafricano e
noi italiani, provenienti da ogni parte dello
Stivale!
Lunedì 12 luglio:
Primo giorno:il più traumatico! Dopo un’
ora e mezza di pullman ci siamo messi in
marcia, con destinazione rif. Don Barbera.
Per iniziare in modo “leggero” il trekking,
abbiamo camminato ben 8 ore prima di
raggiungere il rifugio! Ormai l’imbarazzo
iniziale di trovarsi in mezzo ad un gruppo
di sconosciuti era passato, e già iniziavamo a legare più di quanto avessimo pensato!
Martedì 13 luglio:
Il percorso è stato molto meno faticoso
rispetto al primo giorno; la nostra destinazione è stato il rif. Mondovì. Quella
notte siamo capitate in camera col gruppo spagnolo e, nonostante i problemi
linguistici,siamo riuscite ugualmente a
ridere, scherzare e divertirci!
Mercoledì 14 luglio:
Raggiunto il Passo delle Saline (2174 m),
79
alpinismo giovanile
Quel pomeriggio siamo arrivati al rif. Allavena, dove ci hanno raggiunto i ragazzi
dell’alpinismo giovanile di Sanremo, che
avevamo conosciuto il primo giorno! Dopo
cena, a nostra insaputa, gli accompagnatori ci hanno preparato in una radura in
mezzo al bosco un finto falò dove ognuno
di noi ha posto la propria pila. A ritmo di
musica abbiamo iniziato a danzarvi spensieratamente intorno, è stato un momento davvero indimenticabile.
Sabato 17 luglio:
Purtroppo era arrivato anche l’ultimo
giorno.
Stanchi ormai dalla settimana ma ugualmente determinati, abbiamo raggiunto la
cima del monte Toraggio (1973 m) percorrendo il sentiero degli alpini. La giornata
si è conclusa con il ritorno a Sanremo e
una grande cena d’addio. Tra le lacrime ci
siamo salutati con l’ augurio di ritrovarci
un giorno ancora insieme!
Ringraziamo tutti i nostri accompagnatori
per averci permesso di vivere un’ esperienza di questo genere, gli accompagnatori della sezione di Sanremo, e tutti i ragazzi con i quali abbiamo condiviso questi
indimenticabili momenti! È stata un’
esperienza stupenda non solo per i meravigliosi paesaggi e luoghi che abbiamo
visto ed esplorato, ma soprattutto perché
ci ha donato l’opportunità di conoscere
tantissime persone con culture e mentalità diverse da quelle che già conosciamo!
siamo arrivati sulla cima delle Saline
stesse, e poi sulla cime di Pian Ballaur
(2604 m). Questo è stato il giorno in cui
abbiamo fatto la salita con maggior dislivello, ma, ormai allenati dai giorni precedenti, l’abbiamo affrontata senza problemi! La destinazione, ancora una volta, è
stata il rif. Don Barbera.
Giovedì 15 luglio:
Arrivati in cima al Colle delle Selle Vecchie (2098 m), abbiamo proseguito in cresta, fino ad arrivare al rif. Sanremo, dove
abbiamo pernottato. L’esperienza di stare
in questo rifugio è stata unica, in quanto
il rifugio, appartenente al C.A.I. di Sanremo, era occupato esclusivamente dal
nostro gruppo! Inoltre la cena, preparata
da cuochi provetti, è stata a dir poco superba! Quella sera abbiamo visto anche
un tramonto meraviglioso.
Francesca Tiso e Giulia Capitanio
Venerdì 16 luglio:
La sveglia è stata a suon di campanacci e
urla degli accompagnatori, che risate!
Dopo essere saliti fino al monumento
della fratellanza, siamo giunti prima sulla cima del monte Saccarello (2200 m) e,
dopo essere ridiscesi, abbiamo raggiunto
cima di Marta (2138 m): sembrava irraggiungibile!
80
alpinismo giovanile
81
escursionismo
Bilancio del XII Corso di Escursionismo
Il XII corso escursionismo
sta per finire dopo sei mesi
intensi di montagna ed è
tempo di farne il bilancio.
I due direttori, freschi di patacca AE, hanno dato davvero il massimo dell'impegno e dell'entusiasmo per
portare avanti questo corso e l'entusiasmo sono riusciti a trasmetterlo anche
agli allievi, molti dei quali,
nella pausa estiva, non ancora stanchi di montagna,
si sono messi alla prova
in Dolomiti, lanciandosi in
imprese alpinistiche non
da poco. Ne cito solo alcune: la salita all'Avezzana
sulle Pale di San Martino,
la ferrata delle Mesules
sul Sella, il Civetta per la
ferrata degli Alleghesi e la
salita alla Tofana di Mezzo.
Questo è lo spirito del corso, dichiarato sul libro in
vetta a Cima d'Asta: “XII
corso escursionismo: non
ci ferma più nessuno”.
Di esperienze ce ne sono
state tante, non so definire
se belle o brutte, ma sicuramente intense.
La prima adrenalinica corda doppia a Santa felicita o
ai Denti dea Vecia e quella fatidica domanda che si
ripete nella testa mentre
inizi la calata: terrà il Machard?
La teoria e la pratica sui
nodi, cosa rimasta oscura
per alcuni. La faccia interdetta del presidente che
dopo aver chiesto ad un’allieva qual è il nodo che si
usa per l’autoassicurazione si è sentito rispondere
“Il nodo marinaio”.
La nomina del cambusiere
Ceck, la terza persona per
importanza del corso dopo
il direttore e il vice.
L’ora passata in galleria al
82
freddo dal gruppo degli ultimi sul corno Battisti per
un’inspiegabile coda per
scendere 15 scalini dentro il pozzo che portava
all’esterno. Il sesto grado
tentato da un corsista per
andare a far pipì in un posto discreto dal quale non
riusciva più a scendere.
Le prima lunga fatica sul
Pasubio dove gli allievi
sono riusciti a completare
la ferrata in otto interminabili ore per poi scendere
in due ore di corsa. I cinque kg di insalata di riso
fatti evaporare in cinque
minuti dalla comitiva al
termine della gita.
Le assicurazioni con le
corde per alcuni sulla ferrata Guzzella e Sass Brusai sul Grappa dove i sentieri ripidi e la roccia liscia
e la pioggia intensa sul
sentiero di ritorno hanno
insegnato ai ragazzi che in
escursionismo
montagna non si scherza.
La pessima tanica di vino
da 5 litri portata dal vicedirettore e spacciata per
prosecco.
L'atletica ferrata Climb
Varmost sul Clap Varmost
completamente strapiombante che ha fatto sentire tutti insicuri durante
il percorso ma degli eroi
una volta arrivati in cima.
I ragazzi del Cai di Codroipo che ancora si chiedono
come abbia fatto un corso
escursionismo a fare una
ferrata del genere. Il prosecco del vice che finalmente ha speso qualche
euro in più.
L'orientamento sotto l'acqua a Gallio dove i ragazzi
si sono persi tra le malghe
dell'Altopiano.
Il trio di Lello, Stefano e
Guido che ha dimenticato
dove erano state nascoste
le lanterne.
La magnifica due giorni in
Friuli sulle Alpi Giulie dove,
a dispetto della commissione biveneta, abbiamo
imparato che un sentiero
attrezzato a volte è ben più
difficile di un via ferrata
soprattutto se è stato attrezzato cent'anni fa e mai
più sistemato, dove qualcuno ha dovuto rinunciare
alla cima del Jof Fuart (e
anche questa è una lezione) e dove abbiamo visto il
bambino che giocava con
gli stambecchi.
Cima d'Asta ovvero la salita nella nebbia che non
finiva più. Siamo stati il
primo corso a fare la Ola
al diradarsi delle nubi in
vetta per qualche istante.
La Cengia Veronesi sul Lagazuoi, dove abbiamo toccato con mano che i sassi, quando cadono, fanno
paura oltre che rumore. Lo
spritz post gita preparato
dai corsisti, come rimedio
alla fatica. Il vicedirettore
che scambia la telefonata
di reclamo per il ritardo
serale del pullman con uno
scherzo telefonico (le gite
l’anno prossimo temo che
si faranno tutte in auto).
La Salita a Pramaggiore,
perché in montagna si può
fare sempre fatica quando si vuole e perché Cima
d'Asta non era stata abbastanza lunga.
La Strada degli Alpini per
salutarci con il ricordo di
un paesaggio grandioso.
83
Mi dispiace solo che questo
corso sia finito. Speriamo
di continuare ancora a vederci perché oltre ad avere
insegnato la tecnica per
affrontare qualsiasi tipo di
percorso escursionistico
in montagna, questo corso avrebbe dovuto anche
insegnarci che andare in
montagna in compagnia è
più bello.
Non so se in questo corso
mi sono sentita più allieva che accompagnatore.
Di cose da imparare ce ne
sono state davvero tante e
in ogni caso mi sono divertita moltissimo.
Complimenti ai direttori.
Michela
PS: chi volesse saperne
qualcosa di più, può andare a leggere il Diario del XII
corso escursionismo sul sito
Web del CAI di Padova
http://www.caipadova.it/?id=297
escursionismo
di Luca Barban
XII Corso di Escursionismo Avanzato
UN SUCCESSO PIENO
PER IL DIRETTIVO E I
CORSISTI
15 incontri serali di lezioni
teoriche e 12 uscite pratiche includenti 2 weekend
in alta quota: questo il programma del XII° corso di
escursionismo avanzato
organizzato dalla sezione CAI di Padova ediretto
tra aprile e settembre dagli AE Adriano e Federico
Bortolami: un percorso
lungo e intenso, che sin
dall’inizio ha voluto dare ai
frequentanti un tono di rigore e competenza nell’alternarsi di relatori titolati
e accademici di livello nazionale e sezionale.
Le lezioni di teoria hanno interessato molteplici aspetti dell’affrontare
l’ambiente montano: dalla
psicologia di gruppo al
primo soccorso, dall’alimentazione alla sicurezza, dalla meteorologia alla
geologia, dall’orientamento alla fotografia, per passare attraverso elementi
di ecologia, cartografia e
filosofia del Club Alpino
Italiano.
Le 12 escursioni programmate hanno verificato in
ambiente le tecniche apprese in sede patavina,
conducendo i corsisti a
lambire quota 3.000 con la
conquista di Cima d’Asta,
spaziando geograficamente a nord con le Dolomiti di
Sesto, a est con il gruppo
dello Jôf Fuârt, a sud con i
Colli Euganei e a ovest con
il massiccio del Pasubio.
Un po’ come Giobbe di
fronte alla tanto attesa
risposta che gli giunge da
Dio al termine di un’effimera contesa dialettica sull’eterno significato dell’esistenza umana
(“Quando gettavo le fondamenta della Terra, tu
dov’eri? / Dimmelo, se sei
così intelligente” Gb. 38,
4), anche i corsisti si sono
trovati infanti allo stendersi ai loro occhi di impressionanti strapiombi, lunari
paesaggi e infiniti orizzonti
84
che ben caratterizzano il
comprensorio dolomitico
che tanto spesso ha fatto
da sfondo privilegiato alle
escursioni
domenicali.
L’aver appreso dinamiche,
tecniche e metodiche nel
progredire in quota con
sicurezza ha di certo alimentato lo spirito critico
e la consapevolezza che la
montagna, oltre a nutrire ambizioni e a garantire soddisfazioni, richiede
abnegazione, allenamento
e tenacia nell’affrontarla.
L’ultima frontiera di quella
libertà residuale che ancora intatta si offre all’uomo moderno dalla notte
dei tempi geologici in cui
il nostro pianeta è stato in
grado di offrire al Creato
un ambiente ospitale, attende ognuno di noi nella
sua ancestrale meraviglia
che genera stupore a ogni
passo che superi un precedente arrivo considerato
insondabile, inaccessibile,
irragionevole.
Ecco allora l’insegnamen-
escursionismo
to più importante che il
corso ci consegna, come
al termine di una parabola
messianica che solo il momento empirico, di prova
può far scaturire e comprendere
appieno:
“Molte cose non vengono
osate perché sembrano
difficili,
molte sembrano difficili perché non vengono
osate.”
(W. A. von Kaunitz)
Il retaggio di quanto appreso ci accompagnerà
sicuramente nelle nostre
prossime imprese in quota, in solitaria o in compagnia di amici di vetta,
mantenendo sempre cri-
stallina in noi la sensibilità e la voglia di lasciarci
stupire dall’ambiente alpino nelle sue più diverse
sfumature paesaggistiche
e variabili emozionali che
ciascuno saprà cogliere
ed elaborare in un’esperienza di montagna sempre unica, inimitabile e
irripetibile.
Il merito di ciò e il plauso
unanime vanno al Direttore AE Adriano Bortolami
e al Vice Direttore AE Federico Bortolami, capaci di tessere significative
relazioni non solo sotto il
profilo cognitivoperiziale,
ma anche amicale, come
il sodalizio CAI disciplina
viga tra i soci.
Un ringraziamento dovuto si estende poi a tutto il
85
personale titolato della
sezione che ha accompagnato noi corsisti durante
l’intera vicenda, elargitore
di suggerimenti, incoraggiamenti e supporto nelle
varie situazioni susseguitesi in questi cinque mesi
di cammino percorso insieme.
Luca Barban
alpinismo
di Matteo Mason
Il 7° corso di Alta Montagna
visto dal Direttore
Siamo a Marzo 2009, alla
cena del corso di cascate
3 “loschi” individui dalle
somiglianze ARACNIDEE
circuiscono la mia signora
e, con ipnotico discorso,
ottengono la liberatoria
perché io mi occupi della
direzione del Corso di Alta
Montagna 2010.
A questo punto non posso
assolutamente controbattere questa decisione e
inizio a strutturare il corso
ed i relativi contenuti. Per
fare questo, come in una
ricetta culinaria, si analizzano gli ingredienti, come
vanno amalgamati e poi
cucinati per la buona riuscita del corso:
− nulla osta della famiglia:
OK
− vicedirettore: più che OK
− amici istruttori: OK
− itinerari di ampio respiro: OK
− allievi: ????? (variabile
indefinibile fino alla prova
sul campo!).
Definiti gli ingredienti di cui
sopra, alla presentazione
del corso diamo un chiaro
messaggio sulla tipologia
dello stesso e spieghiamo
da subito che il corso sarà
un “corso democratico di
natura dittatoriale”, cioè
non sono ammesse discussioni.
Dieci sono i predestinati
con i quali partiremo per
questa avventura che ci
porterà a toccare molti degli aspetti dell’alpinismo
d’altri tempi: levatacce,
lunghi avvicinamenti, iti-
nerari poco segnati, discese insidiose, meteo fastidioso, quota, sole, freddo,
fame, sete, mal di testa,
vesciche, … esperienze
che forse non tutti immaginano di poter provare in
questi tempi di confort.
Il corso inizia il 9 maggio,
dopo benedizioni varie
(quelle vere!), con l’assaggio di cosa significa arrampicare con gli scarponi invece delle scarpette;
l’itinerario è la Cresta di
Rocca Pendice. Dopo pochi
metri i “magnifici 10” già si
domandano dove sono finiti, se al Corso di Alta Montagna o a Parco dei Tigli…
ma, davanti a loro, scoprono un nuovo sentiero,
quello che porta all’antica
arte di salire con gli “scarponacci” e scoprono anche
che, prese le misure, tutto sommato questo tipo di
arrampicata non è proprio
ostica.
86
Dopo il primo assaggio di
Rocca Pendice ci spostiamo sul ghiacciaio della
Marmolada e dato che la
Nord è molliccia per il caldo, facciamo la variante
per la spalla nord affondando fino al ginocchio,
giusto per fare un po’ di
fiato. I ramponi rimangono
ben chiusi nello zaino e al
rientro alcuni provano, a
sorpresa, la scivolata controllata! Per ritemprarci
della fatica Claudio Dec,
(da non confondere con
Claudio Vil), la sera prepara un suntuoso Moito rigeneratore (per chi non lo
conosce trattasi di bevanda tipica di Malga Ciapela
che integra velocemente i
sali persi durante la salita…) dopodiché stringiamo
un gemellaggio di “sangue
e costicine” con il corso di
Alpinismotour diretto dal
plurimedagliato Mauro.
Tutto procede come da pro-
alpinismo
gramma e, dopo la lezione
di Giuliano sui materiali ed
il loro corretto utilizzo, ad
inizio luglio si parte per il
Rif. Diavolezza (in realtà è
più un albergo) nella zona
dei Pizzi Palù. Qualcuno
(non faccio nomi: Zurro,
Dec, Petit NO) vorrebbero fare la salita al rifugio
senza utilizzare la funivia,
ma quando sentono che è
gratis cambiano velocemente idea.
Dopo vari mal di testa, dovuti non tanto alla quota
ma alla decisione di quale sistema di legatura in
conserva adottare (cortissima, corta, media con
spire, a V, a V rovescia,
media senza spire, media
con nodi a palla, lunga con
magic ring, lunga e basta…) il gruppo si divide
in due e affronta la Cresta
Kuffner al Palù Orientale e
il Naso di Cambrena al Piz
Cambrena.
Salita impegnativa ricca di
belle gratificazioni e momenti indimenticabili, la
prima, ravvivata da 2 varianti di discesa, una per
alpinisti e l’altra per rifugisti (a voi la scelta), la seconda.
Il terzo giorno i sopravissuti si dedicano alla “parte oscura” del manuale: il
capitolo “recuperi da crepaccio”; gli otto fortunati
provano sulla loro pelle
(del collo) il famoso recupero “triangolo di Vanzo”
e, riuscendo a modificarne le procedure, lasciano
il compagno nel profondo
crepaccio per ore ma alla
fine tutti riescono a tirarlo
fuori (assiderato).
Dopo i tre giorni di aria fine
si rientra nell’umidità della
pianura, in attesa dell’ultimo appuntamento del corso; Rif. Città di Mantova sul
gruppo M.te Rosa.
E l’appuntamento, a fine
luglio, arriva subito: dopo
il viaggio di trasferimento,
il gruppo si ritrova il lunedì
sotto una leggera nevicata e, con scarsa visibilità,
si divide in due gruppi; un
gruppo sale la cresta del
soldato alla Punta Giordani in un ambiente che, grazie al meteo, è isolatissimo; l’altro gruppo procede
verso la Piramide Vincent
dopo aver assaggiato la
cresta Sud Ovest e verificato gli effetti dell’alta
quota sul proprio fisico.
Il martedì il cielo coperto,
che darà poi spazio al sole,
e il vento tagliente, che ci
accompagnerà per tutta la
giornata, non impediscono
la salita a Punta Gnifetti per un gradito ristoro
a Capanna Margherita e
successiva salita del Corno Nero nella fase di rientro, a conclusione della
parte pratica del corso.
Mercoledì i “magnifici
10”, come degli automi,
si impegnano allo spasimo a manovrare con il
mezzo poldo con presunto spezzone ausiliario in
quasi autosufficienza; Valeria finisce tutti i propri
87
moschettoni e vorrebbe
scendere a valle per fare
riassortimento,
Roberto in chiusura di giornata
inventa la variante “VBR”
ossia Vanzo By Roby (però
crediamo che non avrà futuro), Turro viene issato
con leggerezza da Riky (+
Andrea + Ceci ), Petit abbracciato dal Dec che lo ha
salvato dal profondo e buio
alpinismo
del gioco con partecipazione ed interesse.
Ora, alla fine di questo percorso a tappe (… ma si capiva già dall’inizio), anche
l’ultimo ingrediente della
ricetta, quello più importante, è OK.
Grazie a tutti i partecipanti, oramai ex allievi, perché
hanno saputo venire incontro alla mutabilità del
corso e degli istruttori. A
voi un augurio: che continuiate a praticare l’alta
quota gratificati da innumerevoli albe.
crepaccio, Fabio non sbaglia un colpo quasi fosse
un robot, i ragni … tessono
tele su tele e Claudio Vil
tira fuori dal crepo Homo
Cornutens.
Anche se non è stato possibile affrontare tutte le
situazioni che si possono
incontrare in terreno di
alta montagna, credo che
tutti abbiamo avuto modo
di metterci alla prova e
comprendere che in questo ambiente, dove la montagna regna sovrana ed
esige comunque e sempre
rispetto, conta più la motivazione che la preparazione tecnica. Più che in altre
situazioni la sicurezza è
data, oltre che dal corretto
utilizzo dei materiali, dalla
fiducia e dallo spirito d’intesa che si crea con il compagno di cordata.
Tutto questo girovagare
per le Alpi ci ha riportati a
casa stanchi ma arricchiti
di esperienze, con immagini indelebili e tante “pacche” sulle spalle. Tutto ciò
è stato reso possibile dalla
amichevole generosità del
vice-direttore, dalla disponibilità di tutti gli istruttori che hanno partecipato
(Margot, Franz, Federico,
Ceci, Enrico, Franco, Andrea) e degli allievi che si
sono sempre resi partecipi
88
Il direttore del corso di
Alta Montagna 2010
Matteo Mason
alpinismo
di Valeria Baratella
Corso di Alta Montagna 2010
Una cima innevata in ambiente di Alta Montagna
rappresenta, e perdonate
l’intrinseco gioco di parole,
l’elevazione massima che
un allievo aspirante ‘alpinista’ può pensare di raggiungere nel proprio andar
per monti. La sua bellezza
esercita un fortissimo richiamo, ma più la guardi,
e più provi un senso di disagio, perché sei consapevole che risalirla è improponibile senza un’adeguata
preparazione, che è faticosa, insidiosa, forse molto
più che una parete rocciosa da arrampicare.
Quest’anno si è tenuto il
tanto atteso Corso di Alta
Montagna nella nostra Sezione Cai di Padova, dopo
ben quattro anni che non
veniva proposto… lunga
l’attesa e incerta la speranza, pensando chissà
quanta gente si vorrà iscrivere e tenterà di accaparrarsi i posti, per sé ed i
propri amici.
È grande per tutti la gioia
quando esce il verdetto:
idonei ed ammessi al mirabile corso!
qui la montagna fa ciò che
vuole.
Ci si lega nella parte finale… ed assaggiamo già
cosa vuol dire fermarsi al
freddo e dover fare manovre veloci (magari…!), perché c’è molto vento e nuvoloni che oscurano il sole.
Si scende dalla via normale. Poco prima del Rifugio
Pian dei Fiacconi, arriva
l’acquazzone con pioggia,
grandine, tuoni e fulmini:
mooolto bello con la ferraglia stare in mezzo al temporale!!!
Bene, come prima uscita
non sono mancate le emozioni…!! Tra noi allievi ci si
inizia a conoscere e il corso si presenta promettente, come si pensava.
Ora tocca alla prima lunga uscita del corso: dall’1
al 4 luglio sul Bernina con
pernotto alla Chamanna
Diavolezza. Ci si trova in
orario decente la mattina a Limena, si fanno le
macchine, e si parte per la
Ecco che comincia l’avventura con le prime lezioni
teoriche, e poi, la prima
salita di preparazione a
Punta Penia in Marmolada
dal versante Nord-Ovest:
pendio di neve abbastanza
ripido ma privo di ghiaccio.
Qualche slavina scesa quà
e là rende subito l’idea che
89
Svizzera, ragazzi…!!! lungo
la strada siamo un po’ inquieti… ci chiediamo cosa
avranno in serbo per noi il
nostro caro Direttore, Matteo ed il prode Vice, Gianrino…!!
Arriviamo ben presto nel
bucolico ambiente Svizzero, prati monti e laghetti
come nelle migliori cartoline… Prendiamo la Funivia che in pochi secondi ci
catapulta a quota 3.000 m:
gli zaini scoppiano, portiamo di tutto: eh sì, troppa
fatica in funivia!! Restiamo
sorpresi nel vedere quanti
giapponesi vengono a queste quote… sono un centinaio e sono ovunque… è
facile in funivia…
Dopo la cena con strane
ed abbondanti pietanze
svizzere, ci vengono comunicate le cordate: metà
persone sul Naso del Pizzo
Cambrena, gli altri a fare
la Cresta Kuffner sul primo dei Piz Palù.
Siamo tutti entusiasti, stu-
alpinismo
diamo bene la via sul mitico e labirintico libro TCI
per carpire il percorso…
la mattina colazione veloce ad un ottimo buffet e
si parte tutti per la lunga
marcia: ore 04:30. Sorge l’alba dopo poco, e che
bellezza… Non fa freddo.
Ci dividiamo dopo nemmeno due ore di cammino. Io
salgo al Pizzo Cambrena
arriviamo alla base della
cresta e scopriamo presto
che l’ambiente è severo: è
inizio Luglio ma fa già caldo e la montagna si scrolla
di dosso i resti dell’inverno… cioè piovono le pietre,
che sembrano dotate di
vita propria! Benon, andiamo avanti.
Percorriamo la cresta in
conserva media, con protezioni veloci lungo la salita. Occhio ai sassi, qui cascano appena li sfiori. Con
un po’ di angoscia e molta
attenzione guadagnamo il
‘naso’ finale innevato. Non
c’è ghiaccio, si procede
quindi tranquillamente sul
pendio ripido. La cima arriva dopo breve camminata, non senza aver ascoltato il nostro Direttore che ci
illustra in loco le migliori
tecniche di assicurazione della cordata, epperò
il direttore… se rinviasse
sul cemento non sarebbe
meno sicuro…
Si arriva così alla pseudocima… quella vera è un po’
più a sinistra. E ben presto ci accorgiamo anche
che siamo fuori dal facile…
perché non riusciamo ad
individuare la via del rientro… Ecco che giriamo e
giriamo senza successo.
De quà non se passa, de
là manco ancora. Ebbene,
qual è il problema? Vedi
quà: scendiamo verso est
e prendiamo la cresta del
Piz d’Arlas che ci riporterà
‘comodamentÈ al ghiacciaio di partenza. Iniziamo
la marcia… la lunga, lunghissima marcia. Questa
cresta è molto bella, ma
‘marcia’ anch’essa, proseguiamo in conserva e
stando sempre attenti a
non smuovere le pietre con
la corda, scendiamo in arrampicata, in corda doppia,
in traverso… non è difficile
ma la via è sempre molto
esposta. Scendiamo per la
parte finale su una grande
frana caduta da poco tempo… i massi rimasti non
sono proprio stabili!! ma
proseguo e finalmente arrivo sul ghiacciaio…. E vai,
che è fatta!
Siamo ormai al primo pomeriggio e ci vogliono
ancora un paio d’ore per
tornare alla base, fatica
fame e sete, quasi finita la
camel bag… dài, gli ultimi
sforzi…! E si ritorna al Diavolezza. Adriano, Claudio,
Roberto, ed io: siamo stanchi ma soddisfatti, caspita,
abbiamo camminato quasi
13 ore in questo ambiente
spettacolare, sempre vario
e mai banale.
Gli altri hanno fatto una
cresta più lunga ed impe90
gnativa, la Cresta Kuffner
al Piz Palù… qualcuno è
già tornato, qualcun altro
arriverà più tardi!! Siamo
tutti stanchi ma contenti e
gasati: è andato tutto ok!
Il giorno dopo si invertono
le uscite; due persone in
meno per problemini vari;
scatta la competizione per
il gruppo che va al Cambrena. I vittoriosi istruttori ci raccontano con quali
rocambolesche discese su
canaloni semi ghiacciati,
corde doppie, corde fisse e
assicurazioni sul ghiaccio
vivo, riescono a guadagnare la discesa individuando
la via ‘normalÈ scritta sul
manuale…
Secondo giorno passato,
non ci aspetta che la mezza giornata di manovre e
soste su neve e ghiaccio,
ma per le manovre di recupero da ghiacciaio, chi
scende nel crepo siamo noi
allievi…!!!!
Fatta anche questa si rientra alla base; macinando
chilometri ripensiamo a
quest’ambiente aereo, sospeso, e delicato; i pericoli
oggettivi impongono una
presenza di spirito costante, per poterli prontamente riconoscere, prevenire
ed anche, evitare…..
Dopo le dovute considerazioni, eccoci di nuovo attendere con trepidazione
l’uscita clou: i cinque giorni sul Monte Rosa, l’Apice
del nostro Corso. Tra e-
alpinismo
mail e serate preparatorie,
arriviamo a domenica 25
Luglio: si parte per Alagna
Valsesia! Divoriamo chilometri in macchina e tra
una ciaccola ed una risata
arriviamo a destinazione.
Fa freddo, e sarà molto più
freddo che ad inizio luglio!
Ci avviamo a prendere i
tre tronconi di seggiovia e
funivia che ci portano alle
quote superiori del Pian
dei Salati e poi sotto a
Punta Indren, con l’ultimo
troncone aperto da poco.
Partiamo pian piano con
gli zaini stavolta sì, in
spalla per un po’, con destinazione Rifugio Città di
Mantova. Qui di Giapponesi, stavolta neanche l’ombra!! Dopo una cena che
non ha niente a che vedere
con quelle luculliane (anche se un po’ pesantine…!)
del Diavolezza, ci vengono
comunicate le destinazioni
del giorno dopo. Chi sale a
Punta Giordano da sud-est
per la Cresta del Soldato e
chi alla Piramide Vincent
per la Cresta sud. Si parte
ben prima dell’alba… ma il
tempo non è il massimo:
una sottile nevicata e nuvole basse, ci fanno procedere piano per poter individuare il sentiero.
Ci dividiamo subito. Si procede in un ambiente senza
tempo, immersi nelle nubi;
nevica, è silenzio, pochi alpinisti in giro… che figata,
ci piace troppo…
Pian pianino arriviamo
senza perderci all’attacco
della Cresta del Soldato. Il
vice-direttore va in avanscoperta. La via è fattibile:
si parte!! Io mi copro bene
e metto le calde moffole:
fa molto freddo. Si sale, si
va, caspita sono con Gianrino e Roberto, cioè due
missili, mentre io avanzo
soprattutto all’inizio più
lentamente, poi prendo
meglio il terreno. Si procede sulla cresta, sospesi
tra le nuvole, non si vede
nulla intorno ma la via sì,
per fortuna… il tempo può
peggiorare, ma non importa, siamo qui e va bene
così… Si fa un po’ fatica, la
quota superiore alle solite,
senti ben che la gamba c’è,
ma il fiato meno.
La via di cresta è abbastanza lunga ed ha 900
m di sviluppo, sono giusti
per godersela senza esserne nauseati: è proprio
bella… Con alcune brevi pause per mangiare e
bere, si scavalcano massi
e si aggirano sassi; tutto
con ramponi stavolta, che
teniamo dall’inizio alla
fine… si sale un canalino
innevato e si è quasi sotto la cima. Bene, arriviamo, sfasciume, roccette…
Cima! Siamo in cima verso
mezzogiorno e le nuvole si
alzano quel poco che basta
per vedere il panorama…
graaazie, fantastico!! Lì c’è
la Piramide Vincent con la
sua bella cresta, ma noi la
lasciamo là, perché poco
91
dopo scende di nuovo la
nuvola e non si vede più
un piffero… il tempo è stato stabile finora, ma non
è sano rischiare altre ore
per far la seconda cima.
Quindi si scende dal ghiacciaio, c’è qualche crepetto,
noi tagliamo verso sinistra
e velocemente torniamo al
punto da cui siamo partiti
la mattina, sotto la ferratina che porta al Rifugio. È
fatta, è andato tutto ok anche stavolta… una bellissima via!!
Gli altri sono stati meno
fortunati. A causa della
nebbia non sono riusciti
ad individuare la via di salita, e dopo un’acrobatica
discesa in traverso su un
punto ripido e ghiacciato,
hanno abbandonato la cresta e sono saliti alla Cima
per la via normale.
Il giorno dopo ci va ancora
peggio. Si parte con poca
lena perché il tempo è inclemente: nevica e c’è un
vento teso che non invoglia
a partire. Lentamente ci si
avvia sulla ‘normalÈ alla
capanna Margherita, unica
meta fattibile a causa del
tempo cattivo.
La cresta del Lyskamm, in
programma, con il tempo
brutto non si può certamente fare.
Si sale nella nevicata, c’è
vento e fa freddo. Così arriviamo ad un pianoro a
quota 3.900 dove ci fermiamo per ricompattarci. Il tempo non migliora!
Dopo venti minuti, appena
alpinismo
riuniti, ci si ridivide: cinque
persone tornano al Rifugio
ed altrettante proseguono,
sperando che il tempo migliori nel corso della mattinata come il giorno prima. Ed infatti, finalmente,
il sole ricompare verso le
nove! Così i prodi salitori
nonostante un freddo becco arrivano alla Capanna
Margherita e riescono a
gustarsi lo spettacolo del
panorama megagalattico.
Durante la discesa poi, approfittando del sole ormai
stabile salgono anche il vicino Corno Nero dallo scivolo ghiacciato. Adriano,
Enrico, Claudio e Claudio,
Filippo e Fabio. Bravi!!!
Nel meriggio non troppo
tardi tornano i compagni
alla base, e si fa baldoria
insieme sulle panche fuori
dal rifugio (ormai ci siamo
abituati al fresco!), con le
cibarie che i portatori tibetani si sono generosamente caricati sulle spalle...
Grazie amici!!
Il tempo purtroppo è in
peggioramento e così si
decide di tornare a casa
un giorno prima. Si parte
l’indomani alla volta del
nostro crepo, ma stavolta
ben vestiti, il vento freddo
non ci spaventa.
E si ritorna nel pomeriggio verso Padova, contenti
di aver comunque vissuto
una magnifica avventura!
Cos’altro c’è da dire??
Questo corso è stato molto importante per rendersi
conto cosa significa attraversare un ambiente di Alta
Montagna. Ci ha permesso
di muoverci con una certa
sicurezza, ma soprattutto, ci ha resi consapevoli
che ci vuole davvero molta
esperienza, preparazione
atletica e pratica di montagna per non trovarsi nei
guai. In effetti qui sei vicino
al limite, un passo falso in
conserva può far precipitare l’intera cordata; un
cambio o un errore nell’itinerario nella migliore delle ipotesi fa perdere un
sacco di tempo, perciò è
potenzialmente pericoloso; un malessere o un incidente possono mettere
in seria difficoltà. Essere
veloci, nel percorso, nelle
manovre, è assolutamente
fondamentale; una valutazione errata, non ottimale
o affrettata, espone a pericoli non calcolabili. È necessario sapere a priori se
ci sono vie alternative, quali e quanti itinerari si possono percorrere, perché
può succedere che strada
facendo non sia possibile
proseguire nel percorso
definito a tavolino.
È una avventura dove, necessariamente
sempre,
ci si mette in gioco al 100
% e dove non c’è spazio
per le distrazioni, ci vuole
presenza costante e fisico,
si deve tener presente che
si può camminare molte
ore più del previsto, che
può succedere di tutto, e
92
che bisogna essere pronti
a tutto, avere nello zaino
tutto ciò che può servire
in caso di maltempo o bivacco di fortuna, perché la
giornata è lunghissima e
quando ti fermi, ti congeli
in pochi minuti.
Il nostro direttore Matteo
Mason è stato un saldo
punto di riferimento, sia
nella spiegazione: poche
parole estremamente precise, che nella pratica: un
chiodo messo da lui sei
sicuro che tiene, procede spedito e riesce a darti
molta sicurezza; non ha
paura di niente ciò…; conosce il posto dove si trova e
quello che sta facendo; ma
non di meno sono anche gli
altri istruttori che lo hanno aiutato: Gianrino, anche
lui estremamente sicuro
e velocissimo insieme a
Franco, saldi praticanti ripetitori di moltissime salite; paura di niente…! Federico, Andrea, ‘Ceci’, Enrico
Daino, la Margot che purtroppo è uscita una volta
sola, e m’ha lasciato come
unica
rappresentante
femminile… beh, con maschietti galanti e gentili! Gli
istruttori si consultano, ma
sanno fare tutto e sono sicuri, non hanno incertezze.
Bravi, bravi e grazie al corpo istruttori, che si è preso
la ‘briga’ con passione di
accompagnarci in questa
bellissima scoperta.
Valeria Baratella
alpinismo
42° Corso di Alpinismo
Vado in montagna da sempre, mi è sempre piaciuta
e, fin da piccolo, sono sempre rimasto affascinato da
tutti coloro che avevano
addosso strani congegni di
assicurazione.
Dopo
molto
tempo
quest’anno mi sono iscritto
al CAI ed ho fatto il corso
di Alpinismo, penso l’espe-
nulla incoraggiante che
purtroppo ci nasconde il
panorama che si potrebbe
godere dalla Regina delle
Dolomiti.
Dopo la consueta pausa
estiva eccoci pronti per
due uscite veramente belle: Cima Tosa e Zuckerhutl,
le cime più elevate rispettivamente delle Dolomiti
rienza più bella del 2010.
Il corso è organizzato in lezioni teoriche e uscite pratiche, di cui la prima è alla
palestra di roccia di Rocca
Pendice. Due settimane
dopo siamo a Mori, a fare
la ferrata Ottorino-Marangoni al monte Albano: bella ma estenuante, anche a
causa del caldo. Dopo una
via normale nelle Dolomiti
agordine, eccoci all’uscita più attesa della prima
parte del corso: la Marmolada. Riusciamo tutti a
raggiungere Punta Penia,
nonostante il tempo per
di Brenta e delle Alpi dello
Stubai, al confine tra Italia
e Austria.
A Cima Tosa ci dividiamo
in due gruppi: la maggior
parte salirà per la via normale mentre alcuni saliranno per la via Migotti,
una semplicissima via di
roccia, e ci ritroveremo in
cima per festeggiare tutti
quanti insieme. La giornata è discreta e la concentrazione richiesta per
buona parte del percorso
di avvicinamento alla via
Migotti e per la via stessa
fanno volare il tempo: dopo
93
circa cinque ore eccoci finalmente arrivati in cima.
La soddisfazione è tanta
ed il posto stupendo e nessuno di noi vorrebbe più
scendere.
La settimana successiva,
nelle Alpi dello Stubai, è
previsto un meteo a dir
poco pazzesco ed il giorno
seguente così è: non c’è
neanche una nuvola che si
staglia in tutto l’orizzonte.
Baciati dai raggi dell’ultimo sole estivo, raggiungiamo in sole 4 ore la cima
del Pan di Zucchero. Dai
suoi 3507 m di altitudine si
può ammirare un panorama mozzafiato a 360° tra
Italia e Austria. Poco dopo
iniziamo la lunga discesa,
quasi 2000 m, che ci attende e che richiederà grande
attenzione per l’attraversamento di un ghiacciaio
molto crepacciato. Arrivati alle auto non ci sembra
vero che il nostro corso sia
già finito.
Un grazie di cuore va a
Mauro, il direttore, Giacomo (Jack) e Pierantonio,
vice-direttori e a tutti gli
innumerevoli
istruttori
che hanno partecipato con
grande impegno e dedizione a questo fantastico
corso.
Filippo Carraro, Silvia
D'Agostino, Elena Feo,
Riccardo Simeoni, Sara
Venuleo
veterani
I Veterani di Padova
Incontrano gli altri gruppi seniores
Il 26 maggio di quest’anno il
GRUPPO VETERANI di Padova ha partecipato ufficialmente al 18° Raduno Lombardo dei SENIORES in Alta
Val Brembana.
Secondo i dati pubblicati dallo Scarpone di Agosto, erano presenti in Val Brembana
1234 seniores, di cui 1134
lombardi e 130 non lombardi.
Dei non lombardi, noi padovani eravamo la rappresentanza
più numerosa: “una cinquantina”, un intero pullman partito da Padova nel cuore della
notte per arrivare puntuale
all’inizio del Raduno fissato
per le 8,30.
E siamo arrivati puntuali nonostante il lungo viaggio!
Per la prima volta, nei suoi
18 anni di storia, il Gruppo
Veterani di Padova ha partecipato ad un Raduno del
genere, aprendosi al dialogo
ed al confronto con tanti altri
gruppi seniores: una scelta
maturata grazie ai numerosi
contatti via internet che Paola
Cavallin, in nome del Comitato Direttivo, nei mesi precedenti, aveva portato avanti
con vari personaggi del CAI,
in particolare con Gian Pietro
Berlato, rappresentante del
Triveneto nel Gruppo di Lavoro Senior del CCE (Consiglio
Centrale Escursionismo), e
Dino Marcandalli, Presidente della Commissione Senior
Lombardia e componente
anch’egli del Gruppo di Lavoro Senior del CCE.
In Val Brembana abbiamo
camminato, mangiato, bevuto, cantato, ma soprattutto
abbiamo discusso con Berla-
to, con Marcandalli e con altri
amici, cercando di chiarirci le
idee sul presente e sul futuro
dei Seniores.
Il numero dei partecipanti in
Val Brembana, arrivati con
pullman ed auto era impressionante e dava un’idea forte
dell’importanza ormai acquisita dai seniores nel CAI.
Il 24 agosto Maurizio Guglielmi e Paola Cavallin, come
Gruppo Veterani di Padova,
hanno partecipato a Verona
ad un incontro dei rappresentanti dei Gruppi Seniores del
Triveneto, incontro voluto da
Gian Pietro Berlato per preparare il 1° Convegno Nazionale (7° Convegno Lombardo)
dei Seniores che si terrà il 23
ottobre prossimo a Bergamo.
A questo convegno Berlato
farà una relazione sui gruppi
senior del triveneto ed aveva
quindi la necessità di raccogliere dati sulla realtà: quanti
siamo, cosa facciamo, che
problemi abbiamo, cosa vogliamo ecc.
Erano presenti a Verona, generosamente ospitati (pranzo
compreso) nella sede CAI Verona, rappresentanti di Bassano, Merano, Padova, Treviso e Verona Cesare Battisti,
una quindicina di persone.
Presiedeva Berlato. Si è parlato, ovviamente, molto del
convegno di Bergamo, ma soprattutto è stata un’ulteriore occasione per conoscersi
meglio e socializzare fra noi.
Ognuno ha presentato il proprio Gruppo, la propria storia, l’attività, le iniziative, i
problemi.
Molti di questi sono comuni a
94
tutti, altri si diversificano per
vari motivi.
In particolare noi godiamo di
un’autonomia organizzativa
ed operativa in sede alla nostra sezione, in quanto riconosciuti come commissione
dal Consiglio direttivo di Sezione.
Riteniamo molto preziosa
questa nostra autonomia
che è frutto di vari fattori e di
coincidenze fortunate, dovuta
soprattutto da chi ci ha preceduto nella conduzione del
gruppo ed in particolare dalla
fiducia e simpatia di Armando Ragana – Presidente della
Sezione CAI Padova - che con
altri amici ha fondato il gruppo e che ci ha sempre capiti
ed aiutati e mai interferito
negativamente nella vita del
gruppo.
Alla fine della giornata veronese ci siamo lasciati con
l’impegno che quel primo
incontro deve essere l’inizio
di una collaborazione persistente fra i gruppi seniores
del triveneto.
L’idea è di costituire una commissione di coordinamento
del Triveneto della quale dovrebbero far parte almeno
due rappresentanti per ogni
gruppo senior.
Ora siamo in attesa del convegno di Bergamo.
L’impressione è che molte cose bollano in pentola
e che il futuro sarà ricco di
novità. Speriamo siano novità buone!
A cura del Direttivo del
Gruppo Veterani CAI Padova
ricordiamo
Antonio "Nino" Portolan
Nei giorni in cui questo notiziario stava per andare in
stampa abbiamo appreso
la triste notizia della morte di Antonio Portolan.
Nino, come lo chiamavano
gli amici, aveva 71 anni ed
era da tempo malato di un
male che non lascia scampo, nemmeno ai più forti
come lui.
Fino all’ultimo giorno ha
lottato da leone contro il
male, come del resto era
nel suo DNA.
Roveretano di origine, si
avvicinò all’ambiente padovano agli inizi degli anni
’70.
Fu socio della nostra sezione e Istruttore di Alpinismo della Scuola “Piovan”
sino al 1975 col titolo di
Istruttore Nazionale.
Poi “emigrò” nella Scuola
di Alpinismo del C.A.I. di
Venezia, dove diresse alcuni corsi di roccia, sino a
che per lavoro si trasferì
con tutta la famiglia negli
Stati Uniti.
Tornato dopo alcuni anni
in Italia appese le scarpette al chiodo, ma continuò
sino alla fine a salire le
sue montagne alla ricerca
di nuove emozioni.
Alpinista forte e determinato si avvicinò all’alpinismo quando ancora era
studente a Padova.
Il suo primo maestro fu
quel Gianni D’Este, spesso da lui nominato, che
più avanti lo porterà a conoscere e frequentare il
gruppo dei “Pell e Oss” di
Monza di Nando Nusdeo e
Iosve Aiazzi.
Questo incontro gli aprirà
le porte alla scoperta di
nuove montagne e di nuove avventure in giro per il
mondo, Groenlandia e Sud
America compresi.
Per quanto ci riguarda più
da vicino, il suo nome resterà legato alla spedizione “Città di Padova” del
1975, guidata da Toni Mastellaro, al Cerro Mercedario (6776 m) nelle Ande
argentine.
Al di là delle brutte polemiche che ne seguirono e mai
del tutto chiarite, a Nino si
devono indiscutibilmente
due meriti: il primo di aver
vinto con la guida fassana
Almo Giambisi l’inviolata
parete est del Cerro Mercedario e il secondo
di aver soccorso
e forse salvato la
vita, rischiando la
propria, tre compagni di spedizione in difficoltà
e bloccati da più
giorni sulla stessa parete di neve
e ghiaccio da lui
appena salita.
Nel 1976 si unisce
alla spedizione dei
“Pell e Oss” nella catena andina
boliviana e oltre
al Chachacomani
(6040 m), obiettivo principale della
spedizione, scala
quattro cime inviolate.
95
Una di queste sarà chiamata “Cima Padova”- 5280
metri.
A Mariarosa, la sua compagna che ha vissuto con
lui questi ultimi anni condividendo sino in fondo le
sue passioni per la montagna, per la natura e per
i fiori, ai suoi figli Silvia e
Marcello e a Gianna, un
forte abbraccio, sincero ed
affettuoso.
Nino non potrà mai essere
dimenticato.
Se non altro per quella
montagna nelle Ande boliviane da lui dedicata a
Padova.
Sergio Carpesio
ricordiamo
Livio Bolzonella
fondatore e direttore del coro del CAI di Padova
Eccoci qua, questa volta
per salutarti caro “LIVIO”,
nostro grande “Meister”,
grande figura dotata di
raffinatissima
sensibilità musicale ed artistica,
sempre alla ricerca della
più sofisticata perfezione. Le tue capacità le hai
messe a disposizione di
un gruppo di giovani, allievi della scuola di roccia e
così nacque il “Coro” da te
fondato nel lontano 1944,
che si riuniva per le rituali
prove settimanali nei locali della tua abitazione e
della tipografia, anch'essa
lustro di Padova per aver
fondato il “Messaggero di
Sant'Antonio”.
Non è semplice spiegare
con poche parole il livello raggiunto dal coro con
il tuo contributo, anche
definendolo elevatissimo
e nominando i prestigiosissimi premi conquistati
(basti ricordare che nel '53
vince il Concorso naziona-
le dei cori di montagna con
la giuria composta dai più
importanti maestri del teatro La Scala di Milano e
nel 2004 vince il IV festival dei cori della provincia
di Padova), le trasferte in
giro per l'Italia e l'Europa,
rammentando la vastità
del repertorio e illustrando il trasporto esecutivo
che da sempre oltre a stupire l'ascoltatore ne coinvolge il cuore.
Sei stato il grande trascinatore del coro, eri dotato
di un grande carisma e hai
speso la vita per il coro;
credo di non esagerare se
dico che vivevi per il coro
sacrificando talvolta altri
affetti.
Ricorderemo sempre i tuoi
inimitabili falsetti, i tuoi
gorgheggi, i tuoi assolo, i
tuoi rintocchi delle campane (indimenticabile “Stille
Nacht” a Venas di Cadore). Ora ci hai lasciati nelle
mani esperte di tuo figlio
96
Alberto, al quale hai lasciato la direzione qualche
anno fa. Te ne sei andato
lassù a dirigere i nostri ex
coristi che sono abbastanza numerosi.
Ti ringraziamo di tutto
caro Livio, cercheremo di
fare tesoro di tutti i tuoi
insegnamenti, e … ti preghiamo: Livio, da lassù veglia su di noi, veglia sul tuo
coro.
Ciao Livio!