festa sociale 2010
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FESTA SOCIALE 2010 Il Presidente e il Consiglio Direttivo della Sezione è lieta di invitare Soci e simpatizzanti del CAI Padova alla tradizionale Festa Sociale: DOMENICA 12 DICEMBRE RISTORANTE AL CAMPANILE di Ronchi di Villafranca (in centro al paese) Ore 12,30 Ore 15,00 Ore 15,30 Ore 16,00 Ore 16,30 PROGRAMMA Pranzo Sociale con menù dedicato Esibizione del Coro del Cai di Padova Premiazione Premio Marcolin Premiazione Soci cinquantennali e venticinquennali Proiezione del film "I mati de le corde" In una sala attigua si potrà ammirare l'esposizione: 45 ANNI DI STAMPA SEZIONALE a cura della Redazione del CAI Padova Sarà possibile consultare i Notiziari e le altre testate pubblicate dalla nostra Sezione dal 1964 ad oggi. Dalle 15,30 alle 17,30 Animazione per bambini a cura di Fabio Della Casa Truccabimbi, giochi di gruppo, giocoleria, giochi di ballo, sculture di palloncino Il pranzo va prenotato alle segreteria della Sezione entro venerdì 10 dicembre. Vi aspettiamo numerosi! CLUB ALPINO ITALIANO - Sezione di Padova Galleria S. Bernardino, 5/10 - Tel. 049 8750842 - [email protected] sommario Club Alpino Italiano Sezione di Padova 4 Cronache 1° International Trad Climbing Meeting; Arrampicata TRAD(izionale). Il Convegno CAAI a Ceresole Reale; La nostra Mergherita alp(INA); Il Progetto Montagna Amica 14 Dialoghi Pensando ad Adriana Valdo 16 Diario Alpino Storia e storie sulle Grandes Jorasses; Toni Gianese e le Grandes Jorasses; Una traccia sul lenzuolo bianco; In due sulla Cresta des Hirondelles; Quando mi parlarono del Ladakh; Verticali di calcare; Con 3 piedi sul San Matteo; Valle dell'Orco; Pilier Gervasutti; Iran: tra trekking d'alta quota e turismo nell'antica Persia; Giro del Monviso 9-11 luglio 2010 65 In libreria 66 Itinerari Alpini Week-end "plaisir" in Svizzera 72 Alpinismo Giovanile Relazione Accompagnatori; A diventar Grandi si inizia da Piccoli; Trekking sull'Alta Via n. 1 82 Commissione Ecursionismo Bilancio del XII Corso di Escursionismo; XII Corso di Escursionismo Avanzato 86 Scuola di Alpinismo Il 7° Corso di Alta Montagna; Corso di Alta Montagna 2010; 42° Corso di Alpinismo 94 Gruppo Veterani I Veterani di Padova incontrano gli altri gruppi seniores 95 Ricordiamo Antonio "Nino" Portolan; Livio Bolzonella SEMESTRALE SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI 35121 Padova - Gall. S. Bernardino, 5/10 Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected] Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06 DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi COORDINAMENTO: Francesco Cappellari COMITATO DI REDAZIONE: Renato Beriotto, Federico Bernardin, Giuliano Bressan, Daniela Grigoletto, Luigina Sartorati, Caterina Secco, Tonino Tognon, Leri Zilio, IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa IN COPERTINA: 45 anni di Stampa Sezionale 3 3/2010 cronache di Giuliano Bressan 1° International Trad Climbing Meeting Valle dell’Orco Si è svolto sulle mitiche pareti della valle dell’Orco dal 19 al 25 settembre il 1° International Trad Climbing Meeting, organizzato dal Club Alpino Accademico Italiano; una settimana ideata e organizzata allo scopo di favorire lo scambio di esperienze fra arrampicatori di tutto il mondo e valorizzare la scalata “trad” in valle. Molto diffuso in Gran Bretagna questo stile di arrampicata “tradizionale" permette, nelle varie fasi di assicurazione e di progressione, l’utilizzo esclusivo di nut, di friend e al massimo di qualche chiodo, ancoraggi che vanno successivamente recuperati per lasciare rigorosamente la via e la parete pulite; niente spit quindi o altre protezioni che rimangono sulla roccia. Le grandi pareti della valle dell’Orco e di tante altre strutture di bassa valle, rappresentano senza dubbio il terreno e il palcoscenico ideale per il ritorno a questo stile di scalata che a dispetto del nome è tutto fuorché vecchio: “tradizionale” ma non “tradizionalista”. Non bisogna scordare che su queste severe, granitiche strutture è nato all’inizio degli anni settanta il “Nuovo Mattino”. Sull’onda della contestazione sessantottina che influenzò anche l’alpinismo, seppure con qualche anno di ritardo rispetto alle rivolte studentesche, questa nuova corrente, generata in un clima di rottura, pose fine ai codici di comportamento, alle gerarchie, agli steccati che condizionavano l'alpinismo. Su tutto prevalevano il piacere e il gusto dell'arrampicata fine a se stessa: non aveva quindi più valore la lotta con l'Alpe e la conquista della cima. Il nuovo movimento alpinistico prese il nome di "Nuovo Mattino", dal titolo di un articolo di Gian Piero Motti sulla "Rivista della Montagna";. Questo suo breve scritto, tratto dalla vecchia guida della Valle dell’Orco (Tamari Editori), 4 ne rappresenta sinteticamente il manifesto e il pensiero: " ...sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre maggiormente quella nuova dimensione dell'alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un'atmosfera gioiosa, con l'intento di trarne, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un'attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a favore della sofferenza..." Sulla scia del mito californiano della Yosemite Valley, un'ampia schiera di arrampicatori, molti di essi torinesi, aprì in valle dell’Orco una serie di itinerari per i tempi (anni settanta), futuristici; non a caso la valle dell'Orco era definita la "Yosemite Valley del Piemonte". Personaggi del livello di Motti, Kosterlitz, Grassi, Manera (solo per citarne alcuni!), si cimentarono nell'aprire itinerari storici, seguendo le numerose linee logiche e mai banali presenti in queste magnifiche pareti, ribattezzate con nomi, come ad esempio il Caporal e il Sergent, che si riconducono al modello americano. Trascorsi gli anni settanta e ottanta il Nuovo Mattino è tramon- cronache tato con le sue utopie e contraddizioni, diventando ormai oggetto di storia. Tornando in valle dell’Orco, sono passati ormai quasi quarant’anni dalla scoperta delle sue severe pareti; tutto passa, ma negli ultimi anni nuove generazioni di arrampicatori inglesi, francesi e tedeschi hanno riscoperto dopo periodi di abbandono uno dei più bei posti di arrampicata in Europa. Il fascino di questa valle sta forse nella sua storia in permanente bilico fra oblio ed esaltazione. “Il Club Alpino Accademico è uscito dai luoghi comuni che lamentano la scarsità di iniziative per valorizzare la scalata Trad in Valle, e con un enorme sforzo organizzativo dei suoi volontari e il concreto aiuto degli sponsor, ha organizzato un meeting sul modello di quelli che si svolgono da anni in Gran Bretagna e negli USA”. Al meeting hanno partecipato 46 arrampicatori, provenienti da ben 14 paesi di tutto il mondo, designati dalle maggiori organizzazioni di alpinismo e arrampicata; l’Italia era rappresentata, solo per citare qualche nome, da Alessandro Gogna, Manrico Dell’Agnola, Rolando Larcher, Michele Caminati, Mauro Calibani e Roberto Vigiani. Con base operativa a Ceresole Reale i vari parte- cipanti, coordinati dagli accademici Mauro Penasa, Claudio Picco, Andrea Giorda, Maurizio Oviglia, hanno nelle varie giornate arrampicato fra loro, ripetendo le vie classiche e aprendo nuovi itinerari, toccando con mano le ultime tendenze emerse in valle in fatto di arrampicata trad e non. Nella sala polivalente dell’ex Grand Hotel il programma prevedeva inoltre una serie di incontri di grande interesse aperta a tutti. In occasione del meeting era stato infine organizzato un’Open Day sui massi del Caporal, proprio alla base della famosa parete, una giornata aperta a tutti, cui erano stati invitati diversi forti arrampicatori e boulderisti; lo scopo non era certo di fare una competizione ma piuttosto di arrampicare tutti assieme, forti e meno forti per confrontarsi sul granito della valle dell’Orco. Maurizio Oviglia, cui era stata affidata dalla direzione del meeting l’organizzazione di questa giornata, ha lavorato più di un anno su questo progetto aprendo e sistemando allo scopo più di trenta monotiri. Purtroppo le condizioni meteorologiche, sin’ora ottime, si sono proprio guastate nella giornata di venerdì, costringendo gli organizzatori a sospendere l’incontro, ripreso 5 però seppure in parte il sabato mattina con il ritorno del bel tempo. Il meeting, una vera e propria festa dell’arram- picata, ha riscontrato un notevole successo e si è concluso con il convegno nazionale del Club Alpino Accademico che aveva ovviamente come tema l’arrampicata Trad. Giuliano Bressan cronache di Francesco Cappellari ARRAMPICATA TRAD(izionale) Il convegno CAAI a Ceresole Reale In occasione del Meeting Internazionale di arrampicata “Trad” tenutosi in Valle dell’Orco, il Club Alpino Accademico Italiano ha organizzato il suo convegno annuale, questa volta a Ceresole Reale. Il convegno, proprio per l’occasione, è stato allargato a tutti gli alpinisti partecipanti al meeting ed ha avuto come ospiti illustri alcune tra le più spiccate personalità del mondo della montagna e della specialità di cui si andava a discutere. l’accento proprio sul nuovo termine coniato. È seguita una succosa relazione da parte di Lindsay Griffin, alpinista e giornalista inglese, sulla storia dell’arrampicata dal 1970 ad oggi. “Il “Trad” è un movimento che arriva sulle Alpi dal Regno Unito dove gli arrampicatori, sia per etica, sia per la salvaguardia delle rocce non particolarmente robuste, scalano con il solo uso di protezioni veloci, quali nut e friend, anche alle soste. Il termine “Trad”, come stava proprio nel titolo del Convegno, sta per tradizionale. Si penserà quindi ad un semplice ritorno ai metodi e alle mentalità del passato, ma proprio per il fatto che quel “izionale” è stato messo tra parentesi i relatori e la platea hanno avuto modo di porre attenzione su molti temi di differenziazione. È chiaro che un’arrampicata di questo tipo presuppone un rischio maggiore ma, soprattutto dove non c’è un reale pericolo di vita, è anche di maggiore soddisfazione. Una controtendenza rispetto ai metodi usati negli ultimi anni sulle Alpi, soprattutto Occidentali, dove l’arrampicata super-protetta ha preso particolarmente piede. In Inghilterra vige una regola non scritta dove l’apritore di una via si assume la responsabilità del tipo di Ha aperto la discussione Marco Blatto che ha posto 6 chiodatura e i ripetitori si adeguano e rispettano la via senza aggiungere altre protezioni. Questo ha fatto in modo che si possano trovare in una stessa area di arrampicata itinerari di diversa concezione, dalla via “trad” a quella super protetta con fix e spit e i due diversi stili convivono pacificamente. Fino agli anni ’60 si usavano protezioni particolari come sassi circondati da un cordino, si incastravano i nodi stessi dei cordini oppure si utilizzavano semplici bulloni con cavi metallici rivettati. Si inventarono quindi i primi nut che permisero una protezione più sicura soprattutto sugli itinerari in fessura e l’etica arrampicatoria si rivolse quindi all’accettazione dell’uso del chiodo solamente alle soste anche se, man mano che le difficoltà aumentavano, sono stati fatti degli strappi alla regola. In realtà comunque è netta la sensazione che gli alpinisti di qualche decennio fa fossero più coraggiosi di quelli odierni. Sotto l’influenza francese, infatti, molti arrampicatori inglesi tornavano in patria attrezzando sempre più le vie a spit, portando una specie di regressione sull’etica fino ad allora adottata ma indubbiamente innalzando il limite delle difficoltà tecniche ad un livello mai raggiunto precedentemente. cronache Ora l’arrampicata sportiva viene utilizzata dagli scalatori di punta per poter salire di livello in arrampicata “trad”. Ma la verità è anche un’altra e sta nella consapevolezza che gli arrampicatori inglesi sono “matti”, probabilmente accettano una dose di rischio maggiore rispetto ai loro colleghi continentali. Se vogliamo cercare altre motivazioni le possiamo trovare sul tipo di roccia che si trova in Regno Unito, una roccia non molto abbondante (non ci sono poi così tanti siti), e di qualità non eccellente (in molti casi arenaria che si consuma con l’utilizzo dei chiodi classici) ma comunque con il vantaggio di poter utilizzare protezioni veloci. Chiude il cerchio etico il fatto che tutti hanno un grande rispetto per gli arrampicatori del passato e comunque di chi ha aperto un nuovo itinerario, tanto che indiscutibilmente non viene richiodato se non dopo il consenso dell’apritore.” Lindsay Griffin ha poi proseguito facendo un excursus storico sull’evoluzione degli ultimi anni. “Il crocevia dell’evoluzione degli ultimi 30 anni si è avuta quando un francese dal nome Michel Piola aprì nel 1980 una nuova via a spit sui Pelerins, nel gruppo del Monte Bianco. Gli diede il nome di “Nostradamus” proprio per significare che si trattava dell’inizio di un’evoluzione. La polemica si accese feroce ma è indubbio che fu un trampolino di lancio per una nuova concezione dell’alpinismo, o meglio dell’arrampicata in alta montagna. Si potevano ora guardare linee mai viste prima, non dover necessariamente seguire i punti deboli e logici di una parete. Si poteva percorrere itinerari di placca prima improteggibili. Dopo “Nostradamus” l’arrampicata non è stata più la stessa. Questa rivoluzione, soprattutto nel gruppo del Monte Bianco, ha permesso la discesa lungo lo stesso itinerario in quanto le soste stesse venivano attrezzate con spit e catene per le calate. Conseguentemente non era più necessario arrampicare con gli scarponi, che fino ad allora erano necessari per poter scendere dalla via normale, magari con neve e ghiaccio. Si cominciò ad arrivare alla base delle pareti con i materiali da ghiaccio, per poi cambiarsi 7 le calzature e l’abbigliamento. Ci si cambiava in pratica anche la mentalità. Si sapeva che per qualsiasi problema (cambiamento del tempo, difficoltà troppo elevate, stanchezza) si poteva ritornare sani e salvi alla base. E l’uso delle leggere scarpette d’arrampicata fu valutato, dal mondo conservatore, come mezzo sleale verso gli itinerari di alta montagna. Era nata la cosiddetta arrampicata “plaisir”. Un esempio è quanto accaduto sulla Ovest delle Petit Jorasses. Per saire la classicissima via di Contamine si doveva letteralmente attraversare la montagna con le conseguenti complicazioni legate ad una pericolosa discesa in corda doppia (fino a metà del secolo scorso la discesa in corda doppia era l’ultima ratio da prendere in considerazione). Negli anni ’90 Piola aprì “Anouk” e tutto cambiò. Da qualsiasi punto della via classica si poteva attraversare e scendere per la via moderna che ha le soste attrezzate a spit. È indubbio che da allora è cronache cambiato di gran lunga il tipo di impegno. Altro aspetto da considerare è: dove finisce la via? Alla fine delle difficoltà tecniche o in cima? Pensiamo al Supercouloir al Mont Blanc du Tacul. Da quando sono state attrezzate le doppie tutti scendono dalla fine delle difficoltà. C’è da dire che nessuno si è particolarmente arrabbiato, diciamo ha fatto comodo a tutti… In pratica continuiamo a cambiare l’obiettivo cambiando anche il contorno, il modo di raggiungerlo. Facendo un altro esempio, nel 1965 Bonington e Harlin salirono il pilastro di destra del Brouillard fino alla fine delle difficoltà. Avrebbero voluto continuare per la cresta fino alla cima del Monte Bianco ma a causa di una tempesta improvvisa furono costretti a rientrare. Fu loro riconosciuta la salita ma uno dei quattro (Beley) si chiese: ma abbiamo veramente finito la via? Questo creò un precedente e nel ’73 tornò con altri e si alzò un po’ di più pensando di averla così completata. Sta di fatto che in realtà non esistono regole in alpinismo. Ognuno si crea gli obiettivi a propria misura. È necessario però codificare i comportamenti per proteggere il cuore dell’attività. I motivi sono e saranno sempre personali ma il modo con cui arrampichiamo è giusto sia condiviso da criteri comuni. Non lasciare tracce, salire sempre più nelle difficoltà con minor attrezzatura è definito alpinismo progressivo. L’eterno problema consiste che viviamo in un mondo sempre più arrivista dove l’importante è raggiungere il risultato tralasciando molte volte il metodo utilizzato. La bella esposizione, accompagnata da fotografie, ha lasciato il posto ai commenti di Alessandro Gogna, noto alpinista della fine del secolo scorso ed ora fulgido critico e storico. “Il libro che ho scritto nel 1981 “100 nuovi mattini” faceva molte profezie ma le ha cannate tutte. Parlava di “ri-creazione”, cioè che si sarebbe assistito ad un’epoca di pulizia tornando ad attrezzare le vie come erano state aperte, ma non è stato proprio così. Si è, anzi, sviluppata l’arrampicata sportiva. Ora ci sono molti auspicabili segnali che qualcosa sta cambiando nel senso opposto. D’altro canto l’alpinismo da quando è nato è a onde, vive di alti e bassi e di contrapposizioni, senza per questo dare un’accezione negativa alla parola “basso”. Le epoche di Preuss con l’arrampicata in libera, addirittura senza l’uso della corda può essere definita l’onda 8 positiva e quella di Fichtl, Dülfer e Dibona con un buon uso di chiodi come onda negativa. Si è vissuto in seguito l’antagonismo tra Occidentali ed Orientali e ancora l’era dell’artificiale a goccia d’acqua con l’uso dei chiodi a pressione e quella della libera a tutti i costi. Da una parte, grazie alla grande spettacolarizzazione, l’artificiale era legittimato dai media che davano molto spazio come ad esempio per la via Colibrì in Lavaredo, ma dall’altra fu considerato da alcuni una specie di autogol in quanto così facendo qualsiasi parete diveniva possibile con la cessazione del “gioco dell’alpinismo”. In questo contesto Messner denunciava l’assassinio dell’impossibile mentre più a Est Enzo Cozzolino dimostrava con i fatti che esisteva un altro modo di fare alpinismo, fatto di vie nuove aperte in arrampicata libera con uso parco di chiodi. Queste contrapposizioni forniranno entrambe grandi realizzazioni ed è indubbio che l’uso dei chiodi ha permesso un’evoluzione tecnica che altrimenti non ci sarebbe stata. Pensiamo ad esempio a Cassin che salì la Torre Trieste, il Badile e le Grandes Jorasses. È indubbio che senza l’uso dei chiodi di protezione, e a volte di progressione, non cronache sarebbe riuscito in tali imprese. Cassin inoltre con la sua opera si può considerare il primo globalizzatore nella storia dell’alpinismo. Un’ulteriore contrapposizione degli ultimi 30 anni si vive a chiare lettere in Himalaya. Si è passati dalle grandi spedizioni allo stile alpino, dai gruppi formati da 20 o 30 alpinisti a gruppetti di quattro o sei persone che in modo leggero, senza ossigeno e senza l’uso di portatori d’alta quota riescono in difficilissime realizzazioni. Di fronte, contemporaneamente, vediamo le spedizioni commerciali che attrezzano la via all’8000 con una fila di corde fisse simili a ferrate e fanno trovare pronti i campi bene allestiti con le bombole di ossigeno al posto giusto per un cliente sempre più esigente perché ha sborsato denaro. Ed infine, tornando alle pareti di casa, si vive oggi la contrapposizione tra arrampicata sportiva, o “plaisir, e il “trad” inteso come creatività nell’attrezzarsi e proteggersi la salita. E quindi vengo all’importanza di questo meeting che ha finalmente ridato dignità all’alpinismo, quello dove è contemplata la componente rischio. Per contro mi viene da proporre all’arrampicata “plaisir” il nuovo nome di “admin climbing” cioè l’unica arrampicata che certi amministratori locali oramai ammettono sulle pareti del loro territorio. Naturalmente la provocazione vuole risvegliare la coscienza degli alpinisti che una volta di più devono difendersi dagli attacchi verso la libertà di un gioco quale l’arrampicata è. È seguito un intervento di Eric Svab che, illustrando con parole ed immagini la sua attività “trad”, ha posto l’accento sul rispetto da dare agli apritori di una via. Chi vuole affrontare certi itinerari deve essere consapevole della difficoltà e del relativo rischio e quindi dovrà prepararsi ed allenarsi, sia fisicamente che tecnicamente, in modo adeguato senza lasciare nulla all’improvvisazione. Il gioco potrebbe costare molto caro. L’intervento di Maurizio Oviglia, grande chiodatore e spittatore della Valle dell’Orco come pure di molte pareti della Sardegna, è andato ad interessare i flussi storici che esso stesso ha vissuto. Ora che si torna a rivivere un flusso tradizionalista si dice in difficoltà per la chiodatura, a volte eccessiva, praticata sulle sue pareti. Ma, si chiede: “è giusto ora schiodare tutte quelle vie dove ci si può proteggere in modo veloce oppure potrà essere rispettata l’etica del momento in cui le 9 vie in questione sono state aperte?”. L’argomento ha aperto un animato dibattito tra gli intervenuti come quello di Ugo Manera (“ma noi aprivamo senza spit e tanti chiodi e quindi possiamo dire che già noi negli anni ’60 arrampicavamo in trad”) o quello di Maurizio Carcereri (“sono d’accordo in un’evoluzione verso la tradizione ma stiamo attenti a non cambiare le carte in tavola senza dare informazione. L’importante è lasciare l’esistente nelle condizioni attuali altrimenti ci troveremmo ad assistere al rischio che gli arrampicatori si trovino la via inaspettatamente sprotetta”). Ha completato il quadro degli interventi il famoso arrampicatore “trad” Tom Randall, un giovane inglese specializzato nell’apertura di nuove linee nel puro stile. Le sue peregrinazioni gli fa preferire la Valle dell’Orco rispetto a Yosemite in quanto “nella valle italiana ci sono, incredibilmente, ancora tanti problemi da risolvere e l’avventura su una nuova via trad per me è ben più importante di 100 vie famose e blasonate”. Francesco Cappellari cronache di Leri Zilio La nostra Margherita alp(INA) Il guerriero Margot ha superato anche le ultime selezioni, e ora è Istruttore Nazionale di Alpinismo, titolo difficile ed ambito di cui possono fregiarsi solo poche donne in Italia. È una “prima” anche per la Scuola del CAI di Padova, perché mai nella sua lunga e gloriosissima storia ci fu un esponente del gentil sesso che raggiungesse un tale risultato. Ora è accaduto, ed è bello e significativo che la rivoluzione l'abbia portata Margherita Michelotto, una donna entusiasta e tenace, con un cuore ed una grinta grandi come una casa. Lei non è certo una novizia all'interno della Scuola, perché sono molti anni che partecipa come istruttore ai corsi che vengono organizzati. Tutti ormai conoscono quel furetto agile che sale rapido per ogni dove, e Rocca Pendice non sarebbe più la stessa se non vi risuonasse il nome Margot chiamato da più parti. Ora che è mamma, è un po' meno assidua, ma appena pargolo e lavoro lo permettono scorribanda imperterrita a più non posso. La sua è sempre stata una vita in salita. Ha lottato intrepida contro molte difficoltà, conquistandosi le cose con la ferocia positiva delle sue sole forze. Ma nonostante le sberle subite, e da lei comunque subito restituite, non ha mai perso la sua carica vitale ed ottimista. Sono proverbiali la sua energia e il suo entusiasmo, non solo per la montagna ma per la vita tutta. Curiosissima, appassionata di cinema e letteratura, predilige i grandi russi (Tolstoj e Dostoevskij), l'incommensurabile Primo Levi, la sofisticata Marguerite Yourcenar. Grande è anche la passione per la storia dell'alpinismo, molla e stimolo che la portano in montagna a ripercorrere le vie classiche sulle orme dei grandi del passato. Il suo è un alpinismo a 360° perché, pur prediligendo la roccia, non disdegna gli itinerari d'alta montagna, le cascate e lo sci alpinismo. Tra le molte ascensioni da lei realizzate, mi piace ricordare la cresta Kuffner sul Mont Maudit 10 con il compianto amico Albano Giacomini, e ancora sul Monte Bianco la cresta di Rochefort e la nord della Tour Ronde. In Dolomiti le ascensioni sono molteplici, con classicissime come lo spigolo nord dell'Agner, la “Don Chisciotte” in Marmolada, la “Steger” in Catinaccio, la “Frish-Corradini” sulla Pala del Rifugio e la “Preuss” sul Campanil Basso. Io ho il ricordo vivissimo di una nostra avventura sulla Pala di Socorda nei Dirupi di Larsec. Era ottobre, la giornata molto corta ci costrinse a un bivacco imprevisto sulla cima dopo aver percorso la “Schubert” sulla parete sud. Fu una notte lunga e fredda. Non avevamo né cibo né sacco da bivacco, ma Margherita fu stoica come uno spartano. Brontolò per un po' e mi cazziò ben bene anche, ma poi il giorno dopo, riscaldata da un bel sole, si ritrovò felice di questa esperienza. Un bivacco in pieno autunno non è cosa di tutti i giorni. Un'esperienza forte che ti lascia una gioia e un'euforia difficilmente spiegabili. Durante la discesa tornò ad essere radiosa e ciarliera come al solito, svelta e veloce, colmo l'animo di quelle sensazioni rudi e forti che solo la montagna può dare. Leri Zilio cronache di Francesco Cappellari Il Progetto Montagna Amica Così è chiamata la nuova iniziativa partita dalle Scuole Venete Friulane Giuliane volta ad informare il popolo degli utenti della montagna affinché siano consapevoli dei pericoli insiti nella frequentazione di tale ambiente. In particolare ci si rivolgerà alla collettività con strumenti e tecniche in uso per: • la progressione in sicurezza • l’autosoccorso • il soccorso organizzato promuove la collaborazione con i vari Enti più significativi e sensibili che si occupano della sicurezza in ambiente montano per stabilire insieme le linee guida comuni da applicare ai progetti che si articolano a livello regionale, impegnando direttamente nell’organizzazione e gestione delle iniziative i corrispondenti Organi Tecnici Periferici del CAI e le strutture decentrate delle organizzazioni e degli enti di carattere nazionale. Si tratta di un’attività informativo-formativa ad ampio spettro, lunga ed impegnativa, che richiede il coinvolgimento dei vari organismi competenti facenti capo al nostro Sodalizio e agli Enti ed Organizzazioni che perseguono le medesime finalità, promuovendo la collaborazione tra essi. Il progetto mira ad offrire un segnale positivo in contrasto con la tendenziale comunicazione negativa offerta dai media ed è denominato: “MONTAGNA AMICA”. IL TARGET Dai dati elaborati dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico si rileva che il 95% degli incidenti in montagna coinvolge persone che non sono soci CAI. Questo significa che la grande maggioranza dei frequentatori della montagna non transita per le strutture formative del CAI ed è quindi necessario promuovere e sviluppare una campagna informativa e di sensibilizzazione dedicata al grande pubblico. Il progetto sarà quindi indirizzato all’ampio bacino d’utenza dei frequentatori della montagna, mirando a coinvolgere tutti i soggetti interessati alle varie discipline amatoriali e sportive che si svolgono in montagna attraverso l’attività di informazione e formazione e la gestione di eventi locali gestiti dai titolati volontari del CAI e dagli altri soggetti qualificati appartenenti alle Organizzazioni che concorrono all’attuazione del progetto. SOGGETTI PROMOTORI Il Club Alpino Italiano attraverso questa iniziativa intende promuovere una vasta campagna di sensibilizzazione ed informazione a livello nazionale sul tema della prevenzione degli infortuni in ambiente montano. Il CAI, con le sue 491 Sezioni presenti sull’intero territorio nazionale dotate di organi tecnici qualificati cui sono affidati dalla legge e dallo Statuto i compiti di formazione e prevenzione nella frequentazione della montagna, si propone come presidio permanente, attivo tutto l’arco dell’anno, a favore di una frequentazione della montagna in sicurezza. PRIMA FASE Dall’11 dicembre 2010 al 31 gennaio 2011 “PREVENZIONE E SICUREZZA IN AMBIENTE INNEVATO” SOGGETTI PROMOTORI • Club Alpino Italiano: GR – Raggruppamenti Regionali CNSASA Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo, Sci Alpinismo, Arrampicata Libera, Sci Fondo Escursionistico A livello nazionale il Club Alpino Italiano, attraverso i propri organismi preposti alla prevenzione ed in collaborazione tra loro, indica le caratteristiche del progetto e 11 cronache SVI – Servizio Neve e Valanghe del CAI • AINEVA – Associazione Nazionale Neve e Valanghe • Collegi Regionali Guide Alpine • Collegi Regionali Maestri di Sci • Comitati Regionali FISI • Servizi Regionali Neve e Valanghe • Soccorso Alpino del Corpo Forestale dello Stato • Soccorso Alpino della Guardia di Finanza in generale, del rischio di frequentazione della montagna in ambiente innevato; lo scopo principale è quello di creare sensibilità, ovvero, accrescere la consapevolezza dei rischi e dei limiti personali. L’iniziativa si rivolge a tutti i frequentatori della montagna invernale, siano essi sci alpinisti, sciatori (in pista o fuoripista), escursionisti a piedi o con le racchette da neve, snowboarder, etc. Si intende pertanto raggiungere un pubblico più vasto, esterno all’ambiente del CAI, che possiede poca o nessuna conoscenza in materia di rischio valanghe. In questo senso, i promotori si impegnano ad attivare tutti i canali e i mezzi a loro disposizione per colmare tale lacuna. PREVENZIONE E SICUREZZA IN AMBIENTE INNEVATO UTENZA A CUI SI RIVOLGE Il primo appuntamento ha ad oggetto la prevenzione del rischio valanghe e, più La Sezione di Padova del Club Alpino Italiano, nell'organismo della Scuola di Alpinismo F. Piovan, risponde prontamente all’importante iniziativa organizzando una serata dal titolo: PREVENZIONE INCIDENTI IN VALANGA Relatore: Edoardo Usuelli – Comandante Stazione Soccorso Alpino della Guardia di Finanza del Passo Rolle VENERDÌ 17 DICEMBRE ORE 21,00 SALA DIEGO VALERI – Via Diego Valeri, Padova INGRESSO LIBERO Per l'anno 2011 la Scuola di Alpinismo F. Piovan organizza il 43° CORSO DI SCIALPINISMO SA1 Le domandi di iscrizione si riceveranno dall'1 al 3 dicembre 2010 dalle 18,00 alle 19,30 presso la Sede Sociale. 12 Nota dalla Redazione: Il seguito alla pubblicazione nello scorso notiziario del resoconto a firma di Federico Battaglin “Marmolada parete Nord. Discesa con gli sci” la redazione sente il bisogno di esprimere un chiarimento. Una rilettura più attenta al contenuto di alcuni brevi passaggi, ove l'autore non dimostra rispetto per il proprio compagno, richiede di ribadire che il notiziario sezionale è espressione di un movimento che propugna sentimenti e valori quali la fraternità, la pari dignità e il profondo rispetto fra compagni, ritenendoli elementi fondamentali nella pratica alpinistica in comune. Sul notiziario del Cai Padova sono sempre stati pubblicati - salvo doppioni o materiali chiaramente fuori tema - tutti gli scritti inviati dai soci, all'insegna di un costruttivo scambio delle esperienze e dei pensieri che animano il mondo dell'alpinismo. Alla luce di questo episodio, tuttavia, si ritiene necessario vigilare maggiormente su eventuali posizioni che potrebbero indurre perplessità sui fondamenti dello spirito associativo, riservandoci di contattare gli autori dei contributi per segnalare le incongruenze con quanto sopra ricordato e, nel caso, di intervenire. Ciò è da parte nostra dovuto nei confronti del bagaglio morale e culturale appreso e condiviso e del nostro compito di diffonderlo, con questo ed altri mezzi. Per la Redazione, Giovanni Piva Importante La scadenza per la presentazione degli articoli da inserire nel prossimo Notiziario è il 20 maggio 2011. Onde evitare spiacevoli equivoci il materiale deve essere depositato presso la sezione nell’apposita cartellina preferibilmente su CD accompagnato da una stampa. Si prega di fornire testi in “word” e foto con didascalie a parte, nonché un recapito telefonico. Si può anche spedire via mail all’indirizzo: [email protected] dialoghi di Flavia Fodde Pensando ad Adriana Valdo Non è necessario avere un’approfondita conoscenza delle leggi che governano la materia per comprendere come sia possibile che più elementi dotati di una certa affinità chimica, combinandosi tra loro, diano origine ad un prodotto dalle caratteristiche sorprendenti. Gli esempi potrebbero essere molteplici, se solo li conoscessi, ma vista la mia ignoranza sull’argomento dò per buono e acquisito quanto affermato e lo considero come un postulato assunto solo per via intuitiva. Tuttavia, se ciò è vero con le singole microscopiche molecole, figuratevi cosa può accadere quando tre persone complesse tamente quella atleticamente più dotata. I muscoli rinforzati in kevlar, i polmoni di gore-tex le permettono di essere competitiva anche nei confronti della gran parte dei maschi che, sventurati loro, la affiancano nelle imprese sportive. Datele un obiettivo da raggiungere, una cima da scalare ed un qualsiasi mezzo per farlo, dalla bicicletta al monopattino passando per gli sci e le scarpette da running ed il gioco è fatto con agilità e senza tanto patire. Dotata di carattere bonario, sbrigativo e pratico, liquida qualsiasi questione dall’economico finanziario, allo sportivo amoroso, con la stessa facilità con la quale polverizza i dislivelli più impegnativi. Questa sua potenza ed efficacia di azione non intacca tuttavia nulla della sua femminilità soprattutto quando, inguainata in trasparenti tutine bianche da far crollare la mandibola ad un asceta, cavalca la sua bici provocando nel pubblico maschile una anomala emissione ormonale, che ovviamente li stronca. Unico suo insuccesso il giro vita di Lucio, ma contro il paranormale nulla è possibile. Il secondo elemento del composto è Lorenza o Lola o Fernanda, tre nomi d’ignota origine per chi invece meriterebbe di essere chiamata semplicemente Sorriso. Anche lei dotata di forza fisica e capacità polmonare notevole, trova però nella grazia il proprio punto di forza. Non esiste traversia o difficoltà sia alpinistica sia esistenziale, che Lorenza non sappia affrontare con lucidità e coscienza. La forza di carattere e la sua serenità le spianano i dislivelli più arditi portandola con il suo proverbiale sorriso in vetta. E non crediate che tanta grazia possa inficiarne la forza: guardatela mentre contrae un bicipite in arrampicata e capirete di doverle sempre il massimo rispetto alpinistico. Affidabile e coscienziosa cresce quattro figli, tre dei quali partoriti con biblico dolore ed il quarto consegnatole a circa vent’anni in affido permanente. Nonostante questo le e distinte si combinano mettendo assieme parte della loro energia e delle loro caratteristiche fisiche. Su questa materia sono più ferrata e ho giustappunto un esempio eclatante che chiamerò processo ELFOS ovvero Elena, Lorenza e Flavia on ski, uno spettacolo che vi incanterà. Una rapida descrizione degli elementi che danno vita al composto potrà meglio chiarirne l’eccezionale valore. Dei tre soggetti in questione Elena è cer14 dialoghi sue labbra non sono mai state sporcate dal turpiloquio e nessuno le ha mai sentito pronunciare “vaffanculopirla” quantunque, immaginiamo, abbia avuto più di un’occasione. Parlare del terzo elemento mi è un po’ più difficile giacché rappresenta l’io narrante, ma tenterò comunque una descrizione lucida e onesta utilizzando sempre la terza persona per mantenere il distacco necessario. Rispetto alle sue compagne Flavia è certamente quella meno dotata atleticamente o quantomeno ottiene performance che dipendono molto dalla quantità di ferro circolante nel suo sangue. La si potrebbe definire una donna a ciclo continuo (n.d.r. questa chi la capisce la capisce, non intendo spiegarla) che presenta muscoli e capacità polmonari più adatte ad una Gran Fondo di Uncinetto Punto Alto che ad una delle numerose cronoscalate alle quali l’amica Elena la sottopone. Nonostante sia cosciente che la natura sia stata per lei più matrigna che madre, non si sottrae a nessuna sfida alpinistica proposta, facendo così della caparbietà la propria nota caratteriale più evidente (il primo che sottintende testardaggine uguale stoltezza, lo stronco). Ora, si dà il caso che, durante una normale stagione scialpinistica questi tre elementi, per motivi del tutto casuali, incrocino i loro destini riuscendo così a trovarsi tutte e tre in vetta ad una montagna. La presenza dell’una per l’altra catalizza ed esalta le potenzialità e capacità sciistiche dei singoli soggetti a tal punto che, avendo a disposizione un pendio giustamente lavorato dal sole e dal freddo, il gruppo dà vita ad un gesto atletico capace di esprimere potenza ed eleganza come poche volte accade in natura. Eccole là, acquattate sul ciglio del pendio a scrutare dove la curva possa essere meglio condotta eseguendo traiettorie veloci e perfette. Osservano attente come felini pronti al balzo, tra di loro si guardano e poi via, una dietro l’altra, potenti, eleganti, tenaci. Saettano disegnando sulla neve arabeschi preziosi, descrivendo volute gentili, le braccia larghe quasi a voler prendere il volo. Si inclinano, scivolano, saltano come seguissero una linea già segnata. Ora morbide, ora nervose assecondando i capricci del terreno, domando le difficoltà e vincendole. Il cuore batte, i muscoli bruciano, le labbra si serrano. Via veloci danzando sino al fondo del pendio. Si fermano una vicina all’altra come fosse un’ala che si richiude per poi riaprirsi per un altro volo. E un altro ancora. Il gesto, preciso e potente, sottende la felicità che lo genera. Sono tre donne diverse, vivono vite diverse e diverse emozioni ma in quel momento la felicità è comune, il tempo è sospeso ed è questo che guida i loro corpi e grazie a questo non invecchieranno mai. Quando a settant’anni si fermeranno infondo all’ennesimo pendio, loro, guardandosi si vedranno come trent’anni prima sul Gran Paradiso. Flavia Fodde Queste riflessioni hanno preso spunto dall'incontro con l'Accademica del CAI Adriana Valdo che con i suoi 70 anni e più continua a praticare lo sci alpinismo. 15 diario alpino di Caterina Secco Storia e storie sulle Grandes Jorasses È amore, il più grande e terrificante che mi sia stato concesso di vivere. Un amore non codificato, senza regole, abitudini, quotidianità, convenzioni. Un amore che trascina al di là del tempo e dello spazio in una dimensione fatta di entusiasmo, allegria, sconcerto, risate, angoscia, desolazione, incanto. Perduto. È un amore che porta alla perdizione. Lo so. È la montagna. Quiete di vento e silenzio in una sera d'estate. Vedo le fronde degli alberi in controluce sul crinale del pendio. Sono sdraiata a terra e scrivo. A tratti. La mia mente è confusa, la concentrazione è scarsa e meccanica. Sento ancora la stanchezza di 14 ore di parete. La testa avulsa dal corpo si lamenta, abbandonata e accecata dal riverbero delle rocce. Le membra gridano la contraddizione brutale di un simile amore. Il movimento è cessato all'improvviso. Lo sforzo intenso e prolungato si è dissolto. La parete nord del Piccolo Màngart di Coritenza è un ricordo bruciante, un sogno ormai decomposto. Sopra le deserte vallate ormeggiate sul fiume procedono nuvole calme e regolari che scorrono verso la foce lasciando pallidi disegni sui campi. Lentamente volgo lo sguardo in lontananza all'immensità indefinita. “Scrivi di gente morta?”. “ Non sono morti”. “Sì, o è come se lo fossero”. Marco è beffardo e ha colpito. C'è attesa. Avrebbe aspettato ancora, naufragando nel silenzio. Il suo corpo è alle mie spalle e abbandona una lunga ombra davanti a sé. Rispondo senza vederlo. Il suo profilo sull'erba è inquietante. “Racconto la bellezza”. Non mi volto. L'orizzonte è 16 sempre più velato. So che mi guarda, vede ogni particolare. So che sorride. È una certezza. “Che cos'è?” La domanda è pacata, ma ha l'urgenza del comando. La risposta è secca e non ammette replica. Il gioco si fa sottile. “È tutto ciò che riusciamo a cogliere mentre sta passando. È l'effimero. Percepisci il bello di qualcosa quando ne vedi insieme la bellezza e la morte. Forse essere vivi consiste proprio in questo: cercare ripetutamente gli istanti che muoiono. È indifferenza, anche. Arriva dopo, alla fine di tutto. Ne sono sicura”. Intravvedo il porto che si avvicina e le luci intermittenti dei fari in piena notte, dopo la magnificenza e la crudeltà della burrasca in alto mare. È un uomo alto ed elegante. I suoi capelli sono folti e neri. Ha un corpo atletico, definito, sensuale. Anni di scalate, alte cime, ghiac- diario alpino ciai, viaggi, scorribande in moto nel deserto hanno fermato per lui il tempo. Gli occhi di un blu profondo, ironici e decisi, penetrano dentro di me con forza e mi lasciano esposta, annientata. È bello. Mi alzo e cammino sul crinale; mi volto verso il pendio che digrada bruscamente fino al fondovalle, là dove scorre il fiume. Più oltre è incertezza, un'immensità nebbiosa che si confonde e fa tutt'uno con la mia anima. Non posso non guardarlo. Ha l'aria sprezzante e dolcissima di chi sa che presto lo seguirò. È inevitabile che lo si faccia. Al limite del ragionevole. E lo si sa per sé soli. Non c'è nulla di scontato. È bene essere impeccabilmente indifferenti, nel successo e nella disfatta, nella gioia e nel dolore. L'unico modo per affrontare lo straordinario e allucinato mistero di questa vita. Rincorrere se stessi, non smettere di cercarsi e di cercarsi ancora, incessantemente, in un moto perpetuo. Le possibilità sono infinite e infinite le condanne. Ironia voluttuosa che sconcerta e ammalia. Tranquillità. È palpabile e leggera. Il mio compagno conosce bene la montagna, è affidabile e generoso. Ne adoro la capacità intuitiva, la velocità di azione, la deter- minazione in parete. Qualcosa succederà, è imminente. Solo qualche istante. Lo si sente nel profumo di muschio della sera che avanza. Lo si sente nella bellezza della luce che incupisce. “Preparati a partire. L'estate regala cinque o sei giorni di bel tempo. Andiamo a vivere la “tua storia”. Annegherai i tuoi occhi scuri nel ghiaccio delle Grandes Jorasses. I tuoi morti, i tuoi eroi ti accompagneranno. Li grazierai di nuova vita.” Arriva come uno schiaffo. I suoi occhi fanno paura quanto sono blu. Lo guardo, sorride. “Vorrei non amare così, è un'onda lunga. Tu e la montagna siete una cosa sola”. Non rispondo. Avevo una conoscenza vaga delle Grandes Jorasses fino alla sera di un anno prima, quando, alla sede del CAI di Dolo, Lorenzo mi svelava un mondo nuovo. Un sorriso gentile, il suo. Comunica concretezza, precisione, amore per la montagna e per la storia delle imprese alpinistiche. Titolo della conferenza: “Grandes Jorasses. La via alla leggenda. Dall'alpinismo eroico ai giorni nostri”. Una presentazione ricca, chiara, ben documentata. Lorenzo raccontava la storia, la spiegava e commentava le foto. Si17 curo, tranquillo, e alla fine soddisfatto: la serata è riuscita bene. Mi ha lasciato un senso di appagamento e compiutezza. Lorenzo è nato a Padova il 14 aprile 1964 e abita a Dolo, in provincia di Venezia, ma il cognome Menegus tradisce origini cadorine. È nipote di Natalino Menegus, che con Marcello Bonafede ha costituito una delle cordate di punta dell'alpinismo dolomitico negli anni '60. Un uomo aperto, cordiale, che ama il buon vino, di cui è più che un intenditore, e la buona tavola. È da sempre assiduo frequentatore della montagna, oltre che appassionato lettore di testi di alpinismo. Da qualche anno al CAI di Dolo organizza serate di storia alpinistica. Interessanti i suoi incontri monografici dedicati alla figura di Paul Preuss, alla parete nord-ovest della Civetta, al Monte Bianco. E dulcis in fundo il gruppo delle Grandes Jorasses. Dimentico Marco. La sua immagine si estingue, sul crinale. Resta la sua assenza, priva di spessore. Non gli concedo di aprirsi un ulteriore varco verso di me e rileggo le pagine che ho scritto. Torno alla replica mentale di quella sera. Ricordo alcuni elementi cruciali e riprendo a scrivere. diario alpino Le Grandes Jorasses sono un gruppo di cime formate da rocce granitiche e situate nella parte settentrionale del massiccio del Monte Bianco, sulla linea di confine tra l'Italia e la Francia. Nel versante italiano sovrastano Courmayeur, in Valle d'Aosta, nel versante francese dal gruppo scende il ghiacciaio di Leschaux. Il nome “Jorasses” sembra derivare dal termine celtico “juris”, che significa “foresta d’alta quota”. Il tema, molto diffuso nell’area alpina in varie forme, ricorre nel noto “Jura”, la catena di alture ginevrine che con le sue rocce ricche di fossili ha dato il nome al “Giurassico”. Si suppone che la zona della Val Ferret, ai piedi delle Grandes Jorasses, sia stata un tempo ricoperta di fitti boschi e consacrata alle divinità celtiche. Non posso non sorridere. E un senso di appartenenza mi frastorna. “Juris” era il cognome di mia madre. Suggestioni. Sulle Grandes Jorasses si susseguono sei vette, in fila da ovest a est per la lunghezza di 1 km, sei punte: la “Young” (3.996 m), la “Margherita” (4.066 m), la “Elena” (4.045 m), la “Croz” (4.110 m), la “Whymper” (4.198 m), la “Walker” (4.208 m), collegate da una cresta che offre una delle più affascinanti traversate dell'arco alpino, un percorso nel vuoto là dove il ghiaccio, il granito e la neve si dissolvono nell'aria rarefatta dei 4.000 metri di quota. Le sei punte sono delimitate a nord-ovest dal Colle de Hirondelles (3.480 m) e a est dal Colle dei Grandes Jorasses (3.825 m). La parete sud, sul versante italiano, è un susseguirsi, per 2.600 metri, di creste e gole profonde, con ghiacciai stretti e non La parete Nord delle Grandes Jorasses: 1) Mc Intire di sinistra; 2) Linceul; 3) Sperone Walker; 4) Mc Intyre-Colton; 5) Couloir dei Giapponesi; 6) Sperone Croz 18 diario alpino sempre praticabili; la normale alla cresta è una via di media difficoltà, paragonabile forse alla normale al Cervino. La parete est domina il ghiacciaio del Fréboudze con i suoi 800 metri tutti verticali. La più maestosa è la nord. 1.200 metri di altezza per quasi 1 chilometro di lunghezza: un granito verticalissimo, solcato da canaloni di ghiaccio e neve, su cui si stagliano due enormi pilastri, gli speroni della punta Croz e della punta Walker. La nord è una delle più grandi pareti delle Alpi. Dall'inizio del secolo scor- so molte cordate di celebri alpinisti si sono cimentate nella conquista delle Grandes Jorasses. Al 24 giugno del 1865 risale la prima ascensione della punta Whymper, compiuta da Edward Whymper, Michel Croz, Christian Almer e Franz Biner. Il 30 giugno del 1868 è la volta della Walker, ad opera di Horace Walker, Melchior Anderegg, Johann Jaun e Julien Grane. La punta Margherita e la punta Elena sono salite nel 1898 da Luigi Amedeo di Savoia-Aosta con le guide Joseph Petigax, Laurent Croux, César Ollier e il portatore Félix Ollier. È lui a battezzarle, in onore, rispettivamente, della zia Margherita e della cognata Elena d'Orléans. La salita della parete nord diviene ben presto uno dei grandi problemi delle Alpi. Il primo tentativo è datato 1907: l'inglese Geoffrey W. Young e la guida svizzera Joseph Knubel arrivano molto probabilmente fino alla crepacciata, o poco più. Il 10 agosto 1928 Armand Charlet ed Evariste Croux, due delle più grandi guide di quegli anni, con gli italiani Piero Zanetti e Leopoldo Gasparotto, insieme all'americano Albert Rand Herron, attaccano lo spe- La via di Cassin, Tizzoni ed Esposito allo Sperone Walker 19 diario alpino rone Walker, ma superato il primo zoccolo rinunciano. Gli scarponi ferrati non permettono di salire le fessure verticali e ghiacciate. I materiali e la tecnica sono ancora insufficienti, la preparazione e l'audacia alpinistica non bastano. E arriva il 1931. L'1 luglio Anderl Heckmair e Gustl Kroner raggiungono la parete, ma fuggono evitando una grande frana. Il 23 luglio Armand Charlet, insieme a Dillerman e Simond, prova il Croz, all'apparenza più semplice, ma desiste. L'8 agosto Leo Rittler e Hans Brehm attaccano risalendo il canalone e muoiono. Il 13 agosto Heckmair e Kroner tornano, trovano i corpi degli alpinisti di Monaco di Baviera e rientrano. Provano poi Hans Ertl e Toni Schmid, che conquisterà la nord del Cervino. L'anno successivo vede i tentativi di Hermann Bratshko, con i fratelli Emil e Karl Rupilius, e con Karl Schreiner. Nel 1933 si cimenta Willy Welzenbach, con Drexel e Schulze. Sono grandi alpinisti, e tutti, dopo aver assaggiato le difficoltà iniziali, si ritirano senza successo. È la volta degli italiani: Lino Binel e Amilcare Cretier, Gabriele Boccalatte e Renato Chabod, Luigi Carrel e Pietro Maquignaz di Valtournanche, con lo stesso Cretier ed Enzo Benedetti. Ancora si cimentano Charlet con Coutourier, senza ottenere risultati migliori. Più o meno tutti arrivano alla crepacciata terminale o la superano di poco. Nessuno riesce ad andare oltre i 3.200 metri di quota. Solo il 14 agosto dell'anno successivo Giusto Gervasutti, il futuro vincitore della est, e Piero Zanetti arrivano a 3.500 metri. Evitano lo sperone, perché troppo difficile, e il canalone, perché troppo pericoloso, e decidono di salire lo sperone Croz. Non sono fortunati e, dopo aver toccato la quota massima fino ad allora mai raggiunta, sono colpiti da un violento temporale che li costringe a scendere. La via è ormai indicata e la corsa alle Grandes Jorasses cambia ritmo. Il 5 luglio Charlet e Robert Greloz giungono a 3.700 metri molto velocemente, ma si bloccano in prossimità di una fascia strapiombante. Il 9 e 10 luglio Raymond Lambert e Loulou Boulaz, di Ginevra, salgono senza fortuna la sinistra orografica del canalone centrale. Il 28 luglio i tedeschi Martin Mayer e Ludwig Steinauer sono respinti dal tempo pessimo e dalle scariche di pietre. 20 Il 29 Rudolf Peters e Peter Haringer bivaccano all'attacco. Il 30 arrivano Charlet e Ferdinand Belin, Gervasutti, Chabod e tre austriaci. Le cordate si alternano in parete. È un continuo rincorrersi e sorpassarsi che si conclude con un niente di fatto. La sera tutti sono costretti a rientrare per le cattive condizioni meteorologiche e la presenza di uno strato troppo duro e spesso di ghiaccio. Solo Peters e il compagno non scendono. Il 31 superano la fascia strapiombante e il nevaio sommitale, spingendosi 80 metri più in alto, fino a sfiorare i 4.000 metri, ma fanno marcia indietro perché arriva la bufera. Haringer, senza piccozza e senza ramponi, scivola e muore. Peters si salva a stento, dopo 5 bivacchi. Solo nel 1935 le due punte della parete nord, la Croz e la Walker, sono calpestate dai passi lenti, affaticati e incerti di un uomo. Il 28 e 29 giugno Peters vince con Mayer lo sperone Croz, con il terzo bivacco in vetta. Un successo meritato per un alpinista che l'anno precedente era stato considerato un bugiardo, perché sembrava a tutti impossibile che fosse passato dove non era riuscito a passare Charlet. La seconda ascensione è dell'1 e 2 luglio, ad ope- diario alpino ra di Gervasutti, Chabod, Boulaz e Lambert: è la prima ripetizione. La terza è compiuta da Toni Messner e Ludwig Steinauer, dal 7 al 9 luglio. Risolto il problema dello sperone Croz, che vede ancora una decina di ripetizioni, l'attenzione si sposta sullo sperone Walker, la vera cima delle Grandes Jorasses. Dopo un anno di pausa, nel 1937, Pierre Allain ed Eduard Frendo attaccano, ma sono subito respinti dal maltempo. L'1 agosto del 1938 Allain e Jean Leininger partono convinti, arrivano al primo grande risalto, percorrono una placca, passano dei terrazzi e delle cenge, e raggiungono il punto chiave: un diedro triplo, obliquo a sinistra e molto duro, di circa 30 metri. Lo superano, ma di fronte all'impressionante risalto mediano scendono sconfitti, forse intimoriti dalla difficoltà dell'impresa. Destino voleva che solo qualche giorno dopo ce l'avrebbero fatta due alpinisti che non erano mai stati nel gruppo del Monte Bianco. E siamo a quello che Alessandro Gogna ha chiamato “il capolavoro di Riccardo Cassin”. “Grande capacità, risoluzione sbrigativa in ogni problema, risultato. Questo il segreto di un uomo che ha sempre man- tenuto i criteri di prudenza, ma che ha saputo spingere i limiti della sua audacia a valori sensazionali. In più, compagni di prim'ordine. Ratti, Esposito e Tizzoni non erano semplici secondi di cordata; erano uomini capaci di andare in testa ogni momento, ma che in Cassin riconoscevano il capo indiscutibile” (Alessandro Gogna, Grandes Jorasses, Sperone Walker, 40 anni di storia alpinistica, 1969, pp. 31,32). Cassin si muove con in mano una semplice cartolina della parete inviatagli dall'amico giornalista Vittorio Varale. È il 30 luglio: insieme a Ugo Tizzoni arriva sul Monte Bianco. Dopo una prima ispezione allo sperone considera la parete “percorribile”. I due hanno bisogno di materiale e di un terzo di cordata; scendono a Courmayeur e aspettano Luigi Esposito, che arriva il 2 sera. È stato detto che i tre hanno salito le Grandes Jorasses con leggerezza e incoscienza, senza un'adeguata preparazione culturale e senza esperienza di alta montagna. Gogna, mettendo in rilievo al contrario l'abilità, il fiuto eccezionale e l'elevato grado di allenamento dell'alpinista italiano, gli rimprovera l'illogicità del superamento diretto del primo risalto, che Cassin rimonta senza 21 seguire il diedro Allain. “Ancora un aspetto deve essere messo in chiaro. Il famoso intuito di Cassin. Egli ha saputo guidare la sua cordata dalla base alla vetta senza esitazioni, senza provare a destra e a sinistra. Passaggi come il pendolo e le placche nere esigono, nella prima ascensione, un fiuto eccezionale. Basti pensare che tutte le cordate, anche oggigiorno, sono sempre perplesse alla base delle placche nere, perché non si capisce assolutamente dove si possa passare. E che oggi ci sono i chiodi, a mostrare la via. Cassin ha commesso un solo errore, che è stato fatto passare per abilità. Il primo risalto è stato da lui superato direttamente, senza usufruire del diedro Allain, superato pochi giorni prima, e perdendo quindi un mucchio di tempo. Naturalmente la sua soluzione è più diretta, e più a filo sperone. Ma è illogica. Qui entra in questione l'aggettivo “elegante”. Chi dice che la sua soluzione è più elegante parte dal criterio che più una via è diretta e difficile, e più è bella. Io invece considero più elegante, perché più aderente agli schemi tradizionali, il diedro Allain, che sfrutta il punto più debole della parete. Questione di gusti. Dicevo prima che questa dirittura è stata fatta pas- diario alpino sare per abilità. In effetti le difficoltà, già estreme, sono così prolungate (e quindi gloria e incenso all'alpinista), però il non essersi accorto che a sinistra c'era un passaggio più conveniente non segue la tradizione, secondo me, di un genio delle traversate e degli accorgimenti, come Cassin” (Gogna A., op. cit., pp. 36,37). E va da sé. Prendiamo atto dell'opinione di un esteta qual è Gogna. Ogni grande alpinista ha le proprie convinzioni e la perfezione non è di noi mortali. Cassin, Esposito e Tizzoni Il giorno 3 all'una di notte Cassin e compagni partono. Oltrepassano la crepacciata terminale e, progredendo tra solido granito e lastroni di ghiaccio, superano una nutrita serie di ostacoli considerevoli. Cassin sale sulla sinistra del filo dello sperone, va oltre un diedro strapiombante, attraversa sotto un tetto, si infila in una fessura obliqua a destra e arriva finalmente in un pianerottolo. I tre hanno raggiunto il punto dove era arrivato Allain in altezza, anche se molto spostato a sinistra. Proseguono lungo placche, percorrono una solcatura ghiacciata, sempre sul filo dello sperone, fino a una stretta cengia che li fa andare verso destra, alla base di un lungo diedro di 75 metri, dove decidono di bivaccare. Non si preoccupano di qualche nuvola poco rassicurante, segnale che avrebbe senz'altro intimorito altri, più pratici dell'andamento del tempo in quella regione. “È questa la loro forza, la loro superiorità sugli “occidentali”. Non è incoscienza perché sanno di poter resistere alle prove” (Gogna A., op. cit., pp. 39). Superato il diedro, la salita prosegue su ghiaccio. A Cassin sfugge di mano il martello e gli rimbalza sul naso ferendolo. Non è grave e si infila in un camino ghiacciato fin sotto a un grande tetto. A destra è possibile superare una placca molto esposta e attraversare. A un certo punto è impossibile andare oltre. Cassin scende 22 allora nel vuoto per dieci metri e con un pendolo arriva ad afferrare un piccolo spuntone. I compagni lo seguono. Ora non possono più tornare indietro. Dopo uno strapiombo bagnato incontrano delle placche nere dove l'arrampicata si fa confusa e diventa sempre più impegnativo individuare la linea di salita. Ed è un continuum di fessure, strapiombi, lastroni, placche. Siamo al secondo bivacco, mentre il cielo si è coperto, tanto che Gervasutti e Ottoz nello stesso istante stanno bivaccando alla base dello sperone dopo essere scesi, intimoriti dall'arrivo del brutto tempo. La cima della Torre grigia non è lontana. Durante la notte la bufera non si scatena e a mattina il cielo in più punti è sereno. Dopo le placche Cassin e compagni riprendono il filo dello sperone, superano un nevaio ed entrano in un canale che scarica ghiaccio e presenta difficoltà estreme. Incomincia a nevicare. A destra una lama staccata permette il passaggio verso un altro diedro camino; la neve cade abbondante e copre velocemente la parete. Sulla cresta terminale un vero e proprio nubifragio con scariche elettriche molto forti li tiene inchiodati per mezz'ora. Quando riprendono trova- diario alpino no sugli appigli una crosta gelata. Arrivano in vetta alla punta Walker in piena tormenta. La discesa è problematica. Il tempo è brutto e impedisce la visibilità. Si preparano a superare la notte bivaccando per la terza volta. Aspettano 15 ore prima di potersi muovere. Scendono alle 7 del giorno seguente e vengono accolti al rifugio Boccalatte nell'entusiasmo generale. Lo sperone della punta Walker è vinto. Dopo la prima ascensione, la prima invernale e la prima solitaria saranno opera di alpinisti italiani. Passano cinque anni. Nel luglio del 1943 i francesi Gaston Rebuffat ed Eduard Frendo partono per ripetere la salita alla punta Walker. Il tempo è bello. Rebuffat sale a lato del diedro Allain lungo una fessura, usando per lo più chiodi e staffe. Il maltempo li respinge all'uscita del diedro di 75 metri. Rebuffaut scivola e cade, ma arriva alla base salvo. Tornano all'attacco nel 1945. Rebuffat ripercorre la fessura individuata la volta precedente. Si schiaccia un dito tra un chiodo e un moschettone. La borraccia dell'acqua vola via. Frendo scivola per venti metri e perde il martello. Due bivacchi ed escono in vetta: è la prima ripetizio- ne a sette anni dall'apertura della via. Dopo lo scacco del 1938, Pierre Allain ritorna sulla Walker nel 1945. L'annata è secca, la neve scarsa; le scariche di sassi lo costringono a scendere. Ce la farà l'anno dopo, insieme a René Ferlet, Guy Poulet e Jacques Poincenot, con un solo bivacco. Una pietra sul viso e un sasso in testa a Ferlet, un volo a pendolo di un altro membro della cordata non impediscono ai quattro di raggiungere la cima, dove li accoglie un forte vento. Ma Allain racconterà l'impresa con tono umoristico, ridimensionando la difficoltà della salita. Sempre nel 1946 i francesi Lionel Terray e Louis Lachenal hanno successo dopo metri scalati nella fitta nebbia, immersi per ore in una violenta tempesta di grandine e neve. Salgono lungo una variante difficile, pericolosa e non logica, che li porta nel canale tra la Walker e la Whymper, un vero e proprio colatoio da valanga. ”Ma la domanda più assillante, più terribile che si pongono non riguarda il pericolo, non riguarda le previsioni di scampo. Dove siamo? Per un po' si tenta di rispondere con il ragionamento, poi ci si perde, ci si rassegna a non poter rispondere. Ma la domanda rimane sempre. Se 23 l'uomo si trova proiettato in un luogo tremendo, sia pur senza via d'uscita, ma di cui conosca le generalità, le coordinate, insomma, soffrirà senza dubbio di meno di chi invece non sappia assolutamente nulla e veda intorno a sé solo degli oggetti ostili e indifferenti, il cui corso naturale proseguirà certamente anche dopo un evento tragico... tragico per chi? La tragedia è solo umana, e questo non è posto per uomini” (Gogna A., op. cit., pp. 69). La quinta ascensione, del 1947, è opera di Karekine Gurekian, Marcel Mallet e P. Ravel. 18 ore di arrampicata e un bivacco a 50 metri dall'uscita. Seguono le ripetizioni degli italiani. Un primo tentativo di Walter Bonatti e Camillo Barzaghi fallisce dopo la fessura diagonale obliqua di 12 metri, troppo bagnata. Il 1949 vede il secondo tentativo di Bonatti, che sale insieme a Mario Bianchi, Andrea Oggioni e Emiliano Villa, tra i giovani alpinisti emergenti in quegli anni. Ripetono la fessura Cassin in condizioni meteorologiche avverse. È il 21 luglio del 1950 quando i tedeschi Hermann Buhl e Kuno Rainer raggiungono la vetta in piena bufera, percorrono tutta la cresta e scendono per il Col de Jorasses. diario alpino Walter Bonatti alle prese con le Grandes Jorasses in inverno L'anno dopo hanno successo Anderl Heckmair ed Hermann Koellensperger, dopo tre bivacchi, nuovamente sotto il maltempo, e al limite della resistenza umana. Ci sono ancora numerose ripetizioni prima di arrivare alla prima ascensione femminile di Loulou Boulaz, l'alpinista che ha salito con Lambert, Gervasutti e Chabot lo sperone Croz. Si segnalano per la velocità Jean Couzy, Jean Franco e Pierre Leroux nel 1952. Siamo al 26 luglio dello stesso anno quando i ginevrini Eric Gauchat e Marcel Bron, appena diciottenni, Raymond Dreier e Claude Asper, Pierre Bonant e Loulou Boulaz affrontano in due cordate lo sperone Walker, nonostante i numerosi lampi a sud nella notte ad annunciare che i 15 giorni di bel tempo era- no al termine. La salita registra diversi incidenti. Un masso cade sullo stomaco di Bonant che sta parecchio male e, in preda a convulsioni e vomito, procede a fatica fino a dover essere issato a forza. La neve pesante e continua rende lenta la progressione. Al camino di 80 metri un masso enorme cade 24 e si spezza in mille frammenti che gettano tutti nel vuoto. Si salvano restando appesi ai chiodi e Loulou viene ferita in fronte. Sono colpiti da slavine, scivolano e volano, ma continuano. Quando cessa la neve arriva il vento da nord e porta il sereno. Il gelo si fa terribile. Come automi, affamati e disidratati, portano a casa la vita, ma il bilancio è pesante: tranne Asper gli altri subiscono mutilazioni alle dita dei piedi e delle mani. Si apre ora un nuovo capitolo nella storia delle Grandes Jorasses: la salita dello sperone Walker in invernale, una meta ambita da tutta l'élite alpinistica europea. È la terza grande invernale delle Alpi a dover essere risolta, dopo la nord dell'Eiger e la nord del Cervino. Nel 1961/62 falliscono i tentativi di alpinisti francesi, tedeschi e jugoslavi. Sono gli italiani Walter Bonatti e Cosimo Zappelli ad arrivare in vetta per la prima volta d'inverno. Lo fanno in stile classico, con onestà e semplicità, e con mezzi tradizionali. La loro è la 50a ripetizione. Bivaccano 5 volte. Dopo tre mesi di preparazione Bonatti e Zappelli attaccano, il 24 gennaio 1963, senza razzi e senza radio, nel rispetto del principio dell'autosuffi- diario alpino cienza. In un gran sacco di 25 kili, che trascinano a fatica, sono racchiusi i viveri: zucchero, cioccolata, biscotti, tè, dadi, caffè, caramelle, vitamine, frutta secca. A sera hanno il tempo per scolpire qualche gradino nel ghiaccio e viene la notte. Bivaccano all'attacco a -25°. Sono a 3.000 metri e hanno sopra alla testa una parete di ghiaccio e roccia che li sovrasta per 1.200 metri. Alle prime luci escono dai sacchi piuma, sistemano con accuratezza il materiale e, tra imprecazioni, fretta e nervosismo, iniziano a salire un ghiaccio duro e verdastro dove è necessario gradinare. Passano la prima notte fermi, immobili: 13 ore immersi nel freddo intenso. Il giorno dopo il vento soffia forte e porta una tormenta di neve, che si attutisce solo verso sera. Mangiano qualcosa e si preparano ad affrontare un'altra gelida notte: la temperatura è di -30°. Il giorno dopo il tempo è pessimo e solo a metà giornata si intravvede la possibilità di un miglioramento. Prendono viveri per tre giorni e abbandonano il saccone. Ingeriscono tutto quello che riescono a ingerire: formaggio grana, datteri, cioccolata, biscotti. Riempiono gli zaini il più possibile e ripartono. Il bivacco della terza notte è meno pesante e si assopiscono. Arrampicano con equilibrismi al limite dell'umano, tra roccia, ghiaccio e neve fresca. Il quarto bivacco è molto scomodo e ormai i sacchi sono incrostati di ghiaccio. Il barometro è in diminuzione. Il giorno successivo progrediscono a -35° in 1968. Alessandro Gogna affronta la Nord in solitaria 25 diario alpino piena bufera di neve. Trascorrono la notte nei sacchi a pelo induriti cercando di non prendere sonno. Il freddo eccessivo non li farebbe più svegliare. È il quinto bivacco in parete, e sono in cima. La loro discesa estenuante tra pendii nevosi, creste e canaloni dura 10 ore. La seconda invernale, sempre del 1963, è opera di Renè Desmaison e Jacques Batkin. I due riescono nell'impresa nonostante una pesante bufera di vento e neve. All'orgoglio iniziale della conquista segue una riflessione pacata di Desmaison: “Pauvre homme, où est ta victorie? Il y a quelques instants seulement, tu étais simplement heureux d'etre encore vivant”. Resta ora da compiere la prima solitaria dello sperone Walker. L'impresa è portata a termine da Alessandro Gogna ed è datata 8 luglio 1968. Usa la corda solo nei passaggi più difficili, per non perdere troppo tempo. Delle placche nere scrive: “Stranamente non sento paura. Eppure qui tutto è pauroso, il vuoto, la solitudine, il muro che ho di fronte, il canalone terribile alla mia destra. È difficile esprimere la sensazione di sicurezza che ho. Sono convinto che uscirò al di sopra di queste placche, che non mi potranno fermare; e nello stesso tempo non mi sento tanto superiore da non temerle. Questo secondo me è il vero coraggio. Saper affrontare un problema, dopo averlo risolto dentro di sé e averne vagliate tutte le difficoltà” (Gogna A., op. cit., pp. 142). Velocità di progressione, padronanza della situazione, lucidità, prontezza di riflessi nel ragionamento e nell'azione, e quasi un sesto senso, una “proprietà medianica” nel sentire la linea di salita e gli eventi. Gogna si ribella alla vista di un chiodo a pressione piantato nel mezzo di una placca. “Una rabbia impotente. Anche se lo spaccassi a martellate, rimarrebbe ugualmente il buco, a testimoniare che sulla Walker è stata commessa una vera e propria profanazione, su un passaggio che con una semplicissima piramide umana avrebbe potuto essere risolto ancora più facilmente ... Non credevo proprio che si potesse arrivare a tal punto di incapacità e di mistificazione” (Gogna A., op. cit., pp. 145). A 1.000 metri di altezza, di fronte alla difficoltà di un tratto repulsivo, coperto di ghiaccio e neve, consapevole dell'elevato pericolo di caduta l'alpinista decide: “Basta, questa è l'ultima solitaria che faccio. Se ne esco fuori, è la fine del 26 mio alpinismo solitario. Tanto, io non sono un orso selvatico di natura, non mi piace star solo, non sono venuto qui per combattere me stesso, o per ritrovare la pace interiore. Era il “problema”, che volevo aver l'onore di risolvere; una volta risolto questo, cosa potrei fare per aggiungere qualcosa di nuovo nella storia dell'alpinismo e dentro di me? Una volta salita questa via meravigliosa, effettuata questa formidabile scalata solitaria, non esisterebbe più una salita su cui fare un exploit maggiore. E io da solo non mi diverto, anzi tribolo. E tribolare per tribolare, tanto vale soffrire per qualcosa che ne valga la pena” (Gogna A., op. cit., pp. 148). Gogna bivacca in cima, a 4.160 metri, sull'altro versante. Dopo le tre prime italiane dello sperone Walker altre numerose linee di salita sono tracciate sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Lo spigolo della punta Margherita e lo spigolo della Young sono vinti nel 1958, lo sperone Whymper nel 1964. Dopo 9 bivacchi, nel 1968, Desmaison e Robert Flematti conquistano il Linceul con una famosa diretta radio. Nel 1973 Giorgio Bertone, Michel Claret e Desmaison completano la Via Gousse- diario alpino ault, già tentata nel 1971 e abbandonata tristemente per la morte di Serge, l'alpinista da cui prende il nome: è la direttissima alla nord dello sperone Walker. Non è più storia, ormai. È cronaca. E si entra nel regno dei record di velocità. Nel 1977 Jean Marc Boivin sale i 750 metri del Linceul di Flematti e Desmaison in 2 ore e 45 minuti. Il 28 dicembre 2008 lo svizzero Ueli Steck percorre in sole 2 ore e 21 minuti la Colton - Mc Intyre, una goulotte aperta il 5 e 6 agosto del 1976 in 24 ore da Nick Colton e Alex Mc Intyre. Stabilisce così il nuovo record della parete e centra un eccezionale tris di salite in velocità sulle tre grandi pareti nord delle Alpi: Eiger, Cervino e Grandes Jorasses. La temperatura all'attacco era di -16°C e l'alpinista svizzero, come di consueto, aveva con sé il minimo di attrezzatura: piccozze, ramponi, 50 metri di corda dyneema da 5 mm, 2 chiodi da ghiaccio, 4 moschettoni, un attrezzo per fare sicura e 2 chiodi normali. È tempo di chiudere il computer. Il buio mi circonda. Cerco di guardare ancora lontano, fino all'estinzione del mio sguardo, fino al mio accecamenRifornimento al Rifugio Boccalatte to. Ascolto. È come se non avessi mai visto, mai guardato, mai sentito. La spossatezza si è impadronita di me. Mi sento vuota, scarnificata. L'assenza di Marco si fa pesante. Lo cerco. Tra qualche giorno calpesterò il ghiaccio e la roccia delle Grandes Jorasses. L'idea assume una forma solida e prende le sembianze di un mondo che per me ha già una dimensione. 27 Le Grandes Jorasses, uno degli spettacoli più grandiosi della natura: scariche di sassi e ghiaccio, detriti, frane, macigni in volo, enormi pietre che esplodono, proiettili di roccia, nuvole di polvere, luci e ombre delle cime. Io sono niente. Ho lo sguardo spento di chi avverte un profondo senso di inadeguatezza. “La tua storia su quella montagna sarà incomparabile”. La voce di Marco è calda e rassicurante. “Troverai una sovrapposizione tra gli elementi che dilagano ora nella tua mente e la realtà che vivrai in prima persona. Una comunanza che è solo apparenza, illusione. Il miracolo della montagna non consiste nella restituzione di una somiglianza esteriore tra gli attori che calpestano il suo suolo e violano le sue vette, ma nella valorizzazione delle peculiarità che contraddistinguono gli uomini rendendoli unici nel palcoscenico della natura e della vita. La conoscenza della storia delle ascensioni ti offre la chiave per vivere la tua inalienabile grandezza. Sorridi”. E un altro capitolo si apre: privato, intimo, inebriante, irripetibile. È grandioso arrampicare su uno splendido granito. Caterina Secco diario alpino di Lucio De Franceschi Toni Gianese e le Grandes Jorasses Estate 1976: ricordo un campeggio in Val Ferret scarse indicazioni sul luogo, per le scarsissime tracce presenti o per la troppa sicurezza di essere nella corretta direzione, sta di fatto che dopo un percorso affascinante quanto inutile tra un dedalo di crepacci, alle prime luci dell’alba ci trovammo la strada sbarrata da una voragi- Come gli ultimi anni, anche quell’estate la Scuola F. Piovan di Padova organizzò quella che pomposamente veniva definita la “settimana di aggiornamento” e altro non era che l’occasione per gli Istruttori della Scuola di visitare luoghi allora ben più lontani di adesso. Quell’anno si pensò di andare sul M. Bianco e così anche due neofiti (peraltro già in odore di Istruttori) come me e Giuliano Bressan furono invitati a farsi un’esperienza su quei ghiacciai fino allora a noi sconosciuti. Naturalmente c’erano anche i “vecchi” della Scuola, come Mauro Osti, Andrea Cassutti, Vittorio Poli ecc., ma tra tutti naturalmente spiccavano le figure di Sergio Billoro e Toni Gianese. Quell’estate dunque eravamo tutti smaniosi di muoverci dal campeggio e così dopo aver fatto a gruppetti un paio di salite classiche quali il Dente del Gigante e la Cresta Kuffner al Mont Maudit, assieme a Sergio e altri amici pensammo di affrontare la normale delle Grandes Jorasses. Anche Toni Gianese, assieme a Sergio Carpesio nello stesso periodo aveva tentato la salita ma qualche centinaio di metri sopra il rifugio aveva desistito ed era tornato a valle. Dopo la faticosissima salita per giungere al Rif. Boccalatte, l’indomani alla luce delle pile frontali cominciammo a risalire il Ghiacciaio di Planpincieux in direzione della nostra meta. Vuoi per le ne glaciale insuperabile dove capimmo che “la via giusta era smarrita”. Fu giocoforza tornare al rifugio con le pive nel sacco, ma la cosa più bella fu che quando ci voltammo per scendere ci accorgem28 diario alpino mo che almeno una ventina di persone ci avevano seguito (alcune delle quali ci avevano fatto anche i complimenti per aver trovato un bel percorso tra i crepi) ignare di finire anche loro la giornata sul bordo di quell’enorme e invalicabile crepaccio. Il CAI in quell’occasione perdette uno dei pilastri non solo della Scuola di Alpinismo ma anche della Sezione; tutti conoscevano Toni, chi appunto perché ci aveva arrampicato assieme, chi ci aveva sciato (partecipò un paio di volte alla Marcialonga ed effettuò la traversata sci alpinistica delle Pale di S. Martino) ma anche dal fatto che lui viveva la Sezione e lo si trovava spesso in sede dove si chiacchierava molto volentieri e spesso si intavolavano anche accese discussioni di montagna e non solo. Per anni fece parte della Commissione Culturale e dentro alla Scuola di Alpinismo portò sempre molte idee e anche molte critiche costruttive che per noi giovani appena entrati erano un punto fermo che, anche dopo molto tempo dalla sua scomparsa, hanno costituito e continuano di fatto ancora oggi ad essere un riferimento per tutti. Estate 1979 Toni Gianese per noi era una figura carismatica; in Italia fu uno dei primi Istruttori Nazionali e divenuto cieco a seguito di una malattia continuò ad arrampicare percorrendo moltissime salite per niente banali, dal Campanile Basso alla Piccola di Lavaredo, dal Monte Bianco allo spigolo del Velo, dal Cervino al Cimòn della Pala. E a quest’ultima cima dedicò il titolo del libro edito proprio nel 1976 dove raccolse tutte le sue esperienze alpinistiche da “non vedente” accompagnato da molti amici della Scuola e non, tra i quali appunto io e Giuliano (ultimi arrivati), Sergio Billoro, Sergio Carpesio, Vittorio Poli, Graziano Mingardo Paolo Lincetto. E proprio con quest’ultimo ed un altro amico quell’estate del 1979 decise di ritentare la salita precedentemente fallita alle Grandes Jorasses. Oltre che salire questo importante 4000 voleva anche essere pronto per affrontare alla fine dell’anno la spedizione organizzata dal CAI di Padova al Cerro Tupungato nelle Ande Argentine. Raggiunto il Rifugio Boccalatte nel primo pomeriggio, mentre Paolo era all’interno, Toni, assieme all’altro amico, si sedette sulla terrazza esterna a prendere un po’ di sole. All’improvviso un grido, Paolo corse fuori di corsa per vedere che sulla terrazza era rimasto seduto solo l’amico, Toni era scomparso, caduto sul sottostante Ghiacciaio di Planpincieux probabilmente per aver perso l’equilibrio mentre si alzava; un incidente inspiegabile che anche l’amico vicino non ha mai saputo chiarirne fino in fondo l’origine. Lucio De Franceschi 29 diario alpino di Francesco Cappellari Una traccia sul lenzuolo bianco Nelle pagine di montagna di ogni alpinista si trovano molteplici caratteristiche. Ce ne sono di gloriose, talvolta ne troviamo di tragiche, molte sicuramente anonime, altre ancora che rimangono nella memoria anche se mai trascritte. Le stagioni, i flussi e le deviazioni mi hanno portato a frequentare molte persone ed altrettante montagne e due di queste, una persona e una montagna, hanno segnato una fase essenziale della mia vita alpinistica. Erano gli anni delle grandi corse con l’auto da est a ovest della Val Padana, e viceversa. Frequentavo le valli piemontesi e valdostane più di un indigeno di quelle regioni. L’inverno mi portava nella Valle di Cogne o in Val Varaita o in Valsavaranche, Val di Rhemes. Sempre alla ricerca del ghiaccio più effimero. L’estate invece era per le grandi ascensioni in Monte Bianco dai granitici accessi. Ma esisteva anche un’altra possibilità, una voglia strana che mi faceva praticare le ascensioni nel grande massiccio nella stagione meno opportuna, cioè l’inverno. C’è da dire che non era semplice pazzia ma il più delle volte vera necessità. Se volevo arrampicare su ghiaccio di alta montagna avevo capito che solo d’inverno potevo andare sul sicuro: condizioni delle pareti, ridotto rischio di scariche, tempo più stabile. Erano i primi di marzo del 1997. Poche settimane prima con Piero Mioni ero salito sulla goulotte Nord Est del Freboudze e durante tutta la salita non potevamo non sognare di salire proprio lì di fronte, quella linea magica che, rettilinea e bianca, sale appena a sinistra dello Sperone Walker fino a raggiungere la Cresta des Hirondelles ad una quota di circa 4000 metri. La linea invitava ma non potevamo nemmeno non pensare alla sostanziale differenza tra l’ascensione che stavamo facendo e il Linceul. Lunghezza (più o meno il doppio), ripidezza, altitudine. Quello che ci preoccupava di più fu tuttavia il pensiero che su quella via non sarebbe stato molto semplice tornare in caso di problemi. In inverno avevo già affrontato più volte linee di ghiaccio, spesso anche impegnative, ma tutte permettevano di scendere per lo stesso itinerario, evitando così le problematiche legate all’innevamento e alle grandi traversate. Sul Linceul non poteva essere così. L’unica via possibile, o almeno la più veloce, sarebbe stata verso l’alto. Solo all’uscita saremmo potuti scendere 30 con una serie di corde doppie lungo la cresta. L’8 marzo affrontammo per l’ennesima volta i quasi 500 chilometri fino a Courmayeur. Il tempo di riordinare i materiali e la funivia di Punta Helbronner ci sputò, d’un fiato, sul ghiacciaio. Avevamo gli sci ai piedi ma tra gli sci e i piedi non c’erano i soliti scarponi da sci alpinismo bensì quelli da ghiaccio. La discesa per la Vallée Blanche, lo sapevamo, non fu proprio divertente. Sembravamo due bambini alle prime armi, sempre a spazzaneve, busto in avanti e braccia larghe. Ed uno zaino da far spavento. Quando ci inoltrammo nel ghiacciaio del Leschaux, grazie soprattutto all’improvvisa solitudine, ci accorgemmo veramente che il Monte Bianco era grande e che le Grandes Jorasses forse ancora di più. Salimmo al rifugio, in quella stagione non gestito. Qualche straniero ci faceva compagnia. La mattina lasciammo il materiale superfluo e, ancora col buio, ci incamminammo sotto la parete. Piero batteva traccia e portava lo zaino più grosso per permettermi di risparmiare le forze in vista della salita. Chi conosce il mio compagno di cordata può bene immaginare con diario alpino quale lena e forza abbia impresso le sue peste su quella neve. Alle prime luci aggirammo la crepaccia terminale, molto aperta, tramite una traversata a sinistra per poi rientrare verso destra sopra il pauroso baratro. Venne il mio turno che prevedeva una tirata fino in vetta. 1200 metri tra i 65° e gli 80°. Le difficoltà più alte sono concentrate nelle prime lunghezze, quando ci si deve incuneare all’interno di un canalino veramente ripido. Il ghiaccio non permetteva protezioni, in effetti si trattava di neve compressa che lasciava infiggere perfettamente le piccozze ma avrebbe accolto le viti senza alcuna possibilità di tenuta. E così feci, per qualche filata, i 60 metri della corda senza poter mettere nessuna protezione, e tutto questo sugli 80° di inclinazione. Si sa, in certi momenti non si può assolutamente sbagliare e quindi la determinazione e la concentrazione arrivano al massimo. Dopo circa 150 metri il pendio si attenuò leggermente e si trasformò in un largo “lenzuolo” che diede subito l'impressione di essere interminabile. Le lunghezze di corda si succedevano veloci. Il ghiaccio, ora vivo, consentiva una progressione esclusivamente sulle punte dei ramponi. Da metà i polpacci non ne po- tevano più tanto che cercavamo di affaticare il più possibile le braccia, contro ogni rigore stilistico, per poterli riposare. Partivo, mettevo un chiodo, poi un altro e finalmente era l’ora di fermarsi per far salire Piero. E così per dieci, cento, mille tiri di corda. Le luci rosse della sera quasi ci sorpresero. Presi dall’azione non c’eravamo ancora resi conto che si stava facendo tardi. In inverno il freddo e la ridotta durata del giorno, rappresentano i maggiori problemi nelle lunghe courses. Durante tutto il giorno ci avevano fatto compagnia due ragazzi sloveni che in genere se ne stavano alla nostra destra, molte volte erano rimasti parecchio indietro, ma giunti quasi alla fine della via ci avevano raggiunti. L’uscita verso la cresta des Hirondelles rappresentò il vero problema del giorno, visto che oramai s’era fatto buio. Facemmo, aiutandoci reciprocamente, un tiro di corda all’interno di un canalino roccioso che speravamo ci avrebbe portato fuori dalla via. Purtroppo avevamo ancora roccia sopra la testa e ci trovavamo in una situazione dove non era possibile fermarsi. Bisognava uscire a tutti i costi. Optammo di comune accordo di tentare l’uscita diretta in cresta tramite una traversata che non sembrava dover essere troppo lunga e complicata. Riunimmo le cordate e partì uno dei due Sloveni. Loro contavano su di noi in quanto avevano una sola corda con conseguente bel problema sulle corde doppie. In cambio uno di loro salì per primo quel tratto. Aspettammo almeno un paio d’ore prima che ci re- L'interminabile "lenzuolo" 31 diario alpino cuperasse, avevamo ormai perso le speranze. Ci accorgemmo poi che giunto in cresta scoprì di non avere alcuna possibilità di assicurazione tanto che, con pazienza, piantò uno spit in un rigonfiamento roccioso che spuntava dalla neve. Sinceramente ancora oggi mi chiedo come si può aver l’idea di portarsi gli spit e la varia attrezzatura per piantarli in una via di ghiaccio delle Grandes Jorasses ma tant’è che quella volta, sinceramente, non feci tante discussioni di ordine etico. Ci riunimmo sull’esile cresta intasata di neve. Nemmeno lì si poteva bivaccare. L’unica alternativa era rappresentata da una corda doppia nel vuoto del buio pesto e da quell’unico aggancio creato artificialmente che prendeva il nome di spit ma di artigianale fabbricazione slovena. Ci calammo e, non senza fortuna, dopo quasi 60 metri di totale buio, trovammo un’esile cengia dove poterci stendere. Lavorammo fino alle 2 di notte per liberarla dalla neve. Fu un’attività frenetica e positiva in quanto ci faceva ridurre le ore di fredda attesa del giorno. Ci fermammo a riposare. Piero non aveva nessun materiale da bivacco, io un piumino leggero e un sacco. Ci sedemmo come Piero Mioni al risveglio al primo sole sulla parete Est delle Grandes Jorasses a fare il trenino, io con le gambe dentro il sacco, Piero avvolto a me. Continuò in un movimento convulso per tutta la notte mentre ci scambiavamo il misero piumino per scaldarci alla meglio. Gli sloveni erano più attrezzati: possedevano un sacco da bivacco matrimoniale! E dormirono per ben quattro ore. Confidavamo nell’alba, nel sorgere del sole. Ma chi ha provato sa quanto ci metta a salire, soprattutto d’inverno. Se poi si è senza sacco a pelo… E l’alba, come sempre, arrivò per farmi il miglior regalo di compleanno che potessi ricevere: il calore. Ci trovavamo nell’immensa parete Est delle Jorasses, quella percorsa per la prima volta da 32 Gervasutti in quella che, indubbiamente, fu la sua massima realizzazione. I costoni ripidissimi, i ghiacciai sospesi, assumevano man mano una colorazione sempre più accesa. E il giorno fu! Le corde doppie furono interminabili, credo una trentina, tanto che approdammo di nuovo al ghiacciaio del Leschaux che era ormai primo pomeriggio. Tornammo al rifugio a recuperare il materiale per scendere in tutta fretta al trenino di Montenvers. L’ultima corsa che ci portò a Chamonix fu un altro dei regali che non si possono dimenticare. Francesco Cappellari diario alpino IL LINCEUL Il Linceul è il grande pendio trapezoidale di ghiaccio della parte orientale della parete Nord delle Grandes Jorasses, tra lo Sperone Walker e la Cresta des Hirondelles. La via si snoda lungo delle goulottes di cui due sono notevoli. Superba via di ghiaccio, diventata relativamente classica; è molto esposta alla caduta di sassi e della cornice sommitale. Le goulottes d’attacco sono molto ripide (sino a 80°). La via esce verso i 3950 m sulla Cresta des Hirondelles. La discesa si effettua sia salendo per questa cresta e seguendo la via normale delle Grandes Jorasses, sia scendendo la Cresta des Hirondelles (diverse doppie) e il versante Nord delle Hirondelles (doppie); quest’ultima è la discesa più pratica poiché riporta al circo di Leschaux. Difficoltà: TD+ ce furono riprese il 15-22 marzo 1968 da P. Desailloud sino molto in alto nel pendio di ghiaccio. 2ª salita: i cecoslovacchi O. Blecha, Y. Bortel, Y. Diezka, V. Kagnyar, 27-29 luglio 1968 raggiungono la cresta nello stesso punto dei primi e proseguono per questa sino in vetta (3 bivacchi). 3ª salita: gli jugoslavi J. Azman, J. Brojan, Z. Kofler, 6-8 giugno 1970. 4ª salita (1ª solitaria): Y. Ghirardini, 22-28 febbraio 1975. A partire dagli anni ‘70, grazie all’introduzione di nuovi materiali e ad una nuova tecnica di ghiaccio (piolet-traction), questa via viene percorsa spesso, generalmente in giornata. Il 12 settembre 1977 J. M. Boivin raggiunse la cresta in ore 2,45 dall’attacco. (fonte: Cai Bolzaneto) NOTE STORICHE Prima ancora che la parete Nord delle Grandes Jorasses venisse salita, nel luglio del 1930 F. Rigele, W. Welzenbach, K. Wien superarono la crepaccia di una delle due goulottes rinunciando poco oltre. Un altro tentativo venne effettuato dallo stesso Welzenbach con E. Schulze (luglio 1933). Passarono 30 anni prima che il Linceul venisse ancora tentato: L. Berardini e R. Paragot, nel febbraio del 1963, salirono la goulotte di destra e attaccarono il lenzuolo; nell’estate del 1964 J. Harlin e D. Haston giunsero allo stesso punto dopo aver risalito la goulotte con una salita obliqua partendo dalla base dello sperone Walker. 1ª salita: René Desmaison e Robert Flematti, 17-25 gennaio 1968. I francesi, sorpresi dalla tormenta rimangono per 3 giorni bloccati in parete dentro una tenda. Sempre con il maltempo riescono a fatica e senza più viveri ad uscire in cresta alle 13 e 30 del 25 gennaio. Non rimane loro che scendere con estenuanti doppie sulla via di salita con ulteriore bivacco alla base della parete. Le loro trac33 diario alpino di Leri Zilio In due sulla Cresta des Hirondelles Cresta delle rondini perché nel 1873, quando L. Stephen e i suoi compagni si accingevano a fare la prima ascensione e la prima traversata del Colle sottostante la cresta, scorsero sulla neve immacolata innumerevoli puntini neri che si rivelarono poi essere rondini morte, forse colpite da un fulmine. Immagine triste e curiosa, il mistero di una morte di gruppo, e la decisione immediata di dedicare a loro il Colle e la Cresta a quel tempo innominati. La Cresta, che risulterà essere il primo problema risolto sulle Grandes Jorasses, era stata percorsa in discesa da Croux, Young e Jones che avevano escluso ogni possibilità di riuscire a salirla. Essa per decenni risultò essere inaccessibile, con un tratto chiave che respingeva i più forti alpinisti di inizio secolo. La famosa fessura sopra la forcella a V ricacciò le cor- date di Mummery e Rey, Ryan e Lochmatter, Mayer e Dibona, Young e Knubel. Cresceva così il mito dell'impossibilità di salirla, e con esso la corsa a vincerla per primi. Il merito del successo è tutto di A. Rey che, alcuni giorni prima della scalata vittoriosa, riuscì a superare la famosa fessura durante un sopralluogo. Sfruttò abilmente i chiodi lasciati da Croux durante la discesa, e l'attrezzò per il tentativo successivo. È un buon quinto, strapiombante e viscido, e ancora adesso rabbrividisco al ricordo del flusso gelato che vi colava copioso durante la mia salita con Gianrino Gottardo. L'acqua mi penetrava dal collo e dalle braccia, e dopo avermi ben dilavato e torturato, se ne usciva allegramente dai pantaloni. Fu un tratto percorso quasi in apnea, 34 ricordava alcune lontane esperienze speleologiche, un dejà vu che non avrei voluto rivivere. E di speleologico c'era anche la scarsa visibilità. Fummo avvolti tutto il giorno dalle nuvole, barriera impenetrabile che oltre a precluderci un panorama sicuramente invidiabile, pesò come un macigno sul nostro morale. Morale sul quale già gravitava una partenza dal bivacco Gervasutti a dir poco rocambolesca. Colpa di condizioni meteo bizzarre e capricciose, capaci di risvegliarci la notte prima con pioggia e lampi, ricacciarci quindi nelle cuccette scornati e delusi per la salita che sarebbe sicuramente saltata, e poi risvegliati alle sette del mattino da un sole che spaccava le pietre. Per noi quindi una partenza con l'affanno, sensi di colpa, niente colazione e scarpinata sul ghiacciaio ad un orario vergognoso. Per fortuna avevamo già fatto una ricognizione il giorno prima e così fu un bel vantaggio conoscere l'avvicinamento. La salita è un susseguirsi di pare- diario alpino tine, canalini ingombri di neve e traversate continue alla ricerca dei punti più agevoli e facili. Il tiro più tecnico ed obbligato è quello della fessura, per il resto uno deve districarsi nel ginepraio dato dalle innumerevoli ipotesi di itinerario, e così è molto facile sbagliare e perdere tempo. Tempo che per noi era preziosissimo vista la tarda quasi impiegatizia ora di partenza. Proseguimmo lungo l'itinerario quasi sempre in conserva, alternandoci al comando e raggiungemmo la cima verso le sedici, finalmente rischiarati da un ottimo sole. Ora il problema era la discesa perché scelleratamente nessuno dei due l'aveva ben studiata, e così dovemmo affidarci ai ricordi di un precedente “passaggio” di Gianrino. Dapprima puntammo verso punta Whymper e poi pigliammo decisamente a sinistra dove intravedemmo un paletto d'alluminio per le doppie. Eravamo proprio sopra il grande seracco (più o meno un centinaio di metri d'altezza) che qualche anno prima, crollando parzialmente, causò la morte di quattro alpinisti veronesi. Ci calammo lungo il suo fianco sinistro con due doppie ed un po' arrampicando su sfasciumi rocciosi, e poi, sgomenti e trepidanti, lo attraversammo alla sua base verso destra, occhi rivolti all'insù a pregarlo, lui così alto, incombente e minaccioso, di non crollare, ma di stare lì buono ancora per un po'. Le relazioni parlano di scendere lungo la cresta della Whymper, ma noi sbagliammo scegliendo di rimanere nel ghiacciaio complicandoci così ulteriormente la vita. In questo caso ci difettarono prudenza ed intuito a scapito di molta stoltezza e pazzia. Scendemmo così lungo il ghiacciaio, sempre con il mostro sopra la testa, e sempre con il problema di superare crepacci e piccoli seracchi. Alcune doppie le attrezzammo su roccette, altre lo scaltro Gianrino le “inventò” incastrando sassi sul ghiaccio da usare come ancoraggi. Il “mostro” fu clemente e non si mosse, intanto sopraggiunse il buio, ma noi eravamo ormai nella mo35 rena. Fu con grande gioia che intravedemmo il primo ometto, e poi il secondo, finché una luce in lontananza ci indicò l'ubicazione del rifugio Boccalatte. Verso mezzanotte ne varcammo la soglia con l'animo rinfrancato. Leri Zilio GRANDES JORASSES Punta Walker (4208 m) Cresta des Hirondelles (A. Rey, Gaia, Rivetti – Chenoz, Matteoda, Ravelli) IV, V – 730 m Ripetizione del 4 luglio 2004 Gianrino Gottardo – Leri Zilio diario alpino di Cristina Piazzon Quando mi parlarono del Ladakh Quando mi parlarono del Ladakh, la prima cosa che feci fu di andarlo a cercare nella carta geografica, non sapevo bene dove fosse, le conoscenze che avevo erano state apprese dai racconti di chi già c’era stato ma ero del tutto sprovvista delle informazioni necessarie per affrontare un viaggio di 21 giorni di cui 15 di trekking. Le informazioni peraltro non sono di facile acquisizione. Fatta eccezione per la guida di Marco Vasta, non esiste nient’altro, più completa invece la bibliografia francese. Il Ladakh è definito come il paese degli alti valichi, la sua capitale Leh, dove arriveremo dopo un paio di giorni a Dehli, è a 3500 m di altitudine; la cittadina è famosa per il Palazzo Reale che sembra una versio- ne in miniatura del potala di Lhasa, e per ospitare frequentemente il Dalai Lama. La regione del Ladakh è racchiusa tra le catene montuose del Karakorum e dell'Himalaya, e comprende le regioni di Jammu e Kashmir e, solo dal 1974, è stato aperta al turismo. La popolazione è composta per poco più della metà da buddisti ed il resto da musulmani sciiti, con una piccola minoranza di induisti. A differenza del Kashmir, con cui confina, gli episodi violenti sono rarissimi, e buddisti e musulmani convivono in modo pacifico. Il viaggio è stato preparato con cura da Lucio De Franceschi, che del Ladakh è invece un grande conoscitore essendoci stato più volte. L’itinerario pre36 vedeva un lungo percorso che partendo da Lamayuru (famosa per un grande monastero buddista) proseguiva incontrando Wanla, Chilling, Skiu da dove si sarebbe dovuti proseguire imboccando la Markha Valley, dopo la quale il trekking avrebbe dovuto concludersi con la salita dello Dzo Jongo di 6050 metri. Partenza come prevista il 24 luglio, scalo a Istanbul con breve sosta per poi raggiungere Delhi. Il viaggio aveva inizio… Tutti noi, un gruppo di dodici persone Lucio con Elena, Francesco con Rossella, Massimo, Roby, Lorenza e Massimo Loreggian, Fabrizio e Roberta, Chiara e la sottoscritta, non immaginavamo che avremmo vissuto non solo l’avventura del viaggio, ma avrem- diario alpino mo avuto come compagna la dea bendata, che nel destino degli umani determina spesso la differenza. Dopo un paio di giorni passati a Delhi, raggiungiamo Leh, da dove partiamo in jeep per raggiungere Lamayuru, famosa per l’importante monastero buddista e da dove inizierà il nostro trekking il giorno successivo 29 luglio. Con noi venti cavalli, i portatori la nostra guida Padma Dorjay e un formidabile cuoco nepalese che anche nei momenti peggiori ci preparerà sempre degli ottimi piatti. Prima tappa Wanla a 3155 m che raggiungiamo percorrendo le sponde di un fiume lungo un canyon molto suggestivo e il giorno successivo arriviamo a Hinju a 3850 m da dove cominciamo a notare che i famosi cieli ladakhi, blu cobalto, in realtà sono spesso macchiati da nuvoloni carichi di pioggia che di lì a poco cominceranno a scaricare. Nei giorni successivi proseguiamo portandoci a quote più elevate; il 2 agosto superiamo il Dung Dung La, un passo a 4650 m, e raggiungiamo Chilling, un piccolo villaggio dove andiamo a visitare alcuni laboratori della lavorazione del legno e del rame. Il giorno successivo 3 agosto, con un percorso bre37 diario alpino ve e non faticoso di solo 150 metri di dislivello, incontriamo l’impetuoso Zanskar, un fiume carico di fango che 30 km a valle si getta nell’Indo; e così buona parte della giornata la trascorriamo nell’attraversamento di detto fiume per mezzo di una rudimentale teleferica che mette a dura prova il nostro spirito di avventura. Raggiungiamo Skiu a 3650 m e ci accampiamo lungo il fiume Markha che il giorno dopo avremmo dovuto guadare per imboccare appunto la Markha Valley ma nella notte comincia a piovere a tal punto che il giorno successivo la nostra guida, ci comunica che i cavalli non avrebbero potuto guadare il fiume, che nel frattempo si era visibilmente ingrossato; decidiamo così di attendere un giorno nella speranza che il livello dell’acqua diminuisca. Il tempo tuttavia non migliora e anzi la notte successiva una parte dell’accampamento viene invasa dall’acqua. A quel punto prendiamo la decisone di cambiare percorso puntando a raggiungere Leh attraverso i monti superando lo Stok La e quindi pur con il maltempo partiamo, per la verità con un certo ritardo, in direzione di Shingo. Il percorso comporta l’attraversamento del fiume innumerevoli volte in condizioni non facili perché il letto si è notevolmente ingrossato e l’acqua portava giù pietre detriti, e rivoli di fanghiglia molto simile a delle sabbie mobili. Raggiungiamo il campo e 38 grazie a un breve intervallo di clemenza del tempo, alle quattro del pomeriggio riusciamo a montare le tende. Finché assaporiamo un momento di pausa, notiamo un piccolo gruppo che si avvia in direzione opposta da dove noi eravamo arrivati, e tutti ci chiediamo il motivo del loro andare giù per la valle invece di fermarsi… Dopo appena un’ora la pioggia accompagnata a grandine riprende inclemente e sapremo solo dopo alcuni giorni che proprio quel pomeriggio il gruppo che avevamo incontrato verrà travolto da un fiume di acqua e fango e purtroppo per quattro di loro non ci sarà più nulla da fare; fino a quel momento non eravamo consapevoli della portata del nubifragio che diario alpino investiva anche il Pakistan e la Cina, e tuttavia durante la notte Lucio assieme alla guida e ai cavallanti hanno continuamente sorvegliato il livello del fiume che a quel punto faceva un rumore impressionante. Il giorno successivo superato il Ganda La di 4900 m raggiungiamo Rumbak sotto una pioggia incessante e poco dopo aver montato le tende oramai fradice il campo viene investito da colate di fango, mentre da ogni pendio franano lingue di terra mescolata a sassi ed è giocoforza, su consiglio di Padma, evacuare il campo per andarci a riparare in una casa ladakha nelle vicinanze che raggiungiamo dopo una breve e veloce corsa attraverso un pendio franoso non del tutto rassicurante. Raggiunta l’abitazione in cui siamo ospitati molto cordialmente, apprendiamo via radio e da altri trekkers ospiti con noi, la portata del nubifragio; veniamo informati che Leh è stata colpita molto duramente, che ci sono molti morti e dispersi tra cui diversi turisti alcuni dei quali intrappolati nella Markha Valley, che sono stati recuperati con gli elicotteri e nello stesso tempo la nostra guida riceve notizie dalla sua famiglia venendo a sapere che il suo villaggio è in parte distrutto e che in molti hanno abbandonato le case. A quel punto il pensiero va alle nostre famiglie e a come poter fare per tranquillizzarli, sapremo solo a viaggio finito che alcuni nostri parenti contattavano la Farnesina per ricevere notizie e che un componente del nostro gruppo era dato per disperso; for- tunatamente dopo innumerevoli tentativi con un telefono locale stabiliamo un contatto con un amico a Delhi che riuscirà ad avvisare i nostri familiari in Italia. A quel punto il morale di tutti è piuttosto a terra e, dopo un altro giorno di sosta, non appena si ripristinano le condizioni per poter superare lo Stok La di 4900 m, l’ultimo passo che ci separa dalla pianura, partiamo anticipando il rientro a Leh di due giorni. Lo spettacolo che troviamo è impressionante, la città è isolata perché le due camionabili che la raggiungono da Srinagar e da Manali sono impraticabili. Gruppi di volontari si uniscono per organizzare soccorsi immediati, e anche noi daremo il nostro contributo passando due giorni a spalare fango con mezzi di fortuna nel devastato ospedale locale. Il 13 lasciamo il Ladakh alla volta di Delhi dove visiteremo il fantastico Taj Mahal; ma subito dopo il nostro decollo da Leh vedo con malincuore tutte le cime innevate e mi riprometto di convincere Lucio a ritornare un'altra volta. Cristina Piazzon 39 I T N SCO CIALI I SPE OCI CA AI S VISITA IL SITO www.cremasport.it CONCESSIONARIO IMPOR • ALPINISMO • • TREKKING • • SCI • • SCI ALPINISMO • • SNOWBOARD • • ABBIGLIAMENTO SPORTIVO • • FITNESS • RTATORE IMPORTATORE CONCESSIONARIO diario alpino di Daniela Grigoletto VERTICALI DI CALCARE Verdon, Céuse, Buoux, Orpierre, Alpes d’Haute Provence. France. Gli anelli di corda si sfilano rapidi dalla mano. Sento le mezze andare in tensione oltre lo spigolo della cengia. Non vedo dove, ma ho teso il filo. La prima doppia sul Verdon. Un’àncora sottile infissa nel vuoto. Dal ciglio della gola ora posso guardar giù. La mia faccia è al sole ma l’aria densa e umida sale dal basso, dove il fiume ancora dorme all’ombra. Sto a mezz'aria tra le striature calde delle pareti già assolate e il tumulto verde e polveroso del fondovalle. Intorno è una vertigine di linee, cadon tutte al centro, tra il groviglio dei mulinelli d’acqua e il disordine dei giardini pensili. Ora verticalità e luce combaciano. Giallo, oro, bruno, poi bluastro, grigio, argenteo. Levigato, lucido, attraente. Il vuoto ora è pieno di colore e traccia segni sulle placche. Brevi appigli, lunghi intagli, qualche solco, mille increspature sul calcare. Itinerari fantastici verso il sole affacciato al ciglio. Nel desiderio di inseguirlo comincia il gioco rovescio e circolare della salita. La prima doppia sul Verdon Martel, il divoratore di profondità cui è dedicato l’omonimo sentiero che costeggia sinuosamente il corso del torrente sino al Point Sublime, con tre giorni e mezzo di rocambolesca navigazione a mezzo di rudimentali canotti e col suffragio della popolazione locale. Nel 1963 vennero tracciate le prime vie sulla parete del Teillon, vicino a Castellane, ad opera dei nizzardi Dufranc, Gounand e Kennis, mentre nel 1966 i marsigliesi Guillot, Kelle, Andrè, Coqueugniot, Domenech e Chabert aprirono le prime vie sulle falesie di St. Maurin. Ma fu nel 1968, che si aprirono realmente le danze sul palcoscenico del Verdon, con le vie lunghe aperte nel cuore delle gole, tra cui la celebre “Demande”, spaccatura naturale di 320m che solca l’intera parete, oppure l’Eperon Sublime, Luna Bong, la Paroi Rouge, ad opera di Guy Heran e i suoi amici…e a la Palud, piccolo paese della Provenza, cominciarono a riunirsi scalatori da ogni parte della Francia. Gli anni ’70 videro crescere lo splendore del settore de l’Escalès, sulla riva destra del Verdon, con l’apertura di itinerari come Ula e il Dièdre des Aixois. La …forse il moto rovesciato dello stile Verdon, che scende dall’alto per poi tornarvi, ben rappresenta la rivoluzione culturale e sociale che in esso si svolse negli anni ’80, quando “l’arrampicata si sciolse dall’alpinismo” per divenire gesto armonico e leggero, danza estrema e scanzonata sulle difficoltà più spinte della roccia. Ma torniamo un attimo indietro…. Les Gorges, le gole, furono discese ed esplorate per la prima volta nel 1905, dall’avvocato-speleologo Alfred Eduard 42 diario alpino realizzazione della “Routes de Crètes”, la strada delle creste, rese gli avvicinamenti irrisori e qualcosa cominciò a cambiare nel modo d’arrampicare: si abbandonò l’artificiale, si abbandonarono le fessure e ci si immerse nelle grandi placche grigie e lavorate, tracciando le cosiddette vie a “goccia d’acqua”, si cominciarono a lasciare protezioni in loco e si cominciò ad attaccare le vie calandosi dall’alto. Sono gli anni di Guyionar, Troussier, Fouque e ancora di Jaques Perrier (Pschitt) con la sua mitica Pichenibule. Negli anni ’80 il Verdon divenne teatro indiscusso di gesta e gesti di una bellezza straordinaria e indimenticabile, la sua fama e la sua magia si diffusero in tutto il Con la testa affollata di miti passati e tiri sognati decidiamo di ripercorrere una delle linee più classiche della parete, “la Demande”, aperta da Coqueugniot e Guillot nel 1968. È forse la linea più evidente della valle, una fessura profonda e arcuata che si attacca direttamente dal sentiero Martel; incide l’intero fianco della gola per smorzarsi sull’orlo sommitale e frastagliato del settore de l’Escalès, sulla riva destra del Verdon. La logica dell’itinerario è perfetta, la sua bellezza impeccabile, un taglio netto fra due speroni compatti. Ettore Bona sul tiro finale della “Derobée”, variante 6c+.- Gorges du Verdon Tracciato della “Demande”, tratto iniziale della fessura arcuata. mondo e i grandi nomi di Manolo, Patrick Edlinger, Patrick Berhault, Catherine Destivelle, Lynn Hill e ancora Bestagno, Potié, Moffat e molti altri, si affacciarono sulle sue gole sfidandosi in danze sublimi ed estreme, rivoluzionarie e giocose, e diedero così vita ad una nuova epoca e ad un nuovo stile, quello dell’arrampicata Arrampicare è solo assecondare. Assecondare questa linea scura che si contorce e curva nelle prime lunghezze, per poi aprirsi e scindersi nel cuore della parete, dove muta in larga spaccatura rossastra e surreale. Lucida per le tanti mani che l’han toccata, scavata e poi scolpita dallo scorrere incessante delle acque, fatta di sportiva fine a sé stessa, piacere e libertà in armonia col vuoto. 43 diario alpino La libertà a portata di mano Il piacere di stare sul ciglio, a fine via Settore Dent d’Aire vuoto, quando s’allarga in profondo diedro aperto e levigato, questa fessura sembra attrarti ed ammaliarti mano a mano che la insegui. È come se ci finissi progressivamente dentro. Ti costringe a strisciare di schiena e insinuarti nel fondo cieco del camino; così finisci per mescolarti completamente alla materia della via, alla sua pietra che graffia e scivola, alla polvere che respiri e soffi via, a quel po’ di terra che sta sulle rugosità della roccia. Diventi quell’elemento che sta in mezzo al vuoto del diedro aperto, e istintivamente, maldestramente, cerchi di riempirlo. a La Palud (consigliamo camping Municipal), ostello della gioventù, diversi Gites e vari alberghi Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre Settori: Rive Gauches (riva sinistra del Verdon - accesso da Aiguines) e l’Escalès ( riva destra del Verdon, accesso da La Palud – settore storico) Info sui siti: www.planetmountain.com, www.ukclimbing.com, www.coronn.com (guida completa scaricabile o acquistabile on line, altrimenti la nuova edizione è in vendita a La Palud) Note: consigliamo gli itinerari da noi percorsi per la bellezza e l’esposizione, consapevoli che ce ne saranno infiniti altri altrettanto meritevoli: settore de La Dérobée, settore della Dent d’Aire, via classica La Demande; consigliamo, infine, di percorre il sentiero Martel sul fondo delle gole e magari accertarsi che ci sia la navetta di ritorno, visto che noi abbiam dovuto rifarlo in senso contrario. Infine, ho scoperto che quelle specie di condor che ti puntano mentre arrampichi appartengono alla famiglia dei Grifoni, Gorges du Verdon – carta d’identità: Indirizzo: Hautes Provence, da Nizza per Castellane ed infine a La Palud,710 km da Padova - quota da 600 circa sul fondo delle gole a 900 m s.l.m. a La Palud Roccia:splendido calcare grigio compatto Numero di vie: più di 1000 Esposizione: tutte, prevalentemente a sud e est per le vie sulla Riva destra e a nord e ovest per la le vie sulla riva sinistra Difficoltà: 4a – 8c Tipo arrampicata: tecnica su placca a gocce Logistica: sei campeggi nei dintorni, due 44 diario alpino rincorrono le termiche al fianco di chi arrampica, la gente si accalca sui belevedere per seguire i loro volteggi e commentare la tua salita. vani, tante facce, tanto magnesio sulle dita, qualcuno dorme al riparo dei profondi tetti, altri attendono che il sole cali per iniziare il loro gioco verticale… Stare a Céuse è anche stare a guardare, guardare questo nastro d’argento che si srotola luminoso tra la terra ocra e il cielo terso, quasi fosse un corpo, levigato e disteso, che l’acqua veste con un abito a strisce lunghe. Le vie risalgono le strisce, che l’acqua disegna cadendo, e chi sale è poco più di una goccia, nella distesa uniforme di quest’onda sollevata e ferma. Di giorno Céuse arde di sole e pietra calda, ma è all’imbrunire che si risveglia, è al tramonto che il corpo disteso si scuote e si rialza e lascia che la luce gli coli addosso, sulla testa e poi sui fianchi, fino a bagnar le punte dei piedi, affondate nella terra che diventa rossa. È alla sera che occorre fermarsi a guardare, con gli occhi scaldati dalle infinite striature che si mescolano, con l’aria che si fa fresca sulla pelle e chiude il sipario delle danze verticali. CÉUSE Céuse sta in piedi sopra la collina. La sua bellezza sfacciata domina la pianura verdastra coi suoi campi quadrettati; spicca da ogni lato, da ogni verso, da ogni punto cardinale….impari in fretta il suo profilo, soprattutto all’imbrunire, quando la “mezza luna” scolpita al centro diventa un mezzo cerchio quasi esatto che interrompe la sua cresta e pare sorriderti da lontano. L’accesso alla falesia è un sentiero nella macchia che sa di lavanda e timo, caldissimo e quasi mediterraneo, la logistica è semplice…un campeggio solo, una clientela solo, una strada solo…poche case e poche auto, un bel silenzio e un bel buio, fatto di tende addormentate e stelle sparpagliate sopra. I settori di arrampicata al contrario sono una decina per un totale di più di 300 itinerari, ai piedi delle vie tanti ragazzi gio- “Muro di Berlino”, settore storico e straordinario della falesia di Céuse 45 diario alpino Céuse – carta d’identità: Indirizzo: Hautes Alpes, circa 20 km da Gap, 580 km da Padova, quota da 1600 a 1800 m s.l.m. Roccia: 3 km di splendido calcare compatto a buchi e rigole Numero di vie: 300, chiodatura a spit e resinati riattrezzata da poco, parsimoniosa ma nuova Esposizione: Ovest, Sud e Est, è un ferro di cavallo Difficoltà: 4a - 9a+ Tipo arrampicata: placca o strapiombo Logistica: Camping Des Guérins situato ai piedi della falesia e lungo il sentiero d’accesso, hotel Muret a Sigoyer, qualche Gites rural disperso nella campagna circostante Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre Settori: sono in tutto 14 ma consigliamo di non perdere le Maitres du monde, la Grande Face, la Demi lune e il celebre Muro di Berlino. Info sui siti: www.planetmountain.com , www.ukclimbing.com (area Hautes Alpes) Note: consigliamo di spostarsi lungo le strade secondarie panoramiche, che attraversano caratteristici borghi medievali – “sentiero dei villaggi fortificati”. Buoux sta in una gola, accovacciato sul letto d’un piccolo rio, in parte sommerso dall’intreccio di piante che lo cingono. È una falesia magnifica, un calcare corallino e spugnoso ornato di verde, un verde ondulato, carico, che s’attorciglia fra i rami più scuri e porta l’ombra ai piedi delle vie. Céuse domina l’orizzonte senza rivali, ti cattura gli occhi fissandoti dall’alto; Buoux ti afferra da sotto e ti trascina nel suo labirinto di arbusti bassi e fiori violacei. Il suo volto seminascosto si rivela solo da vicino, solo se lo cerchi, se frughi fra le sue cenge sfalsate e i suoi camminamenti accennati, se segui una traccia nella boscaglia e arrivi a metterci le mani con la faccia stupita. Solo allora ne percepisci la bellezza e la verticalità, l’imponenza dei suoi muri lavorati e divergenti in tante linee, ti accorgi che alle volte è quasi arancione, altre rossastra, scopri che non è levigata e compatta come le altre placche ma è sfaccettata e contorta in tutte le direzioni, scaglie orizzontali, conche, pilastri, forme ruvide e acuminate, poi tonde e sporgenti, non possiede la consistenza liscia e regolare delle muraglie di calcare ma piuttosto la forza centrifuga delle zone di mare basso, dove correnti e conchiglie han scolpito un tempo il loro mondo e lascian ora che tu giochi sul loro dorso. BUOUX T’accorgi di Buoux solo all’ultima curva. Percorri chilometri di calcare brullo e dorsali terrose chiedendoti dove si sia nascosto. Lungo strada cespugli radi e pochi colori, per lo più chiari, richiaman luoghi quasi di mare, mangiati dal sole e seccati dal vento. Non capisci bene in che posto sei e che volto abbia veramente. In effetti Buoux è un mondo che sta sotto. Il negativo della pianura. Passate quattro o cinque case in pietra, la strada fa una manciata di curve strette verso il basso, scava la pianura e ci finisce sotto, spalancando l’uscio a un nuovo mondo. Buoux – carta d’identità: Indirizzo: Vaucluse (Luberon), Provenza del sud – 770 km da Padova, 145 da Gap quota da 300 a 500 m s.l.m. Roccia: calcare organogeno, calcarenite e calcare grigio compatto Numero di vie: 500, spit e resinati in ottimo stato Esposizione: ovest, sud e nord Difficoltà: 4a - 8c Tipo arrampicata: varia – placca, fessura Logistica: camping a Bonnieux o a Apt, diversi Gites d’étape nei dintorni 46 diario alpino Giocando con le forme gialle di Buoux, settore “Autoroute” Orpierre – carta d’identità: Indirizzo: 130 km a sud di Grenoble e 170 a nord di Marsiglia, quota 920 m s.l.m. Roccia: calcare grigio compatto Numero di vie: 210, chiodatura a fix e spit in ottimo stato Esposizione: tutte Difficoltà: 4c – 8a Tipo arrampicata: varia – placca, fessura Logistica: camping: Princes d’Oranges, diversi Gites d’étape nei dintorni (consigliamo Le Moulin) Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre Settori: ce ne sono 8, consigliamo la via Voyage sul Quiquillon Info sui siti: www.planetmountain.com, www.ukclimbing.it (area Hautes Alpes) Note: splendido contesto naturale e storico, arrampicata di tutte le difficoltà. Stagione ideale: da aprile a ottobre – consigliati i mesi di giugno e settembre Settori: sono in tutto 35, consigliamo fra i tanti le Fakir, il Pilier de fourmis, Mur zappa, TCF, Stix Info sui siti: www.planetmountain.com, www.ukclimbing.it (area Vaucluse), www. coronn.com Note: consigliamo di visitare il forte medievale di Buoux, situato sull’altro fianco della valle e completo di chiesa, abitazioni e cisterne scavate nella roccia, camminamenti, ponti levatoi, nonché splendida finestra sulla falesia di Buoux in tutta la sua estensione. In realtà, il nostro breve tour della Provenza ha percorso un anello fermandosi a Céuse, Orpierre, Buoux ed infine in Verdon. Spendo ancora qualche riga per descrivere Orpierre, un borgo medievale circondato da pareti arcuate e impreziosito da una caratteristica guglia, le Quiquillon, che domina il paese, regalando suggestive linee di salita. Daniela Grigoletto 47 diario alpino di Roberto Ciri Con 3 piedi sul San Matteo La Punta San Matteo e il ghiacciaio di Dosegù Nonostante i 2.560 m del Rifugio Berni e la notte serena, la mattina era piuttosto calda e lasciava presagire una giornata di sole caldissima sul ghiacciaio, tanto più che la partenza era stata ritardata alle 6 anziché alle 5. La neve nei pendii di accesso al vallone del ghiacciaio di Dosegù era, infatti, piuttosto bagnata e rendeva il cammino difficoltoso per i tratti in cui si affondava. Era così per me e per gli altri cinque amici con cui avevamo progettato la salita dei 3.678 m del Monte San Matteo, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, ma per uno di loro era anche peggio, dovendo fare affidamento su un solo piede e due stampelle. Già, risalire un lungo ghiacciaio saltellando su una gamba e appoggiandosi su due stampelle con dei dischi di gomma per non affondare nella neve… Ma Oliviero era ben abi- tuato a tale fatica, dopo trent’anni e più di 600 cime salite così. Si risvegliò dal coma senza la gamba sinistra dopo un incidente in moto intorno ai venti anni, e da quel giorno la sua vita cambiò. Sparì una gamba ma spuntarono le ali, nella sua testa prima di tutto, così dopo soli sei mesi era di nuovo in montagna ad imparare a camminare di nuovo e scalare come poteva. Col tempo affinò la tecnica, l’equilibrio, la volontà, l’allenamento e tornò a scalare montagne che anche poche persone con due gambe scalano, come il Cervino, il Gran Capucin, lo spigolo nord del Pizzo Badile e centinaia di altre cime, per roccia e per ghiaccio. Conoscendo le sue imprese non mi preoccupai di proporgli una salita in ghiacciaio, pur sapendo che preferiva la roccia, sapevo bene che avrebbe fatto le scarpe a tutti, 48 pian piano, semplicemente camminando su una gamba e due stampelle. Ma la neve fonda all’inizio del percorso non era stato un buon modo di cominciare la giornata, comportando tanta fatica inutile in più e rallentandoci un bel po’. Gli altri quattro, Marco, Matteo, Piercarlo e Emanuele, erano un bel po’ avanti ed ogni tanto si fermavano ad aspettarci, ciononostante continuavamo ad accumulare ritardo. Ad una loro proposta di lasciar perdere la salita al San Matteo e salire una cima più bassa e vicina in modo da restare tutti insieme, Oliviero rispose che eravamo lì per il San Matteo e quello doveva essere. Io ero d’accordo con lui e così proseguimmo. Ma gli imprevisti continuavano a presentarsi: affondamenti sulla neve, pause, una stampella che perde una vite ed il puntale (per fortuna Oliviero aveva un set di ricambi)… Ad una ulteriore sosta dopo aver raggiunto gli altri dico a Marco di lasciarmi la corda da 30 m e di andare avanti loro facendo cordata a quattro, noi saremmo arrivati. “Sei sicuro?”, credo abbia chiesto qualcuno. “Ho esperienza più che sufficiente per affrontare questa salita e Oliviero ne ha più di noi tutti messi insieme, per cui proseguiamo”, risposi. diario alpino Fu in quel momento che la mia determinazione prese il sopravvento definitivamente, mi disse che saremmo arrivati in vetta anche io e lui e non mi abbandonò fino al rientro in rifugio, 11 ore dopo la partenza. Poco prima, data la lentezza e il tempo che passava, avevo avuto un momento di dubbio, pensando che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere perché ci avremmo messo una vita a salire. Ma poi è scattato qualcosa in me, partendo da una specie di preghiera rivolta a me stesso, e mi sono detto che avrei camminato al suo fianco fino in cima. Arrivati sul ghiacciaio la neve era finalmente ben dura e si procedeva senza affondare, ramponi ai piedi e speditamente. Dopo il primo ripiano quasi orizzontale un tratto più ripido portava alla seraccata di destra del ghiacciaio di Dosegù. Tutti salivano sul lungo pendio all’estrema destra che evitava il pendio con i crepacci, effettuando un percorso più largo e lungo, di conseguenza più faticoso. Io e Oliviero decidiamo di risalire il ripido pendio ghiacciato dato che i crepacci erano ben coperti di neve dura e c’era già una traccia che saliva, risparmiando così tempo e fatica. Il ghiacciaio era in condizioni perfette, Sopra: Risalita del ghiacciaio di Dosegù Sotto: L'arrivo in vetta completamente coperto di neve dura e così non ci leghiamo per tutta la salita fino alla sella sotto la cima. Lungo il pendio ripido si intuiva qualche taglio che segnalava la presenza di crepacci sottostanti e, infatti, una delle stampelle di Oliviero si infila in un buco e si storce sotto il peso di Oliviero che ci cade sopra. “È proprio una giornata sfigata”, dice lui. 49 Io mi limito a premere con una mano sulla stampella curvata e appoggiata alla neve dura, raddrizzandola in un attimo. “È addirittura più dritta di prima, bravo!” mi dice. Sbuffa un po’ per la fatica e gli imprevisti, così gli chiedo semplicemente: “Dubbi?”. “No!”, risponde con decisione e fermezza. Il tono e la tranquillità di quel “no” mi fa capire con chi ho a che fare e che quel diario alpino muscoli delle gambe che negli ultimi anni mi danno il tormento. Ma la lezione di Oliviero è semplice: “i nostri limiti sono prima di tutto nella nostra testa”, come dice lui. Roberto e Oliviero in vetta giorno avremmo messo 3 piedi sulla cima del San Matteo. Usciti dal pendio crepacciato riprendiamo la salita nella massima tranquillità, alternando zone quasi pianeggianti a tratti più ripidi e faticosi, per lo più fianco a fianco chiacchierando beatamente, tant’è che non sentivo la fatica per l’aumento di quota e il mio scarso allenamento. Gli altri alpinisti e scialpinisti che passavano si fermavano e guardarci, a fare delle foto, a parlare con Oliviero, a complimentarsi increduli per la sua forza di volontà. Già, un esempio per tutti, prima di tutto per me che ogni tanto mi lamento di fastidi ai Così, dopo 5 ore di chiacchiere, cammino, foto, filmati di lui che sale, e ancora discorsi sulla montagna, le cime, le vie, le persone, la famiglia, il passato, gli amici, i figli, raggiungiamo beatamente e senza fiatone la sella a oltre 3.500 m, sotto la cima. C’è ancora la maggior parte degli altri alpinisti che sta scendendo faccia a monte sul tratto ripido e gradinato che dalla sella porta al pendio finale o che era ferma a riposare sulla sella. Ci riposiamo un po’ anche noi e ci le- ghiamo in cordata lasciando gli zaini sulla sella, Oliviero mette delle punte apposite alle stampelle in modo da ramponare anche quelle e poi mi avvio verso la rampa ghiacciata lasciandolo presso una nicchia fra roccia e neve ad aspettare il recupero della corda. Il pendio è ripido ma con grossi buchi delle impronte di passaggio e si sale senza alcuna difficoltà, tant’è che in un attimo mi ritrovo sulla cresta chiedendomi come mai tutti facessero tante difficoltà a salirlo e scenderlo… Dopo aver piantato per bene la piccozza nella neve dura ed aver agganciato un moschettone recupero la corda e dico ad Oliviero di salire. Per un momento mi sono detto “Ma guarda cosa stai fa- La cresta di salita alla cima 50 diario alpino cendo, stai recuperando come tuo compagno di cordata un personaggio come Oliviero Bellinzani, l’uomo con le ali che senza una gamba in montagna, e nella vita, ha superato difficoltà più grandi di quanto tu potrai mai fare”. Mi sento contento ed onorato di averlo accompagnato in questa salita. Infatti, l’ho solo accompagnato, camminandogli a fianco o dietro o davanti, non l’ho portato su io, ma la sua forza fisica e di volontà. Il pendio ripido comporta qualche difficoltà in più per lui, ma io lo lascio salire senza tenerlo in tiro, come avrei fatto con qualsiasi altro compagno di cordata al mio pari. Un basso gradino di roccia da risalire, un tratto di larga cresta e poi il pendio finale a 45°. Lì incontriamo gli altri amici che scendono, non li avevamo più visti, ma vederli lì sotto la cima mi sorprende un po’: o ci avevano aspettato ancora o dopotutto non eravamo andati poi così piano! Qualche battuta con loro, qualche altra chiacchiera con la gente che si ferma a complimentarsi con Oliviero, fra cui varie persone che aveva incontrato su altre cime chissà dove, e dopo cinque ore e quaranta minuti di salita siamo a pochi metri dalla vetta. Oliviero mi chiede di farlo passare avanti per arrivare in vetta per primo e gli lascio volentieri il posto, non aveva di certo bisogno di me come guida! Pochi metri di cresta e siamo sulla bianca punta del San Matteo, a 3.678 m di altezza, sotto un cielo blu ed un sole scintillante. Una stretta di mano, come sempre quando si arriva in cima, qualche foto, una pausa chiacchierando con altri sulla vetta, una veloce contemplazione delle cime e dei ghiacciai intorno e giù per il pendio, faccia a valle per entrambi, fino alla cresta. Lì faccio di nuovo sicura a Oliviero che poi si slega e prosegue da solo fino alla sella. Recupero la corda, scendo il ripido tratto sempre faccia a valle e lo raggiungo. Il resto del popolo della montagna è già sceso, ci sono ancora due persone in cima e altri sei ritardatari che salgono. Ci rifocilliamo un po’ e poi giù per il ghiacciaio. Sotto il sole cocente la neve sta mollando e si comincia ad affondare, ma non troppo, procediamo veloci fino al pendio crepacciato e lo discendiamo lungo il percorso di salita. Oliviero si diverte in una bella scivolata seduto con freno-stampella anziché freno-piccozza! Nella parte bassa del ghiacciaio decidiamo di tagliare verso destra per evitare il resto di nevaio e il pendio mo51 renico del mattino che lo aveva fatto sgobbare. Già dal mattino avevamo deciso che saremmo scesi sul lato scoperto in modo da sfruttare rocce e sassi su cui lui cammina più agevolmente. Iniziamo così un percorso del tutto nuovo, seguendo alcuni ometti che ci portano su un dosso su cui finiscono. Da lì ci inventiamo il percorso scendendo brevi risalti rocciosi, qualche campo di neve, sassi e ghiaie, fino a raggiungere il lato opposto del vallone dopo aver attraversato il torrente su un ponte di neve. Scendiamo agevolmente con il solito orientamento a vista, io vado avanti in avanscoperta e un paio di volte da dietro Oliviero mi corregge la direzione. Tendo a distaccarlo un po’, ma continuo a tenerlo a vista e so sempre dove si trova. La discesa da quel lato del vallone è piuttosto lunga e il caldo la rende più faticosa. Nella parte bassa troviamo una traccia sbiadita, chissà da quanti anni nessuno passa di lì, e alla fine raggiungiamo il letto del torrente e il ponte dell’Amicizia che ci riporta al sentiero per il rifugio Berni. Ancora campi di neve, prati zuppi d’acqua, prati fioriti e infine il rifugio. Io tendo a velocizzare il passo ma Oliviero è giustamente stanco almeno quanto me, e mi dice di salutarci lì così posso diario alpino Relazione della salita: Tornando al Passo Gavia con il San Matteo sullo sfondo andare a casa, dato che ho un po’ di premura di tornare in tempo per mettere a nanna il mio bimbo. “Siamo partiti insieme e torniamo insieme”, gli rispondo. “Questa è una bella cosa”, dice lui, “il mio amico Max mi avrebbe lasciato qua…”. Un cartello segnaletico indica il sentiero per il San Matteo: tempo 5 ore, noi ne abbiamo impiegate 5 e 40 minuti, pause comprese, direi buono! rivare per le ore 20, in tempo per abbracciare Alessandro e dargli la buona notte. Ringrazio Oliviero, gli stringo forte la mano e gli dò appuntamento ad una futura uscita, stavolta in roccia. Prima di salire in auto guardo un’ultima volta la vetta del San Matteo con il bianco fazzoletto del ghiacciaio ai suoi piedi, lo ringrazio, oggi mi ha permesso di fare qualcosa di speciale: salire la sua cima con tre piedi! Dopo 11 ore torniamo al punto di partenza. Il rifugista si complimenta con noi, ci ha seguito con il binocolo in salita e discesa. Lo lascio chiacchierare con Oliviero, io non ho fatto niente di speciale, lui sì! Telefono a casa, dovrei ar52 Punta San Matteo Ver. SW - 3678 m Regione: Lombardia - Alpi Retiche - Gruppo Ortles Cevedale Provincia: Sondrio Punto di partenza: Rif. Berni (q. 2560 m) - Passo Gavia Versante di salita: SW Dislivello di salita: 1120 m Dislivello totale: 2240 m Tempo di salita: 5,00 h Tempo totale: 8,00 h Difficoltà: EEA - AG - PD Periodo consigliato: giugno - luglio Introduzione: La Punta San Matteo è una importante cima nel gruppo Ortles-Cevedale circondata da grandi ghiacciai, spesso salita durante la Traversata delle Tredici Cime, dal Pizzo Tresero al Monte Cevedale o viceversa. La via di salita qui descritta corrisponde alla via normale standard da SW, partendo dal Rif. Berni, poco dopo il Passo Gavia. Si tratta di una salita facile e senza problemi se effettuata ad inizio stagione quando i crepacci sul ghiacciaio di Dosegù sono chiusi e il ghiacciaio ben ricoperto di neve. In stagione avanzata può diventare problematica per la presenza di ghiaccio vivo nel pendio di accesso al ghiacciaio e nel ripido pendio sotto la cima. La salita diario alpino può essere effettuata senza pernottare al Rif. Berni, ma si consiglia di partire comunque all'alba per approfittare del rigelo notturno della neve sul ghiacciaio e non trovarla troppo molle al ritorno. Accesso: Il Passo Gavia è raggiungibile sia dalla Valtellina, passando per Sondrio, Bormio e S. Caterina Valfurva, che dalla Val Camonica, salendo da Ponte di Legno. Il Rif. Berni si trova lungo la strada poco prima del Passo Gavia, per chi sale da S. Caterina Valfurva, o poco dopo per chi sale da Ponte di Legno. Descrizione della salita: Dal Rif. Berni scendere per ponticello ai prati sottostanti e seguire le indicazioni per il San Matteo. Invero si hanno due possibilità di accesso: 1) si attraversano i prati in direzione del vecchio rifugio abbandonato e si segue il sentiero che sale ad un dosso, lo valica e riscende nel vallone di accesso al ghiacciaio (in tal caso si deve prima salire e poi scendere un dislivello di un centinaio di metri) 2) oppure si segue il sentiero sulla sinistra che fornisce l'accesso al Pizzo Tresero, passando per il ponte dell'Amicizia e, senza passare il ponte, seguire il sentierino o campi innevati che risalgono il vallone sulla sinistra oro- grafica del torrente e portano a ricongiungersi al sentierino che scende dal dosso (in tal caso si evita di salire e poi ridiscendere il dosso). Raggiunto il vallone di accesso al ghiacciaio si risale il ripido pendio morenico sulla destra che conduce alla dorsale morenica e poi verso sinistra ai pianeggianti campi innevati di accesso alla fronte del ghiacciaio di Dosegù. Si attraversa la zona quasi pianeggiante e si risale un primo pendio che porta ad un'altro pianoro sotto la seraccata del ghiacciaio. Se le condizioni lo permettono si può risalire la seraccata sulla sinistra per pendio non troppoo ripido (35-40°) ma non troppo lungo, con qualche crepaccio ben coperto ad inizio stagione e si accede al pianoro superiore. Altrimenti si risale il ripido (40°, ghiaccio vivo a stagione inoltrata) e più lungo pendio a destra della seraccata, con un ampio arco da destra a sinistra e si raggiunge il pianoro. Si prosegue attraverso il pianoro risalendo un altro breve pendio, un terzo pianoro ed un altro pendio, passando sotto il Monte Mantello, fino a raggiungere il pendio finale che porta all'evidente sella nevosa compresa fra la cima a destra e una punta rocciosa a sinistra. 53 Raggiunta la sella si segue verso destra la cresta per qualche decina di metri fino alla base del ripido pendio-canale di una ventina di metri a destra di un gendarme roccioso. Lo si risale (45°) raggiungendo un forcellino, si risale un basso gradino roccioso (se senza neve) e si segue la larga cresta di neve fino ad una selletta. Da qui si sale direttamente il ripido pendio a destra del seracco pensile (40-45°, ghiaccio vivo a stagione inoltrata) da cui si esce sulla cresta NE, seguendo la quale per pochi metri si raggiunge la grande croce di vetta. Discesa: Come per la salita. Data della salita: 27/06/2010 Relazione fotografica su: www.vienormali.it/montagna/fotoscalate.asp Roberto Ciri diario alpino di Daniela Grigoletto e Ettore Bona Valle dell'Orco Francesco Marra sul tiro chiave dell'"Apparizione del Cristo Verde". Sergent Improvvisiamo un viaggio in Valle dell’Orco. A dire il vero improvvisare con la Vale che lavora in un’agenzia di viaggi è alquanto simbolico, tanto che la veranda dell’igloo “Marra-Sandi” mi appare come un bazar turco, ordinatamente stipato e minuziosamente allestito. Anche il campeggio “La Peschiera” è degno del miglior tour operator, laghetto con trote e barbecue al coperto, vista granito a 360°, accesso immediato alle pareti…poca gente e sempre sorridente…tutti ottimi presupposti per restare in questa valle recondita ai piedi del Gran Paradiso. ti dorme sotto i piedi e sta buono buono finché gli cammini sulla testa. Ogni tanto alza il collo e fa una piega dove poter metter le mani. Ti muovi in punta di piedi per non svegliarlo, lento, delicato, leggero, sfiori appena con le mani la sua schiena stesa al sole. Poi il guscio regolare e tondo della sua corazza si spacca in scaglie e schegge e ti infili in un universo di blocchi e angoli… fa improvvisamente buio e il sole si perde tra le fessure cieche e i diedri scuri. In Valle dell’Orco esistono tre strutture principali, aperte sulla scia dell’enfasi da Yosemite, il Sergent, il Caporal e il Totem bianco…(le prime due con chiaro e un po’ irriverente rimando al più celebre Capitan d’oltreoceano, la terza ispirata a un caratteristico larice secco che resiste a metà parete). Strutture di 400-600m dove si arrampica in stile trad più o meno spinto con soste ben attrezzate e qualche spit d’incitamento lungo i tiri. In effetti dopo la prima pantagruelica colazione, durante la quale abbiamo tutto il tempo per scegliere l’itinerario, cuocere le uova, studiare le varie tipologie di climbers foresti e locals che si aggirano nei dintorni, scansionare tutte le singole venature del granito ed entusiasmarci come bambini sul tornello d’entrata al parco giochi, attacchiamo la storica parete del Sergent, lungo la via l’”Apparizione del Cristo Verde”. La voglia di scrivere due righe su questa valle è nata dal piacere d’esser lì e dal desiderio di condividerlo con altri. Una sorta di locandina pubblicitaria per quest’angolo di Piemonte che fu teatro, trent’anni fa, di Muoversi sulle placche di granito è come accarezzare un antico drago. Uno di quei rettili dalla pelle ruvida, argentea, che 54 diario alpino grandi rivoluzioni nella filosofia dell’arrampicata e che oggi restituisce la gioia semplice e pulita d’una salita vecchio stile. Ci permettiamo, allora, di consigliare qualche itinerario da noi percorso, sperando vi regali lo stesso stupore e lo stesso entusiasmo. Torre d’Aimonin: Pesce d’Aprile. Aperta da Kosterlitz, Motti, Manera, Morello, Bianco il 31 marzo del 1973. Difficoltà D sup., max. 5c. Sviluppo 170 m. Itinerario storico e di grande bellezza. Discesa a piedi o in doppia lungo una delle vie moderne. Caporal: Diedro Nanchez. Aperta nel 1974 da Trentaz, Bonelli, Galante, Motti, Pessa. Prima salita in libera Marco Bernardi nel 1980. Difficoltà ED inf. se si sale in libera, altrimenti TD sup., max 6b, 5a obbl. Sviluppo 160 m. La via è in parte chiodata, 3 spit e chiodi, soste spittate. Grande via “granitica” e bellissimo percorso in libera, passaggi atletici e continui da proteggere. Sergent: Apparizione del Cristo Verde. Aperta da Caneparo, Mochino, De Giorgi nel 1986. Difficoltà TD, max. 6b, 6a obbl. Sviluppo 330 m. Bella e lunga via di aderenza, richiodata a spit (20 in tutta la via) nel 2000. Discesa in doppia lungo la via. Sergent: Nautilus. Aperta nel 1982 da Giorda, Perucca, Ogliengo. Difficoltà TD inf, max. 5c o 5a/A1. Sviluppo 270 m. Arrampicata caratteristica all’interno di un profondo camino che incide la prima parte. Daniela Grigoletto sulla via "Pesce d'aprile" Torre d'Aimonin. Daniela Grigoletto e Ettore Bona Francesco Marra ai piedi del Sergent 55 diario alpino di Valentina Sandi e Francesco Marra È passato qualche giorno da che siamo in valle e abbiamo appena iniziato a conoscere la roccia e ad apprezzarne l'ambiente. Al mattino ci alziamo e facciamo colazione guardando le pareti che incombono sulla tenda e cercando con lo sguardo le linee più famose. abbiamo imparato che si tratta di itinerari impegnativi, specie per noi così poco abituati ad incastri ed aderenza, che richiedono tecnica e testa. Oggi puntiamo al Nautilus, è nel settore destro della parete del Sergent, appena sopra al campeggio. Valentina Sandi sul primo tiro dell'"Apparizione del Cristo verde". Sergent C’è un clima diverso tra gli arrampicatori qui in valle...un ritmo ed un modo di andare su roccia che non conoscevo. Sento la calma quando mi sveglio. Manca quella sensazione di fretta e di stretto che si ha nelle sveglie all'alba per le pareti dolomitiche. E non ne sento la mancanza! Le linee, infatti, non sono lunghe e le discese in doppia sulla via. Nei giorni scorsi, però, Aperta nel 1982 la linea è logica ed elegante ed è conosciuta per il profondissimo camino che caratterizza la prima parte (e incute un doveroso timore). Se usate la guida rock paradise potete tranquillamente lasciarla in tenda e procedere a caso, sarà più semplice trovare sia il settore che la via... In realtà abbiamo attaccato una bella linea della parete che ci siamo trovati davanti 56 dopo 2 ore di vagabondaggio guida-alla-mano. Ma ora mi trovo sulla cengia mediana sotto la parte alta della parete, senza volerlo abbiamo attaccato la via giusta! L'avevo sospettato passando di fianco ad un profondo camino poco fa ma evidentemente l'abbiamo evitato con una variante tanto breve quanto entusiasmante che aumenta di poco la difficoltà della via e da continuità allo stile di arrampicata. Vi sarà però utile sapere che la parete è divisa in due parti da una cengia mediana molto grande (tanto che per raggiungere la seconda parte della via si cammina per un centinaio di metri) e che dal sentiero di approccio non si riesce mai a vedere la parte alta della parete. L'arrampicata è bella, incastri di dita in fessure ruvide e nette, bei diedri, tratti in placca fortunatamente non estremi, anche qualche incastro di pugno e di mano. Strano prendere confidenza con questo stile di scalata. In doppia siamo di nuovo sulla cengia. Recuperiamo lo zaino dal cespuglio e mettiamo via il materiale. Corde e imbraghi sotto, i moschettoni attaccati ad un cordino, i friend per ultimi, “Il casco è meglio te- diario alpino nerlo, siamo ancora sotto alla par... Ehm..” ci guardiamo, ridiamo. Più che sotto la parete siamo ancora in cengia, vero Vale?!? Ricordatevi di portare anche friend piccolini ma soprattutto ricordatevi di non slegarvi e mettere via tutto una volta che vi siete calati sulla cengia mediana, anche se sembra un sentiero vi manca un'altra doppia! Ah già, dimenticavo… è una delle vie più facili della valle raggiungendo “solo” il VI (qui lo chiamano 5c), poco più nella variante. Come tipico della valle le soste sono tutte attrezzate a spit e per la calata ma la via ha molti pochi chiodi (ma tante fessure!). Friend e nut sembrano entrare da soli nella roccia? Anche solo passeggiando alla base delle pareti del Sergent si respira la storia del Nuovo Mattino: non mi era mai capitato di toccare con mano (ad un metro da terra!!!) vie che hanno fatto la storia dell'arrampicata Trad come la Fessura della Disperazione! Qui ci si riconcilia con l’arte di arrampicare, fine a se stessa, per il solo divertimento. Il grado perde il significato che ormai ha assunto nell’immaginario collettivo, così come la chiodatura. Il clima È semplice, gli arrampicatori di tutte le età e nazionalità sono accampati tra fornelli, materassini e friend. Si vedono facce stanche ma sorridenti, pare proprio che ognuno sia qui per ingaggiarsi in una propria personale sfida al granito, serenamente, senza prestazioni. Valentina Sandi e Francesco Marra Ettore Bona sul bellissmo diedro della via "Pesce d'aprile" - Torre d'Aimonin 57 diario alpino di Fabio S. Pilier Gervasutti Chi ha salito in prima ascensione il Pilier Gervasutti? Il “Fortissimo!” Appunto Giusto Gervasutti, rispondo io ad un esame culturale. No! La mia sicurezza vacilla. Divento accomodante, un po’ in difesa e non parlo. Il mio esaminatore, tranquillo e discreto, parla della salita. Di Fornelli e Mauro, salitori della via che dedicarono proprio a Gervasutti che perì su quelle rocce. Risultato: insufficienza all’esame di storia dell’alpinismo e orecchie come quelle di un coker. Mi vergogno come un cane ma lo smacco mi apre nuove possibilità. Ho sempre guardato al “Pilier” come ad un appuntamento importante, non estremo ma molto impegnativo. Il Bianco pretende molto, anzi di più. Tempi, fatica, e anche fortuna. Parto con Leri per questa avventura con grande speranza. Oramai ci alleniamo un po’ in base al tempo e alla voglia, quasi mai assieme, sperando di non incontrare situazioni spiacevoli. Venerdì dormiamo a La Palud, all’aperto sul cassone del pick-up. Tante stelle e un po’ d’aria ma si dorme bene. E così il sabato ci vede salire con la prima funivia. Al “Torino” una chiacchierata con Leo, un the e via in ghiacciaio. Arriviamo alla base del Pilier alle 10,30 e tocca a me il primo tiro. Sono le 11 e la fessura sprotetta e verticale mi impegna più mentalmente che per altro. L’avevo salita già una volta, quasi vent’anni fa, in occasione della salita del Supercouloir utilizzandola come variante d’attacco, ma non me la ricordavo così dura! Bah, l’età! Andiamo benone e ci alterniamo sui vari tiri di corda, a volte appoggiati, a volte verticali, comunque sempre proteggibilcon nut e friend. Non perdiamo troppo tempo e saliamo spediti. La temperatura è gradevole e la roccia eccellente e di soddisfazione. Le mani si aggrappano senza timore e le suole aderiscono senza scivolare. Il granito è dei migliori, senza dubbio. Ci portiamo abbastanza in alto e il bivacco si preannuncia abbastanza comodo, 58 diario alpino seduti, assicurati e con il maestoso panorama della Vallée Blanche. Dentro i sacchi, vicini vicini, aspettiamo l’alba, alle 6 di mattina, quando il sole illuminerà la parete e pian piano ci riscalderemo. Abbiamo poco da mangiare e da bere ma ce lo facciamo bastare. Si riparte, abbiamo bivaccato ben alti sulla parete, o almeno ne siamo convinti. Ed invece le lunghezze si susseguono ancora numerose, questo Pilier non finisce mai. Il secondo giorno arrampichiamo fino alle 2 del pomeriggio arrivando alla base della fatidica Torre Rossa. E qui nasce il problema! L’uscita originale della via ci sembra impraticabile, con tratti verticali di misto e ghiaccio e così decidiamo di calarci per il Supercoluloir Gabarrou. Solo più tardi capiremo, vedendola con un’altra prospettiva, che era abbastanza appoggiata e facile. La discesa in doppia per il couloir è tranquilla, sicura e veloce. Alle 10 di sera siamo alla base, sul ghiacciaio, sempre più stanchi ma oramai al sicuro. A volte la stanchezza e l’età giocano brutti scherzi ma una volta messi i piedi sulla neve del ghiacciaio, alla base della parete, ci sentiamo in pace con il mondo. Sicuri di meritare cibo e riposo. La via è incredibile, con lunghezze stupefacenti per verticalità e qualità della roccia, sempre proteggibile e qualche tratto all’ombra con neve fa parte del gioco. Con Leri è ormai consuetudine. Arrampichiamo sempre meno assieme ma ogni tanto ci viene voglia di andare a fare qualche bella impresa. E ci troviamo d’accordo su tutto, le cose vanno bene e la voglia di arrampicare viene prima dei reumatismi. I recuperi sono ahimé un po’ più lunghi di una volta, ma va bene così, va molto bene così! Fabio S. 59 diario alpino di Giovanna Galeazzo IRAN: tra trekking d’alta quota e turismo nell’antica Persia “Vacanze, vacanze“ che bella parola!!! e potendole anche fare, che bellissima cosa!!! Si inizia così i primi di Luglio 2010 - “così tardi”! direte voi - ma per noi è normale, a pensare alla meta di quest’anno… questo no, quest’altro neppure, quello bellissimo ma costa troppo, questo meraviglioso ma troppo lontano e così di idea in idea, quando timidamente comincia a far capolino il vecchio desiderio di Federico: andare in Iran. Credo di non averci pensato neppure dieci secondi, la mia risposta è stata immediata: si!! Partenza 8 agosto, rientro 22 agosto. E così il giorno 9, dopo aver fatto scalo a Istanbul, in poche ore ci troviamo a Teheran. Che strana sensazione trovarsi in un paese temuto da tutti, ma io ero sicura che le notizie che ci arrivano con i giornali erano un po’ distorte e avevo voglia invece di conoscere personalmente questo paese, per quanto il poco tempo me lo avesse permesso. Il primo impatto per noi donne è l’immediata trasformazione del nostro apparire: appena messo piede in aeroporto a Teheran iniziamo ad indossare il velo, in quanto obbligatorio per tutte, indipendentemente dalla religione, in tutti i luoghi pubblici, ripristinato dall’ayatollah Khomeini Il vulcano Damavand dall’inizio del sentiero a Gusfand Sara a 3000 metri dopo la sua salita al potere nel 1979, poiché lo Scià di Persia aveva cercato di toglierlo. La prima parte del nostro viaggio, in quanto appassionati di montagna, non poteva non prevedere un breve trek, breve ma intensissimo in quanto puntavamo alla salita della cima più alta del Medio Oriente in soli due giorni: il vulcano Damavand 5671m, nella catena dell’Elburz. È uno dei simboli dell’Iran ed è raffigurato sulle banconote da 10.000 IR. E così ci allontaniamo subito dall’aeroporto di Teheran per dirigerci verso nordest. Dormiamo a 2200 metri di altezza per iniziare un po’ il nostro ridotto acclimatamento. Qui troviamo le nostre due splendide 60 guide che ci avrebbero accompagnati in cima, delle persone veramente uniche. L’indomani si riparte per la seconda tappa, raggiungiamo Gusfand Sara a 3000 metri con le jeep, da qui iniziamo a camminare e arriviamo al rifugio a 4250 metri dove pernottiamo… o meglio, dove dormiamo un po’ di ore poiché ci aspetta l’alzataccia per la salita in cima. E così alle 5.00 del mattino in piedi, un po’ tardi per i nostri gusti, ma così ci era stato imposto dalle guide, colazione veloce e partenza alle 6.00!!! Che salita infinita, ma che grande soddisfazione la cima! Le nuvole che purtroppo accerchiavano solo la cima, si confondevano con le esalazioni sulfuree. Le foto di rito e poi giù di diario alpino nuovo al rifugio, dove passiamo un’altra notte: in totale, tra salita e discesa, ci abbiamo impiegato 12 ore continue di cammino. E così, contenti che il Damavand ci aveva permesso di salire fino in cima, l’indomani ritorniamo a Teheran che riusciamo a visitare per un giorno, prima di prendere un volo interno che ci avrebbe portato nel cuore dell’antica Persia. Facendola breve, a Teheran abbiamo visitato i fasti del Palazzo Golestan, un monumento agli eccessi della dinastia Qagiara (1848-1896), il museo Nazionale dell’Iran, il museo del Vetro e della Ceramica, il parco della terza moglie dell’ultimo Scià di Persia Farah Diba, e altro ancora e l’immancabile bazar. Il giorno seguente quindi volo verso Shiraz, arrivati all’aeroporto ci siamo diretti immediatamente a Persepoli, il magnifico sito archeologico che incarna la grandezza e il crollo dell’impero degli Achemenidi 550-330 a.C. e poi a Pasargade, dove l’austera e semplice Tomba di Ciro si erge nella Pianura di Morghad. Successivamente ci siamo spostati a Yazd, la città più antica dell’Iran: è una delle mete più interessanti e suggestive, incastonata fra due deserti, non ha cose spettacolari come Persepoli, ma si ammira nel suo insieme, è il luogo ideale dove passeggiare senza meta, e perdersi nel dedalo di vicoli dell’antico centro storico, ammirare le torri del vento e le case in mattoni di fango della Le antiche rovine di Persepoli 61 città vecchia e la magnifica moschea del Jameh. Abbiamo proseguito poi per Isfahan, la maestosa capitale dello scià Abbas, che con le imponenti moschee, i ponti incantevoli, la sublime Imam Square, ci ha letteralmente catturati. E ci ha catturato nel vero senso della parola l’immenso bazar, una città nella città… E poi di nuovo a Teheran chiudendo il cerchio in un susseguirsi di città e paesi uno più bello dell’altro, tanto che guardando a malincuore dall’alto dell’oblò dell’aereo che ci stava riportando in Italia ci dicemmo “qui ci ritorneremo” magari a salire di nuovo il Damavand, ma con gli sci! Giovanna Galeazzo diario alpino di Alessandro Zampieri Giro del Monviso 9 -11 luglio 2010 Appunti di un’escursione speciale……in posti speciali……in compagnia d’amici speciali con scambi di battute tra noi e l’autista. Da lontano si vede già la “montagna ben visibile”, la sua imponente forma piramidale ci nel lontano 1863 gli venne l’idea di fondare un club che riuscisse ad unire tutti gli alpinisti e amanti della montagna dando origine Da venerdì 9 a domenica 11 luglio 2010 ho avuto la fortuna e il piacere di far parte di un “gruppetto d’eletti” che si sono spinti fino in Piemonte ad esplorare il maestoso Monviso. All’inizio ero dubbioso se iscrivermi, perché non mi ero mai spinto in un giro così impegnativo, ma ora dopo aver vissuto questa fantastica esperienza… posso tranquillamente affermare… per fortuna c’ero anch’io! Le difficoltà affrontate e il sonno perso… ne sono valse la pena… essendo state ampiamente ricompensate dai fantastici panorami che abbiamo potuto contemplare! Il viaggio fino a Pinerolo (TO) è stato lungo ma si è svolto pazientemente all’insegna dell’euforia rassicura e c’invita ad arrivare il prima possibile. Arriviamo a Crissolo, punto di parcheggio del pullman. Veniamo suddivisi in gruppetti e fatti salire in un bus navetta che ci accompagna fino al Pian del Re (2020 m), punto di partenza dell’escursione. Incuriositi come bambini immagazzinavamo tutto quello che si poteva vedere e ricordare, soprattutto i colori dei fiori che si materializzavano tra una curva e l’altra. Ed eccoci finalmente… si ergeva davanti a noi il maestoso Mons Vesulus che, con i suoi 3841 m, ci accompagnerà per tutta l’escursione. Fa uno strano effetto immergere le mani dove nasce il Po e sentire vicino a noi lo spirito di Quintino Sella che alla nostra magnifica associazione del “Club Alpino Italiano”. Raggiungiamo rapidamente i laghi Fiorenza (2130 m) e Chiaretto (2277 m) dalla stupenda colorazione, scortati dallo sguardo vigile e per niente impaurito di un “animale con le corna” che ci osserva dall’alto. Successivamente transitiamo alla Rocca Trunè (2600 m) e all’ampio Colle di Viso (2650 m) e dopo circa 3 ore e 650 m di dislivello raggiungiamo il Rifugio Quintino Sella (2640 m). Veniamo smistati in due piani, ci accaparriamo la branda e di corsa approfittiamo della doccia calda per una divina e meritata lavata fino all’ultima goccia e ai suoi 4 euro del gettone pagati per averla. La cena arriva 62 diario alpino subito dopo e con essa gli scambi d’emozioni e sensazioni che proviamo. Poi tutti fuori ad attendere l’oscurità che arriva quasi alle 22. Qualcuno si ritira già in branda e altri come me (e te pareva) rimaniamo fuori a ciacolare e ridere, osservando le luci dei paesini che s’intravedono in lontananza. Poi tutti a nanna… o quasi! Qualcuno riesce subito a prendere sonno, altri come me (e te ripareva) nonostante i preventivati tappi portati via potrebbero raccontare le cose che succedono in uno stanzone di un rifugio. I veri montanari sopportano anche questo dicono sempre ma… è meglio che non mi spinga in altre considerazioni. Posso solo affermare che forse era meglio dormire fuori anche al freddo… piuttosto che all’interno di quattro mura intrise da mix vari. Dopo forse un’ora di sonno completamente rimbambiti ci trasciniamo a fatica a fare colazione che viene però consumata in fretta ed è buffo incrociare gli sguardi delle persone con gli occhi gonfi e assonnati. Foto di gruppo, zaino straimbottito sulle spalle e partenza per la seconda giornata di cammino. Passiamo i Laghi delle Sagnette (2580 m), Passo Gallarino (2727 m), Passo Chiaffredo (2764 m), Lago Bertin (2640 m), Grange del Rio (1988 m), Fontana della salute (2036 m) ed arriviamo, dopo circa 6 ore di cammino e circa 700 m di dislivello al Rifugio Vallanta (2450 m), appena in tempo prima della pioggia e grandinata tipica della montagna. Veniamo accolti da un bel cagnone di San Bernardo bianco che ci guarda e ci concede il permesso di entrare. Inizia anche in questo caso la corsa ad accaparrarsi il presunto posto migliore per dormire. Per nostra fortuna il rifugio è dotato di varie camere e con le amiche e amici di vecchia data occupiamo una ca- pressioni della scarpinata odierna, contemplando la bellezza della natura che scrutiamo all’esterno. Arrivata l’ora di cena ci catapultiamo di corsa a tavola e mangiamo frettolosamente le delizie preparate. Al termine il simpatico gestore del rifugio, ci raccontò alcuni episodi particolari accaduti durante gli anni d’onorato servizio, allietandoci la serata. Il buio anche questa sera arriva intorno alle 22 però fa più freddo rispetto ad ieri. Cicchetto collettivo e brindisi di gruppo e poi tutti in branda per il meritato e desiderato riposo. mera, con vista panoramica, con lo stesso nome del rifugio. Acquistiamo l’ennesimo gettone per 4 euro e ci lasciamo accarezzare dall’acqua calda per una meritata doccia. Rientrati in camera e sdraiati sul letto ci scambiamo le im- Anche questa notte però si è trasformata in un incubo. Basta, infatti, che una sola persona del gruppo inizi a ronfare che per tutti gli occupanti della camera parte il calvario. Ovviamente è successo quello che si sperava di scongiurare. 63 diario alpino Sto giro forse dopo 2 o 3 ore di sonnecchiamenti e ancora più rimbambiti di ieri andiamo a fare colazione controvoglia. Sistemati gli zaini dando l’ultimo sguardo al panorama e dopo l’immancabile foto di gruppo ripartiamo per il terzo ed ultimo giorno di viaggio. La giornata si presenta fredda e grigia e finalmente indossiamo le cose pesanti che avevamo messo dentro lo zaino per precauzione. La stanchezza e lo stress del non dormire sono presenti in parecchi di noi. Prendiamo il sentiero fino al Passo di Vallanta (2811 m) scendendo sul lato francese passando accanto al Lac Lestio (2510 m) dove ha origine il torrente Guil. Giunti su un ripiano a quota 2450 m deviamo in mezzo ai pascoli raggiungendo il Rifugio du Viso (2460 m). Il sole e la temperatura più gradevole non tardano ad arrivare. Giunti al bivio del Grand Vallon (2430 m) incrociamo dei cuccioli di marmotta, a lato del sentiero, che incuranti dei pericoli masticano tranquillamente senza preoccuparsi della nostra presenza. Raggiungiamo in mezzo alla neve il Colle delle Traversette (2950 m) il punto più alto dell’escursione dopo circa 850 m di dislivello in salita. Panorama irreale, inimmaginabi- le, da favola, di una bellezza fantastica, che resterà impresso per sempre in ognuno di noi. Il pranzo al sacco non l’abbiamo degustato interamente poiché eravamo rapiti dalla bellezza della natura che ci circondava e ci sembrava superfluo mangiare con tutto quello che avevamo davanti a noi. Ci sentivamo piccoli ed insignificanti di fronte a queste opere divine. A malincuore iniziamo la discesa con 1250 m di dislivello, risultati impegnativi per le nostre gambe e ginocchia. In ambientazioni lunari scendiamo dapprima al bivio del Colle dar Moine (2480 m) e poi arriviamo in ordine sparso al Pian del Re, luogo da dove eravamo partiti. Ripensare al giro e a tutti quei posti che abbiamo avuto la fortuna di contemplare, a distanza di un paio di mesi, subentra il desiderio di ritornare a riassaporare le speciali sensazioni provate allora. Siamo partiti con alcune persone che non conoscevamo e siamo ritornati con nuovi amici tutti accomunati dalla stessa passione per la montagna. Ringraziamenti particolari vanno rivolti ai nostri condottieri Fabio, Marco e 64 Michele che ci hanno accompagnato, nonostante la loro giovane età, con la sicurezza di veterani, dandoci gli stimoli giusti e regalandoci parole di conforto anche nei momenti più impegnativi quando affiorava il classico dubbio “chi me l’ha fatto fare”! Una menzione d’onore va anche fatta al nostro amato autista Massimo (grazie Massimo) che ci ha portato e riportato tutti sani e salvi a casa e che nei giorni che ci ha aspettato ha contribuito attivamente ad incrementare le storie piccanti degli abitanti del luogo! Grazie al tempo che è stato clemente con noi… perché di solito in queste zone piove, piove, piove e ancora piove! Grazie alla macchina digitale che ha impresso indelebilmente le 400 foto che ancora oggi rivedo piacevolmente! Grazie alla compagnia e alle emozioni condivise con tutti/e gli/le amici/che di viaggio con la speranza di rivederci in altre escursioni. Alessandro Zampieri in libreria Bruno Detassis e le sue vie di Omar Oprandi Idea Montagna Editoria e Alpinismo 160 pagine a colori - Euro 18,00 In libreria da dicembre Bruno Detassis, il Re del Brenta, viene celebrato oggi attraverso questo volume. Un’attenta biografia, un ricordo dei suoi momenti particolari e delle sue frasi celebri che l’hanno consacrato a punto di riferimento per tutti gli alpinisti trentini, e non solo. La relazione di 33 delle sue più belle vie nel Gruppo del Brenta. La cavalcata compiuta da Omar Oprandi, assieme all’amico Franz Nicolini, sulle tracce del vecchio Bruno. Escursionismo Invernale vol. 2 di Francesco Carrer e Luciano Dalla Mora Idea Montagna Editoria e Alpinismo 304 pagine a colori - Euro 24,00 In libreria da dicembre Va finalmente a conclusione, con questo volume, la grande ricerca degli autori riguardante gli itinerari di escursionismo invernale sulle Prealpi venete. Dopo il vol. 1, comprendente le zone veronesi e vicentine, siamo ora a percorrere 56 itinerari nelle aree di Monte Grappa, Col Visentin, Alpago, Cansiglio e Cavallo. Le precise relazioni, compendiate da notizie culturali e storiche, permettono di godere in sicurezza ambienti da favola. CON LE CIASPE SULL’ALTOPIANO DEI seTTe COMUNI CLUB ALPINO ITALIANO Inverno sull'Altopiano dei Sette Comuni con le racchette da neve “ciaspe” di Mario Busana e Alberto Manzan In libreria da dicembre Due amici, del CAI di Asiago – Sette Comuni, Mario Busana e Alberto Manzan, propongono ventuno itinerari raccolti nella guida n. 3, edita dalla “Commissione per le pubblicazione del CAI”, CoN le CiaSpe della nuova collana di “Itinerari Naturalistici e Geografici AttraSUll’altopiaNo dei verso le Montagne Italiane”. seTTe COMUNI 3 Percorsi da fare con le racchette da neve “ciaspe”, per far conoscere un altro Altopiano, lontano dalle piste da sci e dagli impianti di risalita, per far vivere all’escursionista “piccole” avventure in un Wilderness fuori porta. Ci sono località con nomi evocativi di leggende cimbre, come i boschi della Horna Huta, ai piedi del Monte Verena, frequentati solo da cervi e caprioli; la romita Valle Del Portule, regno incontrastato dei camosci; la boscosa Val di Nos, che una leggenda cimbra elegge a dimora gli Elfi e del loro capo Baldrich o la foresta della Longalaita, in Val d’Assa, la più vecchia dell’Altopiano dei Sette Comuni, scampata miracolosamente alle distruzioni della Grande Guerra, testimone silenziosa di un mondo ormai perduto. La scoperta del fascino della montagna invernale e di questi luoghi, è affidata completamente ai lettori-escursionisti che sapranno cogliere pienamente l’intento degli autori. Euro 10,00 CLUB ALPINO ITALIANO itiNerari NatUraliStiCi e GeoGraFiCi attraVerSo le MoNtaGNe italiaNe con note storiche, botaniche e faunistiche Mario BUsANA alberto MANzAN 65 itinerari alpini di Giuliano Bressan Week-end “plaisir” in Svizzera Il Poncione di Cassina Baggio Desiderate arrampicare su un buon granito, avete voglia di fare un po’ di strada per conoscere posti e montagne diverse dalle mete usuali, siete ben allenati, disponete infine di un week-end lungo? Bene, allora vi consiglio queste due salite “plaisir” nella verde e ordinata Svizzera, più in particolare nel Canton Ticino, in val Levantina e in val Bedretto. Gli itinerari possono essere percorsi tranquillamente partendo nel pomeriggio di venerdì e tornando nel tardo pomeriggio della domenica. Faido e Airolo, punti di partenza delle nostre vie, distano rispettivamente da Padova 380 e 390 km (3,30 - 4 ore circa). Dal punto di vista logistico è possibile pernottare a Faido e ad Airolo (o RoncoBedretto); la scelta dipende esclusivamente da quale salita volete fare per prima. In ogni caso la distanza fra Faido e Airolo è di circa 25 km (mezz’ora scarsa). Per la via sul Poncione di Cassina Baggio è possibile pernottare al Ristorante All'Acqua (Airolo) tel. +41(0)918691185 o all’Al- bergo Stella Alpina (Ronco-Bedretto) tel. +41(0)918691714; per la salita sulle Placche di Freggio, si consiglia l’Albergo Pedrinis (Fontana di Scribar - Faido), a conduzione familiare, tel. +41(0)918661241. Prima di partire non vi resta che consultate bene le precise previsioni del meteo svizzero (www.meteosvizzera.ch) e… buon divertimento!!! PONCIONE DI CASSINA BAGGIO (2621 m) Via Dr Gruen Nils Primi salitori: Ruedi Büschlen e Jürg von Känel, 1992 Difficoltà: 6a (5c obbligatorio) Esposizione: sud Sviluppo: 12 lunghezze (sviluppo 400 m circa) Tempo salita: 5,00 - 6,00 ore Attrezzatura: ottima a spit, utIli comunque nut e friend. Periodo: estate e inizio autunno. Avvicinamento e attacco: poco prima del tunnel del S. Gottardo (CH) uscire dall'au66 itinerari alpini tostrada ad Airolo-Bedretto e seguire le indicazioni per la val Bedretto e il Neufenenpass; dopo dodici km circa si raggiunge la località All'Acqua (1614 m) dove si può alloggiare. Per raggiungere l’attacco della via sono possibili due soluzioni: - Seguire le indicazioni per il sentiero che conduce alla capanna Piansecco (1980 m) dove è pure possibile pernottare (tel. +41(0)8691214). A un bivio, sulla destra si raggiunge in breve la capanna (40 minuti); proseguendo invece a sinistra si giunge in vista del Poncione, verso cui si risale per tracce lungo detriti sino alla base della parete (1,30 ore). - Salire per pochi chilometri lungo la strada in direzione di Nufunen fino a un piccolo parcheggio a destra di un tornante; seguire l’evidente sentiero sino alla base della parete (1,10 ore). La parete è caratterizzata da un ampio canalone che ne incide la metà superiore: il nostro itinerario si sviluppa alla sua destra. L'attacco si trova poco sopra e a destra di alcune caratteristiche rocce rosse. Il primo tratto si può salire anche slegati per rocce levigate (fare attenzione!) o, meglio, aggirandolo da destra per comode e semplici rampe (soluzione consigliata, specialmente in discesa). L’inizio della via è caratterizzato da un evidente spit in placca. N.B. Nella stessa zona attaccano altre due vie, che salgono a sinistra di questa qui descritta. Sono, rispettivamente, "Herbstwind", che sale pressoché in verticale e, a sinistra di pochi metri, "Piccadilly di Bedretto", itinerario molto frequentato. La via su un rugoso e appigliato granito si sviluppa lungo stupende placche di ade- Sulla via Dr Gruen Nils renza, ma anche su diedri e fessure; l’ambiente è molto bello con ottima esposizione al sole. Relazione 1° tiro: salire lungo la placca con alcuni passi delicati e proseguire per un breve diedro appoggiato. Salire quindi a sinistra un ampio spigolo, lasciando a destra una liscia placca (5b). Sosta sopra l'avancorpo. 2° tiro: proseguire dritti lungo facili gradoni per 30 metri circa (3a). 3° tiro: dalla sosta salire lungo un breve salto verticale e proseguire poi prevalentemente lungo belle placche (lunghezza molto lunga - 5c). 4° tiro: risalire una fessura per alcuni metri e proseguire per una bella lama che forma un diedro appoggiato. Quasi al suo termine traversare a destra in placca raggiungendo una cengia; 67 itinerari alpini nistra per più facili rocce e superare quindi un primo risalto per una breve placca e un corto diedro. Seguire una corta cengia e salire lungo uno strapiombante e impegnativo diedro (6a, A0 - utile una staffa); per rocce più semplici raggiungere la sosta. 11° tiro: salire lungo uno spuntone portandosi in un evidente diedro che si risale direttamente oppure fuori sulla sua destra (delicato). Superare un risalto e proseguire obliquamente verso destra sino in sosta (5c). 12° tiro: salire per alcuni metri in placca fino alla base di una fessura verticale che si supera con passaggi atletici (5b). Proseguire direttamente per rocce più semplici sino a una cengia; superare un breve muretto e salire poi per un breve tratto di rocce abbattute sino alla sosta nei pressi della cima. Discesa: si scende lungo la via di salita con diverse corde doppie (è possibile, saltando la sosta del settimo tiro, raggiungere direttamente la sosta della quinta lunghezza). Sulla via Dr Gruen Nils da questa continuare sempre in placca con alcuni passi delicati (buoni appigli e appoggi non subito visibili dal basso - 5c). 5° tiro: salire a destra con partenza delicata lungo la placca (5c) e proseguire quindi più facilmente sino alla sosta. 6° tiro: risalire una placca a sinistra di un canale e al suo termine traversare a destra fino a una sosta un po' scomoda (lunghezza breve - 5c). 7° tiro: superare un muretto; proseguire dapprima diritti in placca e poi traversare per un lungo tratto verso destra. Al termine del traverso abbassarsi leggermente, portandosi con passaggi un poco delicati in un diedro che si risale fino alla sosta (6a). 8° tiro: salire lungo un verticale diedro (tratto molto bello) e proseguire successivamente su più facili rocce (attenzione a qualche sasso mobile). Uscire sulla sinistra (tratto delicato) e proseguire più facilmente in placca sino alla sosta (5c). 9° tiro: proseguire in obliquo verso sinistra, lungo una difficile fessura fino a una cengia (tratto molto impegnativo). Continuare quindi in placca alla destra di un diedro e infine salire direttamente alla sosta (5c, 6a). 10° tiro: traversare in obliquo verso si- Riferimenti bibliografici: - Mazzucchelli Davide, Arrampicate Sportive e Moderne fra Varese e Canton Ticino, Edizioni Versante Sud, 1998 - Von Känel Jürg, Plaisir Sud, Filidor, 2003 PLACCHE DI FREGGIO (1970 m) Via del Veterano Primi salitori: Franz Anderrüthi, Sigi Bachmann e Paul Tschümperlin, 1989 Difficoltà: 4, 5a, 5b, passaggi di 6a (5c obbligatorio) - valutazione globale D+ Esposizione: sud-sud est (l'arrampicata si svolge a un’altezza mode68 itinerari alpini rata ed è quindi sconsigliabile salire l’itinerario in giornate troppo calde). Dislivello: 600 m (sviluppo di circa 1100 m) Tempo salita: 6,30-7,00 ore Attrezzatura: la via è ben attrezzata con chiodi tradizionali integrati da spit; nei passaggi più impegnativi la chiodatura è molto ravvicinata (sufficienti 10 rinvii e una corda da 50 m). Periodo: estate e inizio autunno. Avvicinamento e attacco: dall'autostrada A2 Chiasso-Lucerna, uscire a Quinto al paese di Freggio (1037 m). È possibile parcheggiare in una piccola area poco prima della chiesa. La via molto bella si sviluppa, con difficoltà moderate su ottimo granito, lungo una serie di grandi e appoggiate placconate immerse nei boschi ben visibili sopra l'abitato di Freggio; la prima parte della salita si articola con un andamento diagonale (diversi traversi) verso sinistra. Per raggiungere l’attacco seguire sulla sinistra la stradina che attraversando il In arrampicata sulla via del Veterano e seguire, voltando a sinistra, la strada cantonale verso Faido. Dopo pochi chilometri svoltare a sinistra in direzione di Osco (indicazione stradale); percorsi circa due chilometri dal bivio si arriva paesino conduce, con breve discesa su sterrato, nel bosco; dopo un breve tratto si arriva a un bivio e si prosegue sulla destra per un sentiero in leggera salita (scritta sbiadita "vet via" su un masso). 69 itinerari alpini Continuare lungo il sentiero (segni gialli e ometti) sino all’attacco della via (15-20 minuti); poco prima si raggiunge una sorgente di acqua freschissima, cui si perviene in seguito seguendo il sentiero di discesa. L’itinerario completo è costituito da 23 tiri; è comunque possibile dopo il 13° tiro abbandonare la via uscendo sul sentiero di discesa. Relazione 1° tiro: salire verticalmente su placca appoggiata (varie possibilità); 30 m, 4. 2° e 3° tiro: proseguire per facili rocce fino alla base di una vasta placconata; 75 m, 3. 4° tiro: salire leggermente a sinistra lungo la placca, dapprima lungo un’esile fessura poi esclusivamente in aderenza; 35 m, 4 e passaggi 5a. 5° tiro: proseguire verticalmente fino in sosta; 30 m, 3 e 4. 6° tiro: salire direttamente per un breve tratto e quindi continuare in obliquo a sinistra su un bel traverso, esposto ma ben ammanigliato; sfruttando infine un'ottima fessura si arriva alla sosta su un albero; 40 m, 3 e 4. 7° tiro: salire verticalmente per 5 m circa sino a uno strapiombo (5c) che si può facilmente aggirare a sinistra; superato lo strapiombo, si prosegue poi, con facile traverso a sinistra, fino alla sosta, 35 m, 5c e 3. 8° tiro: proseguire verticalmente in direzione di un piccolo diedro che si supera direttamente con bella arrampicata; uscire sulla destra e risalire la successiva placca pervenendo al suo termine alla sosta; 45 m, 6a o 5a e A0. 9° tiro: continuare verso sinistra con un facile traverso; 20 m, 3 e 4. 10° tiro: salire verticalmente su una placca dapprima su un tratto appoggiato e appigliato, poi in totale aderenza sino alla sosta; 35 m, 4 e 5a. 11° e 12° tiro: traversare a sinistra per un paio di metri lungo facili rocce e quindi proseguire verticalmente fino alla sosta successiva; 55 m, 3, 4 e 5a. 13° tiro: traversare verso sinistra su impegnativa placca, poco appigliata, stando Sulle placche della via del Veterano 70 itinerari alpini alti nella prima metà e abbassandosi poi nella seconda (spezzone di corda su spit); proseguire più facilmente fino a una sosta su albero; 45 m, 5a. Dalla sosta è possibile uscire dalla via raggiungendo facilmente il sentiero di discesa. La seconda parte della via, dal 14° al 23° tiro, si svolge con difficoltà sempre contenute (4, passaggi di 5a) sino al suo termine sul bosco sommitale. Attenzione: dall’albero bisogna proseguire in traverso a sinistra evitando di farsi portare fuori via dalla prima serie di spit che si incontra (è una variante). Discesa: dal termine della via risalire il bosco per tracce fino a raggiungere il sentiero di discesa che si segue verso destra (faccia a valle). La discesa, non molto comoda ma ben marcata con segni gialli e numerosi ometti, si svolge spesso su terreno impervio che richiede attenzione (qualche breve tratto è attrezzato con spezzoni di corda) ed è assolutamente da evitare nel caso si sia fatto buio (risalti verticali). In circa due ore si raggiunge la sorgente d'acqua vicino all'attacco della via. È altresì possibile la discesa in corda doppia (2 corde da 50 m); tutte le comode soste sono attrezzate con anelli per la calata. Riferimenti bibliografici: - Von Känel Jürg, Plaisir Sud, Filidor, 2003 Giuliano Bressan Sulla via del Veterano 71 alpinismo giovanile Relazione accompagnatori Alpinismo Giovanile Gruppo 18/23 rivati alle 21 ca, ovviamente il rifugio era stato avvisato sull’orario di arrivo. Abbiamo cenato e poi siamo rimasti in rifugio a chiacchierare piacevolmente, facendo conoscenza tra di noi, in quanto il tempo era inadatto a continuare un breve giro in notturna previsto nei dintorni. Il giorno dopo abbiamo fatto la salita al vicino Monte Specie, ed al rientro, una breve pausa di mezz’ora per illustrare il funzionamento e l’impiego dell’ARVA. I ragazzi si sono dimostrati tutti interessati. Nell’ambito di una lunga discussione sulla tendenza giovanile nel frequentare la montagna e l’ambiente del CAI in generale, in questi ultimi anni è stato osservato che in linea di massima i giovani, conclusa l’attività di alpinismo giovanile al compimento del 18 anno di età, non continuano a frequentare l’ambiente del CAI e della montagna in generale, e pare che letteralmente si ‘dileguino’, per ripresentarsi poi in genere dopo i 25 anni. Questo si verifica anche per i ragazzi normalmente più affezionati. Alla ricerca della motivazione di questo periodo di abbandono, e nel tentativo di riavvicinare i giovani all’ambiente, la nostra sezione CAI di Padova ha deciso di proporre per l’anno 2010 un nuovo Gruppo di Alpinismo Giovanile per la fascia dai 18 ai 23 anni. Essendo per sua natura pionieristica, la proposta degli accompagnatori è partita da zero e si è rivolta ad un piccolo gruppo di ragazzi (12, max 15), cercando di indovinare un ventaglio di uscite e attività che potessero essere apprezzate da questa nuova fascia. Ha tentato quindi di proporre uscite diverse da quelle tradizionali dell’alpinismo giovanile, tendenzialmente più varie ed impegnative perché rivolte ad una fascia di età più grande, autonoma, esigente. Abbiamo iniziato con una Ciaspolata notturna di due giorni, proposta nel fine settimana di luna piena del 30 e 31 Gennaio 2010, avente come meta il Rifugio Vallandro, e con una breve salita prevista per il giorno dopo. Siamo partiti nel primo pomeriggio con l’intenzione di far perdere scuola il meno possibile, ma abbiamo notato che molti ragazzi con l’occasione sono stati a casa fin dalla mattina. Siamo arrivati con il pulmino alle ore 17:00 al parcheggio di partenza della gita; tutti presenti, l’idea ha avuto successo, peccato per il tempo perché abbiamo trovato una serata di neve. Al rifugio si è ar- Da metà aprile abbiamo inoltre iniziato un ciclo settimanale di preparazione atletica, sia per conoscere l’attitudine dei ragazzi in vista delle uscite, che come motivo di aggregazione. Prevista corsa di durata via via crescente ed esercizi vari a completamento. Sono venuti sempre costantemente almeno la metà dei partecipanti, a volte anche di più, in base alle varie disponibilità. La seconda uscita è stata effettuata in Casera Brendol ai Piani Eterni, l'1 e il 2 Maggio, per non far perdere lezioni a scuola. Anche questa uscita ha incontrato curiosità e approvazione. Abbiamo effettuato una lezione di teoria circa un mese prima, informativa su come si fa e cosa sia necessario procurarsi per il bivacco. Il giorno dell’uscita, i ragazzi già molto motivati e preparati hanno affrontato senza difficoltà il dislivello in salita di 1.100 mt. Abbiamo poi tutti insieme preparato la legna per la stufa, la cena sui fornellini a gas e dormito nei sacchi a pelo, giocato a carte e chiacchierato fino a circa le 23. L’uscita è piaciuta ed ha suscitato molto interesse. L’uscita di prova in ferrata è stata effettuata a Cima Capi (Arco di TN) con le due ferrate Susatti e Foletti, è stata anche questa superata brillantemente, anche da alcuni ragazzi che non avevano mai percorso una ferrata. La ferrata successiva, sui Campanili del Latemar, della durata 72 alpinismo giovanile di 1:15 diventate 2:30 con i ragazzi che si attardavano a far foto… ! è quindi stata all’altezza del gruppo, ed è piaciuta nonostante la traversata proposta fosse molto lunga. Dietro richiesta dei ragazzi, è ripartito ad inizio Settembre dopo la pausa estiva il gruppo di corsa infrasettimanale, che si protrarrà fino a metà Ottobre, condizioni meteo permettendo. La prova di orientamento svoltasi il 26 Settembre sul Monte Venda nei nostri colli Euganei, che per la ns. esperienza non cattura molto l’attenzione dei ragazzi, è stata resa piuttosto difficile per indurre i partecipanti a ragionare il più possibile sull’individuazione del percorso e sull’analisi della cartina topografica. Nonostante all’inizio non abbia suscitato come prevedibile un gran entusiasmo, alla fine ha comunque riscosso un buon successo, data la varietà del percorso e della prova . di frequentare la montagna; è possibile coinvolgere i giovani, che si dimostrano volenterosi di imparare, più in ambiente che con lezioni teoriche in sede; è possibile coinvolgerli anche in attività extra corso. I ragazzi si sono dimostrati, al di là delle nostre aspettative, decisamente recettivi ed aperti alle esperienze, preparati fisicamente e mentalmente ad affrontare le ‘fatichÈ della montagna, socievoli tra di loro tanto che i classici ‘gruppetti’ che si notano nei corsi più giovani, qui tendono a sfumare e comunque si dimostrano aperti e piuttosto rispettosi verso gli altri ragazzi. Alcuni ragazzi del corso, da poco conosciutisi, hanno già frequentato insieme quest’anno anche il Corso di Alpinismo della Scuola, con nostro vero piacere; perciò riteniamo che l’attività si possa essere dimostrata efficace e propedeutica per attirare l’attenzione dei giovani ed incentivare la partecipazione più ampia all’interno del sodalizio . Infine, la prossima ed ultima uscita è prevista ad Ottobre ancora in Casera Bregolina Grande sulle Dolomiti Friulane, prevede già un buon numero di partecipanti che dimostrano di ripetere con piacere l’esperienza di inizio attività. Il corso ‘sperimentalÈ così proposto si è in sostanza dimostrato positivo ed appetibile. Abbiamo notato che deve però essere proposto in modo dinamico, con attenzione verso le aspettative dei giovani, con la capacità di ‘aggiustarÈ dove necessario il tiro per non perdere l’attenzione del ragazzo, cercando di proporre uscite che siano da un lato di un certo impegno, dall’altro non difficili, e varietà nel proporre modi nuovi e poco noti Sandro e Valeria 73 alpinismo giovanile di Michele Selmin A diventar Grandi si inizia da Piccoli Ogni giorno sentiamo parlare d’investimenti a breve a medio o a lungo periodo, di fluttuazioni dei mercati, d’investimenti a rischio... Forse tutto questo sembra centrare poco con noi che andiamo in montagna, ma a guardar bene qualche attinenza possiamo trovacela; andiamo a cercarla. Anche quest’anno l’alpinismo giovanile si è arricchito, ed oltre ai bambini dagli 8 agli 11 anni ed il gruppo dei ragazzi dai 12 ai 17 anni, si è aggiunto un gruppetto di giovani dai 18 ai 23 anni. La montagna per noi è anche divertimento, allegria, gioco, è passare una bella serata in rifugio dopo l’escursione, è fare esperienza di gruppo perché da soli si arriva poco lontano e non si possono condividere le belle esperienze fatte. Tante altre cose porta in se la montagna ed è compito nostro scoprirle nelle prossime esperienze. L’alpinismo giovanile è anche questo, la fatica, l’impegno, la tenacia, la gioia, lo stupore, l’amicizia, il silenzio, la riflessione, è cercare di seminare uno stile, dei valori, dei comportamenti che la montagna racchiude in se e che devono essere svelati e compresi. Il lavoro di un anno inizia tempo prima con il pensare cosa proporre, valutare i percorsi, cercare che siano belli e divertenti e arricchire tutto questo con dei contenuti propri della montagna. Per noi accompagnatori quello che ci gratifica maggiormente è l’allegria dei bambini, il desiderio di crescere dei ragazzi, la ricerca di nuove esperienze arricchenti dei giovani. La montagna è salita e salire è fatica, impegno, costanza, tecnica ed allenamento. La si sale in compagnia, non da soli, c’insegna a mettere insieme i ritmi di passi diversi, accelerare o rallentare perché con un nostro compagno tra una chiacchierata e una risata possiamo condividere la meta. La montagna è bellezza, i panorami mozzafiato che si ammirano dalle vette, i colori che in ogni stagione cambiano. La montagna è anche silenzio; silenzio perché la fatica è tanta e bisogna risparmiare le forze; silenzio per ascoltare il proprio corpo che armoniosamente risponde ai nostri comandi; silenzio per riflettere, per guardarci attorno e pensare a ciò che ci circonda, alla storia dei luoghi che calpestiamo, a chi è passato prima di noi e per quale motivo ha percorso quei sentieri; silenzio per meravigliarci della natura, di un fiore che è riuscito a sbocciare pur essendo radicato in poca terra, dei camosci che si arrampicano sulla roccia con agilità e sicurezza. Forse l’affinità con l’economia può ora essere più chiara, anche se in ambiti diversi ciascuno di noi investe su se stesso e sugli altri. Nel nostro ambito è un investimento a lungo termine è un seme piantato che porterà frutto nei tempi e nei modi che non conosciamo, ma con la certezza che sarà. Un ringraziamento a voi genitori che ci accordate la fiducia di accompagnare i vostri figli sui sentieri, e di contribuire per quello che possiamo in quest’investimento. Michele Selmin 74 alpinismo giovanile Trekking sull’Alta Via n°1 dal lago di Braies al Passo Falzarego 27-30 agosto 2010 Quest’anno abbiamo proposto ai ragazzi dell’alpinismo giovanile quattro giorni in montagna percorrendo una parte dell’Alta Via N°1 e precisamente dal lago di Braies al Passo Falzarego. Hanno partecipato 20 ragazzi e 5 accompagnatori. L’esperienza, nuova per il nostro gruppo, è stata ben accolta e vissuta da tutti. Noi accompagnatori abbiamo proposto di tenere un diario dove ognuno poteva scrivere le proprie impressioni riguardo le giornate trascorse. Ecco, dalla penna dei ragazzi cosa ne è uscito. stanchezza sono felice di essere qui insieme alle mie amiche. Ciao ciao Mery Oggi siamo arrivati al rifugio Biella, abbiamo percorso due forcelle e dopo una pioggia molto forte siamo riusciti ad arrivare al rifugio! Evviva! Francesca P. Oggi verso le 5 siamo finalmente arrivati al rifugio Biella. Il freddo ci aveva gelato perché è arrivato un temporale ed un vento terribile qualche metro prima del rifugio stavamo per morire!!!!!Quando siamo arrivati non riuscivamo neanche a slacciare gli scarponi perché avevamo freddo!!! Ma poi quando ci siamo scaldate eravamo contente e soddisfatte!!! Sofia e Benedetta 27/08/2010 Siamo partiti da Lago Braies verso le 11:00. Ora finalmente siamo in rifugio al calduccio dopo aver fatto una fresca doccia a base di acqua piovana. Le mie gambe non esistono più comunque a parte la 75 alpinismo giovanile Oggi verso le 17.00 siamo arrivati al rifugio Biella. Verso metà della camminata è arrivato un forte temporale, eravamo tutte congelate!!!! Arianna vato il sospirato sole serale. La cena era molto buona. Dopo cena, su richiesta degli istruttori, siamo andati a letto come le galline! Filippo, Marco, Luca Primo giorno del trekking è stato molto faticoso ma anche divertente; abbiamo preso una pioggia molto forte e finalmente sono arrivata al rifugio Biella (dove faceva molto più caldo)!!! Dopo un lungo tragitto siamo finalmente arrivati al lago di Braies, da dove siamo partiti per raggiungere il rifugio. A metà tragitto è iniziato uno “slavaccione” (molto slavaccione) e dopo essere arrivati ci siamo subito bevuti un the caldo. Anna 28/08/2010 Siamo arrivati alle 15:00 circa. In questo rifugio-hotel è tutto più grande e grazioso. Durante il viaggio abbiamo visto qualche marmotta e, dopo parecchie mezzore, siamo arrivati!!! Ciao ciao Maria Oggi siamo partiti dal rifugio Biella e dopo una lunga e faticosa camminata siamo arrivati al rifugio Fanes. Nel tragitto abbiamo visto marmotte e alla fine, quando mancava poco, abbiamo iniziato a chiedere a tutti i passanti quanto mancava!!! Non ce la facevamo più ma ora siamo preoccupate per domani… ci aspetta una giornata ancora più faticosa!!! Benedetta Come prima giornata di escursione non è stata il massimo! Queste affermazioni derivano dal fatto che dopo una camminata normale è arrivato, nel primo pomeriggio (un’ora prima dell’arrivo in rifugio) un forte “scaravasso” nel quale ci siamo “sbrombati”!!! Nonostante avessimo ombrelli e mantelle. Esperienze – La veduta dal rifugio è stata comunque meravigliosa quando è arri- Oggi sabato 28 agosto 2010 ore 8:32 e 54 secondi p.m. sto scrivendo le mie memorie di questo giorno. È stata una bella 76 alpinismo giovanile giornata con poca pioggia e c’erano delle enormi marmotte. La passeggiata è stata tranquilla ma lunga. Finisco ora le mie memorie – stesso giorno ore 8:36 e 4 secondi p.m. P.S. C’è puzza di piedi Alberto Zenere al rifugio non ci posso ancora credere che sono arrivata!!! È stata TROPPO faticosa… ma sono orgogliosissima di essere arrivata!!! Benny La camminata di oggi è stata particolarmente carina; dopo il primo rifugio per via delle minacciose nuvole nere, arrivati al rifugio Fanes, sono rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare che sia all’esterno che all’interno più che un rifugio sembra un hotel. Credo che in montagna quello che conta sono la passione per dove si va, la compagnia ed il divertimento. Luca Giacon Questa mattina ci siamo dedicati ad un’attenta osservazione delle montagne disposte attorno al rifugio Biella prima di iniziare la nostra camminata. L’escursione è stata abbastanza lunga ma bella perché il paesaggio era suggestivo e non abbiamo preso la pioggia come il giorno precedente. Quando siamo arrivati abbiamo visto il rifugio che era talmente bello da sembrare un albergo. Complessivamente è stata una bella escursione. Marco Giacon Oggi è stata una strana giornata: abbiamo visto……… una mucca che stava masticando una maglietta. Inoltre la mafia delle marmotte si era data appuntamento lungo il percorso (erano in tante) e assomigliavano non proprio vagamente a dei scoiattoli palestrati. Riccardo Reffo Rifugio Lagazuoi m 2752 ore 19:03 Oggi è stata una giornata solare, lunga ma divertente. I primi ci hanno messo esattamente 7 ore, 5 minuti e 54 secondi. Ora stiamo a Sottomarina beach… adesso è ora di mangiare… Alberto Zenere Seconda tappa al rifugio Fanes Se devo dire la verità le passeggiate sono troppo faticose per me; poi per gli altri non lo so! Oggi siamo partiti dal rifugio Biella e siamo arrivati al rifugio Fanes; durante il tragitto però abbiamo preso una pioggia leggera (anche piacevole). Greta “Oggi abbiamo fatto una lunga ma bellissima passeggiata, ma la cosa più bella che mi piace ricordare è quando siamo arrivati alla forcella del Lago, perché era meravigliosa e si vedeva anche la Marmolada….” Marco Giacon 29/08/2010 Oggi siamo partiti dal rifugio Fanes per arrivare al Lagazuoi… è stato faticosissimo… non ce la facevo più; è stata la passeggiata più lunga di tutte… ora che sono 77 alpinismo giovanile In questa fredda mattinata siamo partiti dal rifugio Fanes; dopo essere arrivati ad una croce li vicino, abbiamo visto una mucca che stava masticando una maglietta. Dopo un pezzo di strada abbiamo attraversato una forcella da dove si aveva una vista magnifica delle montagne che la circondavano; arrivati al rifugio, dopo un cammino un po’ in pendenza, siamo andati a vedere le camere che con mia delusione avevano dei letti a castello piccolissimi; comunque ciò che conta è quello che ci circonda qui, che è affascinante e che batte il mare, a cui invece manca qualcosa. Luca Giacon tappa, ogni 10 minuti liberi e perfino ora, l’ultimo giorno, dopo la neve ed il freddo, al primo raggio di sole Filippo (N.B. Ha fatto tutto il tragitto sotto la neve con i pantaloni corti) sta prendendo il sole… e per fortuna oggi ci risparmia il suo petto nudo. Le ragazze e Giada Il trekking tanto ci è piaciuto perché emozioni forti abbiam vissuto A volte è stato faticoso Ma il paesaggio era meraviglioso Mucche, cavalli, marmotte regnan padroni Tra massi, pini mughi e nuvoloni Stelle alpine abbiam fotografato E un bel panino poi abbiamo mangiato Ad ogni pausa in mezzo ad un prato Harry Potter mostrava il suo petto abbronzato; gli accompagnatori ci facevano bere e poi sudare ma noi non trovavamo mai un posto per pisciare Ma Alberto tra i mughi si è imboscato E Verkhia l’ha fotografato. Dopo tanta fatica era bello arrivare E non vedavamo l’ora di cenare Ma le femmine erano schizzinose E consideravano le cene pietose Ma dopo cena era bello giocare E a letto tanto spettegolare Ma quanti odori la sera togliendo gli scarponi Nelle camere puzzavamo come i caproni Sole, vento, neve e tempesta Questo trekking è stato una festa. I venti partecipanti al Trekking alta via n°1 – 27-30 agosto 2010 30/08/2010 Appena svegliati, che meraviglia, eravamo immersi nella neve. Insieme alla neve delle bellissime nuvole nascondevano il passo dove dovevamo andare… e pensare che siamo in agosto con la neve!!! Ci siamo messi in marcia incappucciati con berretti e guanti di lana ed ha cominciato a nevicare… sembravano palline di polistirolo. Intorno a noi un paesaggio meraviglioso, le montagne innevate. Che bello… sembra già Natale!!! E dalle palline di polistirolo siamo passati a fiocchi di neve soffici che ci hanno tutti ricoperti. Ma adesso siamo al bel calduccio di un rifugio e finalmente è ritornato il sole. Aspettiamo il pullman con il cuore colmo di gioia per le emozioni vissute fino ad ora, ma triste per il ritorno a casa. Luca Giacon Gruppo delle ragazze: Arianna, Anna, Sofia, Benedetta, Greta, Maria, Francesca. Bello il trekking anche se faticoso, ma siamo contente perché tra noi è nata una bella amicizia che speriamo continuerà anche dopo… Quanti cerotti per le vesciche che ci siamo scambiate: evviva compeed!!! P.S. Attualmente sconvolte perché ad ogni 78 alpinismo giovanile di Francesca Tiso e Giulia Capitanio Trekking lungo l’antica Via del Sale 11-17 LUGLIO 2010 “ecco quello che si prova!!!” Fatica, gioia, impegno, curiosità, soddisfazione, determinazione, passione… e ce ne sarebbero molti altri da elencare, ma questi sono i sentimenti che meglio ci ricordano quella settimana. Quest’ anno, per la prima volta, il C.A.I. di Padova ha partecipato alla settimana di trekking internazionale organizzato dall’ U.I.A.A. (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche). Il trekking, organizzato dalla Sez. del C.A.I. di Sanremo, si è svolto lungo le antiche Vie del Sale tra la Liguria e il Piemonte. Il ritrovo per tutti i ragazzi partecipanti era a Sanremo. Arrivati all’hotel abbiamo passato un intero pomeriggio tra le vie della città, iniziando a conoscerci. Il gruppo, formato da 20 ragazzi, comprendeva spagnoli, catalani, un sudafricano e noi italiani, provenienti da ogni parte dello Stivale! Lunedì 12 luglio: Primo giorno:il più traumatico! Dopo un’ ora e mezza di pullman ci siamo messi in marcia, con destinazione rif. Don Barbera. Per iniziare in modo “leggero” il trekking, abbiamo camminato ben 8 ore prima di raggiungere il rifugio! Ormai l’imbarazzo iniziale di trovarsi in mezzo ad un gruppo di sconosciuti era passato, e già iniziavamo a legare più di quanto avessimo pensato! Martedì 13 luglio: Il percorso è stato molto meno faticoso rispetto al primo giorno; la nostra destinazione è stato il rif. Mondovì. Quella notte siamo capitate in camera col gruppo spagnolo e, nonostante i problemi linguistici,siamo riuscite ugualmente a ridere, scherzare e divertirci! Mercoledì 14 luglio: Raggiunto il Passo delle Saline (2174 m), 79 alpinismo giovanile Quel pomeriggio siamo arrivati al rif. Allavena, dove ci hanno raggiunto i ragazzi dell’alpinismo giovanile di Sanremo, che avevamo conosciuto il primo giorno! Dopo cena, a nostra insaputa, gli accompagnatori ci hanno preparato in una radura in mezzo al bosco un finto falò dove ognuno di noi ha posto la propria pila. A ritmo di musica abbiamo iniziato a danzarvi spensieratamente intorno, è stato un momento davvero indimenticabile. Sabato 17 luglio: Purtroppo era arrivato anche l’ultimo giorno. Stanchi ormai dalla settimana ma ugualmente determinati, abbiamo raggiunto la cima del monte Toraggio (1973 m) percorrendo il sentiero degli alpini. La giornata si è conclusa con il ritorno a Sanremo e una grande cena d’addio. Tra le lacrime ci siamo salutati con l’ augurio di ritrovarci un giorno ancora insieme! Ringraziamo tutti i nostri accompagnatori per averci permesso di vivere un’ esperienza di questo genere, gli accompagnatori della sezione di Sanremo, e tutti i ragazzi con i quali abbiamo condiviso questi indimenticabili momenti! È stata un’ esperienza stupenda non solo per i meravigliosi paesaggi e luoghi che abbiamo visto ed esplorato, ma soprattutto perché ci ha donato l’opportunità di conoscere tantissime persone con culture e mentalità diverse da quelle che già conosciamo! siamo arrivati sulla cima delle Saline stesse, e poi sulla cime di Pian Ballaur (2604 m). Questo è stato il giorno in cui abbiamo fatto la salita con maggior dislivello, ma, ormai allenati dai giorni precedenti, l’abbiamo affrontata senza problemi! La destinazione, ancora una volta, è stata il rif. Don Barbera. Giovedì 15 luglio: Arrivati in cima al Colle delle Selle Vecchie (2098 m), abbiamo proseguito in cresta, fino ad arrivare al rif. Sanremo, dove abbiamo pernottato. L’esperienza di stare in questo rifugio è stata unica, in quanto il rifugio, appartenente al C.A.I. di Sanremo, era occupato esclusivamente dal nostro gruppo! Inoltre la cena, preparata da cuochi provetti, è stata a dir poco superba! Quella sera abbiamo visto anche un tramonto meraviglioso. Francesca Tiso e Giulia Capitanio Venerdì 16 luglio: La sveglia è stata a suon di campanacci e urla degli accompagnatori, che risate! Dopo essere saliti fino al monumento della fratellanza, siamo giunti prima sulla cima del monte Saccarello (2200 m) e, dopo essere ridiscesi, abbiamo raggiunto cima di Marta (2138 m): sembrava irraggiungibile! 80 alpinismo giovanile 81 escursionismo Bilancio del XII Corso di Escursionismo Il XII corso escursionismo sta per finire dopo sei mesi intensi di montagna ed è tempo di farne il bilancio. I due direttori, freschi di patacca AE, hanno dato davvero il massimo dell'impegno e dell'entusiasmo per portare avanti questo corso e l'entusiasmo sono riusciti a trasmetterlo anche agli allievi, molti dei quali, nella pausa estiva, non ancora stanchi di montagna, si sono messi alla prova in Dolomiti, lanciandosi in imprese alpinistiche non da poco. Ne cito solo alcune: la salita all'Avezzana sulle Pale di San Martino, la ferrata delle Mesules sul Sella, il Civetta per la ferrata degli Alleghesi e la salita alla Tofana di Mezzo. Questo è lo spirito del corso, dichiarato sul libro in vetta a Cima d'Asta: “XII corso escursionismo: non ci ferma più nessuno”. Di esperienze ce ne sono state tante, non so definire se belle o brutte, ma sicuramente intense. La prima adrenalinica corda doppia a Santa felicita o ai Denti dea Vecia e quella fatidica domanda che si ripete nella testa mentre inizi la calata: terrà il Machard? La teoria e la pratica sui nodi, cosa rimasta oscura per alcuni. La faccia interdetta del presidente che dopo aver chiesto ad un’allieva qual è il nodo che si usa per l’autoassicurazione si è sentito rispondere “Il nodo marinaio”. La nomina del cambusiere Ceck, la terza persona per importanza del corso dopo il direttore e il vice. L’ora passata in galleria al 82 freddo dal gruppo degli ultimi sul corno Battisti per un’inspiegabile coda per scendere 15 scalini dentro il pozzo che portava all’esterno. Il sesto grado tentato da un corsista per andare a far pipì in un posto discreto dal quale non riusciva più a scendere. Le prima lunga fatica sul Pasubio dove gli allievi sono riusciti a completare la ferrata in otto interminabili ore per poi scendere in due ore di corsa. I cinque kg di insalata di riso fatti evaporare in cinque minuti dalla comitiva al termine della gita. Le assicurazioni con le corde per alcuni sulla ferrata Guzzella e Sass Brusai sul Grappa dove i sentieri ripidi e la roccia liscia e la pioggia intensa sul sentiero di ritorno hanno insegnato ai ragazzi che in escursionismo montagna non si scherza. La pessima tanica di vino da 5 litri portata dal vicedirettore e spacciata per prosecco. L'atletica ferrata Climb Varmost sul Clap Varmost completamente strapiombante che ha fatto sentire tutti insicuri durante il percorso ma degli eroi una volta arrivati in cima. I ragazzi del Cai di Codroipo che ancora si chiedono come abbia fatto un corso escursionismo a fare una ferrata del genere. Il prosecco del vice che finalmente ha speso qualche euro in più. L'orientamento sotto l'acqua a Gallio dove i ragazzi si sono persi tra le malghe dell'Altopiano. Il trio di Lello, Stefano e Guido che ha dimenticato dove erano state nascoste le lanterne. La magnifica due giorni in Friuli sulle Alpi Giulie dove, a dispetto della commissione biveneta, abbiamo imparato che un sentiero attrezzato a volte è ben più difficile di un via ferrata soprattutto se è stato attrezzato cent'anni fa e mai più sistemato, dove qualcuno ha dovuto rinunciare alla cima del Jof Fuart (e anche questa è una lezione) e dove abbiamo visto il bambino che giocava con gli stambecchi. Cima d'Asta ovvero la salita nella nebbia che non finiva più. Siamo stati il primo corso a fare la Ola al diradarsi delle nubi in vetta per qualche istante. La Cengia Veronesi sul Lagazuoi, dove abbiamo toccato con mano che i sassi, quando cadono, fanno paura oltre che rumore. Lo spritz post gita preparato dai corsisti, come rimedio alla fatica. Il vicedirettore che scambia la telefonata di reclamo per il ritardo serale del pullman con uno scherzo telefonico (le gite l’anno prossimo temo che si faranno tutte in auto). La Salita a Pramaggiore, perché in montagna si può fare sempre fatica quando si vuole e perché Cima d'Asta non era stata abbastanza lunga. La Strada degli Alpini per salutarci con il ricordo di un paesaggio grandioso. 83 Mi dispiace solo che questo corso sia finito. Speriamo di continuare ancora a vederci perché oltre ad avere insegnato la tecnica per affrontare qualsiasi tipo di percorso escursionistico in montagna, questo corso avrebbe dovuto anche insegnarci che andare in montagna in compagnia è più bello. Non so se in questo corso mi sono sentita più allieva che accompagnatore. Di cose da imparare ce ne sono state davvero tante e in ogni caso mi sono divertita moltissimo. Complimenti ai direttori. Michela PS: chi volesse saperne qualcosa di più, può andare a leggere il Diario del XII corso escursionismo sul sito Web del CAI di Padova http://www.caipadova.it/?id=297 escursionismo di Luca Barban XII Corso di Escursionismo Avanzato UN SUCCESSO PIENO PER IL DIRETTIVO E I CORSISTI 15 incontri serali di lezioni teoriche e 12 uscite pratiche includenti 2 weekend in alta quota: questo il programma del XII° corso di escursionismo avanzato organizzato dalla sezione CAI di Padova ediretto tra aprile e settembre dagli AE Adriano e Federico Bortolami: un percorso lungo e intenso, che sin dall’inizio ha voluto dare ai frequentanti un tono di rigore e competenza nell’alternarsi di relatori titolati e accademici di livello nazionale e sezionale. Le lezioni di teoria hanno interessato molteplici aspetti dell’affrontare l’ambiente montano: dalla psicologia di gruppo al primo soccorso, dall’alimentazione alla sicurezza, dalla meteorologia alla geologia, dall’orientamento alla fotografia, per passare attraverso elementi di ecologia, cartografia e filosofia del Club Alpino Italiano. Le 12 escursioni programmate hanno verificato in ambiente le tecniche apprese in sede patavina, conducendo i corsisti a lambire quota 3.000 con la conquista di Cima d’Asta, spaziando geograficamente a nord con le Dolomiti di Sesto, a est con il gruppo dello Jôf Fuârt, a sud con i Colli Euganei e a ovest con il massiccio del Pasubio. Un po’ come Giobbe di fronte alla tanto attesa risposta che gli giunge da Dio al termine di un’effimera contesa dialettica sull’eterno significato dell’esistenza umana (“Quando gettavo le fondamenta della Terra, tu dov’eri? / Dimmelo, se sei così intelligente” Gb. 38, 4), anche i corsisti si sono trovati infanti allo stendersi ai loro occhi di impressionanti strapiombi, lunari paesaggi e infiniti orizzonti 84 che ben caratterizzano il comprensorio dolomitico che tanto spesso ha fatto da sfondo privilegiato alle escursioni domenicali. L’aver appreso dinamiche, tecniche e metodiche nel progredire in quota con sicurezza ha di certo alimentato lo spirito critico e la consapevolezza che la montagna, oltre a nutrire ambizioni e a garantire soddisfazioni, richiede abnegazione, allenamento e tenacia nell’affrontarla. L’ultima frontiera di quella libertà residuale che ancora intatta si offre all’uomo moderno dalla notte dei tempi geologici in cui il nostro pianeta è stato in grado di offrire al Creato un ambiente ospitale, attende ognuno di noi nella sua ancestrale meraviglia che genera stupore a ogni passo che superi un precedente arrivo considerato insondabile, inaccessibile, irragionevole. Ecco allora l’insegnamen- escursionismo to più importante che il corso ci consegna, come al termine di una parabola messianica che solo il momento empirico, di prova può far scaturire e comprendere appieno: “Molte cose non vengono osate perché sembrano difficili, molte sembrano difficili perché non vengono osate.” (W. A. von Kaunitz) Il retaggio di quanto appreso ci accompagnerà sicuramente nelle nostre prossime imprese in quota, in solitaria o in compagnia di amici di vetta, mantenendo sempre cri- stallina in noi la sensibilità e la voglia di lasciarci stupire dall’ambiente alpino nelle sue più diverse sfumature paesaggistiche e variabili emozionali che ciascuno saprà cogliere ed elaborare in un’esperienza di montagna sempre unica, inimitabile e irripetibile. Il merito di ciò e il plauso unanime vanno al Direttore AE Adriano Bortolami e al Vice Direttore AE Federico Bortolami, capaci di tessere significative relazioni non solo sotto il profilo cognitivoperiziale, ma anche amicale, come il sodalizio CAI disciplina viga tra i soci. Un ringraziamento dovuto si estende poi a tutto il 85 personale titolato della sezione che ha accompagnato noi corsisti durante l’intera vicenda, elargitore di suggerimenti, incoraggiamenti e supporto nelle varie situazioni susseguitesi in questi cinque mesi di cammino percorso insieme. Luca Barban alpinismo di Matteo Mason Il 7° corso di Alta Montagna visto dal Direttore Siamo a Marzo 2009, alla cena del corso di cascate 3 “loschi” individui dalle somiglianze ARACNIDEE circuiscono la mia signora e, con ipnotico discorso, ottengono la liberatoria perché io mi occupi della direzione del Corso di Alta Montagna 2010. A questo punto non posso assolutamente controbattere questa decisione e inizio a strutturare il corso ed i relativi contenuti. Per fare questo, come in una ricetta culinaria, si analizzano gli ingredienti, come vanno amalgamati e poi cucinati per la buona riuscita del corso: − nulla osta della famiglia: OK − vicedirettore: più che OK − amici istruttori: OK − itinerari di ampio respiro: OK − allievi: ????? (variabile indefinibile fino alla prova sul campo!). Definiti gli ingredienti di cui sopra, alla presentazione del corso diamo un chiaro messaggio sulla tipologia dello stesso e spieghiamo da subito che il corso sarà un “corso democratico di natura dittatoriale”, cioè non sono ammesse discussioni. Dieci sono i predestinati con i quali partiremo per questa avventura che ci porterà a toccare molti degli aspetti dell’alpinismo d’altri tempi: levatacce, lunghi avvicinamenti, iti- nerari poco segnati, discese insidiose, meteo fastidioso, quota, sole, freddo, fame, sete, mal di testa, vesciche, … esperienze che forse non tutti immaginano di poter provare in questi tempi di confort. Il corso inizia il 9 maggio, dopo benedizioni varie (quelle vere!), con l’assaggio di cosa significa arrampicare con gli scarponi invece delle scarpette; l’itinerario è la Cresta di Rocca Pendice. Dopo pochi metri i “magnifici 10” già si domandano dove sono finiti, se al Corso di Alta Montagna o a Parco dei Tigli… ma, davanti a loro, scoprono un nuovo sentiero, quello che porta all’antica arte di salire con gli “scarponacci” e scoprono anche che, prese le misure, tutto sommato questo tipo di arrampicata non è proprio ostica. 86 Dopo il primo assaggio di Rocca Pendice ci spostiamo sul ghiacciaio della Marmolada e dato che la Nord è molliccia per il caldo, facciamo la variante per la spalla nord affondando fino al ginocchio, giusto per fare un po’ di fiato. I ramponi rimangono ben chiusi nello zaino e al rientro alcuni provano, a sorpresa, la scivolata controllata! Per ritemprarci della fatica Claudio Dec, (da non confondere con Claudio Vil), la sera prepara un suntuoso Moito rigeneratore (per chi non lo conosce trattasi di bevanda tipica di Malga Ciapela che integra velocemente i sali persi durante la salita…) dopodiché stringiamo un gemellaggio di “sangue e costicine” con il corso di Alpinismotour diretto dal plurimedagliato Mauro. Tutto procede come da pro- alpinismo gramma e, dopo la lezione di Giuliano sui materiali ed il loro corretto utilizzo, ad inizio luglio si parte per il Rif. Diavolezza (in realtà è più un albergo) nella zona dei Pizzi Palù. Qualcuno (non faccio nomi: Zurro, Dec, Petit NO) vorrebbero fare la salita al rifugio senza utilizzare la funivia, ma quando sentono che è gratis cambiano velocemente idea. Dopo vari mal di testa, dovuti non tanto alla quota ma alla decisione di quale sistema di legatura in conserva adottare (cortissima, corta, media con spire, a V, a V rovescia, media senza spire, media con nodi a palla, lunga con magic ring, lunga e basta…) il gruppo si divide in due e affronta la Cresta Kuffner al Palù Orientale e il Naso di Cambrena al Piz Cambrena. Salita impegnativa ricca di belle gratificazioni e momenti indimenticabili, la prima, ravvivata da 2 varianti di discesa, una per alpinisti e l’altra per rifugisti (a voi la scelta), la seconda. Il terzo giorno i sopravissuti si dedicano alla “parte oscura” del manuale: il capitolo “recuperi da crepaccio”; gli otto fortunati provano sulla loro pelle (del collo) il famoso recupero “triangolo di Vanzo” e, riuscendo a modificarne le procedure, lasciano il compagno nel profondo crepaccio per ore ma alla fine tutti riescono a tirarlo fuori (assiderato). Dopo i tre giorni di aria fine si rientra nell’umidità della pianura, in attesa dell’ultimo appuntamento del corso; Rif. Città di Mantova sul gruppo M.te Rosa. E l’appuntamento, a fine luglio, arriva subito: dopo il viaggio di trasferimento, il gruppo si ritrova il lunedì sotto una leggera nevicata e, con scarsa visibilità, si divide in due gruppi; un gruppo sale la cresta del soldato alla Punta Giordani in un ambiente che, grazie al meteo, è isolatissimo; l’altro gruppo procede verso la Piramide Vincent dopo aver assaggiato la cresta Sud Ovest e verificato gli effetti dell’alta quota sul proprio fisico. Il martedì il cielo coperto, che darà poi spazio al sole, e il vento tagliente, che ci accompagnerà per tutta la giornata, non impediscono la salita a Punta Gnifetti per un gradito ristoro a Capanna Margherita e successiva salita del Corno Nero nella fase di rientro, a conclusione della parte pratica del corso. Mercoledì i “magnifici 10”, come degli automi, si impegnano allo spasimo a manovrare con il mezzo poldo con presunto spezzone ausiliario in quasi autosufficienza; Valeria finisce tutti i propri 87 moschettoni e vorrebbe scendere a valle per fare riassortimento, Roberto in chiusura di giornata inventa la variante “VBR” ossia Vanzo By Roby (però crediamo che non avrà futuro), Turro viene issato con leggerezza da Riky (+ Andrea + Ceci ), Petit abbracciato dal Dec che lo ha salvato dal profondo e buio alpinismo del gioco con partecipazione ed interesse. Ora, alla fine di questo percorso a tappe (… ma si capiva già dall’inizio), anche l’ultimo ingrediente della ricetta, quello più importante, è OK. Grazie a tutti i partecipanti, oramai ex allievi, perché hanno saputo venire incontro alla mutabilità del corso e degli istruttori. A voi un augurio: che continuiate a praticare l’alta quota gratificati da innumerevoli albe. crepaccio, Fabio non sbaglia un colpo quasi fosse un robot, i ragni … tessono tele su tele e Claudio Vil tira fuori dal crepo Homo Cornutens. Anche se non è stato possibile affrontare tutte le situazioni che si possono incontrare in terreno di alta montagna, credo che tutti abbiamo avuto modo di metterci alla prova e comprendere che in questo ambiente, dove la montagna regna sovrana ed esige comunque e sempre rispetto, conta più la motivazione che la preparazione tecnica. Più che in altre situazioni la sicurezza è data, oltre che dal corretto utilizzo dei materiali, dalla fiducia e dallo spirito d’intesa che si crea con il compagno di cordata. Tutto questo girovagare per le Alpi ci ha riportati a casa stanchi ma arricchiti di esperienze, con immagini indelebili e tante “pacche” sulle spalle. Tutto ciò è stato reso possibile dalla amichevole generosità del vice-direttore, dalla disponibilità di tutti gli istruttori che hanno partecipato (Margot, Franz, Federico, Ceci, Enrico, Franco, Andrea) e degli allievi che si sono sempre resi partecipi 88 Il direttore del corso di Alta Montagna 2010 Matteo Mason alpinismo di Valeria Baratella Corso di Alta Montagna 2010 Una cima innevata in ambiente di Alta Montagna rappresenta, e perdonate l’intrinseco gioco di parole, l’elevazione massima che un allievo aspirante ‘alpinista’ può pensare di raggiungere nel proprio andar per monti. La sua bellezza esercita un fortissimo richiamo, ma più la guardi, e più provi un senso di disagio, perché sei consapevole che risalirla è improponibile senza un’adeguata preparazione, che è faticosa, insidiosa, forse molto più che una parete rocciosa da arrampicare. Quest’anno si è tenuto il tanto atteso Corso di Alta Montagna nella nostra Sezione Cai di Padova, dopo ben quattro anni che non veniva proposto… lunga l’attesa e incerta la speranza, pensando chissà quanta gente si vorrà iscrivere e tenterà di accaparrarsi i posti, per sé ed i propri amici. È grande per tutti la gioia quando esce il verdetto: idonei ed ammessi al mirabile corso! qui la montagna fa ciò che vuole. Ci si lega nella parte finale… ed assaggiamo già cosa vuol dire fermarsi al freddo e dover fare manovre veloci (magari…!), perché c’è molto vento e nuvoloni che oscurano il sole. Si scende dalla via normale. Poco prima del Rifugio Pian dei Fiacconi, arriva l’acquazzone con pioggia, grandine, tuoni e fulmini: mooolto bello con la ferraglia stare in mezzo al temporale!!! Bene, come prima uscita non sono mancate le emozioni…!! Tra noi allievi ci si inizia a conoscere e il corso si presenta promettente, come si pensava. Ora tocca alla prima lunga uscita del corso: dall’1 al 4 luglio sul Bernina con pernotto alla Chamanna Diavolezza. Ci si trova in orario decente la mattina a Limena, si fanno le macchine, e si parte per la Ecco che comincia l’avventura con le prime lezioni teoriche, e poi, la prima salita di preparazione a Punta Penia in Marmolada dal versante Nord-Ovest: pendio di neve abbastanza ripido ma privo di ghiaccio. Qualche slavina scesa quà e là rende subito l’idea che 89 Svizzera, ragazzi…!!! lungo la strada siamo un po’ inquieti… ci chiediamo cosa avranno in serbo per noi il nostro caro Direttore, Matteo ed il prode Vice, Gianrino…!! Arriviamo ben presto nel bucolico ambiente Svizzero, prati monti e laghetti come nelle migliori cartoline… Prendiamo la Funivia che in pochi secondi ci catapulta a quota 3.000 m: gli zaini scoppiano, portiamo di tutto: eh sì, troppa fatica in funivia!! Restiamo sorpresi nel vedere quanti giapponesi vengono a queste quote… sono un centinaio e sono ovunque… è facile in funivia… Dopo la cena con strane ed abbondanti pietanze svizzere, ci vengono comunicate le cordate: metà persone sul Naso del Pizzo Cambrena, gli altri a fare la Cresta Kuffner sul primo dei Piz Palù. Siamo tutti entusiasti, stu- alpinismo diamo bene la via sul mitico e labirintico libro TCI per carpire il percorso… la mattina colazione veloce ad un ottimo buffet e si parte tutti per la lunga marcia: ore 04:30. Sorge l’alba dopo poco, e che bellezza… Non fa freddo. Ci dividiamo dopo nemmeno due ore di cammino. Io salgo al Pizzo Cambrena arriviamo alla base della cresta e scopriamo presto che l’ambiente è severo: è inizio Luglio ma fa già caldo e la montagna si scrolla di dosso i resti dell’inverno… cioè piovono le pietre, che sembrano dotate di vita propria! Benon, andiamo avanti. Percorriamo la cresta in conserva media, con protezioni veloci lungo la salita. Occhio ai sassi, qui cascano appena li sfiori. Con un po’ di angoscia e molta attenzione guadagnamo il ‘naso’ finale innevato. Non c’è ghiaccio, si procede quindi tranquillamente sul pendio ripido. La cima arriva dopo breve camminata, non senza aver ascoltato il nostro Direttore che ci illustra in loco le migliori tecniche di assicurazione della cordata, epperò il direttore… se rinviasse sul cemento non sarebbe meno sicuro… Si arriva così alla pseudocima… quella vera è un po’ più a sinistra. E ben presto ci accorgiamo anche che siamo fuori dal facile… perché non riusciamo ad individuare la via del rientro… Ecco che giriamo e giriamo senza successo. De quà non se passa, de là manco ancora. Ebbene, qual è il problema? Vedi quà: scendiamo verso est e prendiamo la cresta del Piz d’Arlas che ci riporterà ‘comodamentÈ al ghiacciaio di partenza. Iniziamo la marcia… la lunga, lunghissima marcia. Questa cresta è molto bella, ma ‘marcia’ anch’essa, proseguiamo in conserva e stando sempre attenti a non smuovere le pietre con la corda, scendiamo in arrampicata, in corda doppia, in traverso… non è difficile ma la via è sempre molto esposta. Scendiamo per la parte finale su una grande frana caduta da poco tempo… i massi rimasti non sono proprio stabili!! ma proseguo e finalmente arrivo sul ghiacciaio…. E vai, che è fatta! Siamo ormai al primo pomeriggio e ci vogliono ancora un paio d’ore per tornare alla base, fatica fame e sete, quasi finita la camel bag… dài, gli ultimi sforzi…! E si ritorna al Diavolezza. Adriano, Claudio, Roberto, ed io: siamo stanchi ma soddisfatti, caspita, abbiamo camminato quasi 13 ore in questo ambiente spettacolare, sempre vario e mai banale. Gli altri hanno fatto una cresta più lunga ed impe90 gnativa, la Cresta Kuffner al Piz Palù… qualcuno è già tornato, qualcun altro arriverà più tardi!! Siamo tutti stanchi ma contenti e gasati: è andato tutto ok! Il giorno dopo si invertono le uscite; due persone in meno per problemini vari; scatta la competizione per il gruppo che va al Cambrena. I vittoriosi istruttori ci raccontano con quali rocambolesche discese su canaloni semi ghiacciati, corde doppie, corde fisse e assicurazioni sul ghiaccio vivo, riescono a guadagnare la discesa individuando la via ‘normalÈ scritta sul manuale… Secondo giorno passato, non ci aspetta che la mezza giornata di manovre e soste su neve e ghiaccio, ma per le manovre di recupero da ghiacciaio, chi scende nel crepo siamo noi allievi…!!!! Fatta anche questa si rientra alla base; macinando chilometri ripensiamo a quest’ambiente aereo, sospeso, e delicato; i pericoli oggettivi impongono una presenza di spirito costante, per poterli prontamente riconoscere, prevenire ed anche, evitare….. Dopo le dovute considerazioni, eccoci di nuovo attendere con trepidazione l’uscita clou: i cinque giorni sul Monte Rosa, l’Apice del nostro Corso. Tra e- alpinismo mail e serate preparatorie, arriviamo a domenica 25 Luglio: si parte per Alagna Valsesia! Divoriamo chilometri in macchina e tra una ciaccola ed una risata arriviamo a destinazione. Fa freddo, e sarà molto più freddo che ad inizio luglio! Ci avviamo a prendere i tre tronconi di seggiovia e funivia che ci portano alle quote superiori del Pian dei Salati e poi sotto a Punta Indren, con l’ultimo troncone aperto da poco. Partiamo pian piano con gli zaini stavolta sì, in spalla per un po’, con destinazione Rifugio Città di Mantova. Qui di Giapponesi, stavolta neanche l’ombra!! Dopo una cena che non ha niente a che vedere con quelle luculliane (anche se un po’ pesantine…!) del Diavolezza, ci vengono comunicate le destinazioni del giorno dopo. Chi sale a Punta Giordano da sud-est per la Cresta del Soldato e chi alla Piramide Vincent per la Cresta sud. Si parte ben prima dell’alba… ma il tempo non è il massimo: una sottile nevicata e nuvole basse, ci fanno procedere piano per poter individuare il sentiero. Ci dividiamo subito. Si procede in un ambiente senza tempo, immersi nelle nubi; nevica, è silenzio, pochi alpinisti in giro… che figata, ci piace troppo… Pian pianino arriviamo senza perderci all’attacco della Cresta del Soldato. Il vice-direttore va in avanscoperta. La via è fattibile: si parte!! Io mi copro bene e metto le calde moffole: fa molto freddo. Si sale, si va, caspita sono con Gianrino e Roberto, cioè due missili, mentre io avanzo soprattutto all’inizio più lentamente, poi prendo meglio il terreno. Si procede sulla cresta, sospesi tra le nuvole, non si vede nulla intorno ma la via sì, per fortuna… il tempo può peggiorare, ma non importa, siamo qui e va bene così… Si fa un po’ fatica, la quota superiore alle solite, senti ben che la gamba c’è, ma il fiato meno. La via di cresta è abbastanza lunga ed ha 900 m di sviluppo, sono giusti per godersela senza esserne nauseati: è proprio bella… Con alcune brevi pause per mangiare e bere, si scavalcano massi e si aggirano sassi; tutto con ramponi stavolta, che teniamo dall’inizio alla fine… si sale un canalino innevato e si è quasi sotto la cima. Bene, arriviamo, sfasciume, roccette… Cima! Siamo in cima verso mezzogiorno e le nuvole si alzano quel poco che basta per vedere il panorama… graaazie, fantastico!! Lì c’è la Piramide Vincent con la sua bella cresta, ma noi la lasciamo là, perché poco 91 dopo scende di nuovo la nuvola e non si vede più un piffero… il tempo è stato stabile finora, ma non è sano rischiare altre ore per far la seconda cima. Quindi si scende dal ghiacciaio, c’è qualche crepetto, noi tagliamo verso sinistra e velocemente torniamo al punto da cui siamo partiti la mattina, sotto la ferratina che porta al Rifugio. È fatta, è andato tutto ok anche stavolta… una bellissima via!! Gli altri sono stati meno fortunati. A causa della nebbia non sono riusciti ad individuare la via di salita, e dopo un’acrobatica discesa in traverso su un punto ripido e ghiacciato, hanno abbandonato la cresta e sono saliti alla Cima per la via normale. Il giorno dopo ci va ancora peggio. Si parte con poca lena perché il tempo è inclemente: nevica e c’è un vento teso che non invoglia a partire. Lentamente ci si avvia sulla ‘normalÈ alla capanna Margherita, unica meta fattibile a causa del tempo cattivo. La cresta del Lyskamm, in programma, con il tempo brutto non si può certamente fare. Si sale nella nevicata, c’è vento e fa freddo. Così arriviamo ad un pianoro a quota 3.900 dove ci fermiamo per ricompattarci. Il tempo non migliora! Dopo venti minuti, appena alpinismo riuniti, ci si ridivide: cinque persone tornano al Rifugio ed altrettante proseguono, sperando che il tempo migliori nel corso della mattinata come il giorno prima. Ed infatti, finalmente, il sole ricompare verso le nove! Così i prodi salitori nonostante un freddo becco arrivano alla Capanna Margherita e riescono a gustarsi lo spettacolo del panorama megagalattico. Durante la discesa poi, approfittando del sole ormai stabile salgono anche il vicino Corno Nero dallo scivolo ghiacciato. Adriano, Enrico, Claudio e Claudio, Filippo e Fabio. Bravi!!! Nel meriggio non troppo tardi tornano i compagni alla base, e si fa baldoria insieme sulle panche fuori dal rifugio (ormai ci siamo abituati al fresco!), con le cibarie che i portatori tibetani si sono generosamente caricati sulle spalle... Grazie amici!! Il tempo purtroppo è in peggioramento e così si decide di tornare a casa un giorno prima. Si parte l’indomani alla volta del nostro crepo, ma stavolta ben vestiti, il vento freddo non ci spaventa. E si ritorna nel pomeriggio verso Padova, contenti di aver comunque vissuto una magnifica avventura! Cos’altro c’è da dire?? Questo corso è stato molto importante per rendersi conto cosa significa attraversare un ambiente di Alta Montagna. Ci ha permesso di muoverci con una certa sicurezza, ma soprattutto, ci ha resi consapevoli che ci vuole davvero molta esperienza, preparazione atletica e pratica di montagna per non trovarsi nei guai. In effetti qui sei vicino al limite, un passo falso in conserva può far precipitare l’intera cordata; un cambio o un errore nell’itinerario nella migliore delle ipotesi fa perdere un sacco di tempo, perciò è potenzialmente pericoloso; un malessere o un incidente possono mettere in seria difficoltà. Essere veloci, nel percorso, nelle manovre, è assolutamente fondamentale; una valutazione errata, non ottimale o affrettata, espone a pericoli non calcolabili. È necessario sapere a priori se ci sono vie alternative, quali e quanti itinerari si possono percorrere, perché può succedere che strada facendo non sia possibile proseguire nel percorso definito a tavolino. È una avventura dove, necessariamente sempre, ci si mette in gioco al 100 % e dove non c’è spazio per le distrazioni, ci vuole presenza costante e fisico, si deve tener presente che si può camminare molte ore più del previsto, che può succedere di tutto, e 92 che bisogna essere pronti a tutto, avere nello zaino tutto ciò che può servire in caso di maltempo o bivacco di fortuna, perché la giornata è lunghissima e quando ti fermi, ti congeli in pochi minuti. Il nostro direttore Matteo Mason è stato un saldo punto di riferimento, sia nella spiegazione: poche parole estremamente precise, che nella pratica: un chiodo messo da lui sei sicuro che tiene, procede spedito e riesce a darti molta sicurezza; non ha paura di niente ciò…; conosce il posto dove si trova e quello che sta facendo; ma non di meno sono anche gli altri istruttori che lo hanno aiutato: Gianrino, anche lui estremamente sicuro e velocissimo insieme a Franco, saldi praticanti ripetitori di moltissime salite; paura di niente…! Federico, Andrea, ‘Ceci’, Enrico Daino, la Margot che purtroppo è uscita una volta sola, e m’ha lasciato come unica rappresentante femminile… beh, con maschietti galanti e gentili! Gli istruttori si consultano, ma sanno fare tutto e sono sicuri, non hanno incertezze. Bravi, bravi e grazie al corpo istruttori, che si è preso la ‘briga’ con passione di accompagnarci in questa bellissima scoperta. Valeria Baratella alpinismo 42° Corso di Alpinismo Vado in montagna da sempre, mi è sempre piaciuta e, fin da piccolo, sono sempre rimasto affascinato da tutti coloro che avevano addosso strani congegni di assicurazione. Dopo molto tempo quest’anno mi sono iscritto al CAI ed ho fatto il corso di Alpinismo, penso l’espe- nulla incoraggiante che purtroppo ci nasconde il panorama che si potrebbe godere dalla Regina delle Dolomiti. Dopo la consueta pausa estiva eccoci pronti per due uscite veramente belle: Cima Tosa e Zuckerhutl, le cime più elevate rispettivamente delle Dolomiti rienza più bella del 2010. Il corso è organizzato in lezioni teoriche e uscite pratiche, di cui la prima è alla palestra di roccia di Rocca Pendice. Due settimane dopo siamo a Mori, a fare la ferrata Ottorino-Marangoni al monte Albano: bella ma estenuante, anche a causa del caldo. Dopo una via normale nelle Dolomiti agordine, eccoci all’uscita più attesa della prima parte del corso: la Marmolada. Riusciamo tutti a raggiungere Punta Penia, nonostante il tempo per di Brenta e delle Alpi dello Stubai, al confine tra Italia e Austria. A Cima Tosa ci dividiamo in due gruppi: la maggior parte salirà per la via normale mentre alcuni saliranno per la via Migotti, una semplicissima via di roccia, e ci ritroveremo in cima per festeggiare tutti quanti insieme. La giornata è discreta e la concentrazione richiesta per buona parte del percorso di avvicinamento alla via Migotti e per la via stessa fanno volare il tempo: dopo 93 circa cinque ore eccoci finalmente arrivati in cima. La soddisfazione è tanta ed il posto stupendo e nessuno di noi vorrebbe più scendere. La settimana successiva, nelle Alpi dello Stubai, è previsto un meteo a dir poco pazzesco ed il giorno seguente così è: non c’è neanche una nuvola che si staglia in tutto l’orizzonte. Baciati dai raggi dell’ultimo sole estivo, raggiungiamo in sole 4 ore la cima del Pan di Zucchero. Dai suoi 3507 m di altitudine si può ammirare un panorama mozzafiato a 360° tra Italia e Austria. Poco dopo iniziamo la lunga discesa, quasi 2000 m, che ci attende e che richiederà grande attenzione per l’attraversamento di un ghiacciaio molto crepacciato. Arrivati alle auto non ci sembra vero che il nostro corso sia già finito. Un grazie di cuore va a Mauro, il direttore, Giacomo (Jack) e Pierantonio, vice-direttori e a tutti gli innumerevoli istruttori che hanno partecipato con grande impegno e dedizione a questo fantastico corso. Filippo Carraro, Silvia D'Agostino, Elena Feo, Riccardo Simeoni, Sara Venuleo veterani I Veterani di Padova Incontrano gli altri gruppi seniores Il 26 maggio di quest’anno il GRUPPO VETERANI di Padova ha partecipato ufficialmente al 18° Raduno Lombardo dei SENIORES in Alta Val Brembana. Secondo i dati pubblicati dallo Scarpone di Agosto, erano presenti in Val Brembana 1234 seniores, di cui 1134 lombardi e 130 non lombardi. Dei non lombardi, noi padovani eravamo la rappresentanza più numerosa: “una cinquantina”, un intero pullman partito da Padova nel cuore della notte per arrivare puntuale all’inizio del Raduno fissato per le 8,30. E siamo arrivati puntuali nonostante il lungo viaggio! Per la prima volta, nei suoi 18 anni di storia, il Gruppo Veterani di Padova ha partecipato ad un Raduno del genere, aprendosi al dialogo ed al confronto con tanti altri gruppi seniores: una scelta maturata grazie ai numerosi contatti via internet che Paola Cavallin, in nome del Comitato Direttivo, nei mesi precedenti, aveva portato avanti con vari personaggi del CAI, in particolare con Gian Pietro Berlato, rappresentante del Triveneto nel Gruppo di Lavoro Senior del CCE (Consiglio Centrale Escursionismo), e Dino Marcandalli, Presidente della Commissione Senior Lombardia e componente anch’egli del Gruppo di Lavoro Senior del CCE. In Val Brembana abbiamo camminato, mangiato, bevuto, cantato, ma soprattutto abbiamo discusso con Berla- to, con Marcandalli e con altri amici, cercando di chiarirci le idee sul presente e sul futuro dei Seniores. Il numero dei partecipanti in Val Brembana, arrivati con pullman ed auto era impressionante e dava un’idea forte dell’importanza ormai acquisita dai seniores nel CAI. Il 24 agosto Maurizio Guglielmi e Paola Cavallin, come Gruppo Veterani di Padova, hanno partecipato a Verona ad un incontro dei rappresentanti dei Gruppi Seniores del Triveneto, incontro voluto da Gian Pietro Berlato per preparare il 1° Convegno Nazionale (7° Convegno Lombardo) dei Seniores che si terrà il 23 ottobre prossimo a Bergamo. A questo convegno Berlato farà una relazione sui gruppi senior del triveneto ed aveva quindi la necessità di raccogliere dati sulla realtà: quanti siamo, cosa facciamo, che problemi abbiamo, cosa vogliamo ecc. Erano presenti a Verona, generosamente ospitati (pranzo compreso) nella sede CAI Verona, rappresentanti di Bassano, Merano, Padova, Treviso e Verona Cesare Battisti, una quindicina di persone. Presiedeva Berlato. Si è parlato, ovviamente, molto del convegno di Bergamo, ma soprattutto è stata un’ulteriore occasione per conoscersi meglio e socializzare fra noi. Ognuno ha presentato il proprio Gruppo, la propria storia, l’attività, le iniziative, i problemi. Molti di questi sono comuni a 94 tutti, altri si diversificano per vari motivi. In particolare noi godiamo di un’autonomia organizzativa ed operativa in sede alla nostra sezione, in quanto riconosciuti come commissione dal Consiglio direttivo di Sezione. Riteniamo molto preziosa questa nostra autonomia che è frutto di vari fattori e di coincidenze fortunate, dovuta soprattutto da chi ci ha preceduto nella conduzione del gruppo ed in particolare dalla fiducia e simpatia di Armando Ragana – Presidente della Sezione CAI Padova - che con altri amici ha fondato il gruppo e che ci ha sempre capiti ed aiutati e mai interferito negativamente nella vita del gruppo. Alla fine della giornata veronese ci siamo lasciati con l’impegno che quel primo incontro deve essere l’inizio di una collaborazione persistente fra i gruppi seniores del triveneto. L’idea è di costituire una commissione di coordinamento del Triveneto della quale dovrebbero far parte almeno due rappresentanti per ogni gruppo senior. Ora siamo in attesa del convegno di Bergamo. L’impressione è che molte cose bollano in pentola e che il futuro sarà ricco di novità. Speriamo siano novità buone! A cura del Direttivo del Gruppo Veterani CAI Padova ricordiamo Antonio "Nino" Portolan Nei giorni in cui questo notiziario stava per andare in stampa abbiamo appreso la triste notizia della morte di Antonio Portolan. Nino, come lo chiamavano gli amici, aveva 71 anni ed era da tempo malato di un male che non lascia scampo, nemmeno ai più forti come lui. Fino all’ultimo giorno ha lottato da leone contro il male, come del resto era nel suo DNA. Roveretano di origine, si avvicinò all’ambiente padovano agli inizi degli anni ’70. Fu socio della nostra sezione e Istruttore di Alpinismo della Scuola “Piovan” sino al 1975 col titolo di Istruttore Nazionale. Poi “emigrò” nella Scuola di Alpinismo del C.A.I. di Venezia, dove diresse alcuni corsi di roccia, sino a che per lavoro si trasferì con tutta la famiglia negli Stati Uniti. Tornato dopo alcuni anni in Italia appese le scarpette al chiodo, ma continuò sino alla fine a salire le sue montagne alla ricerca di nuove emozioni. Alpinista forte e determinato si avvicinò all’alpinismo quando ancora era studente a Padova. Il suo primo maestro fu quel Gianni D’Este, spesso da lui nominato, che più avanti lo porterà a conoscere e frequentare il gruppo dei “Pell e Oss” di Monza di Nando Nusdeo e Iosve Aiazzi. Questo incontro gli aprirà le porte alla scoperta di nuove montagne e di nuove avventure in giro per il mondo, Groenlandia e Sud America compresi. Per quanto ci riguarda più da vicino, il suo nome resterà legato alla spedizione “Città di Padova” del 1975, guidata da Toni Mastellaro, al Cerro Mercedario (6776 m) nelle Ande argentine. Al di là delle brutte polemiche che ne seguirono e mai del tutto chiarite, a Nino si devono indiscutibilmente due meriti: il primo di aver vinto con la guida fassana Almo Giambisi l’inviolata parete est del Cerro Mercedario e il secondo di aver soccorso e forse salvato la vita, rischiando la propria, tre compagni di spedizione in difficoltà e bloccati da più giorni sulla stessa parete di neve e ghiaccio da lui appena salita. Nel 1976 si unisce alla spedizione dei “Pell e Oss” nella catena andina boliviana e oltre al Chachacomani (6040 m), obiettivo principale della spedizione, scala quattro cime inviolate. 95 Una di queste sarà chiamata “Cima Padova”- 5280 metri. A Mariarosa, la sua compagna che ha vissuto con lui questi ultimi anni condividendo sino in fondo le sue passioni per la montagna, per la natura e per i fiori, ai suoi figli Silvia e Marcello e a Gianna, un forte abbraccio, sincero ed affettuoso. Nino non potrà mai essere dimenticato. Se non altro per quella montagna nelle Ande boliviane da lui dedicata a Padova. Sergio Carpesio ricordiamo Livio Bolzonella fondatore e direttore del coro del CAI di Padova Eccoci qua, questa volta per salutarti caro “LIVIO”, nostro grande “Meister”, grande figura dotata di raffinatissima sensibilità musicale ed artistica, sempre alla ricerca della più sofisticata perfezione. Le tue capacità le hai messe a disposizione di un gruppo di giovani, allievi della scuola di roccia e così nacque il “Coro” da te fondato nel lontano 1944, che si riuniva per le rituali prove settimanali nei locali della tua abitazione e della tipografia, anch'essa lustro di Padova per aver fondato il “Messaggero di Sant'Antonio”. Non è semplice spiegare con poche parole il livello raggiunto dal coro con il tuo contributo, anche definendolo elevatissimo e nominando i prestigiosissimi premi conquistati (basti ricordare che nel '53 vince il Concorso naziona- le dei cori di montagna con la giuria composta dai più importanti maestri del teatro La Scala di Milano e nel 2004 vince il IV festival dei cori della provincia di Padova), le trasferte in giro per l'Italia e l'Europa, rammentando la vastità del repertorio e illustrando il trasporto esecutivo che da sempre oltre a stupire l'ascoltatore ne coinvolge il cuore. Sei stato il grande trascinatore del coro, eri dotato di un grande carisma e hai speso la vita per il coro; credo di non esagerare se dico che vivevi per il coro sacrificando talvolta altri affetti. Ricorderemo sempre i tuoi inimitabili falsetti, i tuoi gorgheggi, i tuoi assolo, i tuoi rintocchi delle campane (indimenticabile “Stille Nacht” a Venas di Cadore). Ora ci hai lasciati nelle mani esperte di tuo figlio 96 Alberto, al quale hai lasciato la direzione qualche anno fa. Te ne sei andato lassù a dirigere i nostri ex coristi che sono abbastanza numerosi. Ti ringraziamo di tutto caro Livio, cercheremo di fare tesoro di tutti i tuoi insegnamenti, e … ti preghiamo: Livio, da lassù veglia su di noi, veglia sul tuo coro. Ciao Livio!