I tre moschettieri Anteprima

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I tre moschettieri Anteprima
BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI
ALEXANDRE DUMAS
I tre moschettieri
Traduzione di
Maria Bellonci
Introduzione di
Roberta Pederzoli
Titolo originale:
Les trois mousquetaires
Traduzione:
Maria Bellonci
Progetto grafico di copertina:
Lorenzo Pacini
Il logo BIG è stato realizzato da
Sebastiano Ranchetti
www.giunti.it
© 2008 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia
ISBN 9788809753570
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Prima edizione digitale 2010
Introduzione
ALEXANDRE DUMAS
Leggendario e carismatico personaggio del panorama letterario francese dell’Ottocento, Alexandre Dumas deve
forse in parte il suo temperamento appassionato e singolare
alla propria genealogia famigliare: il padre, il marchese
Alexandre Dumas-Davy de la Pailleterie, è un generale rivoluzionario meticcio, figlio di un aristocratico francese e
di una schiava nera di Santo Domingo, Marie Cessette
Dumas. La madre, Marie-Louise Elisabeth Labouret, fa invece parte di una famiglia della piccola borghesia. Nelle
sue memorie, lo scrittore afferma così di riunire in sé una
duplice appartenenza, aristocratica per parte di padre, popolare per parte di madre.
Alexandre Dumas nasce il 24 luglio 1802 a Villers-Cotterêts; la sua infanzia è offuscata dalla prematura morte del
padre, nel 1806, che lascia la famiglia in condizioni disagiate.
Dopo alcuni anni di studi privati, nel 1817 Dumas trova
lavoro nel proprio paese natale, presso un notaio di nome
Menneson.
Nel 1823, si stabilisce a Parigi, e comincia a frequentare i salotti letterari della capitale, ancora dominati dal
gusto classico, ma già attraversati dai primi fermenti romantici, ai quali lo scrittore si dimostrerà particolarmente
sensibile. Lo straordinario successo del suo dramma in
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INTRODUZIONE
prosa, Henri III et sa cour (Enrico III e la sua corte), il 10 febbraio 1829, lo proietta così di colpo in primo piano quale
esponente di spicco della nuova generazione di romantici.
Nel 1830, Dumas prende parte alla rivoluzione contro
i Borboni, in favore della repubblica, un’esperienza che lo
segnerà particolarmente e di cui parlerà a lungo nelle sue
memorie.
Sul piano personale, diventa ben presto famoso per l’interminabile e quasi leggendaria serie delle sue amanti,
molte delle quali attrici di teatro, ma anche nobildonne e
popolane; ricordiamo brevemente, oltre a Laure Labay,
madre dell’amato figlio Alexandre, nato nel 1824 e destinato come il padre alla carriera letteraria, Belle Krelsamer,
che partorirà nel 1831 Marie Alexandrine, futura artista e
scrittrice. Tuttavia solo Ida Ferrier avrà il privilegio di sposarlo, nel 1840, benché il loro matrimonio sia ben presto
destinato al fallimento.
Dopo il successo di Henri III et sa cour, Dumas continua
a dedicarsi al teatro, per il quale nutre una profonda passione; fra le sue opere più significative è possibile annoverare Antony (Antony), un dramma rappresentato per la
prima volta nel 1831, e La tour de Nesle (La torre di Nesle)
nel 1832.
Nello stesso anno, lo scrittore intraprende inoltre il
primo di una lunga serie di viaggi, che scandiranno spesso
i momenti difficili della sua vita e lo porteranno via via in
Svizzera, Italia, Belgio, Spagna, Inghilterra, Grecia, Russia,
Austria, Ungheria, Africa, sulle rive del Reno e nel Caucaso. Da tali peregrinazioni scaturiranno i volumi delle Impressions de voyage (Impressioni di viaggio), pubblicate fra il
1834 e il 1859.
È dunque solo in una fase successiva della sua carriera
che Dumas comincia a interessarsi al romanzo, attirato dalle
possibilità di guadagno offerte dall’esplosione di un inedito
fenomeno letterario-commerciale di massa: il feuilleton. Il
successo di questo genere romanzesco a puntate è legato da
una parte alla diffusione di quotidiani a prezzi accessibili
anche agli strati popolari della società, e dall’altra a una pro8
INTRODUZIONE
gressiva estensione del pubblico dei lettori. Sarà in particolare Émile de Girardin, proprietario del quotidiano La
presse, a lanciare la nuova tendenza, pubblicando La vieille
fille di Balzac. Benché il primo feuilleton sia dunque opera di
Balzac, ben presto il pubblico riconosce come veri e propri
maestri di questo genere letterario Eugène Sue, Frédéric
Soulié e Alexandre Dumas. In particolare, Dumas riesce a
costituire una redditizia attività di “scrittura industriale”, in
collaborazione con Auguste Maquet prima e Gaspard de
Cherville poi, servendosi inoltre dell’aiuto di una folta
schiera di “nègres”, giovani scrittori che dovevano occuparsi di tutto il lavoro preparatorio, legato alla documentazione. Nascono così i due romanzi più famosi dello scrittore,
Les trois mousquetaires (I tre moschettieri), e Le comte de Monte
Cristo (Il conte di Monte Cristo), pubblicati fra il 1844 e il
1845, e scritti in collaborazione con Auguste Maquet.
Lo straordinario favore di pubblico riservato a I tre moschettieri spinge Dumas a dedicarsi al filone del romanzo storico, pubblicando nel giro di pochi anni le sue opere più
famose: la trilogia dei moschettieri, completata da Vingt ans
après (Vent’anni dopo), nel 1845 e da Le vicomte de Bragelonne (Il visconte di Bragelonne) nel 1847, e quella sui Valois e le guerre di religione, di cui fanno parte La reine
Margot (La regina Margot), un romanzo pubblicato nel
1844, La Dame de Monsoreau (La signora di Monsoreau) nel
1845, Les Quarante-Cinq (I quarantacinque) nel 1847.
Dumas realizza infine un’importante tetralogia su Maria
Antonietta e la rivoluzione: il primo volume, Mémoires d’un
médecin: Joseph Balsamo (Giuseppe Balsamo: ricordi di un medico) è del 1846, seguito da Le collier de la reine (La collana
della regina) nel 1848, Ange Pitou (Angelo Pitou) nel 1850
e La Comtesse de Charny (La contessa di Charny) nel 1852.
Tuttavia, l’eccezionale popolarità di Alexandre Dumas
scatena ben presto aspre critiche: in particolare, nel 1845,
Eugène de Mirecourt pubblica un pamphlet intitolato Fabrique de romans: Maison Alexandre Dumas and cie., accusando apertamente lo scrittore di fondare il proprio successo sullo sfruttamento del lavoro altrui.
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INTRODUZIONE
Negli anni d’oro della sua carriera, Dumas fonda il
Théâtre Historique, nel quale verranno rappresentati adattamenti in forma drammatica dei suoi più celebri romanzi.
Nel 1849, fa inoltre costruire su una collina che domina la
Senna un edificio che battezzerà “Château de MonteCristo”.
Lo scrittore tenta più volte la carriera politica alla stessa
stregua di altri artisti, ma senza successo; fonda allora nel
1848 un proprio quotidiano, Le mois, dedicato a tematiche
politiche e storiche, destinato anch’esso al fallimento. In
questi stessi anni, gli eventi precipitano: il Théâtre historique viene chiuso nel 1850, a causa della crisi attraversata
dal mondo dello spettacolo. Anche la pubblicazione sui quotidiani non rende più così bene, e, per finire, Auguste Maquet decide di rompere la collaborazione con lo scrittore.
Dumas è costretto a dichiarare bancarotta, e si rifugia per
qualche tempo in Belgio. Nel 1857 Maquet intenta un processo contro di lui, rivendicando il diritto di paternità delle
sue opere, ma ottiene soltanto il rimborso di una percentuale dei diritti d’autore. Nel 1860, lo scrittore si unisce alla
spedizione dei Mille ed è nominato a Napoli da Garibaldi
“Direttore degli scavi e dei musei”. I suoi ultimi anni di vita
sono contrassegnati da viaggi, qualche tentativo letterario
e alcune conferenze in Francia e all’estero, che rappresentano ormai una rievocazione nostalgica dell’uomo che è
stato.
Alexandre Dumas muore nella casa di suo figlio a Puys,
vicino a Dieppe, il 5 dicembre 1870, e viene inumato definitivamente a Viller-Cotterêts nel 1872. Nel 1883, a Parigi, in Piazza Malesherbes, viene inaugurata la statua a lui
dedicata, realizzata da Gustave Doré.
I TRE MOSCHETTIERI
Il romanzo intitolato I tre moschettieri viene pubblicato per
la prima volta a puntate dal quotidiano Le siècle fra il 14
marzo e il 14 luglio 1844. Il racconto si apre con l’arrivo di
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INTRODUZIONE
D’Artagnan a Parigi, ed entra subito nel vivo della narrazione grazie all’episodio dell’incontro rocambolesco con tre
moschettieri del re, Athos, Porthos e Aramis, con i quali
il giovane stringerà un’amicizia profonda. Tuttavia l’intrigo
principale è costituito nella prima parte del romanzo dalla
vicenda dei puntali di diamanti, un prezioso gioiello che la
regina di Francia, Anna D’Austria, ha donato come pegno
d’amore al suo amante, il Duca di Buckingham. Scoperta
dal Cardinale Richelieu, che vuole perderla agli occhi del
re, la donna deve tornare al più presto in possesso della collana. Sarà proprio D’Artagnan, supplicato da Costanza Bonacieux, fedele domestica della regina di cui il giovane è
innamorato, a recarsi in Inghilterra e a tentare di recuperare in tempo la collana, ostacolato da Milady de Winter,
una spia del Cardinale.
La seconda parte del romanzo ruota invece proprio attorno al personaggio Milady, vero e proprio motore dell’azione sullo sfondo d’importanti eventi storici, fra i quali
l’assedio della Rochelle e l’assassinio del Duca di Buckingham. La donna, che è stata la moglie di Athos, si rivela in
effetti una creatura diabolica: la storia si sviluppa così sulla
base di uno scontro dagli esiti drammatici fra lei e D’Artagnan, e si conclude con la consacrazione del protagonista
come tenente dei moschettieri del re.
Nell’elaborare la trama del romanzo, Dumas s’ispira a
due diverse fonti: per quanto concerne i personaggi, l’ambientazione e alcuni aneddoti si rifà in particolare alle Mémoires de Monsieur D’Artagnan, un’opera pubblicata nel
1700 da Courtilz de Sandrars, centrata su un personaggio
realmente esistito, Charles de Batz de Castelmore d’Artagnan, le cui gesta sono narrate in maniera fortemente romanzata. Quanto alla vicenda legata ai puntali di diamanti,
e benché La Rochefoucauld accenni a questo episodio nelle
sue Memorie, sembra che Dumas abbia attinto l’aneddoto
alle Mémoires inedite di Louis-Henri de Lomenie, conte di
Brienne.
Nei Tre moschettieri, Dumas intreccia con abilità personaggi ed eventi storicamente attestati con personaggi ed
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INTRODUZIONE
eventi di finzione, tratteggiando un quadro del diciassettesimo secolo storicamente piuttosto fedele, ma al tempo
stesso mitizzato. Profondamente deluso dalla Restaurazione, dalla monarchia di Luigi Filippo D’Orléans e dal
trionfo della borghesia, lo scrittore attribuisce infatti al Seicento vissuto dai moschettieri le potenzialità che mancano
alla sua epoca: la libertà prima dell’avvento dell’assolutismo, l’avventura sempre in agguato per l’uomo valoroso,
la fedeltà al re, la difesa del proprio onore, il corteggiamento
della dama, il trionfo del valore, la solidarietà e l’amicizia
all’interno di “corpi” sociali coesi, quali ad esempio l’esercito dei moschettieri.
Da un punto di vista strutturale, l’impianto dei Tre moschettieri appare inestricabilmente legato alle esigenze tipiche del feuilleton: il romanzo si basa in effetti su un ritmo
rapido e incalzante, concepito per non perdere l’attenzione
del lettore, e sulla moltiplicazione delle vicende. Sull’intrigo principale vengono cioè a innestarsi tutta una serie
di episodi secondari, più brevi, riconducibili alla necessità
di incrementare quantitativamente la scrittura – i feuilleton
venivano retribuiti a riga – e di spingere il lettore ad acquistare il quotidiano tutti i giorni, per seguire gli sviluppi
della vicenda. Anche il trattamento di tempo e spazio è
funzionale all’intrigo; la trama si dipana cioè in luoghi e
momenti diversi, legati alla progressione dell’azione. L’autore evita infine lunghe descrizioni, delineando in maniera
sintetica, ma efficace, ambientazione e scene.
Eppure, il romanzo sfugge in maniera sottile agli imperativi del genere, fino ad acquisire una sua precisa fisionomia, e divenendo qualcosa di più di un semplice feuilleton destinato a un’effimera lettura di consumo. Innanzi
tutto, concependo I tre moschettieri come il primo volume
di una trilogia, Dumas introduce per la prima volta all’interno del genere del romanzo d’appendice il principio del
ritorno dei personaggi ideato da Balzac nella Commedia
Umana. Sviluppandosi ed evolvendo nei tre volumi – I tre
Moschettieri, Vent’anni dopo e Il visconte di Bragelonne –, le
vicende e il destino di D’Artagnan e dei suoi amici confe12
INTRODUZIONE
riscono così maggiore rilievo al ciclo nella sua interezza.
Del resto, la trilogia dei moschettieri, assieme alle altre serie
di romanzi storici realizzati nel corso degli anni, finirà per
costituire nelle intenzioni dello scrittore, al di là del mero
fenomeno commerciale, il “dramma della Francia”, una
sorta d’immenso affresco storico destinato a istruire i lettori meno colti.
Esperto autore teatrale, Dumas dà inoltre prova, nei Tre
moschettieri, della sua abilità nell’inventare dialoghi. Tali
dialoghi sono condotti in uno stile brillante, e si susseguono
a un ritmo rapido quanto l’incalzare dell’avventura, ricalcando spesso, nel veloce alternarsi delle battute, i tempi e
i modi del duello. I numerosi e sanguinosi duelli di cui l’opera è disseminata, tipici del romanzo di cappa e spada, sono
così in qualche modo bilanciati da quelli verbali, basati sull’arguzia e la padronanza della parola, i quali concorrono a
stemperare la tragicità delle vicende e a conferire all’insieme un tono più leggero e divertente. Dopo tutto, il
grande merito della scrittura di Dumas, nel caso dei Tre moschettieri, risiede proprio nella capacità di mantenere un
tono brillante, piacevole, ironico o addirittura comico, evitando così di ridurre il romanzo a una mera sequenza di peripezie, e soprattutto sfuggendo agli accenti melodrammatici e al manicheismo tipico di tanti feuilleton. In altre parole, al di là della drammaticità dell’intrigo principale – la
tragica storia d’amore fra Anna D’Austria e Buckingham,
lo scontro mortale fra D’Artagnan e Milady – i numerosi
episodi secondari e la descrizione del quotidiano dei moschettieri, narrati in tono leggero o addirittura comico, contribuiscono a dar vita a un romanzo complesso, in cui coesistono molte anime, e per questo destinato a rimanere nel
tempo.
Infine, i personaggi principali s’impongono nel corso
dell’opera come caratteri con un proprio spessore. Pur evitando lunghe digressioni, che appesantirebbero la narrazione, Dumas riesce cioè a evitare l’appiattimento psicologico facendo emergere la natura e le inclinazioni dei protagonisti attraverso le loro azioni, i dialoghi, e qualche
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INTRODUZIONE
breve cenno più esplicito. È il caso dell’eroe della vicenda,
D’Artagnan, che Dumas descrive brevemente al momento
della sua prima entrata in scena: «Per tracciare rapidamente il suo ritratto immagineremo un Don Chisciotte di
diciotto anni, senza armatura senza elmo e senza cosciali
[…] Il viso del giovane dagli zigomi rilevati che indicavano
astuzia, era lungo e bruno; le mascelle robuste avrebbero
rivelato in lui il guascone sebbene egli non portasse il tipico berretto del suo paese […]; l’occhio era aperto e intelligente, il naso aquilino disegnato con finezza. Troppo
alto per un adolescente, era troppo piccolo per un uomo
adulto». In queste poche righe si celano così tutte le caratteristiche – l’intelligenza acuta e concreta, la straordinaria vitalità, l’attitudine innata al comando – che emergeranno nel corso della narrazione, permettendo a D’Artagnan di divenire la guida del gruppo di amici moschettieri. Malgrado l’animo nobile e l’esperienza di Athos, la
spavalderia e la forza fisica di Porthos, la finezza di spirito
dell’intrigante Aramis, sarà proprio il più giovane dei
quattro, l’ultimo arrivato, a conquistare gli altri tre più
esperti moschettieri, che riconoscono in lui il fautore di
un’unione che si basa sull’amicizia e sul valore: «Ed ora,
disse D’Artagnan, […] tutti per uno, uno per tutti! Questo
sarà il nostro motto!»
Malgrado i suoi limiti, legati del resto più a una scelta
consapevole da parte di Dumas che alla mancanza di talento, il romanzo dei Tre moschettieri, sapientemente tradotto in italiano da Maria Bellonci, costituisce così una lettura quanto mai piacevole, ma non per questo priva di qualità. Dopo tutto, lo scrittore si fa carico pienamente del
lettore, apostrofandolo spesso in maniera diretta, quasi a
voler creare con lui un patto esplicito, basato appunto sul
piacere della lettura. Così nella prefazione, dopo aver dichiarato di voler semplicemente trascrivere un manoscritto
ad opera di un certo Conte de la Fère, Dumas abbandona
la finzione rivendicando su di sé ogni responsabilità per il
romanzo: «Ad ogni modo, sia che si diverta o che si annoi,
il lettore dovrà prendersela con me, padrino e secondo
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INTRODUZIONE
padre, e non con il conte de la Fère. Detto questo, passo a
raccontare.» E il lettore moderno, proprio come quello ottocentesco, riuscirà difficilmente a sottrarsi al fascino del
suo racconto.
ROBERTA PEDERZOLI
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I tre moschettieri
PERSONAGGI
D’ARTAGNAN
ATHOS
ARAMIS
PORTHOS
PLANCHET
GRIMAUD
MOUSQUETON
BAZIN
}
}
moschettieri del re
loro servitori
TRÉVILLE, capitano dei moschettieri
IL CONTE DI ROCHEFORT (l’uomo di Meung)
MILADY, contessa di Winter
LUIGI XIII, re di Francia
ANNA D’AUSTRIA, regina di Francia
ARMAND JEAN DUPLESSIS, cardinale di Richelieu, primo
ministro
CAHUSAC
DE JUSSAC
BISCARAT
BERNAJOUX
}
guardie del cardinale
LA HOUDINIERE, capitano delle guardie del cardinale
LA CHESNAY, cameriere di fiducia del re
DES ESSARTS, capitano delle guardie del re
DONNA ESTEFAÑIA, dama spagnola della regina
LA PORTE, uomo di fiducia della regina
IL DUCA DE LA TRÉMOUILLE
IL CANCELLIERE GUARDASIGILLI SÉGUIER
BONACIEUX, merciaio a riposo, padrone di Casa
di d’Artagnan
COSTANZA BONACIEUX, sua moglie
IL CONTE DI WARDES
LUBIN, servitore del conte di Wardes
GEORGES VILLIERS, duca di Buckingham, primo ministro
del re d’Inghilterra
PATRICK, cameriere del duca di Buckingham
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JACKSON, segretario del duca di Buckingham
O’REILLY, orefice inglese
IL PROCURATORE COQUENARD
LA SIGNORA COQUENARD, sua moglie
KETTY, giovane cameriera di Milady
BRISEMONT, sicario di Milady
LORD DE WINTER, barone di Sheffield, cognato di Milady
FELTON, tenente di marina, puritano
LA BADESSA del convento di Béthune
L’UOMO DAL MANTELLO ROSSO
Il Governatore del porto di Calais, il curato di Montdidier,
il Superiore dei Gesuiti di Amiens, le dame francesi della
regina, gli osti del Franc Menuier, del Grand Saint-Martin,
del Colombier Rouge, del Lys d’or, del Saint-Valéry, l’ostessa
di Crèvecoeur, gli Ugonotti della Rochelle, moschettieri del
re, guardie del cardinale, gentiluomini e servitori
La storia ha inizio il primo lunedì del mese d’Aprile del 1625
nel borgo di Meung.
L’azione della prima parte si svolge a Parigi e poi lungo la strada
per il porto di Calais e a Londra.
L’azione della seconda parte si svolge all’assedio della Rochelle,
a Parigi, in vari luoghi della Francia, e in Inghilterra.
La Rochelle – Porto della Francia occidentale sull’Atlantico, posto in una larga insenatura chiusa verso l’aperto
oceano dall’isola di Ré, ultimo rifugio dei protestanti di
Francia (ugonotti) che, aiutati dagli inglesi, sostennero l’assedio delle truppe francesi guidate dal cardinale Richelieu
dal 12 ottobre 1627 al 18 ottobre 1628.
Ugonotti – Con questo nome sono designati i protestanti
francesi nelle lotte religiose del 1500 e del 1600.
Puritani – Seguaci della setta dei Calvinisti d’Inghilterra
che osservavano rigorosamente la Bibbia e affermavano di
praticare la vera religione secondo la parola del Vangelo.
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Prefazione dell’autore
NELLA QUALE SI STABILISCE CHE, SEBBENE I LORO
NOMI FINISCANO IN OS E IN IS, GLI EROI DELLA STORIA
CHE AVREMO L’ONORE DI RACCONTARE AI NOSTRI
LETTORI NON HANNO NULLA A CHE VEDERE CON LA
MITOLOGIA.
Circa un anno fa, mentre perseguivo alla Biblioteca Reale
certe mie ricerche per uno studio su Luigi XIV, mi vennero
sott’occhio per caso le Memorie del Signor d’Artagnan pubblicate – come la maggior parte delle opere di quel tempo
nelle quali gli autori volevano dire la verità senza rischiare
un soggiorno più o meno lungo alla Bastiglia – ad Amsterdam dall’editore Pierre Rouge. Il titolo mi attirò subito;
così mi portai il libro a casa, col permesso, s’intende, del bibliotecario, e lo lessi tutto d’un fiato.
Non ho intenzione di fare qui un’analisi di questa singolare narrazione; mi contenterò di segnalarla a quelli tra i
miei lettori che apprezzano le opere storiche. Vi potranno
trovare ritratti disegnati con mano maestra; e, sebbene
questi schizzi siano per la maggior parte tracciati sulle porte
delle caserme o sui muri delle taverne, vi riconosceranno
facilmente, rassomiglianti come nella storia del signor d’Anquetil, le immagini di Luigi XIII, di Anna d’Austria, di Richelieu, del Mazarino e di molti cortigiani di quel tempo.
Ma, come si sa, ciò che colpisce la capricciosa immaginazione del poeta non è sempre ciò che colpisce la maggioranza dei lettori. Così, pure ammirando come ammireranno sicuramente gli altri, le qualità della narrazione che
abbiamo indicato, fui specialmente attratto da un particolare al quale nessuno prima di me aveva dato importanza.
Racconta d’Artagnan che alla sua prima visita al signor
di Tréville, capitano dei moschettieri del re, incontrò in
21
I TRE MOSCHETTIERI
anticamera tre giovani che facevano servizio in quella famosa Compagnia nella quale egli desiderava come un onore
di essere accolto; questi giovani si chiamavano Athos,
Porthos e Aramis.
Confesso che questi tre nomi singolarmente esotici mi
stupirono e mi venne subito in mente che fossero pseudonimi sotto i quali d’Artagnan aveva dissimulato nomi illustri; se non erano stati scelti da quei giovani quando, o per
spirito d’avventura, o per tedio, o per guadagnarsi da vivere, avevano indossato la semplice casacca da moschettiere.
Da quel momento non ebbi più pace finché non riuscii
a trovare nelle opere contemporanee qualche traccia di
quei nomi straordinari che avevano risvegliato così vivamente la mia curiosità.
Soltanto la lista dei libri che ho letto per arrivare a
questo fine prenderebbe un intero capitolo; cosa forse
istruttiva ma certo poco divertente per i nostri lettori. Mi
contenterò dunque di dire che, scoraggiato da tante vane
indagini stavo per abbandonare ogni ricerca, quando mi capitò di trovare, sotto la guida e il consiglio del mio illustre
e sapiente amico Paolino Paris, un manoscritto contrassegnato, non so bene se col numero 4772 o 4773, che aveva
questo titolo:
«Memorie del conte de La Fère su alcuni avvenimenti
che accaddero in Francia verso la fine del regno di Luigi
XIII e il principio del regno di Luigi XIV».
Si può immaginare la mia gioia quando sfogliando il manoscritto che era la mia ultima speranza trovai alla ventesima pagina il nome di Athos, alla ventisettesima il nome
di Porthos e alla trentunesima il nome di Aramis.
La scoperta di un manoscritto del tutto ignoto in un
tempo in cui la scienza storica è così progredita mi parve
quasi miracolosa. Mi affrettai a chiedere il permesso di pubblicarlo pensando di presentarmi un giorno con l’opera altrui all’Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere se non
fossi arrivato, cosa molto probabile, a entrare nell’Accademia di Francia con le mie opere. Questo permesso, devo
22
PREFAZIONE DELL’AUTORE
dirlo, mi fu subito concesso; e lo affermo qui per dare una
smentita pubblica ai maligni i quali insinuano che il nostro
governo è poco ben disposto verso la letteratura.
Ecco dunque la prima parte di quel prezioso manoscritto; la offro qui ai lettori sotto il suo giusto titolo con
l’impegno di pubblicare subito la seconda parte, se questa
otterrà, come credo, il successo che merita.
Ad ogni modo, sia che si diverta o che si annoi, il lettore dovrà prendersela con me, padrino e secondo padre, e
non con il conte de La Fère. Detto questo, passo a raccontare.
23
I
Tre regali paterni a D’Artagnan
Il primo lunedì d’aprile del 1625 nella città di Meung (dove
nacque l’autore del Roman de la rose), sembrava che fosse
scoppiata una violenta rivoluzione come se stessero arrivando gli ugonotti per una seconda La Rochelle. Molti cittadini, vedendo le donne precipitarsi verso la strada principale e sentendo i bambini gridare sulle porte di casa, corsero ad armarsi, e, resi più sicuri dal loro moschetto o dalla
loro alabarda, si diressero verso l’osteria del Franc Meunier
dove stava ammassandosi, di minuto in minuto più fitta,
una folla vociante e curiosa.
A quei tempi le scene di panico erano frequenti; quasi
ogni giorno si registravano negli archivi di questa o di quella
città episodi di simili disordini. I signori guerreggiavano tra
loro, il re faceva la guerra al cardinale, gli spagnoli facevano
la guerra al re. A queste lotte sorde o pubbliche, segrete e
non segrete, si aggiungevano i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i bravi e i servi che facevano la guerra a tutti. I cittadini prendevano le armi contro i ladri, contro i bravi,
contro i servi, spesso contro i signori e gli ugonotti, qualche
volta contro il re, mai contro il cardinale e gli spagnoli.
Così, quel primo lunedì d’aprile del 1625 gli abitanti di
Meung, sentendo rumore d’armi e non vedendo la bandiera
gialla e rossa né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono verso l’osteria del Franc Meunier per sapere il perché
di quel gran frastuono.
Un giovane era al centro della scena. Per tracciare ra25
I TRE MOSCHETTIERI
pidamente il suo ritratto immagineremo un don Chisciotte
di diciotto anni, senza armatura senza elmo e senza cosciali,
vestito con un farsetto di lana di un originario colore turchino stinto ormai in una sfumatura indefinibile tra il color
mosto e il color celestino. Il viso del giovane dagli zigomi
rilevati che indicavano astuzia, era lungo e bruno; le mascelle robuste avrebbero rivelato in lui il guascone sebbene
egli non portasse il tipico berretto del suo paese (quanto a
berretto ne portava uno ornato con una sorta di piuma);
l’occhio era aperto e intelligente, il naso aquilino disegnato
con finezza. Troppo alto per un adolescente, era troppo piccolo per un uomo adulto; avrebbe potuto sembrare il figlio
di un fattore in viaggio senza la lunga spada che, appesa ad
una striscia di pelle, gli batteva sui polpacci quando andava
a piedi e batteva sul pelo irto della sua cavalcatura quando
andava a cavallo.
Perché, bisogna dirlo, il ragazzo aveva una cavalcatura,
una cavalcatura tanto singolare che non si poteva fare a
meno di notarla: un ronzino bearnese fra i dodici e i quattordici anni, di mantello giallastro, di coda spelacchiata,
coperto di croste sulle zampe, e che pur camminando con
la testa più in basso delle ginocchia, ciò che rendeva inutile l’applicazione di ogni finimento, era capace di fare ancora otto leghe al giorno. Disgraziatamente, le sue qualità
rimanevano celate sotto lo strano mantello e l’andamento
incongruo; e in quel tempo in cui tutti s’intendevano di cavalli, quel cavallo e quel cavaliere entrati a Meung un
quarto d’ora prima dalla porta di Beaugeancy, erano apparsi
sommamente ridicoli.
Tale sensazione generale era stata penosissima per il giovane d’Artagnan (così si chiamava il don Chisciotte di quel
Ronzinante), tanto più che egli si rendeva conto di quanto
fosse grottesca la sua cavalcatura; e davvero non gli bastava
essere buon cavaliere per sopportare il peso di quel dono
che gli era stato fatto da suo padre. Egli sapeva benissimo
che l’animale non valeva più di una ventina di lire, anche
se le parole che avevano accompagnato il dono erano state
inestimabili.
26
CAPITOLO I
«Figlio mio, aveva detto il gentiluomo guascone in quel
puro dialetto bearnese che Enrico IV non era mai riuscito
a perdere, figlio mio, questo cavallo è nato in casa di tuo
padre e presto avrà tredici anni; devi amarlo poiché è stato
con noi per tanto tempo. Non lo vendere mai, lascialo morire tranquillamente e decorosamente di vecchiaia; e se andrai in guerra con lui curalo come cureresti un vecchio servitore. Se avrai l’onore di andare a corte, aveva continuato
il padre di d’Artagnan, onore al quale la tua antica nobiltà
ti dà diritto, sostieni con dignità il tuo nome di gentiluomo
che è stato portato onorevolmente dai tuoi avi per più di
cinquecento anni. Per te e per i tuoi – voglio dire parenti
e amici – non sopportare nulla che non venga dal cardinale
o dal re. Ricordati che solo per il suo coraggio un gentiluomo riesce oggi a farsi strada. Basta esitare un secondo
per lasciar fuggire l’occasione che proprio in quel secondo
offre la fortuna. Sei giovane, devi essere valoroso per due
ragioni: sei guascone e sei mio figlio. Non aver paura delle
avventure. Hai imparato a maneggiare la spada; hai garretti
di ferro e pugno d’acciaio; báttiti in ogni circostanza; báttiti proprio perché i duelli sono proibiti e che, dunque, per
battersi occorre doppio coraggio. Tutto quello che ho da
darti, figlio mio, sono quindici scudi, il mio cavallo e questi
consigli. Tua madre aggiungerà la ricetta di un certo balsamo che ha avuto da una zingara, miracoloso per guarire
ogni ferita che non raggiunga il cuore. Approfitta di tutto
e vivi felicemente e a lungo. Ho solo un parola da aggiungere, anzi un esempio da proporti, non il mio perché io non
sono mai andato a corte e ho fatto soltanto le guerre di religione da volontario; ma l’esempio del signor di Tréville
che una volta era mio vicino di casa e che ha avuto l’onore
di giocare da bambino col nostro re Luigi XIII che Dio lo
conservi. Talvolta i loro giochi diventavano lotte e in
queste lotte il re non era sempre il più forte; ma, si può dire,
i colpi ricevuti hanno procurato al signor di Tréville la stima
e l’amicizia regale. Tréville si è battuto cinque volte durante
il suo primo soggiorno a Parigi; e dopo la morte del defunto
re fino alla maggiore età del presente re, senza contare le
27
I TRE MOSCHETTIERI
guerre e gli assedi, si è battuto altre sette volte; e più tardi
ancora, fino ad oggi, forse cento. Così, nonostante gli editti,
le ordinanze, i decreti, ora è capitano dei moschettieri, e
cioè capo di una legione di Cesari molto stimata dal re e
molto temuta dal cardinale il quale non teme quasi nulla
come tutti sanno. In più il signor di Tréville guadagna diecimila scudi all’anno ed è dunque un vero gran signore. Ha
cominciato come te; vai a trovarlo con questa mia lettera
e prendilo a modello delle tue azioni».
Dopo questo discorso il signor d’Artagnan cinse a suo
figlio la propria spada, lo baciò teneramente sulle guance
e gli dette la sua benedizione.
Uscendo dalla camera paterna il giovane trovò la madre
che l’aveva atteso con la famosa ricetta che, secondo
quanto abbiamo riferito, doveva essere così frequentemente
usata. Con lei gli addii furono più lunghi e più teneri, non
perché il signor d’Artagnan amasse poco il suo unico figlio,
ma perché era uomo e avrebbe stimato cosa indegna di un
uomo lasciarsi andare alla commozione. La signora d’Artagnan era donna e madre: ella pianse copiosamente, e il
giovane d’Artagnan, sebbene tentasse con molti sforzi di
restare impassibile come un vero futuro moschettiere, fu
preso dalla commozione e versò un profluvio di lacrime riuscendo a malapena a nasconderne la metà.
Quello stesso giorno il giovane si mise in cammino con
i tre doni paterni che erano, come abbiamo detto, quindici
scudi, il cavallo e la lettera per il signor di Tréville; naturalmente i consigli erano stati dati in più.
Con un simile vademecum d’Artagnan somigliava moralmente e fisicamente all’eroe di Cervantes al quale l’abbiamo felicemente paragonato quando secondo il nostro
dovere di storici abbiamo tracciato il suo ritratto. Don Chisciotte prendeva i mulini a vento per giganti e i montoni
per armate; d’Artagnan prese ogni sorriso per un insulto e
ogni sguardo per una provocazione. Il risultato fu che egli
tenne continuamente il pugno serrato da Tarbes fino a
Meung e mise la mano sull’elsa della spada almeno dieci
volte al giorno; tuttavia il pugno non colpì nessuna ma28
CAPITOLO I
scella e la spada non uscì dal fodero. Sebbene la vista dello
sciagurato ronzino giallo suscitasse molti sorrisi sui visi dei
passanti, sopra il ronzino tintinnava una spada di rispettabile grandezza e più su brillava un occhio non tanto fiero
quanto feroce; sicché i passanti reprimevano la loro ilarità
o si voltavano dall’altra parte ridendo se l’ilarità superava
la prudenza. D’Artagnan rimase dunque maestoso e incolume nella sua suscettibilità, finché non arrivò alla malaugurata città di Meung.
Ma, alla porta del Franc Meunier, mentre scendeva da
cavallo senza che nessuno, oste, garzone o palafraniere venisse a reggergli la staffa, d’Artagnan aveva scorto ad una
finestra socchiusa del piano terreno un gentiluomo alto e
di bell’aspetto, sebbene lievemente arcigno, intento a parlare con due persone che sembravano ascoltarlo con deferenza. D’Artagnan, secondo la sua abitudine, credette subito di essere l’oggetto della conversazione e si mise ad
ascoltare. Questa volta s’era sbagliato di poco: non si parlava di lui ma del suo cavallo. Il gentiluomo sembrava enumerare tutti i difetti dell’animale, e gli ascoltatori che, come
ho già detto, gli dimostravano una grande deferenza, scoppiavano in continue risate. Ora, poiché bastava un mezzo
sorriso per eccitare l’irascibilità del giovane, si comprende
quale effetto dovesse suscitare in lui tanta fragorosa ilarità.
Tuttavia d’Artagnan volle prima di tutto esaminare la
fisionomia dell’insolente che si burlava di lui. Lo straniero
sul quale fissò il suo sguardo sdegnato era un uomo fra i
quaranta e i quarantacinque anni, dagli occhi neri e acuti,
pallido, con un gran naso e baffi neri tagliati con molta
cura; era vestito con farsetto e brache violette allacciate
da stringhe dello stesso colore, senza altro ornamento oltre
i soliti spacchi dai quali usciva a sbuffi la camicia. Brache
e farsetto, sebbene nuovi, sembravano spiegazzati come
abiti da viaggio pigiati per molto tempo in valigia. D’Artagnan fece queste osservazioni con la rapidità di un osservatore minuzioso, quasi con l’oscura intuizione che
quello sconosciuto avrebbe avuto una grande influenza sul
suo avvenire.
29
I TRE MOSCHETTIERI
Ora, mentre d’Artagnan scrutava il gentiluomo dal farsetto viola, il gentiluomo stesso stava improvvisando sul
ronzino bearnese un discorso dimostrativo fra le risate degli
ascoltatori; un pallido sorriso, in contrasto con i lineamenti,
gli errava sul volto. Questa volta non c’era dubbio, d’Artagnan era davvero insultato. Forte di tale convinzione, si
calò il berretto sugli occhi e, provandosi ad imitare quei
modi da gente di corte che aveva osservato in Guascogna
nei signori di passaggio, si avanzò con una mano sull’elsa
della spada e l’altra appoggiata al fianco. Per disgrazia, a
mano a mano che avanzava, la collera lo accecava sempre
di più; e, invece delle parole sprezzanti e altere che aveva
preparato per formulare la sua provocazione, si trovò sulla
lingua parole grossolane che accompagnò con un gesto rabbioso.
– Ehi, Signore! gridò; Signore! Voi che vi nascondete
dietro quello sportello! Proprio voi! Ditemi un po’ di che
cosa ridete e rideremo insieme.
Il gentiluomo spostò lentamente gli occhi dalla cavalcatura al cavaliere come se gli ci volesse un certo tempo per
capire che quelle strane ingiunzioni erano rivolte a lui; poi,
quando non ebbe più dubbi, aggrottò lievemente le sopracciglia e dopo una lunga pausa, con un indescrivibile accento d’ironia e d’insolenza rispose:
– Non sto parlando con voi, signore.
– Ma sono io che parlo con voi! gridò il giovane esasperato da quella mescolanza di arroganza e di signorilità,
di educazione e di scherno.
Lo sconosciuto lo guardò ancora un istante col suo lieve
sorriso, si ritirò dalla finestra e uscì lentamente dall’albergo
per fermarsi a due passi da d’Artagnan proprio di fronte al
cavallo. Il suo contegno tranquillo e la sua fisionomia beffarda avevano raddoppiato l’ilarità dei due ascoltatori che
si erano affacciati alla finestra.
D’Artagnan, vedendolo avanzare, cominciò ad estrarre
la spada dal fodero.
– Questo cavallo è sicuramente, o meglio è stato nella
sua giovinezza color giallo ranuncolo, riprese lo sconosciuto
30
CAPITOLO I
continuando l’esame già cominciato e rivolgendosi ai suoi
ascoltatori della finestra fingendo di non accorgersi dell’esasperazione di d’Artagnan che gli stava proprio davanti.
È un colore molto conosciuto in botanica, ma fino ad oggi
rarissimo tra i cavalli.
– Chi ride del cavallo non oserebbe ridere del padrone,
gridò furibondo l’emulo di Tréville.
– Signore, rispose lo sconosciuto, io non rido spesso e
credo che possiate vederlo dal mio viso; ma tengo tuttavia
a conservare il privilegio di ridere quando mi piace.
– E io, gridò d’Artagnan, non voglio che si rida quando
mi dispiace.
– Davvero, signore? continuò lo sconosciuto più calmo
che mai. Ebbene, è perfettamente giusto. E girando sui
tacchi si avviò verso il portale del cortile, sotto il quale
d’Artagnan, arrivando, aveva visto un cavallo già sellato.
Ma d’Artagnan non era tipo da lasciar andare un uomo
che aveva avuto l’insolenza di burlarlo. Trasse la spada dal
fodero e si mise a inseguirlo gridando:
– Voltatevi, voltatevi, signor beffardo! Non voglio colpirvi alle spalle!
– Colpire me! disse l’altro voltandosi e guardando il giovane con profondo stupore e altrettanto disprezzo. Andiamo, andiamo, siete impazzito!
Poi, sottovoce e come se parlasse a se stesso:
– Una seccatura, una vera seccatura. Eppure costui andrebbe bene per Sua Maestà che cerca da tutte le parti uomini valorosi da reclutare fra i suoi moschettieri.
Non aveva finito di parlare che d’Artagnan gli allungò
un colpo di punta così violento che se non avesse fatto un
salto indietro avrebbe forse scherzato per l’ultima volta.
Lo sconosciuto vide allora che la cosa passava la burla,
trasse la spada, salutò l’avversario e si mise gravemente in
guardia. Ma nello stesso tempo i suoi due ascoltatori, accompagnati dall’oste, si precipitarono su d’Artagnan armati
di bastoni, di palette e di molle. L’assalto fu così improvviso che mentre d’Artagnan si voltava per difendersi da
quella tempesta di colpi, il suo avversario ringuainava ac31
I TRE MOSCHETTIERI
curatamente la spada e da attore ritornava spettatore
sempre con la stessa impassibilità ma borbottando:
– Che se li prenda la peste, questi guasconi! Rimettetelo sul suo cavallo arancione e che se ne vada!
– Non prima di averti ammazzato, vigliacco! gridò d’Artagnan difendendosi come poteva e senza indietreggiare di
un passo contro i tre nemici che lo colpivano da ogni parte.
– Un’altra guasconata, mormorò il gentiluomo. Parola
d’onore, questi guasconi sono incorreggibili! Continuate il
ballo, visto che lo vuole assolutamente. Quando sarà stanco
dirà basta.
Ma lo sconosciuto non sapeva ancora con quale testardo aveva a che fare; mai d’Artagnan avrebbe domandato grazia. Così lo scontro durò ancora qualche minuto;
poi d’Artagnan, sfinito, si lasciò sfuggire la spada che un
colpo di bastone spezzò in due tronconi. Un altro colpo lo
prese in fronte e il giovane cadde sanguinante, quasi tramortito.
Subito da tutte le parti accorse gente. L’oste, temendo
lo scandalo, trascinò il ferito in cucina con l’aiuto dei suoi
garzoni e lo fece soccorrere.
Quanto al gentiluomo, aveva ripreso il suo posto alla finestra e guardava con una certa insofferenza la folla; gli si
leggeva in viso una viva contrarietà.
– Allora, come va il pazzo furioso? esclamò girandosi al
rumore della porta che si apriva e rivolgendosi all’oste che
veniva a chiedergli notizie della sua salute.
– Vostra Eccellenza è sana e salva?
– Sì, perfettamente sana e salva, mio caro albergatore.
E vorrei sapere che cosa è successo di quel ragazzo.
– Sta meglio, disse l’oste; ha perso completamente i
sensi.
– Davvero? disse il gentiluomo.
– Ma prima di perdere i sensi ha radunato le sue forze
per chiamarvi e per sfidarvi.
– È il diavolo in persona, questo giovanotto! gridò lo
sconosciuto.
– Oh, no, Vostra Eccellenza, non è il diavolo, riprese
32
CAPITOLO I
l’oste con una smorfia di disprezzo; mentre era svenuto l’abbiamo perquisito; nel fardello ha soltanto una camicia e
nella borsa dodici scudi, ciò che non gli ha impedito di dire
mentre perdeva i sensi che se fosse stato a Parigi vi sareste
pentito immediatamente, mentre così vi pentirete più tardi.
– Allora, disse freddamente lo sconosciuto, sarà qualche
principe di sangue reale in incognito.
– Ve l’ho detto, mio signore, aggiunse l’oste, perché possiate guardarvi da lui.
– Ha nominato qualcuno?
– E come! Batteva la mano sulla tasca e diceva «Vedremo che cosa penserà il signor di Tréville di questi insulti
fatti ad un suo protetto!».
– Il signor di Tréville! disse lo sconosciuto facendosi
attento; batteva la mano sulla tasca e pronunciava il nome
del signor di Tréville?... Sentite, mio caro albergatore,
mentre il giovane era svenuto avrete guardato, ne sono sicuro, in quella tasca. Che cosa avete trovato?
– Una lettera indirizzata al signor di Tréville capitano
dei moschettieri.
– Davvero?
– Proprio come ho l’onore di dirvi, Eccellenza!
L’oste che non era dotato di grande perspicacia non fece
caso all’espressione suscitata dalle sue parole sulla fisionomia dello sconosciuto. Costui si allontanò dal davanzale
sul quale aveva appoggiato il gomito e aggrotto le sopracciglia con espressione inquieta.
– Diavolo, mormorò fra i denti, Tréville mi avrebbe
mandato questo guascone! Così giovane? Ma un colpo di
spada è un colpo di spada, non importa se venga da un giovane o da un vecchio; e, dopo tutto, un ragazzo suscita
minor diffidenza di un altro; basta talvolta un piccolo ostacolo per mandare all’aria un grande piano.
Lo sconosciuto restò pensieroso per alcuni istanti.
– Insomma, disse, non potreste liberarmi da questo frenetico? In coscienza non posso ucciderlo e tuttavia, aggiunse con un’espressione fredda e minacciosa, tuttavia mi
dà fastidio. Dov’è adesso?
33
I TRE MOSCHETTIERI
– Nella camera di mia moglie, dove lo stanno fasciando,
al primo piano.
– Dove sono i suoi stracci e il suo fardello? Non gli avete
tolto il farsetto?
– Tutto è rimasto in cucina. Ma dal momento che
questo giovane insensato vi dà fastidio...
– Certo, mi dà fastidio; e coinvolge il vostro albergo in
uno scandalo che le persone oneste non possono sopportare. Andate nelle vostre camere, preparatemi il conto e
avvertite il mio servitore.
– Ma come, il signore ci lascia?
– Lo sapevate; vi avevo già dato l’ordine di sellare il mio
cavallo. Non sono stato obbedito?
– Certo, e come Vostra Eccellenza ha potuto vedere, il
suo cavallo è sotto il portale, pronto per partire.
– Bene, e adesso fate ciò che vi ho detto.
– Guarda, guarda! disse fra sé l’oste. Avesse paura di quel
ragazzetto?
Ma un’occhiata imperativa dello sconosciuto lo gelò.
Salutò umilmente ed uscì.
– Non bisogna che quel briccone veda Milady, mormorò
lo straniero; lei non dovrebbe tardare a passare di qui; anzi
è già in ritardo. Forse è meglio che io monti a cavallo e che
le vada incontro... Se solamente potessi sapere che cosa
c’è in quella lettera indirizzata a Tréville! – E, sempre brontolando, si diresse verso la cucina.
Intanto l’oste, sicuro che la presenza del giovane cacciava lo sconosciuto dal suo albergo, era salito in camera
della moglie e aveva trovato finalmente d’Artagnan ritornato in sé. Allora, facendogli credere che la polizia
avrebbe potuto ricercarlo per aver provocato un gran signore – l’oste era del parere che lo sconosciuto dovesse
essere un gran signore – lo convinse, malgrado la sua debolezza, ad alzarsi e a continuare il viaggio. D’Artagnan,
mezzo stordito, senza farsetto e con la testa avvolta nelle
fasciature, si alzò, e spinto dall’oste cominciò a scendere
le scale; ma arrivando in cucina la prima cosa che vide fu
il suo nemico che discuteva tranquillamente sul predel34
CAPITOLO I
lino di una grande carrozza tirata da due poderosi cavalli
normanni.
La sua interlocutrice, affacciata allo sportello, era una
donna di venti o ventidue anni. Abbiamo già detto con
quale rapidità di percezione d’Artagnan sapesse cogliere i
particolari di una fisionomia; alla prima occhiata vide che
la donna era giovane e bella. Quella bellezza lo colpì soprattutto perché era del tutto estranea ai paesi meridionali
che fino allora d’Artagnan aveva abitato. Pallida e bionda,
con lunghi capelli inanellati che le ricadevano sulle spalle,
aveva grandi occhi azzurri e languidi, labbra rosate e mani
d’alabastro. Parlava con molta vivacità allo sconosciuto.
– E così Sua Eminenza mi ordina..., diceva la donna.
– Di ritornare subito in Inghilterra e di avvertirlo direttamente se il duca lasciasse Londra.
– Ci sono altre istruzioni? domandò la bella viaggiatrice.
– Sono chiuse in questa scatola che aprirete soltanto
quando sarete di là dalla Manica.
– Benissimo; e voi che farete?
– Ritornerò a Parigi.
– Senza punire quell’insolente? domandò la dama.
Lo sconosciuto stava per rispondere. Ma mentre apriva
la bocca, d’Artagnan che aveva ascoltato tutto apparve
sulla soglia della porta.
– Sarà quell’insolente a punire gli altri, gridò, e questa
volta colui che deve essere punito non gli sfuggirà, spero,
come ha fatto la prima volta.
– Non gli sfuggirà? riprese lo sconosciuto aggrottando
le sopracciglia.
– Davanti ad una donna non oserete fuggire; almeno
credo!
– Ricordatevi, esclamò Milady vedendo il gentiluomo
portare la mano alla spada, ricordatevi che il minimo ritardo può farci perdere tutto.
– Avete ragione, esclamò il gentiluomo; andate dalla
vostra parte, io vado dalla mia.
E, salutando la dama con un segno della testa, balzò sul
suo cavallo mentre il cocchiere della carrozza frustava vi35
I TRE MOSCHETTIERI
gorosamente il suo equipaggio. I due interlocutori partirono rapidamente allontanandosi ciascuno da un lato opposto.
– Ehi, il vostro conto? gridò l’oste che era passato dall’ossequio per il viaggiatore ad un profondo sdegno vedendolo allontanarsi senza pagare.
– Paga, cialtrone, gridò il viaggiatore, sempre galoppando, allo staffiere; costui gettò ai piedi dell’oste due o tre
monete d’argento e seguì il padrone di corsa.
– Ah, vigliacco, ah miserabile, ah, falso gentiluomo!
gridò d’Artagnan lanciandosi a sua volta dietro il servitore.
Ma il ferito era ancora troppo debole per sopportare simili sforzi. Non aveva fatto dieci passi che sentì un ronzio
alle orecchie, fu colto da uno stordimento e accecato da
un velo sanguigno, cadde in mezzo alla strada gridando ancora:
– Vigliacco, vigliacco, vigliacco!
– Un gran vigliacco davvero! mormorò l’oste avvicinandosi a d’Artagnan e cercando con un po’ di adulazione
di riconciliarsi con il povero ragazzo.
– Sì, un gran vigliacco, mormorò d’Artagnan; ma lei è
molto bella!
– Lei chi? domandò l’oste.
– Milady, balbettò d’Artagnan; e svenne per la seconda
volta.
– Pazienza, disse l’oste, ho perduto due clienti ma mi
resta questo e sono sicuro di trattenerlo qualche giorno. Saranno undici scudi guadagnati.
Come si sa undici scudi era tutto ciò che restava nella
borsa di d’Artagnan.
L’oste aveva contato su undici giorni di convalescenza
pagati uno scudo al giorno; ma aveva fatto i conti senza il
suo ospite. L’indomani, alle cinque del mattino, d’Artagnan
si alzò, scese in cucina, si fece dare, oltre alcuni ingredienti
che non ci sono noti, vino, olio, rosmarino, e, secondo la
ricetta della madre, compose un balsamo col quale unse le
sue numerose ferite rinnovando volta per volta le compresse con le sue mani e rifiutando l’intervento di qualsiasi
36
CAPITOLO I
medico. Grazie all’efficacia del balsamo zingaresco, e forse
grazie anche all’assenza dei dottori, d’Artagnan poté alzarsi
la sera stessa e l’indomani era quasi guarito.
Ma al momento di pagare rosmarino, olio e vino, sola
spesa del giovane che si era imposto una dieta totale,
mentre il cavallo giallo, almeno così diceva l’oste, aveva
mangiato tre volte più di quanto avrebbe fatto supporre la
sua corporatura, d’Artagnan si trovò in tasca il suo logoro
borsellino di velluto con gli undici scudi; ma la lettera indirizzata al signor di Tréville era sparita.
Il giovane cominciò a cercare la lettera pazientemente
rovesciando più volte tasche e taschini, frugando e rifrugando nel suo fardello, aprendo e richiudendo la borsa; ma
quando fu certo che la lettera era introvabile fu preso da
un terzo accesso di furore che per poco non richiese una
nuova consumazione di vino e d’olio aromatici: perché vedendolo accendersi d’ira e minacciare di rompere tutto se
non avesse ritrovato la sua lettera, l’oste aveva già preso lo
spiedo, sua moglie il manico della scopa e i garzoni gli stessi
bastoni che avevano già adoperato.
– La mia lettera di raccomandazione, gridava d’Artagnan; la mia lettera di raccomandazione, accidenti a voi!
Vi infilzo tutti come tordi!
Disgraziatamente una circostanza impediva al giovane
di porre in atto la sua minaccia: la sua spada era stata spezzata in due tronconi, ed egli l’aveva dimenticato. Sicché
quando d’Artagnan volle davvero sguainare il suo ferro si
trovò armato solamente di una lama lunga otto o dieci pollici che l’oste aveva accuratamente rimesso nel fodero.
L’altro pezzo della lama l’aveva preso il cuoco pensando di
usarlo per lardellare gli arrosti.
Tuttavia questa delusione non avrebbe fermato il nostro focoso giovane se l’oste non avesse pensato che la protesta del suo cliente era più che giusta.
– Ma sicuro, disse abbassando lo spiedo, dov’è questa
lettera?
– Sì, dov’è la mia lettera? gridò d’Artagnan; e intanto,
ve lo avverto, la lettera è per il signor di Tréville, e bisogna
37
I TRE MOSCHETTIERI
ritrovarla altrimenti saprà bene farvela ritrovare lui!
La minaccia intimorì seriamente l’oste. Dopo i nomi
del re e del cardinale, il nome del signor di Tréville era
quello che più frequentemente ripetevano i militari e gli
stessi borghesi. C’era anche il nome di padre Giuseppe,
certo; ma era pronunciato sottovoce, tanto era grande il
terrore che ispirava l’Eminenza Grigia come era chiamato
il consigliere segreto del cardinale.
Così l’oste gettò lo spiedo, ordinò a sua moglie e ai servi
di gettar via il manico di scopa e i bastoni, e si mise egli
stesso alla ricerca della lettera perduta.
– C’era qualche cosa di prezioso in quella lettera? domandò l’oste dopo qualche minuto di ricerche inutili.
– Perbacco! Lo credo bene! Quella lettera conteneva
la mia fortuna.
– Obbligazioni spagnole? domandò l’oste inquieto.
– Obbligazioni sulla tesoreria particolare di Sua Maestà,
rispose d’Artagnan che, contando di entrare al servizio del
re con quella raccomandazione, credeva di potersi permettere senza mentire una risposta piuttosto arrischiata.
– Diavolo! fece l’oste preoccupato.
– Ma non importa, continuò d’Artagnan con l’improntitudine dei guasconi, non importa; il denaro non è
niente, quella lettera era tutto. Avrei preferito perdere mille
scudi, piuttosto.
Non avrebbe rischiato niente se avesse detto ventimila;
ma un certo pudore giovanile lo trattenne.
Un lampo illuminò tutt’ad un tratto la mente dell’oste.
– La lettera non è perduta, gridò.
– Come? fece d’Artagnan.
– No; vi è stata rubata.
– Rubata? E da chi?
– Dal gentiluomo che era qui ieri. È sceso in cucina
dov’era il vostro farsetto ed è restato solo. Scommetto che
l’ha presa lui.
– Credete? rispose d’Artagnan poco convinto; sapeva
meglio d’ogni altro che quella lettera aveva importanza solo
per lui e non c’era niente in essa che potesse destare la cu38
CAPITOLO I
pidigia di altre persone. Voi dite dunque di sospettare quel
gentiluomo insolente?
– Ne sono sicurissimo, affermò l’oste; quando gli ho
detto che Vostra Signoria era protetto dal signor di Tréville
e che avevate anche una lettera per quell’illustre signore,
mi è parso molto inquieto, mi ha domandato dov’era la lettera ed è disceso immediatamente in cucina.
– Allora è lui il mio ladro, rispose d’Artagnan; protesterò con il signor di Tréville e il signor di Tréville protesterà col re.
Poi tirò fuori maestosamente due scudi e li diede all’oste
che l’accompagnò, cappello in mano, fino al portale: risalì
sul suo cavallo giallo che lo condusse senza altri incidenti
fino a Parigi, alla porta di Saint-Antoine; là il cavallo fu
venduto per tre scudi, un buon prezzo, dato che il viaggio
lo aveva molto provato. Il mercante, al quale d’Artagnan
lo cedette, non nascose al giovane che gli dava quella
somma esorbitante solo per l’originalità di colore della sua
cavalcatura.
Così d’Artagnan entrò a Parigi: a piedi, portando il suo
fardello sotto il braccio; camminò finché riuscì a trovare in
affitto una camera conveniente alle sue esigue risorse. La camera era una specie di soffitta in via dei Fossoyeurs, vicino
al Luxembourg. Dopo aver dato la caparra, d’Artagnan, prese
possesso del suo alloggio, e passò il resto della giornata a cucire al suo farsetto e alle sue brache alcuni galloni che sua
madre aveva staccato da un giubbone quasi nuovo di suo marito e che gli aveva regalato di nascosto; andò in via della
Ferraille e fece rimettere una lama alla sua spada; poi arrivò
fino al Louvre per farsi dire, dal primo moschettiere che gli
capitò d’incontrare, dove fosse il palazzo del signor di Tréville; seppe che era situato in via del Vieux Colombier e cioè
proprio nelle vicinanze della camera che aveva preso in affitto: la circostanza gli parve di buon augurio.
Dopo di che, soddisfatto di come si era comportato a
Meung, senza rimpiangere nulla del passato, confidando
nel presente, e pieno di speranza per l’avvenire, andò a letto
e dormì il sonno del giusto.
39
I TRE MOSCHETTIERI
Quel gran sonno ancora provinciale durò fino alle nove
del mattino; ora in cui si alzò per andare dal famoso signor
di Tréville, il terzo personaggio del regno, come aveva detto
suo padre.
40
II
L’anticamera del signor di Tréville
Il signor di Troisville, – la sua famiglia, in Guascogna, portava ancora questo nome – o il signor di Tréville come egli
stesso si era poi fatto chiamare a Parigi, aveva cominciato
proprio come d’Artagnan e cioè senza un soldo in tasca ma
con quel capitale di audacia, di spirito e d’intelligenza per
il quale il più povero nobiluccio guascone eredita dal padre
un patrimonio di speranze maggiore di qualunque eredità
che possa ricevere il più ricco gentiluomo del Périgord o
del Berry. Il suo coraggio temerario, la sua fortuna quasi insolente in un tempo in cui i colpi grandinavano da ogni
parte, l’avevano fatto salire al sommo di quella pericolosa
scala che si chiama il favore della corte e che egli aveva
conquistato salendo i gradini a quattro a quattro.
Era amico del re, il quale, come tutti sanno, onorava
molto la memoria di suo padre Enrico IV. Il padre del signor di Tréville l’aveva così fedelmente servito nelle guerre
contro la Lega, che, in mancanza di denaro – per tutta la
vita il bearnese fu a corto di denaro ed egli pagò sempre i
suoi debiti con l’aiuto della sua geniale fantasia la sola cosa
che non ebbe mai bisogno di chiedere in prestito – in mancanza di denaro, dicevamo, l’aveva autorizzato, dopo la resa
di Parigi, a fregiarsi di uno stemma con un leone d’oro rampante in campo rosso e questo motto: Fidelis et fortis. Si era
acquistato così molto onore ma poco denaro. Sicché
quando l’illustre compagno del grande Enrico morì, lasciò
in eredità al figlio soltanto la sua spada e il suo motto. Grazie
41
I TRE MOSCHETTIERI
a questo doppio regalo e al nome immacolato che l’accompagnava, il signor di Tréville fu ammesso in casa del
giovane principe dove si servì così bene della sua spada e
fu tanto fedele al suo motto, che Luigi XIII, una delle migliori lame di Francia, aveva l’abitudine di dire che se un
suo amico si fosse battuto gli avrebbe dato il consiglio di
prendere come secondo prima lui stesso e poi Tréville; e
forse Tréville prima di lui.
Luigi XIII aveva un vero affetto per Tréville, affetto di
re, egoistico, ma sempre affetto. In quei tempi difficili i potenti cercavano sempre di tenersi vicini uomini della
tempra del signor di Tréville; ma se molti avrebbero potuto prendere come divisa la parola forte, seconda del suo
motto, pochi avrebbero potuto rivendicare la prima parola,
fedele. Uno di quei pochi era Tréville. La sua era una rara
indole; aveva un’intelligenza ciecamente obbediente e totale, l’occhio rapido, la mano pronta; sembrava che la vista
gli fosse stata concessa per fargli conoscere quando il re era
scontento di qualcuno, e la mano per colpire questo qualcuno, chiunque fosse. A Tréville era mancata per un pezzo
l’occasione, ma egli la spiava pronto ad afferrarla per i capelli quando gli fosse capitata a portata di mano. Così Luigi
XIII nominò Tréville capitano dei suoi moschettieri che gli
erano devoti e fanatici quanto la guardia lo era stata a Enrico III e la guardia scozzese a Luigi XI.
Per suo conto il cardinale non era rimasto indietro.
Quando aveva visto la formidabile schiera scelta dal re, quel
secondo re di Francia o piuttosto quel primo, aveva voluto
anche lui le sue guardie. Come Luigi XIII, ebbe i suoi moschettieri; le due potenze rivali sceglievano accuratamente
in ogni provincia di Francia e anche all’estero gli uomini
celebri nel maneggiare la spada. La sera, durante le loro partite a scacchi, Richelieu e Luigi XIII disputavano spesso sul
merito dei loro moschettieri. Ciascuno vantava la tenacia
e il coraggio dei suoi; e pur condannando pubblicamente i
duelli e le risse, eccitavano di nascosto i loro uomini a provocarsi, e provavano veri dispiaceri o gioie smodate per
ogni sconfitta o per ogni vittoria. Così almeno dicono le
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CAPITOLO II
Memorie di un uomo che prese parte ad alcune di quelle
sconfitte e a molte di quelle vittorie. Tréville condivideva
il lato debole del suo padrone, e a questa abilità doveva il
lungo e costante favore di un re che non ha lasciato memoria di essere stato molto fedele ai suoi amici. Quando,
con aria ironica faceva sfilare in parata i suoi moschettieri
davanti al cardinale Armando Duplessis, i baffi grigi di Sua
Eminenza si rizzavano per la collera. Tréville conosceva benissimo le leggi militari del tempo: sapeva che quando non
si viveva a spese del nemico si doveva vivere a spese dei
propri compatriotti; i suoi soldati formavano una legione
di diavoli scatenati, indisciplinati per tutti salvo che per il
loro capo.
Sfrenati, bevitori, segnati da mille graffiature, i moschettieri del re o piuttosto del signor di Tréville, invadevano le osterie, le passeggiate e i giuochi pubblici gridando
forte, arricciandosi i baffi, facendo tintinnare le spade, urtando con intenzione le guardie del cardinale quando le incontravano; sguainavano le loro lame in mezzo alla strada
con mille scherzi; se talvolta rimanevano uccisi, erano sicuri di essere rimpianti e vendicati, se uccidevano, come
spesso avveniva, erano sicuri di non marcire in prigione
poiché il signor di Tréville avrebbe pensato a liberarli. Si
capisce come Tréville fosse lodato in tutti i modi, cantato
in tutti i toni da quegli uomini che l’adoravano e che per
quanto spericolati tremavano davanti a lui come scolari davanti al maestro, ubbidienti al suo cenno e pronti, al minimo rimprovero, a sfidare la morte per farsi perdonare.
Il signor di Tréville si era servito di questa leva potente
prima per il re e per gli amici del re, poi per se stesso e per
gli amici suoi. Del resto in nessun memoriale di quel tempo
che ha lasciato tanti memoriali si trova un’accusa contro
questo leale gentiluomo; anche i suoi nemici – e ne aveva
tra gli uomini di penna quanti ne aveva tra gli uomini di
spada – non lo accusano mai di essersi fatto pagare per i suoi
servizi. Era rimasto onesto sebbene avesse un raro genio dell’intrigo che lo rendeva pari agli intriganti più sottili. Non
solo, ma nonostante i grandi duelli che sfiancano, e gli spos43
I TRE MOSCHETTIERI
santi esercizi fisici, si era acquistato il favore delle donne
come uomo galante ed era uno dei più eleganti conversatori del suo tempo; si parlava delle avventure amorose di
Tréville come vent’anni prima si era parlato di quelle di
Bassompierre, e non è dir poco. Il capitano dei moschettieri era dunque ammirato, temuto e amato; era, cioè, al
vertice delle fortune umane.
Luigi XIV avrebbe assorbito più tardi nel suo grande
splendore tutti i piccoli astri di corte; ma suo padre, pluribus
impar, lasciò a ciascuno dei suoi favoriti il suo splendore
personale e a ciascuno dei suoi cortigiani il suo valore di individuo. A Parigi, oltre l’udienza che il re dava di prima
mattina al suo levarsi e l’udienza simile del cardinale, c’erano almeno altre duecento piccole udienze di qualche importanza; quella di Tréville era una delle più frequentate.
Il cortile del suo palazzo in via del Vieux Colombier
sembrava un accampamento dalle sei del mattino in estate
e dalle otto in inverno. Cinquanta o sessanta moschettieri
che sembravano avvicendarsi perché il gruppo apparisse
sempre imponente, vi passeggiavano di continuo, completamente armati e pronti a tutto. Lungo uno di quegli scaloni che occupavano uno spazio che oggi basterebbe per un
palazzo, salivano e scendevano i postulanti di Parigi in cerca
di un qualsiasi favore, i gentiluomini di provincia bramosi
di essere arruolati, gli staffieri in livrea ornati di trine e galloni variopinti che portavano al signor di Tréville i messaggi dei loro padroni. Nell’anticamera, su lunghi sedili circolari sostavano gli eletti, e cioè coloro che erano stati convocati. Il brusìo durava ininterrotto dal mattino alla sera,
mentre il signor di Tréville nel suo studio contiguo all’anticamera riceveva le visite, ascoltava le lagnanze, dava ordini, e, come il re al suo balcone del Louvre, poteva affacciarsi alla finestra e passare in rivista uomini ed armi.
Il giorno in cui d’Artagnan si presentò, la riunione appariva affollatissima, specialmente ad un provinciale che
arrivava dal suo paese; è vero che il provinciale era un guascone e che, specialmente allora, i compatriotti di d’Artagnan avevano la reputazione di non farsi facilmente inti44
CAPITOLO II
midire. Ma una volta che si era superata la porta massiccia
inchiavardata con grossi chiodi dalla testa quadrangolare
e si era entrati nel cortile, ci si trovava in mezzo ad una
schiera di spadaccini: andavano e venivano, si chiamavano
tra loro, litigavano, giocavano. Per riuscire ad aprirsi un
passaggio in mezzo a quella folla bisognava essere ufficiale,
gran signore o bella donna.
Tra la gente e la confusione, il nostro giovane si fece
avanti col cuore palpitante tenendo la spada accostata alle
gambe magre e una mano sulla tesa del cappello, col sorrisetto del provinciale impacciato che vuole apparire disinvolto. Ad ogni gruppo che superava respirava più liberamente. Ma capiva che qualcuno si voltava a guardarlo, e,
per la prima volta nella sua vita, d’Artagnan, che fino allora aveva avuto una grande opinione di se stesso, si sentì
ridicolo.
Peggio ancora fu quando arrivò allo scalone. Sui primi
gradini quattro moschettieri si divertivano a questo esercizio: mentre dieci o dodici loro compagni aspettavano sul
pianerottolo il loro turno per prendere parte alla gara, uno
di essi, fermo su un gradino più alto, la spada snudata, impediva o per lo meno cercava d’impedire agli altri tre di salire. Gli altri tre si battevano con lui giocando ugualmente
di spada. A prima vista d’Artagnan credette che usassero
fioretti da scherma col bottone sulla punta; ma presto capì
che le armi affilate dalle punte sottili procuravano ai duellanti graffiature, e che ad ogni graffiatura non soltanto gli
spettatori, ma anche i colpiti ridevano come matti.
Colui che in quel momento occupava il gradino superiore teneva valorosamente a distanza i suoi avversari. Intorno si faceva circolo. I patti erano questi: chi era colpito
doveva abbandonare la gara e perdeva il suo turno in favore dell’avversario. In cinque minuti tre furono sfiorati,
uno al polso, l’altro al mento, il terzo all’orecchio; il difensore sullo scalino non fu mai raggiunto e vinse tre turni.
Il nostro giovane viaggiatore assisteva meravigliato a
quel passatempo sebbene fingesse di non stupirsi di niente.
Nella sua provincia, in quella terra dove le teste si scaldano
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I TRE MOSCHETTIERI
facilmente, aveva visto duellare con minore disinvoltura,
e la guasconata di quei quattro giocatori gli sembrò la più
forte fra tutte quelle di cui aveva sentito parlare nella stessa
Guascogna. Gli pareva d’essere arrivato in un paese di giganti e tuttavia non era ancora alla fine: restava il pianerottolo e restava l’anticamera.
Sul pianerottolo non si duellava, ma si raccontavano
storie di donne; nell’anticamera storie di corte: sul pianerottolo d’Artagnan arrossì, nell’anticamera rabbrividì. La
sua immaginazione sveglia e rapida che in Guascogna lo
rendeva irresistibile con le giovani cameriere e spesso talvolta con le giovani padrone, non aveva mai immaginato,
nemmeno nei momenti più deliranti, la metà di quelle meraviglie erotiche e nemmeno un quarto di quelle prodezze
galanti rese più saporite dai nomi celebri e dai particolari
per nulla velati. Ma se la sua istintiva moralità fu offesa sul
pianerottolo, il suo rispetto per il cardinale subì nell’anticamera un grave colpo. Con infinito stupore, d’Artagnan
ascoltò criticare ad alta voce non solo la politica che faceva
tremare l’Europa, ma anche la vita privata del cardinale
sebbene tanti, gran signori e potenti, che avevano tentato
di indagare su quei segreti personali, fossero stati puniti.
L’uomo venerato dal padre di d’Artagnan serviva di bersaglio alle risate dei moschettieri del signor di Tréville; essi
schernivano le sue gambe storte e la curva accentuata della
sua schiena; alcuni cantavano strofette satiriche sulla sua
amante, la signora d’Aiguillon o sulla signora di Combalet
sua nipote, mentre altri concertavano scontri con i paggi
e le guardie del cardinale. Sembrava a d’Artagnan di ascoltare mostruosità incredibili.
Tuttavia quando il nome del re cadeva talvolta all’improvviso in mezzo a tante facezie cardinalizie, una specie
di sbadiglio chiudeva per un istante quelle bocche beffarde;
ci si guardava intorno come se potesse essere indiscreta persino la porta dello studio del signor di Tréville; ma presto
una parola allusiva riportava la conversazione su Sua Eminenza, e allora gli scoppi di risa riprendevano e nessuna
delle sue azioni sfuggiva ad una critica mordente.
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CAPITOLO II
«Questa gente è pronta per la Bastiglia e per la forca,
pensava d’Artagnan con terrore, e io seguirò la loro sorte
poiché dal momento che li ho ascoltati sarò preso per loro
complice. Che direbbe il mio signor padre che m’ha tanto
raccomandato di rispettare il cardinale, se mi vedesse in
mezzo a simili eretici?»
Si capisce dunque che d’Artagnan non osava prendere
parte alla conversazione; guardava con occhi attenti, ascoltava tendendo le orecchie, cercava con i cinque sensi tesi
di non perdere nulla, e sebbene avesse fiducia nelle raccomandazioni paterne, si sentiva portato dai suoi gusti e dai
suoi istinti ad approvare piuttosto che a biasimare i discorsi
incredibili che turbinavano intorno a lui.
Frattanto, essendo del tutto estraneo alla folla dei cortigiani del signor di Tréville, e poiché era la prima volta che
appariva in quel luogo, qualcuno venne a domandargli che
cosa desiderasse. A tale richiesta d’Artagnan fece il suo
nome con modi rispettosi e pregò il servitore che era venuto verso di lui di domandare al signor di Tréville una
breve udienza; il servitore promise con tono di protezione
che avrebbe trasmesso la richiesta a tempo e a luogo.
D’Artagnan che si era rimesso dalla prima sorpresa ebbe
così il tempo di esaminare un poco gli abbigliamenti e le
fisionomie di ciascuno.
Al centro del gruppo più vivace era un moschettiere altissimo, dall’espressione altera, vestito così bizzarramente
da attirare su di sé l’attenzione generale. Non portava in
quel momento la casacca regolamentare, che del resto non
era assolutamente obbligatoria in quell’epoca di poca libertà e di molta indipendenza, ma un giustacuore turchino
scolorito e logoro, attraversato da una magnifica tracolla
ricamata d’oro, lucente come i barbagli d’oro dell’acqua
sotto i vivi raggi del sole. Un lungo mantello di velluto cremisi gli ricadeva con eleganza dalle spalle lasciando vedere
soltanto sul davanti la splendida tracolla alla quale era allacciato un gigantesco spadone.
Quel moschettiere aveva finito il suo turno di guardia
proprio allora; si lagnava d’essere raffreddato, e di tanto in
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I TRE MOSCHETTIERI
tanto tossiva con affettazione. Aveva dovuto indossare il
mantello, diceva, e mentre parlava dall’alto della sua statura arricciandosi fieramente i baffi, lasciava che intorno a
lui si ammirasse con entusiasmo la sua tracolla ricamata.
D’Artagnan l’ammirava più di ogni altro.
– Che volete, diceva il moschettiere, si tratta di moda;
capisco, sembra una pazzia, ma la moda è moda; e d’altra
parte bisogna pure spenderli i denari che vengono da casa.
– Andiamo, Porthos, gridò uno degli astanti, non ci
farai credere che questa tracolla ti viene dalla generosità
paterna; ti sarà stata regalata dalla dama velata che era con
te quando ti ho incontrato domenica scorsa verso la porta
Saint-Honoré.
– Sul mio onore, e in fede di gentiluomo, l’ho acquistata io stesso e con i miei denari, rispose colui che era stato
chiamato Porthos.
– Sì, come io ho comprato, disse un altro moschettiere,
questa borsa nuova con ciò che la mia amante aveva messo
dentro alla mia borsa vecchia.
– È la verità, disse Porthos, e per prova vi dirò che l’ho
pagata dodici scudi.
L’ammirazione aumentò ma il dubbio sussisteva.
– È vero, Aramis? disse Porthos voltandosi verso un
altro moschettiere.
Il moschettiere interpellato col nome di Aramis faceva
un perfetto contrasto con il suo interlocutore: era un giovane di ventidue o ventitré anni, dall’espressione ingenua
e affabile, dall’occhio nero e dolce, dalle guance rosate e
vellutate come una pesca d’autunno; i suoi baffi sottili disegnavano sul labbro superiore una linea perfettamente diritta; sembrava che egli temesse di abbassare le mani per
paura che le vene gli si gonfiassero; e di tanto in tanto si
pizzicava i lobi delle orecchie perché apparissero d’incarnato tenero e trasparente. Di solito parlava poco e lentamente, salutava spesso, rideva sommessamente lasciando
vedere i bellissimi denti dei quali, come di tutta la persona,
aveva molta cura. Rispose con un segno affermativo alla
domanda dell’amico. La sua conferma parve revocare ogni
48
CAPITOLO II
dubbio sulla tracolla; ora l’ammiravano senza parlarne; e
presto la conversazione passò ad un altro argomento.
– Che vi pare di ciò che racconta lo scudiero del conte
di Chalais? domandò un altro moschettiere senza rivolgersi
direttamente a nessuno ma rivolgendosi a tutti.
– E che mai racconta? domandò Porthos parlando dall’alto della sua statura.
– Dice di aver incontrato a Bruxelles Rochefort, l’anima
dannata del cardinale, travestito da cappuccino; quel maledetto Rochefort, così travestito, ha giocato un bel tiro al
signor de Laigues da quello scimunito che è.
– Un vero scimunito, confermò Porthos; ma è una notizia sicura?
– L’ho saputa da Aramis, rispose il moschettiere.
– Davvero?
– Come «davvero»? Lo sapete benissimo, Porthos, disse
Aramis; vi ho raccontato tutto ieri; non parliamone più.
– Non parliamone più, non parliamone più! Fate presto
a dirlo! riprese Porthos. Accidenti, se andate lesto alla conclusione! Ma come, il cardinale fa spiare un gentiluomo, fa
rubare le sue lettere da un traditore, da un brigante, da un
ribaldo; con l’aiuto di quello spione e grazie a quella corrispondenza fa tagliare il collo al conte di Chalais sotto lo
sciocco pretesto che voleva uccidere il re e far sposare la regina al cognato! Nessuno sapeva una parola di questa storia,
voi ce lo raccontate con grande soddisfazione di noi tutti,
e quando siamo ancora sbalorditi dalla notizia ci venite a
dire «non parliamone più»!
– Parliamone allora, dal momento che lo desiderate,
riprese Aramis pazientemente.
– Se io fossi lo scudiero del povero conte di Chalais,
gridò Porthos, questo Rochefort passerebbe un brutto momento.
– E voi passereste un bruttissimo quarto d’ora col Duca
Rosso, riprese Aramis.
– Il Duca Rosso! Bravissimo, il Duca Rosso! rispose
Porthos battendo le mani e approvando con la testa. Ben
detto il «Duca Rosso»! Metterò in giro il vostro motto. Che
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I TRE MOSCHETTIERI
spirito ha questo Aramis! Peccato che non abbiate potuto
seguire la vostra vocazione! Sareste diventato un abate delizioso!
– Oh, è solo un ritardo momentaneo, riprese Aramis;
un giorno sarò davvero abate. Sapete pure, Porthos, che
continuo a studiare teologia.
– E farà come dice, riprese Porthos; presto o tardi lo farà,
vedrete.
– Presto, confermò Aramis.
– Aspetta una sola cosa per decidersi a indossare la tonaca che tiene sotto l’uniforme, riprese un moschettiere.
– Aspetta che cosa? domandò un altro.
– Aspetta che la regina abbia dato un erede alla corona
di Francia.
– Non scherziamo su questo argomento, signori, disse
Porthos; grazie a Dio la regina è ancora nell’età da aver
figli.
– Si dice che il signor di Buckingham sia in Francia, riprese Aramis con un risolino canzonatorio che dava alla
frase così semplice in apparenza un significato ambiguo.
– Aramis, amico mio, questa volta avete torto, interruppe Porthos, e la vostra mania di fare lo spiritoso vi trascina di là dai limiti; se il signor di Tréville vi ascoltasse vi
pentireste di aver parlato così.
– Volete darmi una lezione, Porthos? esclamò Aramis.
E un lampo passò nel suo sguardo così dolce.
– Mio caro, decidetevi: siate moschettiere o abate; siate
l’uno o l’altro, ma non l’uno e l’altro, riprese Porthos. Athos
ve l’ha avvertito anche l’altro giorno: non mangiate a tutte
le greppie. Su, non vi adirate, sarebbe inutile, sapete pure
che cosa abbiamo stabilito tra voi, Athos e me. Andate
dalla signora di Aiguillon e le fate la corte, andate dalla signora di Bois-Tracy, cugina della signora di Chevreuse e si
dice che siate molto favorito da questa signora. Capisco,
non confessate le vostre buone fortune, e nessuno vi domanda i vostri segreti, sappiamo tutti quanto siete discreto;
ma giacché possedete questa qualità, diamine, usatela a
vantaggio di Sua Maestà! Si occupi chi vuole o come vuole
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CAPITOLO II
del re e del cardinale; ma la regina è sacra e di lei si deve
parlare soltanto bene.
– Porthos, siete vanitoso come Narciso, rispose Aramis;
lo sapete, odio che mi si faccia la predica quando non è
Athos a farla. E voi, mio caro, avete una tracolla troppo
magnifica per parlare su certi argomenti; sarò abate quando
mi converrà; intanto sono moschettiere, in questa qualità
dico ciò che mi piace, e mi piace di dirvi che mi state seccando.
– Aramis!
– Porthos!
– Signori! Signori! si gridava intorno.
– Il signor di Tréville attende il signor d’Artagnan, interruppe il servitore aprendo la porta dello studio.
A queste parole, davanti a quella porta aperta, tutti tacquero, e fra il silenzio generale il giovane guascone attraversò in diagonale l’anticamera ed entrò dal capitano dei
moschettieri felice in cuor suo di sfuggire alla conclusione
di quella singolare contesa.
51
III
L’udienza
In quel momento il signor di Tréville era di pessimo umore;
tuttavia salutò cortesemente il giovane che s’inchinò fino
a terra e sorrise ascoltando le parole di omaggio dette con
quell’accento bearnese che gli ricordava insieme la sua giovinezza e la sua terra, due ricordi che fanno sorridere gli uomini a tutte le età. Ma ritornando subito verso l’anticamera,
dopo aver fatto a d’Artagnan un segno con la mano come
per domandargli il permesso di finirla con gli altri prima di
cominciare con lui, chiamò tre volte, ogni volta alzando la
voce, in un crescendo di tono tra l’imperativo e l’irritato:
– Athos, Porthos, Aramis!
I due moschettieri che abbiamo già conosciuto e che rispondevano ai due ultimi nomi chiamati, lasciarono subito
il gruppo del quale facevano parte e avanzarono verso lo
studio; la porta si chiuse dietro di loro appena ebbero passato la soglia. Il loro contegno, sebbene non del tutto privo
d’inquietudine, suscitò, per la sua disinvoltura dignitosa e
rispettosa, l’ammirazione di d’Artagnan che vedeva quegli
uomini come semidei e il loro capo come un Giove olimpico armato di tutte le folgori.
Quando i due moschettieri furono entrati e la porta
chiusa, quando il brusio ricominciò in anticamera dopo la
chiamata improvvisa che aveva dato nuovo stimolo ai commenti, quando il signor di Tréville in silenzio e con la fronte
aggrottata ebbe percorso tre o quattro volte in tutta la sua
larghezza lo studio, passando ogni volta davanti a Porthos
52
CAPITOLO III
e Aramis rigidi e silenziosi come ad una parata, il capitano
si fermò davanti a loro guardandoli dalla testa ai piedi con
grande irritazione.
– Sapete che cosa mi ha detto il re, esclamò, non più
tardi di ieri sera? Lo sapete, signori?
– No, risposero dopo un istante di silenzio i due moschettieri; no, signore, non lo sappiamo.
– Ma spero che ci farete l’onore di dircelo, aggiunse
Aramis in tono cortese e con un grazioso inchino.
– Mi ha detto che d’ora in poi recluterà i suoi moschettieri tra le guardie del cardinale.
– Tra le guardie del cardinale? E perché? domandò
Porthos impetuosamente.
– Perché si è accorto che il suo vinello ha bisogno di
essere rinvigorito con una miscela di vino robusto.
I due moschettieri arrossirono fino al bianco degli
occhi. D’Artagnan avrebbe voluto essere cento piedi sotto
terra.
– Ma sicuro, sicuro! continuò il signor di Tréville animandosi a mano a mano; e Sua Maestà aveva ragione
perché, parola d’onore, è vero che i moschettieri fanno fare
una brutta figura alla corte. Ieri sera alla partita di gioco col
re, il cardinale raccontava prendendo un tono di condoglianza molto spiacevole, che l’altro ieri questi dannati moschettieri, questi demoni scatenati – insisteva sulle parole
con un accento ironico irritantissimo – questi sciabolatori,
aggiungeva guardandomi con quel suo occhio felino, si
erano attardati a far chiasso in via Férou, in un’osteria, e
che una pattuglia delle sue guardie – pareva che volesse ridermi in faccia – aveva dovuto arrestare quei disturbatori.
Perdio! Dovreste saperne qualche cosa! Arrestare i moschettieri! Eravate là anche voi, confessatelo, siete stati riconosciuti; anzi il cardinale ha fatto i vostri nomi. Lo sbaglio è mio; sì, ho sbagliato io, perché sono io a scegliere gli
uomini. Voi, Aramis, perché mi avete chiesto la casacca
quando vi andrebbe meglio la tonaca? E a voi, Porthos, la
vostra bella tracolla d’oro serve per attaccarvi una spada di
paglia? E Athos? Non vedo Athos; dov’è?
53
I TRE MOSCHETTIERI
– Signore, rispose tristemente Aramis, è malato, malatissimo.
– Malato, malatissimo, dite? E di quale malattia?
– Si teme che possa essere vaiolo, signore, rispose
Porthos che voleva introdurre una parola nella conversazione, e sarebbe spiacevole perché certamente rimarrebbe
col viso sfigurato.
– Il vaiolo! Ecco un’altra bella storia, Porthos!... Malato di vaiolo alla sua età! Non può essere... Sarà certamente ferito, forse è morto. Ah, se l’avessi saputo... Perdio!
Signori moschettieri, non intendo che si frequentino così
i luoghi malfamati, e che ci si prenda a sciabolate nelle
strade e nei crocicchi. Non voglio che si facciano ridere le
guardie del cardinale che sono brave persone tranquille,
abili, che non corrono mai il pericolo di essere arrestati e
che del resto non si lascerebbero arrestare... Ne sono sicuro... Preferirebbero morire sul posto prima di fare un passo
indietro: salvarsi, svignarsela, fuggire sono cose degne dei
moschettieri del re!
Porthos e Aramis fremevano di rabbia. Volentieri
avrebbero strangolato il signor di Tréville se non avessero
sentito che parlava così per affetto. Battevano il piede sul
tappeto, si mordevano le labbra a sangue e stringevano con
tutta la loro forza l’elsa della spada. Frattanto nell’anticamera, dove, come abbiamo detto, aveva risuonato la chiamata per Athos Porthos e Aramis, tutti avevano avvertito
nell’accento del signor di Tréville la sua terribile collera.
Dieci uomini ansiosi, con l’orecchio incollato alla porta e
pallidi di furore, non perdevano una sillaba di ciò che si diceva, mentre dieci bocche ripetevano a mano a mano le
parole insultanti del capitano alla folla in anticamera. In
un momento dalla porta dello studio fino al portone sulla
strada tutto il palazzo fu in ebollizione.
– E così i moschettieri del re si fanno arrestare dalle
guardie del cardinale, continuava il signor di Tréville furibondo quanto i SUOI soldati, ma scandendo le parole e
quasi immergendole come colpi di pugnale nel petto dei
suoi ascoltatori. Così sei guardie di Sua Eminenza arrestano
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CAPITOLO III
sei moschettieri di Sua Maestà! Perdio! Adesso so che cosa
devo fare. Esco di qui e vado al Louvre; do le dimissioni da
capitano dei moschettieri del re e domando di entrare come
luogotenente fra le guardie del cardinale; e se non mi vogliono, perdio, mi faccio frate!
A queste parole il brusìo esterno diventò un’esplosione;
da per tutto si sentivano solo bestemmie e maledizioni. I
«perdio» i «cospetto», i «per tutti i diavoli» s’incrociavano
nell’aria. D’Artagnan cercava una tenda per nascondersi e
sentiva una gran voglia di cacciarsi sotto il tavolo.
– Allora, disse Porthos, vi dirò la verità; eravamo sei
contro sei, ma siamo stati assaliti a tradimento, e prima di
aver avuto il tempo di sguainare le spade, due di noi erano
caduti morti; Athos, ferito gravemente, non poteva più
combattere. Sapete chi è, Athos, e potete crederlo, capitano: ha tentato due volte di rialzarsi e due volte è ricaduto.
Eppure non ci siamo arresi, no davvero! Siamo stati trascinati a forza e solo per la strada siamo riusciti a liberarci.
Quanto ad Athos credevano che fosse morto e l’hanno lasciato sul campo di battaglia pensando che non valeva
nemmeno la pena di portarlo via. Ecco come stanno le cose.
Diavolo, capitano! Non si possono vincere tutte le battaglie. Il grande Pompeo ha perduto quella di Farsalo, e il re
Francesco I valoroso com’era ha perduto la battaglia di
Pavia!
– E io ho l’onore di aggiungere che ne ho ammazzato
uno con la sua stessa spada, disse Aramis, perché la mia si
è spezzata al primo scontro... Ucciso o pugnalato, signore,
come credete meglio.
– Non sapevo niente di tutto questo, riprese il signor di
Tréville un po’ ammansito. Mi sembra che il cardinale abbia
esagerato.
– Ma vi prego, signore, continuò Aramis che vedendo
il capitano calmarsi osava formulare una preghiera, vi
prego, signore, non dite che Athos è ferito, sarebbe disperato se il re lo sapesse, e poiché la ferita è gravissima – la
lama gli ha attraversato la spalla ed è penetrata nel petto –
ci sarebbe da temere...
55
I TRE MOSCHETTIERI
In quello stesso istante la tenda si sollevò e il volto di
un uomo nobile e bello, ma pallidissimo, apparve sotto la
frangia.
– Athos! gridarono i due moschettieri.
– Athos! ripeté il signor di Tréville.
– Mi avete chiamato, signore, disse Athos al signor di
Tréville con voce debole ma fermissima, mi avete chiamato, così mi hanno detto i nostri compagni, e io sono qui
ai vostri ordini; eccomi: che cosa mi comandate?
A queste parole il moschettiere in perfetta tenuta e irreprensibile come al solito entrò con passo sicuro nello
studio. Il signor di Tréville commosso profondamente da
quella prova di coraggio si precipitò verso di lui.
– Stavo per dire a questi signori, aggiunse, che proibisco
ai miei moschettieri di esporre la loro vita quando non è
necessario; i valorosi sono cari al re, e il re sa che i suoi moschettieri sono gli uomini più valorosi del mondo. La vostra mano, Athos.
E senza aspettare che l’altro rispondesse a questa prova
di affetto, il signor di Tréville gli afferrò la mano destra non
accorgendosi che Athos per quanto grande fosse la sua forza
di volontà si lasciava sfuggire un moto di dolore impallidendo sempre di più.
La porta era rimasta socchiusa, tanto l’arrivo di Athos
che tutti sapevano gravemente ferito aveva fatto sensazione. Un ruggito di gioia accolse le ultime parole del capitano e due o tre teste di entusiasti apparvero sotto la
tenda. Il signor di Tréville stava per reprimere con parole
energiche quell’infrazione alle regole dell’etichetta, quando
sentì ad un tratto che la mano di Athos si aggrappava convulsa alla sua mano; lo guardò, e si accorse che stava per
svenire. In quell’istante Athos, che aveva radunato tutte
le sue forze per resistere, sopraffatto dal dolore, cadde in
terra, come morto.
– Un chirurgo! gridò il signor di Tréville. Il mio, quello
del re, il migliore! Un chirurgo! Perdio, il mio prode Athos
muore!
Alla chiamata ansiosa del signor di Tréville tutti si pre56
CAPITOLO III
cipitarono nello studio senza che nessuno pensasse a chiudere la porta e si affollarono intorno al ferito. Ma tante premure sarebbero state inutili se il medico richiesto non fosse
stato in palazzo. Egli si fece largo tra gli astanti, si avvicinò
ad Athos sempre svenuto, e, poiché chiasso e movimento
lo infastidivano, per prima cosa richiese urgentemente che
il moschettiere fosse portato in una camera vicina. Subito
il signor di Tréville aprì una porta e fece strada a Porthos e
ad Aramis che portavano a braccia il loro compagno. Dietro
il gruppo era il chirurgo, e dietro il chirurgo la porta si
chiuse.
Intanto lo studio del signor di Tréville, luogo di solito
tanto rispettato, era diventato una succursale dell’anticamera. Ognuno discorreva, perorava, parlava ad alta voce,
bestemmiava, sacramentava mandando a tutti i diavoli il
cardinale e le sue guardie.
Dopo un istante Porthos e Aramis ritornarono; il chirurgo e il signor di Tréville erano restati vicino al ferito. A
sua volta il signor di Tréville tornò nello studio. Il ferito
aveva ripreso conoscenza e il chirurgo aveva dichiarato che
lo stato del moschettiere non era preoccupante; la sua debolezza era stata causata soltanto dalla gran perdita di
sangue.
Con un segno della mano il signor di Tréville fece uscire
tutti eccetto d’Artagnan che non dimenticava l’udienza
promessa e che con la sua tenacia di guascone era rimasto
sul posto.
Quando tutti furono usciti e la porta chiusa, il signor di
Tréville si voltò: era solo con il giovane. Le cose accadute
gli avevano fatto perdere il filo delle idee, e domandò che
cosa volesse quell’ostinato postulante. D’Artagnan disse il
suo nome, e al signor di Tréville ritornarono subito in
mente i ricordi del passato e i ricordi del presente.
– Scusatemi, disse sorridendo, scusatemi davvero, ma
vi avevo completamente dimenticato. Un capitano è un
padre di famiglia che ha più responsabilità di qualunque
altro padre di famiglia. I soldati sono dei veri ragazzi ma
poiché esigo che gli ordini del re e soprattutto quelli del si57
I TRE MOSCHETTIERI
gnor cardinale siano eseguiti... D’Artagnan non poté nascondere un sorriso, e il signor di Tréville capì di non avere
a che fare con uno sprovveduto; sicché venne subito all’argomento cambiando discorso.
– Sono stato molto amico di vostro padre, disse: che
posso fare per suo figlio? Sbrigatevi, ho poco tempo a mia
disposizione.
– Signore, disse d’Artagnan, quando ho lasciato Tarbes
per venire qui, mi proponevo di domandarvi in nome di
quella amicizia che ricordate così bene, una casacca di moschettiere; ma dopo quello che ho visto in due ore capisco
che un simile favore sarebbe troppo grande e temo di non
meritarlo.
– Infatti è un vero favore, rispose il signor di Tréville;
ma potrebbe non essere così lontano da voi quanto credete.
Tuttavia una disposizione di Sua Maestà ha previsto il caso,
e devo dirvi con rammarico, che per essere moschettieri occorre una prova preliminare, una campagna di guerra, o
qualche azione valorosa, o un servizio di due anni in un
altro reggimento meno privilegiato del nostro.
D’Artagnan s’inchinò senza rispondere. Tante difficoltà
lo rendevano addirittura avido di indossare l’uniforme dei
moschettieri.
– Ma, continuò Tréville fissando sul suo compaesano
uno sguardo penetrante come se volesse leggergli fino nel
fondo del cuore, ma per il ricordo di vostro padre mio antico compagno, voglio fare qualche cosa per voi. I nostri
cadetti bearnesi non sono di solito ricchi e credo che le cose
non siano molto cambiate da quando ho lasciato il mio
paese. Il denaro che avete in tasca non vi basterà certo per
vivere.
D’Artagnan si eresse sulla persona con aria fiera; non
domandava l’elemosina a nessuno.
– Bene, bene, ragazzo mio, continuò Tréville, ti capisco.
Anche io sono arrivato a Parigi con quattro scudi in tasca
e avrei sfidato chiunque mi avesse detto che non ero abbastanza ricco per comprarmi il Louvre.
La fierezza del giovane aumentò: grazie alla vendita del
58
CAPITOLO III
suo cavallo egli cominciava con qualche scudo di più del
signor di Tréville.
– Volevo dire che dovete conservare il vostro denaro
anche se la somma è considerevole; ma avete anche bisogno
di praticare gli esercizi che convengono a un gentiluomo.
Oggi stesso scriverò una lettera al direttore dell’Accademia
Reale e potrete entrarvi domani senza alcun pagamento.
Accettate questo piccolo aiuto. I nostri gentiluomini più
nobili e più ricchi lo chiedono talvolta senza riuscire ad
ottenerlo. Imparerete il maneggio del cavallo, l’equitazione,
la danza; farete alcune conoscenze utili e ogni tanto tornerete a trovarmi per darmi vostre notizie e dirmi se posso
fare qualche cosa per voi.
D’Artagnan, sebbene non conoscesse ancora gli usi di
corte, capì che l’accoglienza era stata fredda.
– Ahimè, signore, disse, mi accorgo quanto mi manchi
oggi la lettera di raccomandazione che mio padre mi aveva
dato!
– Infatti, rispose il signor di Tréville, mi stupisco che
abbiate intrapreso un viaggio così lungo senza questo viatico, sola risorsa di noi bearnesi.
– L’avevo, signore, ed anche in buona forma! Ma sono
stato perfidamente derubato.
E raccontò tutta la scena di Meung, descrisse il gentiluomo sconosciuto nei suoi minimi particolari, con un calore di verità che piacque molto al signor di Tréville.
– È una cosa molto strana, disse il capitano con aria meditativa; avevate parlato di me ad alta voce?
– Sì, signore; ho commesso questa imprudenza; un
nome come il vostro, che volete, mi doveva servire da scudo
in viaggio; figuratevi se non l’ho usato spesso per ripararmi!
L’adulazione era allora cosa corrente, e il signor di Tréville come un re e come un cardinale amava essere incensato. Non poté dunque impedirsi di sorridere con una certa
soddisfazione; ma il sorriso scomparve subito; e ritornando
all’avventura di Meung:
– Ditemi, continuò, quel gentiluomo aveva una piccola
cicatrice sulla tempia?
59
I TRE MOSCHETTIERI
– Sì, come se fosse stato sfiorato da una pallottola.
– Era un uomo di bella presenza?
– Sì.
– Pallido e bruno?
– Sì, sì, era proprio lui! Ma possibile, signore, voi conoscete quest’uomo? Se lo ritrovo, e lo ritroverò, ve lo giuro,
anche all’inferno...
– Aspettava una donna? continuò Tréville.
– È partito dopo aver parlato un istante con quella che
stava aspettando.
– Sapete qual era l’argomento della loro conversazione?
– Le aveva consegnato una scatola, le diceva che quella
scatola conteneva le sue istruzioni e le raccomandava di
aprirla soltanto a Londra.
– La donna era inglese?
– La chiamava Milady.
– È lui, mormorò Tréville, proprio lui! Credevo che fosse
ancora a Bruxelles.
– Oh, signore, se voi sapete chi è quell’uomo, esclamò
d’Artagnan, ditemi il suo nome e dove abita, e poi non avrò
più niente da chiedervi; rinuncio anche alla promessa di
farmi entrare nei moschettieri; prima di tutto voglio vendicarmi.
– Guardatevene bene, ragazzo mio! esclamò Tréville; se
lo incontrate per la strada passate dall’altra parte. Non urtate quella roccia; sareste frantumato come un pezzo di
vetro.
– Capisco, disse d’Artagnan; ma se mi capitasse di ritrovarlo...
– Intanto, riprese Tréville, non cercatelo; è un consiglio.
All’improvviso Tréville fu colpito da un subitaneo sospetto. Quel grande odio che manifestava così chiaramente
il giovane viaggiatore per l’uomo che, cosa poco verosimile,
gli aveva rubato la lettera di suo padre, non nascondeva
qualche insidia? Il giovane non poteva essere un inviato di
Sua Eminenza venuto a tendergli un tranello? Questo preteso d’Artagnan non poteva essere un emissario del cardi60
CAPITOLO III
nale che cercava di entrare in casa sua per acquistarsi la
sua fiducia e per perderla più tardi come era successo mille
volte? Guardò d’Artagnan ancora più intensamente per la
seconda volta. E quella fisionomia arguta, esprimente
astuzia e umiltà simulata non lo rassicurò molto.
«È un guascone, lo so, ma può esserlo tanto per il cardinale quanto per me. Vediamolo alla prova.»
– Amico mio, gli disse lentamente, per farvi dimenticare la freddezza che avete osservato nella mia accoglienza
e poiché vi considero il figlio del mio antico amico e credo
vera la storia della lettera perduta, voglio rivelarvi i segreti
della nostra politica. Il re e il cardinale sono amicissimi; le
loro apparenti contese sono fatte per ingannare gli stolti.
Non voglio che un mio compaesano, un bel cavaliere, un
valoroso ragazzo nato per fare fortuna sia ingannato da tutte
queste simulazioni e cada come uno sciocco nella rete come
tanti altri. Ricordatevi che io sono devoto a questi due padroni onnipotenti e che le mie azioni più serie non avranno
mai altro fine dal servizio del re e da quello del cardinale,
uno dei più grandi geni che la Francia abbia mai avuto.
Adesso, ragazzo mio, regolatevi; e se avete inimicizie, sia
di famiglia, sia di relazioni, sia d’istinto contro il cardinale
come le hanno alcuni gentiluomini, salutatemi e lasciamoci. Vi aiuterò in ogni circostanza ma non verrete a stare
con me. Spero che per la mia franchezza, almeno, mi sarete amico; fino ad oggi siete il solo giovane al quale ho parlato così.
Tréville pensava fra sé e sé:
«Se il cardinale mi ha messo alle calcagna questa volpicina, lui che sa quanto lo odio, avrà certamente detto alla
sua spia che il modo migliore di farmi la corte è di dirmi
peste e corna di lui; e adesso, nonostante le mie dichiarazioni, il furbo compare mi risponderà certamente che odia
Sua Eminenza.»
Accadde esattamente il contrario. Tréville si sentì rispondere molto semplicemente dal giovane:
– Signore, sono venuto a Parigi con queste intenzioni.
Mio padre mi ha raccomandato di obbedire solo al re, al
61
I TRE MOSCHETTIERI
cardinale e a voi che siete i tre primi uomini della Francia.
D’Artagnan, come abbiamo visto, aveva aggiunto Tréville agli altri due; ma pensava che questa aggiunta non faceva male a nessuno.
– Ho la più grande venerazione per il cardinale, continuò, e il più profondo rispetto per le sue azioni. Meglio
per me, signore, se mi parlate, come dite, con franchezza.
Se non vi fidate di me, come del resto è naturale, sento che
mi perdo dicendo la verità; non importa, voi seguiterete a
stimarmi e questa è la cosa alla quale tengo di più al mondo.
Tréville fu molto sorpreso. Tanta sagacia, tanta franchezza erano ammirevoli ma non cancellavano del tutto i
suoi dubbi: più questo giovane gli pareva superiore agli altri
giovani della sua età, più poteva essere temibile. Tuttavia
strinse la mano a d’Artagnan e gli disse:
– Siete un bravo ragazzo davvero, ma in questo momento posso fare per voi solo quello che vi ho già detto. La
mia casa vi sarà sempre aperta. Potrete parlarmi in ogni momento e per conseguenza cogliere ogni occasione; e più
tardi otterrete probabilmente ciò che desiderate.
– Sarebbe come dire, signore, riprese d’Artagnan, che
mi aspettate alla prova. Potete essere tranquillo, aggiunse
con la familiarità del guascone, non aspetterete molto.
E salutò per uscire come se ormai il resto fosse affar suo.
– Aspettate un momento, disse il signor di Tréville fermandolo; vi ho promesso una lettera per il direttore dell’Accademia. Non sarete tanto superbo da non accettarla,
ragazzo mio.
– No, signore, disse d’Artagnan, e vi assicuro che questa
lettera non avrà la sorte dell’altra. La custodirò così bene
che arriverà, ve lo giuro, al suo indirizzo; guai a chi tentasse di portarmela via.
Il signor di Tréville sorrise a quella bravata, e, lasciando
il suo giovane compaesano nel vano della finestra dove avevano parlato insieme, andò a sedersi a un tavolino e si mise
a scrivere la lettera di raccomandazione che aveva promesso. Intanto d’Artagnan, non sapendo che cosa fare, si
mise a battere un ritmo di marcia contro i vetri guardando
62
CAPITOLO III
i moschettieri che uscivano uno dopo l’altro e seguendoli
con lo sguardo finché non scomparivano all’angolo della
strada.
Il signor di Tréville dopo aver scritto la lettera la sigillò
e alzandosi fece per avvicinarsi al giovane; d’Artagnan stava
per prendere la lettera; ma in quel momento il signor di Tréville vide con stupore il suo protetto sussultare, arrossire di
collera e slanciarsi fuori dello studio gridando:
– Ah, perdio! Questa volta non mi sfuggirà!
– Chi non vi sfuggirà? domandò il signor di Tréville.
– Lui, il mio ladro, il traditore!
E disparve.
– Diavolo d’un pazzo! mormorò il signor di Tréville. A
meno però, aggiunse, che non abbia inventato una buona
scusa per scappare vedendo che il colpo non gli era riuscito.
63
IV
La spalla di Athos, la tracolla
di Porthos e il fazzoletto di Aramis
Furioso, d’Artagnan aveva attraversato l’anticamera con
tre balzi e si lanciava sullo scalone pensando di scendere i
gradini a quattro a quattro, quando, trascinato dalla sua
foga, andò ad urtare a testa bassa un moschettiere che
usciva dall’appartamento del signor di Tréville da una porta
di disimpegno; urtandolo alla spalla, gli fece mandare un
grido o piuttosto un urlo.
– Scusatemi, disse d’Artagnan cercando di riprendere
la sua corsa, scusatemi, ma ho molta fretta.
Non aveva ancora disceso il primo scalino che un pugno
di ferro lo afferrò per la sciarpa e lo costrinse a fermarsi.
– Andate di fretta! gridò il moschettiere bianco come
un sudario; con questa scusa mi urtate, dite «scusatemi» e
credete che basti! No davvero, ragazzo; perché avete sentito il signor di Tréville parlarci un po’ imperiosamente credete che ci si possa trattare così? Disingannatevi, amico,
non siete il signor di Tréville, voi!
– Davvero, replicò d’Artagnan che aveva riconosciuto
Athos il quale, dopo la fasciatura compiuta dal dottore ritornava nelle sue stanze, credetemi non l’ho fatto apposta,
vi ho chiesto scusa. Mi sembra che sia abbastanza. Ve lo
ripeto, e forse una volta di troppo, parola d’onore! Ho
fretta, molta fretta, lasciatemi, ve ne prego, lasciatemi andare.
– Signore, disse Athos lasciandolo, voi non siete cortese. Si vede che venite da lontano.
64
CAPITOLO IV
D’Artagnan che aveva già sceso tre o quattro gradini,
si fermò netto alle parole di Athos.
– Perdio, signore, disse, anche se vengo da lontano, non
sarete voi a darmi una lezione di belle maniere.
– Chissà! disse Athos.
– Se non avessi tanta fretta, gridò d’Artagnan, e se non
inseguissi qualcuno...
– Signor frettoloso, mi troverete senza correre quando
vorrete.
– E dove, se è lecito?
– Vicino ai Carmes-Deschaux.
– A che ora?
– Verso mezzogiorno.
– Verso mezzogiorno ci sarò.
– Badate, non fatemi aspettare, perché a mezzogiorno
e un quarto vi avverto che sarò io a corrervi dietro e a tagliarvi le orecchie in corsa.
– Bene, gridò d’Artagnan, ci sarò a mezzogiorno meno
dieci.
E si mise a correre come trascinato dal diavolo sperando
ancora di raggiungere lo sconosciuto che, andando a passo
regolare, non poteva essere molto lontano.
Fermo sul portone, Porthos parlava con un soldato di
guardia: fra i due c’era appena lo spazio per far passare un
uomo. D’Artagnan misurò lo spazio, e credendo di poter
passare, scattò come una freccia. Ma non aveva fatto i conti
col vento che gonfiò il lungo mantello di Porthos, e ci finì
dentro in pieno. Porthos che aveva le sue ragioni per tenersi stretto alla persona il mantello, invece di lasciar andare il lembo che reggeva con la mano, lo tirò verso se stesso
in modo che d’Artagnan fu avvolto nel velluto in un movimento rotatorio mentre Porthos gli opponeva una resistenza ostinata.
D’Artagnan, sentendo bestemmiare il moschettiere,
volle uscire da sotto il mantello che lo accecava e cercò di
trovare un varco tra le pieghe. Gli dispiaceva soprattutto
di aver danneggiato la freschezza della magnifica tracolla;
ma aprendo timidamente gli occhi si trovò col naso incol65
I TRE MOSCHETTIERI
lato tra le due spalle di Porthos e precisamente sulla tracolla.
Ahimè! Come la maggior parte delle cose di questo
mondo che sono solo apparenza, la tracolla era d’oro davanti e di semplice pellame dietro. Porthos, da quel gran
vanitoso che era, non potendo avere una tracolla d’oro
tutta intera si contentava di averne metà; si comprende così
come gli fosse necessaria la commedia del raffreddore e del
mantello.
– Cospetto! gridò Porthos cercando con ogni sforzo di
scuotere da sé d’Artagnan che gli annaspava sul dorso, siete
matto a gettarvi così sulle persone!
– Scusatemi, disse d’Artagnan sbucando da sotto la
spalla del gigante, ma ho molta fretta, sto correndo dietro
a qualcuno e...
– E per caso vi dimenticate gli occhi quando correte?
– No, rispose d’Artagnan offeso, no, anzi i miei occhi
mi fanno vedere anche dove gli altri non vedono...
Avesse capito o no, Porthos gridò infuriato:
– Signore, vi avverto che vi farete strigliare ben bene
se continuerete a strofinarvi così ai moschettieri!
– Strigliarmi, signore? disse d’Artagnan; la parola è
forte.
– È la parola che conviene ad un uomo abituato a guardare in faccia i propri nemici.
– Perdio, so benissimo che non potete voltare le spalle
ai vostri nemici.
E il giovane, divertito dalla sua monelleria, si allontanò
sganasciandosi dalle risa.
Porthos schiumava di rabbia e fece per precipitarsi su
d’Artagnan.
– Un momento! Un momento! Toglietevi prima il
mantello, gli gridò il giovane allontanandosi.
– All’una, dietro il Luxembourg!
– Benissimo; all’una, rispose d’Artagnan, scomparendo
dietro l’angolo della strada.
Non vide nessuno: le strade erano deserte. Anche se lo
sconosciuto aveva camminato lentamente, ormai aveva
66
CAPITOLO IV
percorso un buon tratto di strada; magari poteva essere entrato in una casa. D’Artagnan domandò di lui a tutti quelli
che incontrava; discese sino al traghetto, risalì per via della
Seine e via della Croix Rouge: nessuno, assolutamente nessuno. La corsa però gli fece bene; a mano a mano che il sudore gli bagnava la fronte, la sua ira si acquietava.
Si mise a pensare a quanto gli era accaduto; i fatti erano
molti e di cattivo augurio: erano le undici e già si era procurato lo sfavore del signor di Tréville che certamente
aveva giudicato incivile quel suo modo di lasciarlo. Inoltre,
aveva messo insieme due buoni duelli con due uomini capaci di ammazzare tre d’Artagnan, due di quegli esseri
umani che egli stimava tanto nella sua mente da innalzarli
al di sopra di tutti.
La prospettiva non era allegra. Sicuro d’essere ammazzato da Athos, il giovane quasi non pensava a Porthos. Ma,
essendo la speranza l’ultima luce ad estinguersi nel cuore
degli uomini, arrivava a sperare di poter sopravvivere, magari con ferite terribili, ai due duelli; e pensando a quella
possibilità di sopravvivenza si faceva la predica:
«Imbecille! Senza cervello! Quel valoroso e sfortunato
Athos era ferito alla spalla ed io vado ad urtarlo proprio là
come un montone. Mi stupisco che non mi abbia ammazzato subito; ne aveva il diritto, gli avevo fatto male in un
modo atroce. Quanto a Porthos, oh, quanto a Porthos, davvero è una cosa buffa!
Il giovane scoppiò a ridere guardandosi bene intorno
perché la sua risata solitaria e senza causa apparente non
offendesse qualche passante.
– Sì, la cosa è buffa davvero; io però sono un povero
scemo. Ma chi si getta così su una persona senza dire nemmeno «Sta’ attento!»? E andare a guardare sotto il mantello per vedere quello che non c’è! Forse mi avrebbe perdonato, ma non dovevo parlargli di quella maledetta tracolla, sia pure con parole allusive! Maledetto guascone, faresti lo spiritoso anche se ti friggessero in padella! Su, d’Artagnan, continuò sempre parlando a se stesso con il suo naturale brio, se tu la scampi, cosa poco probabile, dovrai es67
I TRE MOSCHETTIERI
sere in avvenire di una cortesia impeccabile. Bisogna che
tu sia ammirato e citato come esempio. Essere amabile e cortese non vuol dire essere vile. Guarda Aramis: Aramis è la
dolcezza e la grazia in persona. E chi ha mai sentito dire che
Aramis è un vigliacco? Nessuno mai, e da ora in poi voglio
modellarmi in tutto su di lui. Ah, guarda, eccolo qua!
D’Artagnan, camminando e discorrendo tra sé e sé era
arrivato nei pressi del palazzo d’Aiguillon; e proprio davanti
al palazzo aveva scorto Aramis che parlava allegramente
con tre gentiluomini delle guardie reali. Da parte sua
Aramis aveva riconosciuto d’Artagnan; ma poiché non dimenticava che davanti a quel giovane il signor di Tréville
si era tanto incollerito e non gli piaceva affatto vedere il
testimonio delle rampogne fatte ai moschettieri, fece finta
di non riconoscerlo. D’Artagnan, al contrario, fedele ai suoi
propositi di conciliazione e di cortesia, si avvicinò ai quattro
giovani e li salutò con un amabile sorriso. Aramis chinò
leggermente il capo senza sorridere. Tutti e quattro, del
resto, avevano interrotto istantaneamente la loro conversazione.
D’Artagnan non era tanto sciocco da non accorgersi di
essere inopportuno; ma non era tanto esperto ancora degli
usi mondani da potersi tirar fuori da una situazione falsa
com’è di solito quella di chi si intromette fra persone che
conosce poco e in una conversazione che non lo riguarda.
Mentre cercava di battere in ritirata nel modo meno goffo
possibile, si accorse che Aramis aveva lasciato cadere il fazzoletto e certo per inavvertenza vi aveva messo il piede
sopra; gli parve giunto il momento di riparare alla sua inciviltà: si chinò, e più cortesemente che poté, tirò il fazzoletto da sotto il piede del moschettiere, sebbene costui si
sforzasse di trattenerlo, e disse mentre glielo porgeva:
– Credo, signore, che vi dispiacerebbe perdere questo
bel fazzoletto.
Il fazzoletto era infatti ricamato elegantemente all’angolo con una corona e cifre intrecciate. Aramis arrossì e
strappò il fazzoletto dalle mani del guascone.
– Ah, ah! esclamò una delle guardie, e tu ci vuoi far cre68
CAPITOLO IV
dere, prudente Aramis, che non te l’intendi con la signora
di Bois-Tracy quando questa gentile dama ti fa la cortesia
di prestarti i suoi fazzoletti?
Aramis lanciò a d’Artagnan uno di quegli sguardi che
fanno capire ad un uomo di essersi fatto un nemico mortale; poi riprendendo il suo tono mielato disse:
– Vi sbagliate, signori miei, questo fazzoletto non è mio
e non so perché il signore ha avuto la strana idea di darlo
a me piuttosto che ad uno di voi; per prova, ecco il mio nella
mia tasca.
Così dicendo tirò fuori il suo fazzoletto di fine batista,
costoso ed elegantissimo, ma senza ricami e con la sola cifra
del suo proprietario.
Questa volta d’Artagnan non fiatò e riconobbe il suo
errore; ma gli amici di Aramis non si lasciarono convincere
dai suoi dinieghi e uno di loro si rivolse al giovane moschettiere con simulata gravità.
– Se fosse così come tu dici, mio caro Aramis, te lo dovrei riprendere perché, come tu sai, Bois-Tracy è mio intimo amico e non voglio che nessuno porti gli oggetti di sua
moglie come trofei.
– La tua domanda è mal posta; e pur riconoscendo giusta
la tua richiesta, in questa forma sono costretto a rifiutarla.
– Per la verità, azzardò d’Artagnan timidamente, io non
ho visto cadere il fazzoletto dalla tasca del signor Aramis.
Ho visto che vi teneva il piede sopra, ecco tutto; e ho pensato che fosse suo. – E vi siete sbagliato, signor mio, rispose
freddamente Aramis poco sensibile a questa ritrattazione.
Poi, voltandosi verso la guardia che aveva detto di essere amico di Bois-Tracy:
– Del resto, continuò, ripensandoci, caro intimo amico
di Bois-Tracy, io sono amico suo non meno di te; e a rigore
il fazzoletto può essere uscito dalla tua tasca quanto dalla
mia.
– No, no, parola d’onore! gridò la guardia di Sua Maestà.
– Tu giureresti sul tuo onore e io sulla mia parola: uno
dei due mentirebbe. Senti, finiamola, Montaran, facciamo
a metà.
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Fine dell'anteprima
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