Pourquoi vous faites ca? Dibattito sugli attentati di Parigi del 13

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Pourquoi vous faites ca? Dibattito sugli attentati di Parigi del 13
Pourquoi vous faites ca? Dibattito sugli attentati di Parigi del 13 novembre - Rassegna stampa
Giovanni Maddalena, Il Foglio
"Difenderemo i nostri valori". Già, ma quali valori?
Non si può “difendere” nulla, né “vincere” nulla, senza che ciò per cui ci si deve battere valga la pena effettivamente, come
contenuto, come concetti e come piacere. Soprattutto, senza che ciò per cui ci si batte riempia di contenuto pieno di vita le parole
altrimenti vuote e retoriche, che dobbiamo presentare come risposta a quei ragazzi appesi dalle finestre del Bataclan.
“Difenderemo i nostri valori”. Così Hollande, così Obama, così Cameron. Renzi ha detto che vinceremo di sicuro, tanto questi
valori sono buoni e giusti. Ma miei cari presidenti, quali valori? È da quando ho cinque anni e ho cominciato ad andare a scuola
che mi dicono che non esistono valori assoluti, che i valori sono solo prospettive, che il peggior crimine è pensare di mettere una
maiuscola alla parola Verità, che non bisogna avere certezze ma coltivare dubbi, che le certezze sono sempre ideologie. E
adesso, all’improvviso, scopriamo di avere valori assoluti con i quali fare una guerra? Se non avere dei valori è l’unica grande
verità (che è assoluta ma si scrive senza maiuscola, chissà perché), non dovremmo convincere tutti? Non dovremmo aver già
convinto quelli tra i terroristi che sono nati e cresciuti nelle nostre repubbliche, con tanto di educazione al dubbio?
Quali valori?, mi chiedo mentre cresce il nervoso per il mare di parole vuote che si contrappone a quella sete di vita assoluta dei
ragazzi del Bataclan appesi alle finestre per non morire. Liberté, fraternité, égalité, ha detto Obama. E per spiegarlo meglio Valls,
il primo ministro francese, ha specificato “libertà e diritti umani”. Già. Peccato che l’uguaglianza delle affermazioni e il diritto di
sostenere qualsiasi cosa entrino in crisi non appena uno sostiene che mi vuole uccidere. Vale davvero lo stesso dell’affermazione
della pace o della bontà? Può dirlo o non dirlo?
Più seriamente, un giornalista americano, Gareth Whittaker, ci ha detto che cosa sono questi valori: “godere della vita terrena in
mille modi: una tazza di caffè profumato con un croissant imburrato, belle donne in vestiti corti che sorridono liberamente” e
poi profumi, vino, “il diritto di non credere a nessuno dio” e di “flirtare, fumare, godere del sesso fuori dal matrimonio, fare
vacanze, leggere libri, andare a scuola gratis”, eccetera. Non ha tutti i torti, ma se è così bisogna dirsi con chiarezza che stiamo
parlando di difendere l’edonismo di una classe piccolo-medio-alto borghese e stiamo dicendo che questi piaceri sono i valori
universali per i quali vivere e morire. Non è un po’ poco? Non c’era stato anche Marx in Europa, a insegnare la cecità delle
universalizzazioni che ciascuna classe fa di se stessa? E soprattutto, ancora una volta, non dovremmo allora cercare di
convincere questi signori dell’assoluta (sic) convenienza di questi nostri piaceri? Proviamo a riempirne le banlieues parigine, e
quelle di tutto il mondo. Ma non ci abbiamo già provato senza molto successo? Non è proprio questo vuoto edonismo che ci
rimproverano?
La terza via, signori presidenti, sarebbe forse tornare a pensare quali valori abbiamo davvero, da dove nascono i diritti umani e
questa nostra passione per l’estetica e la cultura della vita, con tutti i piaceri inclusi. Forse sarebbe l’ora di riconsiderare davvero
le radici dell’Europa di una Costituzione che non abbiamo mai voluto approvare: quelle greche e latine, quelle cristiane
incredibilmente taciute e osteggiate, quelle della scienza, e anche quelle della rivoluzione francese. Di tutta questa storia forse
occorre però cambiare la lettura scettica. Vi proporrei quella del filosofo americano Peirce che sosteneva che la verità
evidentemente c’è, anche se dobbiamo riconoscere che la limitatezza di ciò che conosciamo fa sì che sia parziale. Ma parziale
non vuol dire arbitraria – non si possono dare tutte le interpretazioni di qualunque cosa e non sono tutte uguali – e, soprattutto,
non vuol dire dubbia. “Non facciamo finta di dubitare in filosofia (e in pedagogia, in arte, in politica) di ciò di cui non dubitiamo
nei nostri cuori”, è una frase riassuntiva di Peirce che spinge a rispettare il senso comune di tanta gente normale che in queste
ore ha soccorso chi scappava, individuando in fretta che cosa fosse umano e giusto, e che cosa non lo fosse. Forse così non
consegneremo l’Europa a vecchi nazionalismi e nuovi populismi. E, contrariamente a quanto dice la bella e infausta Imagine di
John Lennon che qualcuno ha suonato nei luoghi dei crimini, troveremo un motivo per valido per vivere e per morire, se
necessario. Non si può “difendere” nulla, né “vincere” nulla, senza che ciò per cui ci si deve battere valga la pena effettivamente,
come contenuto, come concetti e come piacere. Soprattutto, senza che ciò per cui ci si batte riempia di contenuto pieno di vita
le parole altrimenti vuote e retoriche, che dobbiamo presentare come risposta a quei ragazzi appesi dalle finestre del Bataclan.
Claudio Magris, Corriere della Sera
Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista
La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco,
instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno
Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la
Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945
e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a
Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio,
è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora
quale possibile alleato.
In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante
l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota
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iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre
orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio
- di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente
Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si
decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto
tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra
mondiale, senza apprezzabili risultati.
Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito.
Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto
dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con
le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene.
È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che
esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna
riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb.
A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli
islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi
complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto
inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di
arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad
ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il
mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la
negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché
prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di
religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico
razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno
annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati,
perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una
gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana.
La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco,
instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere
nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano,
purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato.
Il terrore di Parigi nasce nell'islam. Parla l'imam di Nimes - Il Foglio
"Dobbiamo dire la verità". Hocine Drouiche, vicepresidente della conferenza degli imam di Francia, spiega al Foglio che non si
potranno fare passi avanti nel dialogo e nella convivenza se i musulmani europei non si mettono in testa che l’estremismo è un
fenomeno evidente all’interno della loro stessa comunità
Roma. “È una catastrofe”, dice Hocine Drouiche, imam di Nimes e vicepresidente della conferenza degli imam di Francia. Una
catastrofe per Parigi, la Francia, l’Europa e i musulmani che in questo continente hanno piantato radici. Drouiche, che dinanzi al
Parlamento europeo la scorsa estate aveva denunciato i silenzi di tante (troppe) autorità musulmane riguardo la persecuzione
dei cristiani in Siria e Iraq – “i cristiani d’oriente sono le prime vittime dell’arretramento culturale e civile in seno al mondo
musulmano”, aveva detto – qualche mese fa al Foglio aveva parlato di una “deriva settaria” che ormai aveva conquistato l’islam.
Ora, con l’immagine ancora impressa negli occhi dei cadaveri sparsi per le strade parigine, uomini e donne trucidati al grido
“Allah u akbar”, la situazione si fa quasi disperata: “C’è un problema reale nella comunità musulmana francese ed europea. Si
vive nella paura, in stato di shock. Di conseguenza, la sua posizione non è abbastanza chiara. Si pensi che molti musulmani in
Europa pensano ancora che lo Stato islamico sia una macchinazione occidentale”, dice l’imam perplesso, quasi rassegnato. “Non
si potranno mai fare passi avanti se i musulmani europei non si mettono in testa che l’estremismo è diventato un fenomeno
evidente all’interno della loro stessa comunità. Dobbiamo dire la verità”, aggiunge: “Dai musulmani non è arrivato un vero
impegno a trovare una soluzione al grande problema della radicalizzazione e dell’odio. Io auspico che gli eventi di Parigi possano
svegliare i musulmani in Francia, in Italia e in tutta Europa per salvare la nostra convivenza e il futuro delle nostre società”. Il
grande dramma, sostiene l’imam di Nimes, è che ci sono “troppi silenzi delle autorità religiose islamiche” riguardo eventi come
quello accaduto venerdì scorso tra lo Stade de France e i locali dell’undicesimo arrondissement: “Questo è il problema più
grande. Si sta zitti per paura? Per incapacità di comprendere? Si tace perché si tratta dell’ideologia di un islam troppo
politicizzato, carico d’odio e guerriero? Quel che si può dire è che i musulmani francesi ed europei sono smarriti. Non hanno
alcun riferimento religioso forte”. “Nella nostra comunità, dove c’è anche paura degli altri, si parla tanto di tolleranza e perdono
ma nello stesso tempo pensiamo che l’islam sia l’unica vera religione di Dio e che gli altri sono miscredenti. Questa idea non fa
che aumentare l’arroganza e l’orgoglio nel campo islamico. Ma la modestia e il rispetto degli altri sono due pilastri della moralità
nell’islam!”. E quando “noi parliamo di questi valori e tentiamo di iniziare un dialogo con la società francese (con i religiosi, gli
ebrei, la polizia e le associazioni) veniamo accusati di essere imam che hanno tradito”. È per questo – dice Drouiche – “che non
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potremo mai trovare soluzioni se non avremo l’aiuto e la cooperazione dei musulmani”. Il fatto poi che molti dei terroristi
fossero francesi e non stranieri non fa che aggravare paure e sensazioni di impotenza. Secondo Drouiche, la chiave di tutto è
nelle periferie, le sterminate banlieue terra di nessuno dove è possibile vedere donne girare in burqa e negozi che i burqa li
vendono. È qui che “l’estremismo religioso ha trovato un terreno fertile" dove attecchire e crescere sempre più forte. La
responsabilità "è anche dei governi, di destra e sinistra, che da decenni hanno spinto gli stranieri (in maggioranza musulmana)
nelle periferie. Qui c’è disoccupazione e anche discriminazione. Aiuterebbe far sentire i musulmani cittadini a pieno titolo”. È in
questo mondo a parte che vive di regole proprie che spesso gli imam predicano odio e riescono a inculcare nelle menti di tanti
giovani idee che li portano, magari, a indossare una cintura esplosiva e farsi saltare in aria, tanto da poter dire – come fece
Drouiche con il Foglio in una precedente conversazione – che “l’odio è divenuto l’elemento caratterizzante del discorso islamico,
specialmente in Europa, così da poter mobilitare i giovani musulmani contro l’occidente”. Ecco perché, spiega ora il nostro
interlocutore, "gli imam devono essere formati e competenti. È l'unica possibilità a disposizione per combattere non solo l'odio e
l'estremismo, ma anche l’antisemitismo. Non è facile, ma non abbiamo scelta. In caso contrario, sarà una catastrofe, perché
questa è una malattia transitiva che, come ha toccato oggi la Francia, domani potrà farlo con l’Italia o la Germania”.
Il problema, allora, diventa quello della convivenza, ci si chiede se essa sia ancora possibile. “Comprendo appieno la
preoccupazione degli europei riguardo l’avvenire e la possibilità di vivere assieme e, più in generale, la questione della
coesistenza sociale. Oggi l’islam è divenuto una sorta di ostaggio nelle mani degli estremisti, che ne hanno dato un’immagine
furiosa capace anche di spaventare quei musulmani europei che non riconoscono in ciò l’islam ‘occidentalÈ. La società europea, i
francesi, gli italiani e gli altri, hanno il diritto di essere rassicurati circa i loro valori, la loro storia e la loro cultura. Questi valori
europei non sono automaticamente in contraddizione con l’islam, che porta anche la giustizia, la libertà e il rispetto del diverso.
Gli stati europei, così come la società civile, devono aiutare i musulmani che vivono nella paura e nell’incomprensione a chiarire
le loro posizioni”. Il punto, però, sostiene il vicepresidente degli imam di Francia, è che “i musulmani devono interpretare in
modo giusto e positivo il testo religioso, in modo da trovare l’equilibrio sociale e assicurare la possibilità di vivere insieme nella
società europea, che è molto tollerante, come dimostra il fatto che ha accolto milioni di musulmani come rifugiati, studenti e
immigrati”. Ed è per questo, chiosa Drouiche, “che i musulmani non devono mai dimenticare l’ospitalità e la generosità mostrate
da paesi come l’Italia di fronte a ondate di immigrati che sono a maggioranza islamica”. La radice di tutto sta nel fatto che “da
secoli i musulmani hanno escluso la ragione e il razionalismo dalla loro vita. C’è una crisi reale della ragione nel pensiero islamico
moderno che porta a convivere con difficoltà sia con i valori islamici sia con quelli europei”.
Gianni Riotta, La Stampa
Isis e mondo islamico: capire il legame per battere il nemico
Negare la dimensione religiosa dei jihadisti non aiuta. Per batterli serviranno alleanze difficili, anche con Putin
La notte di guerriglia urbana scatenata da Isis a Parigi segnala un mutamento di strategia dell’organizzazione terroristica del
Califfato e induce mutamenti irreversibili nella politica europea e nella guerra in Iraq e Siria. Chiama l’opinione pubblica e la
classe dirigente a una migliore comprensione degli avversari che fronteggiamo e che, fin qui, assai male abbiamo compreso. In
mancanza di analisi razionali, scevre da propaganda, populismo rabbioso e ingenui sentimentalismi, resteremo in balia della
violenza.
Attacchi in serie
L’attacco di venerdì è stato il gesto militare più sanguinoso in Francia dalla fine della guerra 1945, con Papa Francesco a parlare,
saggiamente, di «III guerra mondiale». Isis, che dai pozzi petroliferi ricava secondo il «Financial Times» un milione e mezzo di
dollari al giorno, esporta ora i blitz. Prima di Parigi, 129 morti, ha colpito il 10 di ottobre Ankara, in Turchia, oltre 100 vittime, il
31 ottobre ha abbattuto il jet civile russo sul Sinai, 224 morti, peggiore strage aerea nella storia di Mosca, il 12 novembre ha
seminato morte a Beirut, in Libano, oltre 40 caduti, un massacro come non si ricordava dagli anni della guerra civile.
L’incapacità di vedere il dispiegarsi degli attacchi nella loro continuità, volta a volta ipnotizzati dall’ultimo evento in tv e sui social
media, ci disarma. La rete televisiva Al Jazeera dava ieri risalto alle lamentele del mondo arabo, che accusa Facebook di non
avere permesso ai libanesi di usare la ricerca automatica di vittime e superstiti a Beirut, come ha fatto, lodevolmente, a Parigi.
Facebook nega il doppio standard, e i blogger libanesi ricordano come nel loro Paese, con comunicazioni precarie, a poco
sarebbe servito lo strumento. Non importa, la polemica divide «Noi» da «Loro» e semina amarezze .
«Nemico incomprensibile»
In realtà Isis, nei territori occupati e nei raid terroristici, non discrimina tra cristiani e musulmani, colpendo chi non si unisce alla
campagna per il Califfato, e il generale Michael Nagata, comandante americano in Medio Oriente, ammette umile quello che
troppe concioni demagogiche tacciono: «Non abbiamo sconfitto le idee di Isis, in realtà non riusciamo nemmeno a
comprenderle». Battere un nemico che non si comprende è, ricordano gli studiosi di strategia da Sun Tzu a Clausewitz, Delbruck
e Keegan, impossibile. Il presidente Obama paragonava dapprima Isis a «una squadra di dilettanti», oggi ne nega il carattere
islamico, dichiarando che la religione non c’entra nella campagna del Califfato.
Le divisioni in America
Nella notte di sabato, al dibattito per le primarie verso la Casa Bianca del partito democratico, la stessa afasia ha colpito prima il
senatore socialista Sanders, che ha minimizzato la minaccia del terrore preferendo parlare di economia, mentre anche la favorita
Hillary Clinton ha confermato che, a suo avviso, la religione non c’entra con la guerra in corso. È, da parte dei politici, una
comprensibile prudenza per evitare di seminare odio verso i cittadini di religione musulmana, ma impedisce di analizzare le
motivazioni e la cultura che permettono a Isis di reclutare, online, migliaia di seguaci, donne incluse, ammoniscono gli studiosi
Erin Marie Saltman e Melanie Smith.
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Come Br e terrorismo
Isis è un movimento politico, culturale, militare che usa terrorismo e guerra, radicandosi nell’interpretazione radicale dell’islam.
Nemico della modernità, Isis proclama un islamismo che risale ai tempi precoloniali, affascina i giovani con il credo
antidemocratico, fautore di un mondo dove gli individui, maschi o femmine, credenti e no, hanno il destino segnato alla nascita.
Non comprendere, o offuscare per cautela, questo dato non ci permette di fare passi avanti contro i terroristi: Isis è un esercito
politico islamista, la religione non solo c’entra ma è cruciale nell’analisi. Lo stesso errore di timidezza ideologica fu commesso
agli esordi delle Brigate Rosse, quando tanti osservatori negarono la radice comunista di Curcio e adepti, finché sul Manifesto,
con spietata lucidità, Rossana Rossanda non scrisse di «album di famiglia», legando per sempre Br e sinistra. Un «album di
famiglia» altrettanto diretto lega Isis alla storia dell’islam. Milioni di comunisti italiani combatterono le Br, come miliardi di
musulmani si oppongono al terrorismo in nome della loro religione, ma la contraddizione politica esiste e va compresa per
recidere le radici estremistiche.
Rigore e compassione
Non farlo lascerà campo a populisti, xenofobi e razzisti che già, in America, Europa ed Italia, operano con efficacia. La notte di
sangue a Parigi offre argomenti di propaganda al Fronte Nazionale della Le Pen e ai movimenti gemelli, e già porta la Polonia a
chiudere le frontiere, mentre in Germania Horst Seehofer, presidente della Csu, chiama a confini più controllati, intorno
all’Unione Europea e tra gli Stati membri. Dopo la strage a «Charlie Hebdo» Seehofer aveva preso la linea opposta, restando pro
«confini aperti», oggi cambia idea e con lui milioni di europei. Un solo infiltrato tra tanti infelici profughi siriani, purtroppo,
cambia il clima politico e serve ora intrecciare rigore a compassione.
Patti con il diavolo
Cambia idea anche, negli undici mesi che gli restano a Washington, il presidente Obama, non si ritirerà più dall’Afghanistan
come voleva, e probabilmente si pente della fretta, un po’ piccata, con cui si è ritirato dall’Iraq, comprendendo infine come sia
inevitabile battersi in Medio Oriente. Le carte di europei e americani non sono molte, collaborare con i turchi, che però temono i
curdi quanto Isis, trovare un’intesa con Putin, che ha una sua testa di ponte in Siria, decidere che fare del regime di Assad, forte
di un tacito patto con Isis che potrebbe rompere, pur di restare al potere a Damasco. Soluzioni brillanti funzionano in tv, nella
realtà si tratta purtroppo di fare patti con un diavolo alla volta, pur di battere il diavolo Isis. Liberare del tutto le città di Mosul e
Ramadi dalla presa del Califfo, a fianco dei peshmerga curdi, sarebbe una risposta militare capace di controbattere alla strage di
Parigi. Se e quando ci si riuscisse, servirebbe poi una strategia di lunga durata, civile e militare, capace di vittoria. Siamo solo ai
primi, confusi, passi contro un nemico che non conosciamo e che, invece, benissimo ci conosce.
Bergamo Post - «Le mie due ore da ostaggio a discutere con i terroristi»
Due ore e mezza dentro al Bataclan, tra quegli ostaggi usati dagli attentatori dello Stato Islamico per trattare con la polizia a
distanza, oppure come scudi umani. La testimonianza di Sébastien rilasciata alla radio transalpina Rtl è qualcosa di unico, perché
l’uomo francese ha potuto anche parlare con i terroristi entrati in azione venerdì 13 novembre a Parigi, cogliendo i motivi della
loro follia e condividendo con loro quei momenti così tesi e drammatici. «La vita è appesa a un filo, c’è bisogno di apprezzarla:
non c’era niente di più serio che il fatto che eravamo ancora vivi», può dire oggi alla radio, ripercorrendo i momenti della strage.
Ecco la traduzione della sua intervista.
Eravate dentro il Bataclan e avete discusso a lungo con gli attentatori, è vero?
Sì, prima hanno discusso tra di loro, poi ci hanno fatto il loro discorso sul perché erano li.
E cosa vi hanno detto?
Ci hanno spiegato che erano le bombe che erano state sganciate in Siria a spingerli ad essere lì, per mostrare, far vedere a noi
occidentali ciò che quegli aerei facevano là (in Siria). Quindi ci hanno portato nella sala, dove c’erano i feriti ancora agonizzanti, e
ci hanno spiegato che non era che l’inizio. E che la guerra cominciava in quel momento e che erano lì a nome dello Stato
Islamico. Poi ci hanno chiesto se eravamo d’accordo con loro, e vi lascio immaginare il silenzio che c’è stato in quel momento.
Poi i più timidi hanno annuito con la testa e i più temerari hanno risposto a voce alta di sì. Ci hanno anche chiesto se avevamo un
accendino, e quando ci hanno riportato nel corridoio dove ci hanno tenuto in ostaggio, ci chiedevano spesso di fare il palo o di
gridare ai poliziotti dalla finestra di non avvicinarsi perché se no avrebbero fatto esplodere la loro cintura esplosiva, che non
avevano paura.
Ma perché vi hanno chiesto un accendino?
Mi hanno dato in mano delle banconote e volevano sapere se per me i soldi avevano importanza. Ho chiaramente risposto di no,
e volevano che io bruciassi quelle banconote. Mi sono sentito come Gainsbourg in quel momento, l’unica differenza era che io
ero obbligato a farlo e che non era un atto volontario da parte mia. Quindi, ecco, c’è stato una sorta di scambio, di dialogo, e gli
altri ostaggi alla fine mi hanno ringraziato per questo, non tanto per farmi passare per un eroe, perché i veri eroi, quelli, sono
morti quella sera, quelli che hanno protetto gli altri. Ma comunque c’era uno scambio di parole.
Con il distacco che può avere adesso, di fronte a questo dialogo avuto con questi terroristi, che cosa ne pensi? Cosa trattieni?
Cosa suscita in te 72 ore dopo?
Tre giorni dopo, ci penso ancora, e quella conversazione era marcata dal solco dell’urgenza, ogni parola mal detta o mal
interpretata può diventare una provocazione. E in quel momento lo accetti, quando vedi che si arrabbiano quando gli rispondi,
quando vedi che non hanno senso dell’umorismo…
Se ti chiedessi cosa volevano veramente?
Ecco, questa è una bella domanda, è la domanda che ci facciamo ancora noi, gli ostaggi che siamo stati testimoni dei loro
dialoghi con i negoziatori. La sola vera richiesta che hanno formulato, attraverso le 4 o 5 chiamate che hanno ricevuto, era
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semplicemente che i poliziotti si allontanassero, o che comunque non si avvicinassero. Quindi ne abbiamo concluso che in
qualche modo avrebbero voluto salvarsi la vita, eppure a noi sembrava così poco probabile dopo la strage che avevano fatto che
pensassero di poter avere salva la vita… Volevano anche parlare con dei giornalisti… Hanno avuto un negoziatore che li ha tenuti
in contatto… E tutto quello che continuavano a chiedere era solo che i poliziotti si allontanassero.
Ed eravate voi ostaggi a fare da intermediari in tutta questa negoziazione?
Sì, sì.
E quanto è durato?
Un’ora. E facevamo il palo alla finestra, ci chiedevano di dirgli dov’erano i poliziotti e di gridargli di allontanarsi. Effettivamente
si, eravamo noi gli intermediari. E anche più che semplici intermediari… C’erano alcune persone che sono state usate come scudi
umani, messi davanti alle porte fino all’assalto. Messi davanti alle porte, gridavano ai poliziotti di non avvicinarsi. E il raid è stato
di una precisione salvatrice, perché il primo colpo che hanno sparato attraverso la porta è passata esattamente in mezzo alle
due persone che facevano da palo. Poi hanno buttato giù la porta e la sparatoria è iniziata.
Sei riuscito a cancellarti dalla mente l’immagine del kalashnikov puntato su di voi?
Non è esattamente l’immagine che trattengo di più. Nel momento in cui (l’attentatore) ha iniziato a parlare, ho pensato che
forse ero destinato a vivere, perché era molto facile ammazzarmi in quel momento, ero totalmente alla sua mercé, quindi
questa immagine mi ha colpito e resterà scolpita come l’inizio della speranza, seppure così paradossale come può sembrare,
perché fino ad allora ero scappato, volevo nascondermi, e a partire dal momento in cui mi hanno trovato non hanno voluto
uccidermi, e questa è stata la mia possibilità.
Che cosa avete imparato da questa cosa così straordinaria che vi è capitata? Ricordiamoci che voi avete salvato la donna
incinta che si era appesa alla finestra per scappare, che avete parlato con gli attentatori, che avete passato un’ora con un
kalashnikov puntato in faccia… Cosa avete imparato Sébastien?
Che la vita è appesa a un filo, e che c’è bisogno di apprezzarla, e che non c’era niente di più serio che il fatto che eravamo ancora
vivi.
E cosa avete imparato da loro, gli aggressori?
Non molto… se non che avevano bisogno di un ideale che il mondo occidentale in cui vivevano – dato che erano chiaramente
francesi, si esprimevano in francese – il mondo in cui vivevano non ne offriva uno. E hanno trovato un ideale mortifero, di
vendetta e di odio e di terrore. E ad certo punto hanno voluto salvare la loro vita prendendoci in ostaggio, ed è stata la nostra
salvezza, il fatto che ci tenessero alla loro vita. Ma hanno realizzato troppo tardi che la vita era importante. E io oggi posso
rendermi conto che ogni istante che passo con i miei parenti, è un bonus, una benedizione. I semplici momenti di una vita fanno
parte delle cose più belle che possiamo avere, e di questo non ce ne rendiamo conto se non quando ci capitano delle sorti di
elettrochoc come quello che ho vissuto. Ho l’impressione di essere nato una seconda volta e voglio fare in modo di gustare
questa nuova vita che mi è stata offerta.
Rodolfo Casadei, Tempi
Strage di Parigi. C’è un solo modo per sconfiggere il terrorismo jihadista
Stavolta i terroristi non hanno ucciso ebrei e blasfemi, nemici designati del Profeta e meritevoli di morte secondo la loro
interpretazione del Corano. Stavolta hanno assalito il non-senso della vita degli infedeli
La strategia è chiara e inequivocabile, l’aveva già spiegata Gilles Kepel all’indomani degli attacchi del 13 gennaio contro Charlie
Hebdo e il supermercato Hyper Cacher, e gli esperti di antiterrorismo francese avevano annunciato che si stava
minacciosamente avvicinando il momento in cui sarebbe stata messa in atto: l’Isis e probabilmente anche Al Qaeda (ci sono
molti indizi che le due organizzazioni si stanno riavvicinando) vogliono scatenare una guerra civile di religione in Francia che
vedrebbe contrapposte delle enclave territoriali musulmane alle forze dello stato francese. Gli attacchi si ripeteranno e saranno
sempre più sanguinosi e indiscriminati per provocare rappresaglie altrettanto indiscriminate da parte di gruppi islamofobi
francesi contro gli immigrati musulmani e i loro luoghi di aggregazione. Un numero crescente di francesi musulmani diventerà
simpatizzante e fiancheggiatore dei terroristi jihadisti, e un numero crescente di francesi “de souche” diventerà condiscendente
verso forme di repressione indiscriminata ed extragiudiziale e verso forme di punizione collettiva contro le comunità musulmane
dei quartieri da cui provengono i terroristi. Ciò trasformerà la Francia in un paese dove l’autorità formale dello Stato e quella di
fatto dell’opposizione armata islamista si contenderanno il controllo del territorio abitato dagli immigrati musulmani, che come
è noto in Francia vivono in maggioranza concentrati in località e quartieri bene identificabili.
La strategia vuole provocare anche l’intervento militare dei paesi occidentali in Medio Oriente con truppe di terra. Con due
obiettivi. Il primo è la radicalizzazione e l’assorbimento nel jihadismo dei musulmani attualmente moderati, che verrebbero
suggestionati dalla propaganda sui nuovi crociati e sul ritorno dei colonialisti. Il secondo è quello di logorare le risorse materiali,
umane e psicologiche dei governi europei costringendoli a combattere su due fronti: il fronte interno rappresentato da un
terrorismo che tende a trasformarsi in guerra civile a sfondo religioso, e il fronte esterno rappresentato dallo sforzo militare
“imperialista” in terra araba e musulmana.
Che fare dunque? Molti pensano che, se questa analisi è corretta, la soluzione del problema è abbastanza facile: basta non
cadere nella trappola tesa dallo Stato Islamico. Manteniamo la calma, respingiamo le provocazioni, evitiamo di creare milizie di
autodifesa o di mandare al governo forze xenofobe, ricorriamo alla diplomazia più che alle cannoniere e ai corpi di spedizione in
Medio Oriente, e la crisi un po’ alla volta si risolverà. Purtroppo le cose sono molto più complicate. Purtroppo, ma anche
giustamente, ma anche ontologicamente. Le questioni antropologiche, le questioni esistenziali, le questioni spirituali che i fatti di
gennaio a Parigi avevano sollevato sono ancora lì, senza risposta. Stavolta i terroristi non hanno ucciso ebrei e blasfemi, nemici
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designati del Profeta e meritevoli di morte secondo la loro interpretazione del Corano. Stavolta hanno assalito direttamente il
non-senso della vita degli infedeli, l’idolatria rappresentata dalla partecipazione di massa, liturgica e rituale, alle partite di calcio
allo stadio e ai concerti di musica rock (in questo caso heavy metal). L’occidentale medio ha sostituito il culto del divertimento al
culto dovuto solo a Dio. Così facendo offende Dio tanto quanto i vignettisti e gli ebrei colpiti a gennaio, e offende la sua propria
natura umana, perché l’uomo non è stato creato per disperdersi in piaceri volgari, materiali e fatui, ma per onorare il Creatore e
combattere tutte le guerre, da quella spirituale dentro al proprio cuore per migliorarsi moralmente a quelle esteriori militari
contro i nemici della vera fede per privarli del potere politico, che Dio chiede all’uomo giusto di combattere.
Uccidere gli spettatori di una partita di calcio, o di un concerto di musica irreligiosa, o coloro che vivono e lavorano tutta la
settimana solo per uscire e fare bagordi fra il venerdì sera e la domenica pomeriggio, è uccidere dei già-morti, dei non-piùumani: gente che non conosce il vero senso della vita, che sta negando la natura divina della vita umana, avendola abbassata al
livello di quella degli animali, dominata dall’istintività e dalla ricerca del piacere sensoriale. Quando si conosceranno i nomi e le
biografie degli attentatori, si scoprirà che la maggioranza di loro è nata e cresciuta in Europa. Hanno avuto a disposizione più o
meno le opportunità e le libertà che hanno tutti i giovani europei. Le hanno trovate inadeguate alla loro domanda di assoluto,
alla loro ricerca di un senso per la vita più grande e più profondo dell’edonismo a buon mercato fatto di sesso, droga e rock and
roll. E siccome nessuno ha proposto loro qualcosa di più profondo e vero in termini umanamente attraenti, nessuno ha
provocato la loro libertà con una proposta di senso integrale e corrispondente all’attesa del cuore umano, hanno rabbiosamente
cercato e trovato la risposta nella loro tradizione religiosa, debitamente rivisitata e aggiornata per farne uno strumento che
permette di passare dal senso di impotenza al senso di onnipotenza. E qui si innesta il secondo fattore di difficoltà insuperabile
di soluzione della crisi.
Quattordici anni fa Jean Baudrillard fece scandalo quando, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, a proposito della
distruzione delle torri del World Trade Center con tutte le persone che ci lavoravano dentro scrisse che «l’ascesa in potenza
della potenza finisce con l’esacerbare la volontà di distruggerla. Questa ascesa stessa è complice della propria distruzione.
Quando le due torri sono crollate, si e avuta l’impressione che rispondessero al suicidio degli aerei-suicidi con il loro stesso
suicidio. L’Occidente, in posizione di Dio, diviene suicida e dichiara guerra a se stesso». Ci si è scandalizzati giustamente del
moralismo con cui Baudrillard, fingendosi un asettico decostruzionista, in realtà getta la croce della colpa sulle vittime,
qualificate come responsabili del male che è stato loro fatto. Ma su un punto Baudrillard non sbaglia: la potenza attira l’invidia
inevitabilmente. Non si assurge impunemente alla potenza, non si può avere pace se si ha ricchezza, sotto qualunque forma.
Subito dopo intervenne René Girard, l’incommensurabile antropologo che è morto appena dieci giorni fa, e precisò: «L’errore di
sempre è di ragionare secondo le categorie della “differenza”, mentre invece la radice dei conflitti è piuttosto quella della
“concorrenza”, la rivalità mimetica tra gli esseri, i Paesi, le culture. La concorrenza, ossia il desiderio di imitare l’altro per
ottenere la stessa cosa che ha lui, all’occorrenza anche tramite la violenza». La rivalità mimetica è la chiave di tutto: il desiderio
di avere quello che l’altro ha, di prendere il posto suo, di essere come lui. «Questa concorrenza mimetica, quando è infelice,
fuoriesce sempre, ad un momento dato, in forma violenta». A partire dall’omicidio di Abele da parte di Caino, la rivalità
mimetica provoca delitti fra i singoli, fra i partiti, fra i popoli. Fino al 13 novembre di Parigi. E qui bisogna dire qualcosa sulla
questione dell’immigrazione, col rischio di essere fraintesi nel clima odierno polarizzato fra sovradosaggi di retorica buonista e
soprassalti di xenofobia belluina.
È evidente che non bisogna cadere nella trappola dell’Isis e colpevolizzare gli immigrati musulmani per le azioni dei terroristi, ma
occorre mettere a fuoco le questioni che la retorica buonista, spesso per niente disinteressata, cerca di sottrarre alla riflessione
critica. Sono solidale coi profughi dalla Siria, anche perché ho toccato con mano i pericoli ai quali chi vive in quel disgraziato
paese è quotidianamente esposto. Ma non posso non notare che molti profughi siriani, le cui ragioni dell’esodo dal paese di cui
sono cittadini sono più che legittime, non si limitano a cercare un approdo sicuro alla loro fuga: vogliono andare a vivere in
Germania, e in subordine in un altro paese nordeuropeo. Cioè sono attratti non semplicemente dalla sicurezza, ma dalle migliori
prospettive di benessere. E questo vale anche per la maggioranza degli africani, che emigrano in Europa per motivi prettamente
economici: vengono da paesi come la Nigeria e la Costa d’Avorio, che hanno tassi di crescita del Pil dell’8 per cento annuo. Certo,
si tratta di una crescita che contiene molte diseguaglianze, ma non si può dire che non ci siano prospettive.
La verità è, come ha scritto lo Spectator alla fine di ottobre, che «le persone che prima erano troppo povere per pensare di
emigrare, adesso hanno abbastanza denaro per intraprendere il viaggio. Hanno smartphones e sanno come si vive all’estero. La
velocità a cui la povertà globale si sta riducendo ha messo in movimento milioni di persone». È così: non la fame, ma la rivalità
mimetica spinge le persone a emigrare in Europa. Questo loro spostamento di massa risolve problemi e crea problemi
contemporaneamente. Risolve i problemi di rendere di nuovo concorrenziali i prodotti europei attraverso l’abbassamento del
costo del lavoro, di riavviare la crescita economica attraverso un aumento della domanda e di tamponare, benché solo
temporaneamente, i deficit dei bilanci del welfare e della spesa pensionistica. Crea i problemi di sradicamento di milioni di
persone che vivono il lutto affettivo e l’impoverimento antropologico di essere strappati dai luoghi in cui sono nati e cresciuti, di
abbassamento dei salari e delle garanzie per gli europei meno qualificati, di creazione di ghetti etnici e religiosi dove gli
estremisti possono pescare a piene mani reclute per i loro progetti rivoluzionari, del tipo di quello che l’Isis sta attuando in
Francia.
Perciò per favore, smettiamola di dire che le migrazioni di massa costituiscono l’inizio di una nuova epoca nella quale ogni uomo
sarà spinto ad aprirsi all’altro uomo e l’umanità sarà costretta a governarsi come un solo popolo. Le migrazioni di massa sono,
come scrive Henri Hude, «un aspetto della mondializzazione economica liberale. Alla libertà di circolazione di beni, servizi,
materie prime e capitali attraverso il mondo e alla loro messa in concorrenza sui mercati globali, corrisponde necessariamente la
libertà di circolazione della manodopera e la messa in concorrenza di tutti i lavoratori e gruppi di lavoratori in un unico mercato
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globale del lavoro». E in termini antropologici, sono una manifestazione di rivalità mimetica. Nel bene e nel male, nessuno
riuscirà a fermarle, nemmeno i partiti politici che ce l’hanno nel programma, finché la struttura economica mondiale e i valori
culturali dominanti resteranno quelli oggi prevalenti. L’unico modo per tenere lontano dall’Europa il terrorismo jihadista e
l’emigrazione di massa sarebbe un mutamento di paradigma di civiltà. Convivialità, modestia, sobrietà al posto di consumismo,
opulenza e ossessione della produttività; primato della contemplazione sul sapere strumentale; gratitudine per ciò che la natura
ci offre e gli antenati ci hanno tramandato anziché risentimento che ci obbliga a piegare la natura ai nostri mutevoli desideri e a
gettare lontano da noi o stravolgere l’eredità di istituzioni, valori e modi di vita che chi ha vissuto prima di noi ci ha lasciato. Se il
volto dell’Europa cominciasse a riflettere qualcuno di questi tratti, ecciterebbe molto meno la rivalità mimetica altrui. Non
attirerebbe più terroristi che vogliono abbatterla per impadronirsi del suo potere e masse di infelici migranti deculturati che
finiranno di deculturarla. Ma forse è troppo tardi.
Luigi Amicone, Tempi
Non è più il tempo delle buone parole. È il tempo del combattimento. Tra la grandezza e il niente
Dietro i killer del Bataclan, sono forse centinaia di migliaia i giovani che, come loro, altro non vedono che le nostre pompe del
diavolo e la loro “Giustizia”
Hollande può scatenare «la repressione più spietata» che vuole. Non è vero che la repressione (così come la guerra
internazionale all’Isis richiesta da anni dalle minoranze religiose e specialmente cristiane martirizzate in Siria e in Iraq) non
sortirà effetti. È indispensabile. Ma insufficiente. Perché? Perché, come ha scritto il nostro Rodolfo Casadei, «le questioni
antropologiche, le questioni esistenziali, le questioni spirituali» che già la strage di gennaio di Charlie Hebdo aveva sollevato,
«sono ancora lì, senza risposta». Giustamente Casadei ricorda che «stavolta i terroristi non hanno ucciso cristiani, ebrei e
blasfemi, meritevoli di morte secondo la loro interpretazione del Corano». Stavolta «hanno assalito direttamente il non-senso
della vita degli infedeli». Così, «quando si conosceranno i nomi e le biografie degli attentatori, si scoprirà che la maggioranza di
loro è nata e cresciuta in Europa. Hanno avuto a disposizione le opportunità e le libertà che hanno tutti i giovani europei». E le
hanno odiate. Odiate fino a trascinare nell’abisso della morte centinaia di loro coetanei. Perché?
Metteteci tutte le propensioni a delinquere di chi proviene dai ghetti e dalle banlieue europee. Metteteci tutte le sociologie e
psicologie da “società liquida” ed “esistenze virtuali da social-network”. Metteteci tutti i conflitti tra modernità e islam, tra
globalizzazione e comunità arcaiche, le frustrazioni materiali e l’islamismo politico totalitario che alle frustrazioni suggerisce il
rimedio feroce, rivoluzionario, nichilistico, del terrore…
Ma, ehi!, i killer del Bataclan e i kamikaze allo stadio di Parigi erano dei ventenni. E dietro di loro sono forse centinaia di migliaia i
ventenni che, come loro, non vedono altro che le nostre pompe del diavolo e la loro Giustizia. E allora metteteci anche tutto lo
scetticismo e cinismo spesi a convincere i ragazzi che cercare il senso ultimo della vita, cercare Dio, è una passione inutile.
Facciano buon sesso e buone canne, un buono sport e un buon rock and roll. E se vien loro la nostalgia di un bene, dategli una
buona causa Google e convocatelo a una buona associazione di volontariato.
Poi, una sera, al concerto, racconta Célia al Figaro, «l’atmosfera era molto gioviale. La band aveva suonato per circa un’ora.
Quando hanno attaccato il pezzo Kiss the Devil e le parola dicevano “Ho incontrato il diavolo e questa è la sua canzone”,
abbiamo sentito le prime detonazioni. Erano in quattro. Ragazzi sui vent’anni. Non belli. Ma nemmeno sembravano diavoli».
Non è un film di Tarantino, non è YouTube, non è la vita in Facebook. È quella t-shirt intrisa di sangue per i proiettili sparati da
ragazzi ventenni come Célia. «Ho incontrato il Diavolo e questa è la sua canzone». E ora invece andate a leggere la storia
raccontata sul settimanale Tempi da un ragazzo che dice: «Mi chiamo Hassan, sono musulmano, ho incontrato una coppia
italiana. Mi hanno fatto vedere, anzi mi hanno reso partecipe, della grandezza in cui vivevano». Spiacenti. Non è più il tempo
delle buone parole e delle buone azioni. È il tempo del combattimento. Tra la grandezza e il niente.
La libertà
Orrore a Parigi: la riflessione di Camisasca
Di fronte ad eventi come quelli accaduti ieri a Parigi e a cui purtroppo assistiamo, in un crescendo di sgomento e di esecrazione
dal 2001 a oggi (e Dio non voglia, anche in futuro), si intrecciano nella nostra mente riflessioni di diversa natura, ma pur sempre
legate fra loro.
La prima ci porta alla condanna e alla pietà. Condanna senza tentennamenti del terrorismo che uccide odiando e sacrificando
vittime innocenti. Il terrorismo vuole seminare una paura sempre crescente, paralizzare, togliere la possibilità di riflettere e di
preparare delle risposte ragionevoli e meditate. Pietà per coloro che sono morti, che sono feriti, per le loro famiglie e anche per
tutta la nostra società così disorientata e spesso senza speranza.
Una seconda riflessione si intreccia alla prima: da dove nascono questi terroristi? Quale esperienza li ha portati fino a questo
punto? Fino al punto di uccidere e uccidersi sperando così di rendere gloria a Dio, fino al punto di distruggere i segni dell’arte
antica come hanno fatto in Siria e Iraq, i segni del cammino dell’uomo verso la luce? Quale aberrante visione di Dio può
condurre un uomo a odiare i suoi simili fino a desiderarne la strage?
Non possiamo fermarci a queste domande, dobbiamo cercare delle risposte. Quando l’uomo arriva a questi punti vuol dire che
in lui l’esperienza dell’umano si è tragicamente pervertita. I terroristi rivelano una tragica assenza di speranza per il futuro.
Dietro ciò che compiono, si nasconde la disperazione per non aver trovato risposte credibili per la loro vita. E in tutto questo c’è
anche una responsabilità dell’Occidente, del suo nichilismo e del suo relativismo. Si vuole uccidere e morire perché si è vista la
morte e non si spera più possibile la vita. Gli atti tragici di ieri ci chiamano quindi ad una grande responsabilità. Il terrorismo va
fermato e combattuto, cercando di evitare il più possibile altro dolore, stragi e morti. La strada della nostra responsabilità è
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lunga e va nella direzione della testimonianza di un umanesimo possibile. Soltanto se questi giovani, cresciuti nell’odio e nel
terrore, riusciranno a incontrare ragioni di vita, il terrorismo potrà essere sradicato. Proprio noi siamo chiamati a testimoniare
che questo è possibile, con i giovani dell’Islam e di ogni altro credo e religione, compresa la nostra, che vivono nelle città e nei
paesi in cui noi abitiamo. Il terribile male a cui assistiamo nella nostra epoca è chiamato a convertirsi in una strada positiva. I capi
dei nostri Stati e governi hanno la grande responsabilità di compiere ciò che finora non è stato compiuto, anche per la divisione
delle Nazioni che hanno guardato al proprio interesse particolare invece che al bene di tutti: fermare i terroristi. Forse altri
momenti drammatici non potranno essere evitati. A noi, tutti noi, spetta il compito difficile ma insieme affascinante
dell’educazione affinché la morte non sia l’ultima parola.
Leone Grotti - Tempi
«Se l’Occidente non reagisce, subirà una sorte peggiore di quella di noi cristiani iracheni»
Intervista a monsignor Amel Nona, già arcivescovo di Mosul, cacciato dai terroristi islamici, e ora a Sydney. «Strage di Parigi?
Non avete voluto fare niente e ora pagate tutto»
È stato per quattro anni vescovo di Mosul, dal 2010 al 2014. Poi è arrivato l’Isis. Cacciato dalla sua terra come tutti gli altri
cristiani iracheni, ha vissuto da profugo in Kurdistan, a Erbil, fino a quando non è stato inviato a maggio a Sydney a dirigere
l’eparchia cattolica caldea in Australia. Così, dopo aver conosciuto (fin dalla nascita) la società islamica, ora monsignor Amel
Nona, 48 anni, ha avuto un assaggio della vita in una società occidentalizzata. Ecco perché è l’interlocutore perfetto per parlare
della strage di Parigi, che ha messo in luce la crisi tanto dell’islam quanto dell’Occidente.
Monsignor Nona, si aspettava un attacco a Parigi di queste proporzioni?
Certo che me lo aspettavo e l’ho anche predetto. Due settimane dopo essere stato cacciato da Mosul ho dichiarato in
un’intervista: se l’Occidente non reagisce, subirà una sorte peggiore della nostra. Non poteva accadere altrimenti.
Perché?
All’inizio lo Stato islamico era composto da 1.000-2.000 uomini e poteva fare ben poco. Ma 30-40 paesi dell’Occidente, in modo
per me inspiegabile, hanno permesso che conquistassero metà Siria e metà Iraq senza fare nulla.
Ci sono stati i bombardamenti.
Appunto, bombardare è come non fare niente. Lo Stato islamico è furbo, è abituato a vivere combattendo. La cosa incredibile è
che neanche dopo l’attacco di Parigi agite: gli avete lasciato campo libero prima e ora continuate ad accettare che i paesi della
Regione li finanzino e armino perché ci sono tanti interessi economici. Ci sono domande che non trovano risposta.
Quali domande?
Dov’erano i governi dell’Occidente quando migliaia di giovani entravano in Siria per combattere? Volete farci credere che le cose
che in Iraq tutti vedevamo, in Occidente i governanti non le conoscevano? Non avete fatto niente, ma ora pagate tutto.
Lei è nato in Iraq e conosce l’islam da sempre. Come mai la religione di Maometto presta sempre il fianco a movimenti
fondamentalisti?
Perché nel Corano ci sono versetti che istigano alla violenza: spiegano che tutti i non musulmani sono infedeli e bisogna ucciderli
o convertirli all’islam. Il problema sta in quei versetti che dicono chiaramente queste cose. Definire un uomo “infedele” nella
lingua araba è molto pericoloso. L’infedele infatti è considerato così inferiore che un musulmano può fare di lui ciò che vuole:
ucciderlo, prendere sua moglie, confiscargli figli e proprietà.
Quindi non c’è speranza di vedere un cambiamento?
Bisognerebbe spiegare meglio questi versetti, darne una interpretazione moderna. Nel VII secolo, magari, servivano per una
situazione particolare ma oggi non si può prenderli alla lettera. Il problema è questo.
L’idea di interpretare il Corano non va molto di moda nell’islam.
No, perché i musulmani vedono il Corano come una cosa eterna. Per loro non è una cosa scritta in un tempo preciso ma un testo
eterno, che si trova da sempre con Dio in cielo, e che a un certo punto della storia è stato inviato a Maometto. Quindi i versetti
non si possono spiegare o interpretare o passare al vaglio della ragione.
Un imam francese ha detto che l’islam di oggi sta vivendo una «crisi della ragione».
È vero ma non solo l’islam di oggi. Sono tanti gli intellettuali musulmani che lungo la storia di questa religione hanno cercato di
interpretare alla luce della ragione il Corano. E tutti sono stati o perseguitati o uccisi.
I musulmani a Sydney sono diversi da quelli che ha conosciuto in Iraq?
Sì. I musulmani che stanno qui, come quelli che si trovano in America o Europa, sono molto più fondamentalisti. Quando
arrivano nel mondo occidentale, infatti, si radicalizzano perché sentono che tutto il mondo e la modernità è contro la loro
mentalità, contro l’islam. Perciò sono più aggressivi, più irascibili. Il problema non è pensare che la propria religione sia l’unica
vera, ma volerla imporre con la violenza.
Dev’essere stato difficile passare da una società islamica a una occidentalizzata.
È tutto diverso. Qui c’è libertà di agire, pensare, parlare e tutte queste cose non esistono nella società islamica. Non dico nei
paesi islamici, perché magari in alcune dittature laiche si vive più o meno bene e alcune libertà ci sono. Ma in sé la società
musulmana veicola una mentalità unica e se una persona va contro quello che dice l’islam è considerato sbagliato. Anche qui
però non è tutto rosa e fiori.
A che cosa si riferisce?
La società occidentale è in crisi ed è una crisi di valori. Voi state perdendo i valori fondamentali della vita e questo vi rende
deboli, impauriti, assolutamente incapaci di affrontare una crisi grave come quella di oggi. I terroristi sono una minoranza, i
musulmani nei vostri paesi anche, eppure vi stanno facendo paura.
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Qual è la causa secondo lei?
State ripudiando i valori che hanno costruito la vostra società, i valori cristiani. Avete puntato tutto sulla libertà, che è e resta
importante, ma senza la verità rimanete indifesi davanti a quello che sta succedendo. Non si possono ripudiare duemila anni di
storia, preservando solamente la libertà, perché poi la conseguenza è che otto terroristi fanno un attentato e milioni di persone
sono impaurite e non riescono a reagire.
Voi cristiani in Iraq siete sempre stati una minoranza. Avevate paura?
A Mosul c’erano 400 famiglie cristiane e tre milioni di musulmani. Tutta la società era contro di noi, aggressiva, piena di
terroristi, piena di persone che volevano ucciderci. Ma noi eravamo felici perché avevamo la fede, che mostravamo con coraggio
e gioia, e loro non potevano farci niente. Sì, ogni tanto uccidevano due o tre cristiani, ma ci rispettavano perché sentivano che
eravamo forti, anche se pochi.
Cosa vi rendeva forti?
Noi sapevamo che con la fede si può andare incontro a tutto ed è quello che facevamo, con gioia affrontavamo ogni crisi. E i
terroristi temevano e temono la nostra fede. I cristiani iracheni, con coraggio, hanno preferito perdere tutto, case, proprietà,
terre, chiese, solo per un motivo: per non perdere la fede. E questo ai terroristi ha fatto male.
Se dovesse dire una cosa che manca alla società occidentale?
Direi che qui non c’è gioia, non c’è felicità. C’è la libertà ma non c’è nient’altro. Vi siete concentrati solo sulla libertà e avete
perso tutto il resto. Anche la Chiesa, devo dire, dovrebbe essere più felice.
Lei ora vive in questa società. In Australia ci sono 50 mila cristiani caldei. Qual è il compito di un cristiano?
Mostrare che noi siamo felici nella nostra vita, dobbiamo essere più attivi nella nostra missione all’interno della società. Non
bisogna solo cambiare mentalità, ma anche le leggi sbagliate. Penso che si possa fare molto.
Domenico Quirico - La Stampa
Una frattura generazionale nelle moschee
Molti giovani disertano quella nel cuore della capitale dove gli imam predicano la moderazione e si ritrovano nei capannoni
trasformati in sale di preghiera. E qui domina lo spirito salafita
Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei
padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che
ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rossomaoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini.
Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato
universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci
si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come
i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati
islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino.
L’integrazione fallita
Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i
francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a
qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel.
Il Consiglio del Culto
Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati.
Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo
è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del
Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per
annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e
controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in
sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe
perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che
predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario.
Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri
e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del
Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria
non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono
sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che
li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…».
La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè:
immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non
riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può
assopire qualsiasi Jihad.
Una vita separata
Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge
tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella
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la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali
lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con
colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey.
I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in
rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano
terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non
vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro
nero. Entro: sono indiani.
Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo
maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo
non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue
Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau.
Quartieri musulmani
Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato
nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono
diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di
prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata
dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici.
Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo
uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi
totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare.
I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico.
Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma
non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese
davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti
di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale.
Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo».
«Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I
francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra».
La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete
allarga le braccia: questa è terra di missione…».
Il Giornale
Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci
Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma,
com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del
2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un
coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti
sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:
Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e
sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse
dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e
l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le
idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al
nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam
cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno
denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei
loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano
farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Cultodella-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.
Il nemico è in casa
Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del
pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua
minoranza vive in Paesi lontani. BÈ, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a
colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede
perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza
se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado
uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel
parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome
dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e
non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi
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venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite.
Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di
reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal
trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o
viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un
massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.
Il crocifisso sparirà
Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio
gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le
proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce
la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di
riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il
Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un
cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di
esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole
di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con
la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a
scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non
espellono neanche se è clandestino.
Dialogo tra civiltà
Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà.
Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento
per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate.
Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne
parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani
compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le
tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la
Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.
Una strage in Italia?
La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho
mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del
comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai
Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e
collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i
bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli
altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè
leccarle i piedi.
Multiculturalismo, che panzana
L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diversodifferente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto
diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e
demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo
islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre
tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché
anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del
politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.
Conquista demografica
Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per
razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che
nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un
miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà
mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento
all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente
fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristianomaronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a
Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo
drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.
Addio Europa, c'è l'Eurabia
L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e
truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club
finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia
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per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi
sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È
un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a
crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E
insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.
Integrazione impossibile
La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che
esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra
cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso
come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le
offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo
particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le
ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in
pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la
diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il
Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale
interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».
L'islam moderato non esiste
Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è
declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un
Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo
finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la
propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono
somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è
contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro
Ragione.
Ecco cos'è il Corano
Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il
pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che
qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni
corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai
cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.
“Pesce Pilota” - dal blog “La spigola”
Di fronte ai tragici fatti di Parigi Papa Francesco ha subito osservato: “Non ci sono giustificazioni per queste cose, questo non è
umano”. È proprio così: ad un senso di sgomento segue, infatti, la necessità di chiamare le cose con il loro nome, di capire che
cosa è bene e che cosa è male, non solo per il singolo, ma per tutti gli uomini e per tutti i popoli. Il che non è facile, oggi, in cui
sembrano prevalere due opposte parzialità. La prima: tutto è come deve essere, il male in fondo non esiste perché in fondo
anche dal male qualcosa di buono verrà fuori. La seconda: tutto è male, perché le strutture e la conoscenza sono
irrimediabilmente imperfette (è quel che resta della vecchia idea marxista e del più aggiornato scientismo). In entrambi i casi
resta fuori la considerazione della libertà dell’uomo, che è capace di verità e di bene, ma che – allo stesso tempo – è
continuamente tentata dal male e trascinata verso di esso. Annebbiandosi gli ideali, la libertà tende a negare se stessa
diventando schiava della menzogna. Anche l’organizzazione politica, sociale e culturale, quando diventa ideologica e violenta,
condiziona negativamente la fragile libertà, come dimostra la terribile ideologia jihadista, lucidamente determinata a proseguire
la sua opera di distruzione del mondo occidentale, e facendo tutto ciò “in nome di Dio” (e giustamente il Papa ha chiamato tutto
ciò con il suo nome:” bestemmia”!). Il male è sempre presente nella storia ed in certi momenti sembra prevalere, facendo
credere di essere invincibile e gettando interi popoli nella paura. Come riconoscere il bene e come distinguerlo dal male? La
responsabilità umana non può essere mai evacuata ed il male non può essere mai estirpato fino in fondo. Si può però limitarlo e
combatterlo, anche attraverso un giudizio di verità, sostenuto ed aiutato dalla presenza di comunità e tradizioni in cui il bene si è
radicato e strutturato fino a costruire regole, istituzioni ed organizzazioni in grado di arginare il male. Tutto ciò distingue una
civiltà – pur con i suoi difetti – da una ideologia distruttiva. In questo senso la cosiddetta cultura occidentale vive di elementi
contraddittori: da un lato le sue più profonde e forti tradizioni umanistiche e la sua religiosità – principale risorsa di equilibrio,
razionalità e civiltà, come aveva detto magistralmente Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona del 2006 -, da un altro i deboli
‘valori’ di una certa civiltà edonistica, tecnocratica e borghese. Riconoscere il male e combatterlo significa anche difendere (con
tutti i mezzi proporzionati) i capisaldi di una convivenza civile fondata sul bene ed arricchita anche oggi dalla comunità cristiana
che – al di là di ogni tradimento – ne è segno visibile ed indistruttibile.
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