schema riassuntivo

Transcript

schema riassuntivo
TUTTO
Studio • Riepilogo • Sintesi
LETTERATURA
ITALIANA
SCHEMI
RIASSUNTIVI,
QUADRI DI
APPROFONDIMENTO
SETTORE DIZIONARI E OPERE DI BASE
Testi: Arnaldo Colasanti, Anna Cazzini Tartaglino, Tommaso Iannini;
Banca dati Opere De Agostini
Copertina: Marco Santini
ISBN 978-88-418-7924-5
Prima edizione ebook, maggio 2012
© 2011 De Agostini Libri S.p.A.
Redazione: corso della Vittoria 91 - 28100 Novara
Aspettiamo i tuoi suggerimenti, scrivi a: [email protected].
www.deagostini.it
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo
volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa
in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi
cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta
dell’Editore.
Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso
diverso da quello personale possono essere effettuate a
seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO,
Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
L'Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare
eventuali omissioni o errori di attribuzione.
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Sottolineare il ruolo fondativo della letteratura nazionale
nell’identità di un popolo può sembrare superfluo.
Tuttavia, nel momento in cui il processo di integrazione
sociale e culturale dell’Europa è giunto a un punto
di svolta, che coinvolge la stessa vita quotidiana dei suoi
cittadini e richiede una radicale sprovincializzazione
e una serrata capacità di confronto con mentalità e costumi
diversi, non è inopportuno ricordare che proprio il confronto
e la multiculturalità rendono necessario un approfondimento
delle radici nazionali, per condividere tra generazioni
e “piccole patrie” un patrimonio comune di tradizioni,
di valori e di strutture di pensiero e comunicazione.
Ecco allora emergere in tutta la sua importanza il ruolo
della letteratura nazionale, insieme specchio e in una
certa
misura promotrice dell’immaginario, della lingua,
dei modi espressivi, dei luoghi del senso comune
partecipati dall’insieme del popolo italiano.
Tutto Letteratura Italiana risponde non solo all’esigenza
di una consultazione rapida ed esauriente, in grado
di informare e allo stesso tempo di orientare nella massa
di nozioni, ma si presta anche a una lettura scorrevole e
alla
costruzione di uno sguardo d’insieme. L’opera è suddivisa
in sezioni corrispondenti ai secoli, brevemente presentati
nei loro caratteri generali. Pur non intendendo essere un
catalogo onnicomprensivo, il volume ha dato particolare
rilievo alla letteratura del Novecento, fino agli autori più
recenti. Di fronte a un panorama letterario così
complesso
e multiforme come quello italiano, si è voluto realizzare
non una “storia della letteratura” paludata e accademica,
ma uno strumento agile, in cui precisione, essenzialità
espositiva, ricchezza di dati siano d’aiuto a chi vuole
organizzarsi un quadro di riferimento generale, accostarsi
per la prima volta senza timore a un argomento così
vasto,
o anche solo ricordare qualcosa che gli sfugge.
Guida alla consultazione
Il volume è diviso in otto sezioni corrispondenti ai secoli
di storia della letteratura italiana, dalle Origini e il Duecento al Novecento. Ogni secolo è introdotto da una
presentazione che ne espone sinteticamente le caratteristiche generali e gli sviluppi culturali e letterari fondamentali. Il testo è articolato in modo da favorire
l’inquadramento generale dei temi e la memorizzazione
rapida dei tratti salienti degli autori, della loro poetica
e delle opere. I singoli capitoli sono sempre aperti da un
cappello introduttivo, che fornisce un rapido inquadramento generale dell’argomento trattato, nelle sue connessioni storiche e nei suoi collegamenti interni. Le frequenti
note a inizio paragrafo hanno il duplice scopo di permettere la rapida individuazione dei temi principali e di
agevolare la loro ricapitolazione per il ripasso. All’interno
del testo sono evidenziati in carattere nero più marcato i
concetti e le parole su cui si regge l’argomentazione e che
sono particolarmente utili da ricordare.
I capitoli sono conclusi da schemi riassuntivi che espongono in sintesi i lineamenti di fondo degli autori o
di una scuola, utilizzando sovente espressioni desunte
dal testo del capitolo così da facilitare la memorizzazione. Le domande di verifica consentono di controllare
autonomamente la propria preparazione.
All’interno di numerosi capitoli sono presenti riquadri di
approfondimento in cui sono trattati argomenti collaterali all’esposizione principale, ma importanti per la sua
comprensione e collocazione storica.
Un conciso glossario di metrica, retorica e stilistica
aiuta nella comprensione dei termini tecnici della storia
letteraria e della critica stilistica.
Sommario
LE ORIGINI E IL DUECENTO
1 Le origini
2 La poesia prestilnovista
3 La prosa
4 Il dolce stilnovo
IL TRECENTO
1 Dante Alighieri
2 Francesco Petrarca
3 Giovanni Boccaccio
4 Letteratura didattico-allegorica
5 Letteratura religiosa
6 La lirica e la novellistica
IL QUATTROCENTO
1 L’umanesimo
2 La letteratura umanistica alla corte dei
Medici: Lorenzo il Magnifico, Poliziano, Pulci
3 La letteratura umanistica a Ferrara e Napoli: Boiardo e Sannazaro
IL CINQUECENTO
1 Classicismo rinascimentale
2 Ludovico Ariosto
3 Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini
4 Novellistica e teatro del Rinascimento
5 Anticlassicismo
6 Manierismo
7 Tasso e il periodo controriformistico
IL SEICENTO
1 Il barocco e Giambattista Marino
2 Il classicismo barocco
3 La prosa filosofica, scientifica e storica
IL SETTECENTO
1 Un nuovo orizzonte storico
2 L’illuminismo italiano
3 La riforma teatrale di Goldoni
4 La cultura lombarda e Parini
5 Neoclassici e preromantici
6 Vittorio Alfieri
L’OTTOCENTO
1 Il periodo napoleonico e Vincenzo Monti
2 Ugo Foscolo
3 Il romanticismo
4 Alessandro Manzoni
5 Giacomo Leopardi
6 Letteratura risorgimentale
7 La reazione antiromantica
8 Verismo
9 Fra Ottocento e Novecento: la stagione
decadente
IL NOVECENTO
1 Al di là del decadentismo
2 Benedetto Croce e il dibattito critico
3 Luigi Pirandello
4 Italo Svevo
5 La nuova poesia: Saba e Ungaretti
6 Gli anni Venti e Trenta
7 Surrealismo e realismo
8 L’ermetismo
9 Eugenio Montale
10 Carlo Emilio Gadda
11 Il neorealismo
12 Il realismo critico
13 La poesia dialettale del Novecento
14 La poesia del dopoguerra
15 Sperimentalismo e neoavanguardia
16 Elsa Morante e le narratrici
17 Italo Calvino
18 Gli ultimi quarant’anni
Glossario
LE ORIGINI E IL
DUECENTO
Le origini della lingua e della letteratura italiana affondano
le loro radici nel complesso tessuto della letteratura
romanza, nella quale già a partire dal sec. IX avviene
il passaggio dal latino alle formazioni linguisticoculturali
dei volgari (le singole lingue nazionali). La letteratura
franco-provenzale, assai fiorente nei secc. XII e XIII,
è un modello per i letterati italiani: anche la prima
scuola
poetica italiana (la “scuola siciliana”) trova nel
modello
cortese e trobadorico il riferimento principale. La
lezione
della scuola siciliana passa in Toscana attraverso
l’opera
di Guittone, per poi essere superata dalla novità di
fine
secolo, il dolce stilnovo. Intanto, specie al Nord,
è largamente diffusa una letteratura didattica (Bonvesin
de la Riva) e giullaresca, mentre ancora in Toscana
si diffonde l’esempio della poesia comico-realista
(Cecco Angiolieri). La prosa senza dubbio fatica
a liberarsi dal peso del latino e non esprime ancora
grandi
lavori: le opere di Brunetto Latini o Bono Giamboni,
i volgarizzamenti o la brillantezza del Novellino
sono solo
i precursori della grande produzione del Trecento.
1 LE ORIGINI
La letteratura italiana nasce in ritardo rispetto ad altre
letterature europee, per la forza di conservazione del
latino come lingua dotta. Le sue origini risentono inoltre
dell’influenza delle letterature francesi e della vitalità linguistica della società comunale.
La nascita del volgare
• I primi documenti
• I primi documenti letterari
Il latino volgare, cioè nella forma non colta, evolvette gradualmente dando origine alle forme neolatine, fra le quali l’italiano. I primi documenti in volgare italiano sono: l’Indovinello veronese, il più antico, datato fra i secc. VIII e IX, rinvenuto nel 1924
in un codice della biblioteca capitolare di Verona; i
Placiti campani (di Capua, Sessa Aurunca e Teano),
datati 960-963 e costituiti da testimonianze rese dav-
anti a un giudice e inserite nel verbale notarile
scritto in latino; l’Iscrizione di San Clemente (XI
sec.) e il Ritmo di Travale (testimonianza resa in un
processo del 1158). I primi documenti letterari del
nostro volgare sono il Ritmo laurenziano, un testo
giullaresco databile fra il 1151 e il 1157, e, verso
la fine del sec. XII, il Ritmo cassinese e il Ritmo
di Sant’Alessio. Il più bello di tutti sarà il Cantico
di Frate Sole, o Cantico delle creature, composto
da san Francesco d’Assisi (vedi Francesco d’Assisi)
probabilmente intorno al 1225.
LA PRODUZIONE IN LATINO
Quando Carlo Magno liquidò il dominio longobardo
(774) e ristabilì la presenza imperiale (Sacro Romano
Impero, 800) sul territorio nazionale, la produzione
letteraria era tutta in latino di carattere teologico o
storico, come la Historia langobardorum (Storia dei
longobardi) di Paolo Diacono (circa 787), così come
il più tardo Liber de gestibus Othonis (Libro sulle
gesta di Ottone) di Liutprando di Cremona (920-972).
Importanti centri di produzione, oltre che di conservazione, della cultura latina sono i monasteri. A
partire dal sec. XI si diffonde una letteratura
cronachistica, come il Chronicon Novalicense o successivamente la Storia dei normanni di Amato da
Montecassino. Interessanti sempre nel sec. XII il
Liber de rebus Siciliae (Libro sulle cose di Sicilia) di
Ugo Falcando o le cronache universali. Il sec. XIII,
invece, esprime una ricca letteratura epico- storica, di
ambito aulico.
Lo sviluppo delle università e la conseguente rinascita della cultura determinano una notevole
produzione di commedie di imitazione plautina in
distici elegiaci, a cui si affianca una vivace “letteratura goliardica”, scritta dagli studenti itineranti di
università in università, che si afferma in tutta
l’Europa. I motivi, sull’esempio famoso dei Carmina
burana scritti nel Duecento in ambito tedesco, sono
la triade donna-taverna-dado e un moralismo ribelle
quanto d’improvviso drammatico.
Alla fine del sec. XII si incontrano i poeti Arrigo da
Settimello, autore di un’elaboratissima Elegia, sive
de miseria (circa 1193), nota come l’Arrighetto e
divenuta testo scolastico del tempo, e Lotario da
Segni (1160-1216; papa nel 1198 con il nome di Innocenzo III), che scrisse il De contemptu mundi (Il
disprezzo per il mondo), un testo di grande diffusione
dedicato al tema della miseria umana. A inizio secolo
(1202) muore l’abate calabrese Gioacchino da Fiore,
che con la sua opera di esegesi (specie sull’Apocalisse di san Giovanni) e di predicazione apriva una
prospettiva profetica di grande importanza per tutto il
Medioevo
L’influenza franco-provenzale
• Letteratura d’oïl, epica e cortese
• Letteratura d’oc, la poesia d’amore dei trovatori
• Sordello da Goito
Nei secoli XI e XII la Francia era il centro della
civiltà europea: francesi sono i più antichi documenti letterari in una lingua romanza (come la
Sequenza di Santa Eulalia, della fine del sec. IX; la
Vita di Sant’Alessio, della prima metà del sec. XI).
La letteratura italiana delle origini risentì molto
dell’influenza francese, che si esprimeva nei suoi
due ambiti linguistici, d’oïl e d’oc. A Nord, la letteratura di lingua d’öil era essenzialmente epica (le
cosiddette “canzoni di gesta”), come la Chanson
de Roland (databile a prima del 1100); da questa,
intorno a metà XII sec., sarebbero nati il “romanzo
cortese”, di cui fu maestro indiscusso Chrétien
de Troyes (circa 1130-1185), i lais, piccoli racconti
in versi di un episodio amoroso, e il celebre romanzo Tristano e Isotta, nelle due redazioni
dell’anglo-normanno Thomas e del normanno
Béroul. A Sud, cioè in Provenza, si sviluppò invece la letteratura d’oc, che diede l’avvio a
un’ampia produzione di poesia d’amore dei
trovatori. Il massimo splendore fu raggiunto fra il
1140 e il 1150, con i poeti Arnaut Daniel, Jaufré
Rudel, Bernart de Ventadorn, che furono un riferimento essenziale per la scuola lirica siciliana.
Verso la fine del sec. XII si affermarono anche i
fabliaux, brevi racconti in versi crudamente realistici e satirici, e la poesia allegorica, che trovò la
massima espressione nel Roman de la Rose (Romanzo della rosa), scritto per la prima parte da
Guillaume de Lorris (tra il 1225 e il 1240) e concluso in seguito (circa 1280) da Jean de Meung. Fra
i vari trovatori italiani che scrissero in provenzale è
Sordello da Goito (m. 1269), famoso per il Compianto in morte di Ser Blacatz (1236).
La scuola siciliana
La scuola poetica siciliana, sorta attorno al 1230
negli ambienti che gravitavano attorno all’imperatore e re di Sicilia Federico II di Svevia,
produsse la prima lirica in volgare italiano. La sua
attività durò circa un trentennio e si concluse con la
fine, nella battaglia di Benevento (1266), di Manfredi, figlio di Federico, e quindi con lo sgretolamento dell’ambiente di raffinata cultura che era
stato tanto propizio al sorgere della scuola stessa.
• Il quadro storico-culturale
• L’attività culturale alla corte di Federico II a
Palermo
Durante la prima metà del sec. XIII il regno di Sicilia comprendeva tutta l’Italia meridionale e godeva
di un periodo di particolare equilibrio politico-amministrativo e prosperità economica per merito di
Federico II. Iniziative politiche e culturali significative furono la fondazione dell’università di Napoli (1224) e le Costituzioni Melfitane (1231), in
cui veniva ribadita l’autorità del sovrano rispetto ai
potentati feudali. Nella sua corte a Palermo si raccolsero le figure più rappresentative dell’epoca e
si svilupparono numerosi interessi culturali: venne
dato un notevole impulso alle conoscenze tecnicoscientifiche e agli studi di magia (per opera principalmente di Michele Scoto), alla letteratura filosofica araba, alla letteratura greco-bizantina, alla
poesia tedesca (soprattutto alla lirica cortese
d’amore del Minnesang) e alla poesia provenzale
in lingua d’oc. Proprio da questa tradizione ebbe
origine la “scuola siciliana”, come fu definita da
Dante nel De vulgari eloquentia.
• Tematiche, forme poetiche e lingua
• La tematica d’amore
• Le forme poetiche: canzone, canzonetta, sonetto
Dominante in assoluto nei poeti siciliani la tematica d’amore sia dal punto di vista teorico (cos’è
amore, come si manifesta, quali sono i suoi effetti),
sia come omaggio “feudale” verso la donna amata,
con la quale il poeta cerca di stabilire una comunicazione attraverso immagini e segnali che essa
sola sa cogliere. Le forme tipiche di questa poesia
sono la canzone, modellata sulla canso provenzale:
essa è l’espressione “alta” della poesia siciliana ed
è utilizzata soprattutto per composizioni di carattere
teorico e dottrinale; la canzonetta, costituita da
strofe di versi brevi, viene impiegata per testi più
narrativi, come invocazioni d’amore, lamenti per
l’amata lontana, manifestazioni della propria gioia
e del proprio dolore; il sonetto è creazione
autonoma e specifica della scuola ed è diventato
il componimento lirico breve per eccellenza della
poesia italiana.
La produzione poetica della scuola siciliana è
pervenuta attraverso codici del Quattrocento e del
Cinquecento, i cui estensori diedero ai testi
un’impronta toscaneggiante che ha alterato
l’originaria impostazione linguistica siciliana; essa
comunque non riproduceva la lingua popolare,
ma si basava su un lessico che si ispira ai modelli
latini e provenzali.
• I poeti siciliani
•
•
•
•
Iacopo da Lentini
Guido delle Colonne
Pier della Vigna
Cielo d’Alcamo
Lo stesso re Federico II e i suoi due figli Enzo
e Manfredi si dedicarono all’attività poetica, pur
senza raggiungere livelli di eccelsa qualità.
Il poeta sicuramente più significativo fu Iacopo da
Lentini (circa 1210 - circa 1260), riconosciuto da
Dante (Purgatorio, canto XXIV) come fondatore
della scuola siciliana e al quale è probabilmente attribuita l’invenzione del sonetto. Scrisse uno dei più
cospicui canzonieri dell’epoca, composto da circa
30 poesie, in cui una consumata perizia retorica è al
servizio di una fervida originalità inventiva. A lui
si deve la prima definizione dell’amore nella letteratura italiana: “Amor è uno desio che ven da core /
per abondanza di gran piacimento”. I temi più frequenti della sua lirica sono la contemplazione della
bellezza, la creazione nel cuore di un’immagine
della donna, verso la quale si indirizza il suo amore,
il dono di sé fatto dall’innamorato all’amata.
Più scarna, ma notevolmente raffinata sul piano
stilistico per la ricchezza di figure retoriche e per il
sottile gioco analogico, è la produzione poetica di
Guido delle Colonne (Messina, circa 1210 - circa
1280), del quale sono pervenute cinque canzoni.
Eternato da Dante nell’Inferno (canto XIII) fu Pier
della Vigna (circa 1190-1249), di Capua, strettissimo collaboratore di Federico II, caduto poi in disgrazia e morto suicida. Per lui l’attività poetica fu
senza dubbio di importanza relativa, ma è interessante ricordare che egli fu tra gli interlocutori di Iacopo da Lentini nella disputa sull’amore che probabilmente diede inizio alla scuola siciliana e che era
stata iniziata da Iacopo Mostacci, rimatore aulico,
imitatore piuttosto passivo di correnti provenzali.
Della scuola fecero anche parte Rinaldo d’Aquino,
Giacomino Pugliese (che ha lasciato alcuni testi
di tono popolareggiante), Stefano Protonotaro da
Messina, a cui si deve l’unica composizione conservata nella lingua siciliana originale.
Tradizionalmente compreso nella scuola siciliana è
anche Cielo d’Alcamo (probabile toscanizzazione
del nome “Celi”, diminutivo siciliano di Michele),
autore del contrasto (dialogo) Rosa fresca aulentissima tra la donna, almeno inizialmente ritrosa, e l’innamorato, in cui sono presenti, sul piano
stilistico, riferimenti a generi propri della letteratura
provenzale, come la pastorella e il contrasto. Si al-
ternano nella lingua termini e immagini della tradizione aulica e cortese con analoghi della tradizione
popolare e dialettale.
SCHEMA RIASSUNTIVO
ORIGINI
La letteratura italiana nasce con ritardo per la forza
di conservazione del latino come lingua colta, nella
quale continua una produzione di argomento teologico, storico-cronachistico o epico-storico, di ambito
aulico.
Primi documenti del volgare italiano
Indovinello veronese (fra i secc. VIII e IX); Placiti
campani (960-63); Iscrizione di San Clemente (XI
sec.) e Ritmo di Travale (1158). Il primo documento
letterario è il testo giullaresco Ritmo laurenziano (fra
il 1151 e il 1157). Ancora alla fine del sec. XII
troviamo il Ritmo cassinese e il Ritmo di
Sant’Alessio. Il più bello sarà il Cantico di Frate
Sole, o Cantico delle creature, composto da san
Francesco probabilmente intorno al 1225.
INFLUENZA FRANCO-PROVENZALE
Le letterature della Francia risultano un’esperienza
fondamentale per la letteratura italiana delle origini:
nella lingua d’oïl a Nord, a carattere essenzialmente
epico (Chanson de Roland, prima del 1100) e cortese,
intorno a metà XII sec., (romanzi del maestro indiscusso Chrétien de Troyes); nella lingua d’oc, in
Provenza, dove la produzione trobadorica d’amore
avrà il massimo splendore fra il 1140 e il 1150.
LA SCUOLA SICILIANA
La scuola poetica siciliana rappresenta la prima lirica
in volgare italiano, sorta attorno al 1230 negli ambienti della corte di Federico II, imperatore e re di Sicilia. Durò circa un trentennio e si concluse con la
fine del regno della casa di Svevia nella battaglia di
Benevento (1266), con la morte di Manfredi, figlio di
Federico.
Poeti maggiori
Iacopo da Lentini (circa 1210 - circa 1260), Guido
delle Colonne (circa 1210 - circa 1280) e Cielo
d’Alcamo, autore del contrasto Rosa fresca aulentissima (tra il 1231 e il 1250).
Temi
L’amore cortese e trobadorico, la contemplazione
della bellezza e l’elegante creazione poetica di
un’immagine della donna.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. A quale periodo risalgono i primi documenti
italiani in volgare?
2. In che modo la letteratura franco-provenzale
ha influenzato la letteratura italiana delle origini?
3. Come si manifesta la tematica d’amore della
scuola siciliana?
4. Quali sono i generi poetici della scuola siciliana?
2 LA POESIA
PRESTILNOVISTA
I temi e l’elaborazione formale che avevano caratterizzato
la scuola siciliana si trapiantarono in Toscana, nella realtà politica e culturale dei liberi Comuni, nei quali lo
spirito borghese prevaleva sulle tradizioni aristocratiche
e feudali. Da questo incontro nacque la scuola siculo-toscana, in cui accanto ai temi d’amore trovarono largo
spazio e importanza i temi politici. Accanto a questa si
svilupparono, in Umbria e in Toscana, forme di poesia
giocosa e realistica. Nell’Italia settentrionale si espresse
un’interessante letteratura in volgare con fini soprattutto
didattici, ma affiancata da esperienze popolari e giullaresche prodotte da cantori girovaghi. Di altro, più elevato
spessore la produzione lirica religiosa di Francesco
d’Assisi e Iacopone da Todi.
Guittone d’Arezzo
• La vita e le opere
• La poesia d’amore
• Le canzoni politiche e morali
• Le ballate-laude religiose
Guittone d’Arezzo (circa 1230-1294) fu il principale esponente della corrente poetica siculo-toscana. Figlio del tesoriere del comune di Arezzo
ed esponente di parte guelfa, a circa vent’anni andò
in volontario esilio. Ebbe moglie e tre figli, ma
verso il 1265, in seguito a una profonda crisi religiosa, entrò nell’ordine dei Cavalieri della Vergine.
La sua produzione poetica, raccolta nelle Rime
e composta da 50 canzoni e 239 sonetti, presenta
un’evidente cesura: nella prima parte dominano i
temi della poesia d’amore e i contenuti politici,
nella seconda, dove l’autore si presenta come Fra
Guittone, prevalgono gli insegnamenti morali e
spirituali. Scrisse anche un Trattato d’Amore in
dodici sonetti e le Lettere (circa una trentina, in
prosa, tra cui la lettera-invettiva contro gli “infatuati miseri fiorentini”), nelle quali dimostra tutta la
sua arte di cultore dell’ars dictandi (l’“arte del
dettare” che raccoglieva le norme retoriche e oratorie del latino).
Guittone fu ritenuto maestro indiscusso di poesia
nella Toscana settentrionale poco dopo la metà del
secolo; esercitò un’influenza rilevante sui contemporanei sia per i contenuti sia per lo stile. Nella
poesia d’amore si rifece ai moduli della scuola siciliana, insistendo più sui ragionamenti attorno
all’amore che sulla sua rappresentazione. Per le
canzoni politiche e morali trasse spunto dallo stile
del trobar clus (il poetare difficile), proprio della
poesia provenzale, che ricreò attraverso un uso estremamente denso, a volte oscuro, sempre molto
ricercato, del volgare toscano. Il suo testo più
celebre è la canzone politica Ahi lasso or è stagion
di doler tanto, scritta dopo la sconfitta subita a
Montaperti (1260) dai guelfi a opera dei ghibellini.
La poesia è composta da numerose stanze caratterizzate ora dal dolore, ora dall’amaro sarcasmo;
questa composizione è anche quella che segna maggiormente il distacco di Guittone dalla scuola siciliana, sia per il tema politico-morale, sia per la
notevole varietà dei registri linguistici e stilistici.
Altrettanto impegnative e spesso ricche di notevoli risultati poetici sono le canzoni a contenuto
morale-religioso, tra le quali hanno un posto particolare le ballate-laude, un genere da lui inventato
e poi ampiamente utilizzato in ambito toscano.
La scuola cortese toscana
• Bonaggiunta Orbicciani
• Chiaro Davanzati
• Monte Andrea, Dante da Maiano, Compiuta
Donzella
Il poeta più interessante della cerchia di Guittone fu
il notaio lucchese Bonaggiunta Orbicciani (circa
1220 - circa 1290). Dante, dopo averlo citato nel De
vulgari eloquentia come esponente della scuola poetica siciliana, nel Purgatorio (canto XXV) gli affida il compito di definire come stilnovo la nuova
maniera di poetare. Il suo canzoniere sviluppa i
modi della scuola poetica siciliana, diffondendoli in
Toscana. Il dettato poetico è vario, ricco a un tempo
delle preziose raffinatezze della poesia cortese e
delle forme più distese di quella popolareggiante.
I temi sono quelli consueti, l’amore e l’invettiva
politica. Vere e proprie scuole debitrici di Guittone,
in modo più o meno rigoroso, furono presenti anche
ad Arezzo, a Pistoia, a Pisa e Firenze. Qui solo
Chiaro Davanzati (fine sec.XIII) mostrò maggiore
originalità: nel suo canzoniere (61 canzoni e numerosi sonetti) si ritrovano motivi che anticipano
lo stilnovo. Interessanti furono tuttavia anche il
banchiere guelfo Monte Andrea (che scrisse il più
alto trobar clus fiorentino, fitto di allusioni oscure)
e Dante da Maiano, il cui canzoniere, oscillante tra
stile siciliano e guittoniano, comprende anche una
tenzone con Dante. A lungo discussa è stata la storicità della poetessa Compiuta Donzella (forse uno
pseudonimo letterario), alla quale un solo codice attribuisce tre sonetti di accettabile qualità poetica.
La poesia comico-realista
• Rustico di Filippo
• Meo de’ Tolomei e Cenne della Chitarra
Dalla metà del Duecento si diffuse in Toscana e in
Umbria una poesia giocosa, di carattere realista.
L’invettiva, la bestemmia, la ribellione, la comicità prendono il posto della bellezza ideale.
Figura letteraria di un certo rilievo fu il fiorentino
Rustico di Filippo (circa 1230-1300), che godette
di grande fama e ha lasciato 58 sonetti nei quali
sul motivo dell’amore è ancora preponderante la
lezione siculo-guittoniana, mentre rispetto al
genere comico si intravedono soluzioni originali.
Altre figure di rilievo furono il senese Meo de’
Tolomei (nato attorno al 1260), autore di sonetti
dall’intenso gusto caricaturale; il giullare aretino
Cenne della Chitarra (morto già nel 1336), che
cantò e descrisse scene di vita rustica. Tuttavia i due
poeti comico-realisti più grandi furono Folgore da
San Giminiano e Cecco Angiolieri.
• Folgore da San Giminiano
• Le corone dei “Sonetti de la semana” e dei “Sonetti de’ mesi”
Folgore da San Giminiano (circa 1270 - circa
1330), pseudonimo di Giacomo di Michele, fu al
servizio di Siena: per i meriti riportati in alcune
campagne, come quella contro Pistoia (1305), ottenne l’investitura a cavaliere. Di lui rimangono
circa una trentina di sonetti, in maggior parte raccolti in due “corone”, una di otto composizioni dedicate ai giorni della settimana (Sonetti de la semana) e l’altra di quattordici, intitolata Sonetti de’
mesi. Folgore riprende l’antica poetica provenzale, ma la inserisce in maniera gradevole e cordiale entro la cornice del mondo comunale toscano. La sua indole serena si manifesta
nell’eleganza dei gesti, nella raffinatezza degli og-
getti, nella ricerca di una condizione di vita piacevole per sé e per gli altri.
• Cecco Angiolieri
• Il rovesciamento e la parodia dello stilnovo
Del senese Cecco Angiolieri (circa 1260 - morto
prima del 1313) si conoscono solo pochi episodi
marginali della vita, come le multe per infrazioni
alla vita militare, la sua morte in miseria, il rifiuto
da parte dei figli della sua eredità, perché condizionata da molti debiti. Queste le ragioni per cui la
critica romantica ha dato una facile ed erronea interpretazione autobiografica della sua opera. Sono
attribuiti ad Angiolieri 112 sonetti distinti a fatica
dalle numerose imitazioni; rare sono le rime amorose secondo il gusto di Guittone d’Arezzo, mentre
nel suo canzoniere domina il registro comico-realistico. La sua poesia è costruita sul rovesciamento
del modello stilnovista e sulla raffinata parodia
di molti generi cortesi: il plazer (elenco di cose
desiderabili), l’enueg (elenco di sgradevolezze), il
contrasto e così via. L’appassionato spirito invettivo, o addirittura aggressivo, non deve far dimenticare l’aspetto di gioco letterario: il romanzo
d’amore tra Cecco e Becchina, che al poeta ha
preferito un marito ricco, riprende in forma parodistica il genere del contrasto. A livello tematico, il
suo universo poetico è organizzato intorno a un limitato numero di motivi emblematici, così riassunti
dal poeta stesso: “la donna, la taverna e il dado”.
Quasi certamente “letterario” è l’autoritratto di personaggio maledetto che il poeta dà di sé nei suoi
testi.
La poesia nell’Italia settentrionale
•
•
•
•
Le tradizioni ispirative
Gherardo Patecchio
Uguccione da Lodi
Giacomino da Verona
Di grande interesse è la letteratura volgare prodotta
nell’Italia settentrionale, specie a Cremona e Milano. Con intenzione principalmente didattica, si
ispirava
sia
alla
tradizione
provenzale
(l’elencazione di tutto ciò che produce fastidio,
l’enueg, e viceversa ciò che produce piacere, il
plazer) sia alla tradizione biblico-apocalittica, cioè
alla letteratura escatologica dei secc. XII e XIII.
Il primo rappresentante fu il notaio cremonese
Gherardo Patecchio (forse primi decenni del sec.
XIII), autore di uno Splanamento de li proverbi de
Salamone (poemetto che raccoglie ammaestramenti
morali) e delle Noie, rassegna in decasillabi dei fastidi della vita.
Più complessa la figura di Uguccione da Lodi (fine
sec. XII - inizio sec. XIII), autore di un Libro in
lingua veneta e in lasse monorime di versi alessandrini e decasillabi epici, che svolge una riflessione
edificante sul peccato e sulla morte, descritti con
vivo realismo, in vista del giudizio divino.
Il contemporaneo frate minore Giacomino da Verona compose in dialetto veronese il poemetto in
due parti De Ierusalem celesti e De Babilonia civ-
itate infernali, che furono tra le fonti della Divina
commedia dantesca.
• Bonvesin de la Riva
• Il “Libro delle tre scritture”
Bonvesin de la Riva (circa 1240 - circa 1313) è il
più importante scrittore in volgare lombardo del
sec. XIII. La “Riva” è con ogni probabilità la Ripa
di porta Ticinese a Milano, dove Bonvesin abitò almeno dal 1288 alla morte. Terziario dei frati umiliati e “doctor in gramatica”, insegnò in una scuola
privata di sua proprietà. La sua produzione poetica
si colloca tra il 1270 e il 1290. Tra i suoi numerosi
poemetti in latino vanno ricordati il De vita scholastica e il trattato in prosa in lode di Milano De
magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie della
città di Milano, 1288). I suoi volgarizzamenti (i
Disticha Catonis e vari poemetti agiografici) sono
legati a esigenze didattiche. Alla produzione volgare, scritta quasi sempre in quartine monorime di
alessandrini, appartengono contrasti di carattere allegorico: il più celebre è la Disputatio rosae cum viola (Disputa della rosa con la viola). Il Libro delle
tre scritture (circa 1274), diviso in tre parti (scrittura nigra, rubra e aurea – nera, rossa e dorata –
con tema rispettivamente l’Inferno, la Passione di
Cristo e il Paradiso) è annoverato tra i precursori di
Dante e rappresenta anche il primo testo letterario
in volgare lombardo.
Poesia popolare e giullaresca
• Il “Detto” di Matazone da Caligano
Specie nel Nord Italia nella seconda metà del Duecento si diffuse una letteratura in volgare prevalentemente anonima, in forma di ballata, prodotta
perlopiù da cantori girovaghi (i “giullari”) e
costituita da canti nuziali, lamenti di giovani
ragazze che desiderano sposarsi, lamenti di donne
mal maritate. Da Mantova proviene un’anonima
canzone per danza; mentre da Milano (o da Pavia)
il Detto di Matazone da Caligano rappresentò il
primo esempio in volgare della satira contro il villano. In ambiente veneto ebbe origine il Lamento
della sposa padovana, mentre in Emilia e in Romagna si diffusero sirventesi (componimenti poetici popolareggianti di ispirazione morale-satirica)
quali il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei
(narrazione di faide tra guelfi e ghibellini) e il Serventese romagnolo, sempre di argomento e carattere politico-cittadino. In Toscana il giullare Ruggieri Apugliese, forse senese, lasciò una tenzone di
argomento politico, una parodia della Passione e un
sermone-epitaffio.
La poesia religiosa
• Le “laude”
Il più antico componimento in volgare italiano
(quello umbro) è il Cantico di san Francesco
d’Assisi. Tuttavia la vera nascita della lirica religiosa in volgare si colloca nel 1260, quando nacque
il movimento dei Disciplinati (a Perugia, sotto la
guida di Raniero Fasani), cioè una confraternita laica che usava la flagellazione pubblica come mezzo
di espiazione. Il rito era accompagnato da canti corali che usavano come schema la canzone a ballo
profana (ballata di ottonari). Le “laude” svolsero
una vera e propria azione di propaganda che diffuse
il movimento in tutta l’Italia del Nord. I laudari
(ne restano circa 200) ebbero come centri di
produzione soprattutto Perugia e Assisi. Le laude
erano liriche e drammatiche, pasquali e passionali,
secondo l’argomento religioso trattato. Solo con Iacopone, tuttavia, la lauda si elevò a dimensione
artistica.
• Francesco d’Assisi
• Il “Cantico di Frate Sole”
Francesco d’Assisi (1182-1226), figlio del mercante Pietro Bernardone, ebbe una discreta formazione letteraria (conosceva sia il latino, sia le letterature francesi) prima di dedicarsi al commercio.
Nel 1202-03 partecipò alla guerra tra Perugia e Assisi; nel 1204, durante una malattia, cominciò a
realizzare un radicale cambiamento di vita che lo
portò a rinunciare a ogni avere (1206) e a predicare
il Vangelo assieme ad alcuni seguaci. Per l’ordine
da lui fondato (1210) stese in latino la Regula prima
(1221), poi rielaborata (Regula secunda). Questi
testi, assieme ai postumi Testamentum e Admonitiones, costituiscono la sua produzione ufficiale in
un latino ecclesiastico piuttosto rozzo. Ma l’opera
che più fortemente rivela la sensibilità francescana
è il Cantico di Frate Sole, o Cantico delle creature
(Laudes creaturarum), una prosa ritmica in volgare
umbro (il più antico componimento poetico in volgare italiano), vero inno di lode alla creazione,
in cui Francesco riprese spunti biblici e liturgici
per rielaborarli attraverso la propria spiritualità. Il
testo rivela una concezione positiva della natura,
capace di interagire con l’uomo come stimolo nel
cammino verso la salvezza. La scelta delle parole,
spesso semplici e collegate tra loro solo da una
congiunzione, rivela il favore dell’autore per immagini di forte contenuto cromatico, capaci di parlare all’immaginazione, magari non educata sul piano culturale, ma vivida, come quella delle persone
comuni.
• Iacopone da Todi
•
•
•
•
•
La vita
L’adesione ai francescani “spirituali”
La produzione poetica
I “contrasti”
Il “Pianto della Madonna”
Iacopo de’ Benedetti (tra il 1230 e il 1236-1306),
conosciuto come Iacopone da Todi, forse fu notaio,
partecipò alla vita letteraria della sua città; i suoi
testi fanno ipotizzare una conoscenza della
produzione di Guittone d’Arezzo. Senza dubbio
noto e benestante cittadino di Todi, nel 1268 cam-
biò completamente vita. Secondo la leggenda rimase intimamente colpito dal fatto che la giovane
moglie, perita sotto un crollo, portasse nascostamente sotto le vesti lussuose un cilicio, strumento
di penitenza. Per dieci anni si dedicò a opere di penitenza sempre più gravi e umilianti; nel 1278 entrò nell’ordine francescano come frate laico, schierandosi con gli “spirituali” e attaccando con intransigenza la ricchezza e la corruzione della Chiesa di Roma. L’elezione a papa dell’eremita Pier da
Morrone (1294) con il nome di Celestino V, che approvò l’ordine degli spirituali, suscitò in lui qualche
speranza, testimoniata dalla lauda Que farai, Pier
dal Morrone. Quando venne eletto papa Bonifacio
VIII, che revocò subito tale riconoscimento, Iacopone si schierò contro di lui. Scomunicato, fu fatto
prigioniero nel 1298. Detenuto in condizioni durissime, non chiese mai la grazia, ma costantemente
invocò invano la revoca della scomunica (O papa
Bonifacio eo porto il tuo prefazio), che gli concesse, anche liberandolo, solo il successore Benedetto XI. Ormai malato, si ritirò nel convento di San
Lorenzo di Collazzone, dove morì tre anni dopo.
La produzione poetica di Iacopone, costituita da 93
laude di sicura attribuzione e da altre più incerte,
tra cui lo Stabat Mater, è caratterizzata da una religiosità ascetica, focosa. Egli si sofferma costantemente sulla negatività della vita e del mondo, segnato da una continua violenza, prodotta dal peccato, che si manifesta nel perpetuo processo di distruzione. In questa prospettiva Iacopone guarda alla
vita quotidiana spesso con un realismo crudo e sarcastico: i suoi versi sono scritti in un volgare umbro di grande intensità, non ancora assoggettato
alle norme della lingua letteraria, e talvolta arricchito da apporti del latino ecclesiastico e da invenzioni linguistiche e lessicali. L’atteggiamento pedagogico indusse Iacopone a drammatizzare lo strumento della lauda: nacquero così i contrasti, in cui
più voci si alternano strofa per strofa; si tratta
perlopiù della voce divina che cerca di scuotere
l’anima
dalla
sua
pigrizia
spirituale,
dall’attaccamento ai beni terreni. A tale atteggiamento Iacopone oppone con estrema forza il mistero dell’incarnazione e della passione di Cristo,
viste come capovolgimento di tutti i valori che
regolano le convenzioni della società umana. Su
questo tema Iacopone scrisse i suoi versi più intensi e celebri, quelli del Pianto della Madonna
che rappresenta i diversi momenti della Passione.
SCHEMA RIASSUNTIVO
GUITTONE D’AREZZO
Fu ritenuto maestro (circa 1230-1294) indiscusso di
poesia nella Toscana. Autore di Rime, un Trattato
d’Amore, Lettere e ballate-laude a carattere moralereligioso. Nella poesia introdusse contenuti politici
e in quella d’amore si rifece ai moduli della scuola
siciliana, insistendo più sui ragionamenti attorno
all’amore che sulla sua rappresentazione attraverso
immagini.
LA SCUOLA CORTESE TOSCANA
Di imitazione guittoniana, è rappresentata da vari poeti, soprattutto il lucchese Bonaggiunta Orbicciani
(circa 1220 - circa 1290), il fiorentino Chiaro
Davanzati, anticipatore dello stilnovo, e Dante da
Maiano, nel cui canzoniere è presente una tenzone
con Dante.
LA POESIA COMICO-REALISTA
Dalla metà del Duecento si diffonde una poesia
giocosa, di carattere realista: l’invettiva, la bestemmia, la ribellione, la comicità prendono il posto della
bellezza ideale. Protagonisti: Folgore da San
Giminiano (circa 1270 - circa 1330), autore di due
“corone” (Sonetti de la semana e Sonetti de’ mesi)
e il senese Cecco Angiolieri (circa 1260 - prima del
1313), autore di 112 sonetti di raffinata parodia di
molti generi trobadorici. Suoi temi emblematici: la
donna, la taverna e il dado.
LA
POESIA
SETTENTRIONALE
DELL’ITALIA
La letteratura volgare settentrionale è principalmente
didattica e si ispira sia alla tradizione provenzale sia
alla tradizione scritturale-apocalittica, cioè la letteratura escatologica fra il XII e il XIII sec. Maggiore
esponente il milanese Bonvesin de la Riva (circa
1240 - circa 1315), autore di poemetti in volgare, di
volgarizzamenti e del Libro delle tre scritture (circa
1274), opera che lo annovera tra i precursori di
Dante: diviso in tre parti (scrittura nigra, rubra e
aurea), ha per tema rispettivamente l’Inferno, la Passione di Cristo e il Paradiso.
LA POESIA RELIGIOSA
San Francesco
Il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi
(1182-1226, fondatore dell’ordine francescano nel
1210 ed estensore in latino della Regula) è forse del
1225; i laudari lirici e drammatici, pasquali e passionali iniziano dal 1260.
Iacopone da Todi
Il poeta più rappresentativo è Iacopone da Todi (tra
il 1230 e il 1236-1306); cittadino benestante divenuto
nel 1278 frate laico francescano, fu deciso avversario
del papa Bonifacio VIII, che lo scomunicò e incarcerò. La sua poesia (93 laude), drammatica e crudamente espressiva, concreta quanto spirituale, è
l’esempio quasi straordinario di un’autobiografia
dell’anima.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cosa distingue Guittone dalla scuola siciliana?
2. Perché Chiaro Davanzati è più originale
rispetto agli altri poeti della scuola cortese toscana?
3. Quali sono il registro e lo spirito della poesia
di Cecco Angiolieri?
4. A quali tradizioni si ispira la poesia settentrionale?
5. In quale lingua è composto il Cantico delle
creature?
6. Con quale intento Iacopone passò dalla lauda
al contrasto?
3 LA PROSA
La prosa in volgare si sviluppò in ritardo rispetto alla
poesia: il peso della prosa latina era certo ancora indiscusso. Le prime esperienze in volgare sono riconducibili all’ambito degli studi giuridici e retorici e della letteratura di carattere morale e scientifico. A finalità morali e
anche pedagogiche rispondeva la raccolta del Novellino.
Nello sviluppo della prosa in volgare fu determinante l’opera di volgarizzamento, cioè di traduzione di testi latini
e francesi, che contribuì a fissare i modelli di stile dello
scrivere. L’avvio alla grande prosa del Trecento fu preparato da Brunetto Latini e Bono Giamboni.
I primi prosatori in volgare
• Guido Faba
• Fra Guidotto
Fu il grammatico bolognese Guido Faba
(1190-1243) il primo a fornire i nuovi modelli per
il volgare. Dopo aver scritto numerosi manuali di
retorica e di epistolografia latina (in particolare i
Dictamina rhetorica, 1226-27 e la Summa
dictaminis, 1229) propose modelli epistolari in volgare nella Gemma purpurea (1239) e nei Parlamenta et epistole (1242-43); in quest’ultima egli fornì
modelli in volgare di lettere e discorsi accompagnati da tre traduzioni in latino per ogni testo. Faba
ebbe il merito di aver compreso l’importanza che
il volgare andava acquisendo sia nella pratica
quotidiana sia nella vita politica dei Comuni
italiani. Su questa via fu importante la volgarizzazione del Rhetorica ad Herennium (in quel tempo
ritenuto di Cicerone) proposta dal bolognese fra
Guidotto sotto il titolo Fiore di rettorica.
Il “Novellino”
• Le redazioni
• Origini e temi
• Gli “exempla”
Nel corso del sec. XIII si formò in Toscana il Novellino, una raccolta di novelle di autore anonimo
(o di più autori), destinata a un pubblico borghese
cittadino, al quale gli esempi narrati offrivano modelli di comportamento e di educazione raffinata.
Ne sono giunte diverse redazioni, solo in parte
convergenti tra loro. Il manoscritto più importante,
che comprende 85 novelle, risale ai primi anni del
sec. XIV ed è intitolato Libro di novelle e di bel
parlar gentile, mentre la prima edizione a stampa,
più ampia, si intitola Cento novelle (1523) e deriva
da un manoscritto poi andato perduto. L’origine
delle novelle è molto varia: non poche risalgono
alla tradizione classica filtrata attraverso i moduli
medievali, altre sono di origine mediolatina e
francese e fanno riferimento ai temi dei romanzi
cavallereschi. Particolare rilievo assumono gli exempla tratti dalla vita dei santi o da vicende miracolose; numerosissimi sono i riferimenti a temi
feudali, e abbastanza frequenti i racconti che fanno
riferimento a personaggi reali viventi all’epoca o
morti da poco, come i regnanti svevi o angioini.
Ne deriva un panorama molto vivace, in cui è av-
vertibile la tradizione orale. Le novelle sono solitamente brevi: esse tendono a mettere in evidenza
il momento conclusivo della vicenda, senza preoccuparsi di dare particolari sviluppi della trama
narrativa; sono scritte in volgare fiorentino, arricchito da termini e locuzioni derivanti dal
francese e dal latino liturgico.
I volgarizzamenti
• “Storie di Troia e de Roma”
Tra il 1252 e il 1258 venne fatto il volgarizzamento
in antico romanesco di una compilazione anonima
latina, della prima metà del XII sec., sulle origini
mitiche di Roma. Tale volgarizzamento prese il titolo di Storie di Troia e de Roma. Da fonti francesi
furono poi derivati I fatti di Cesare, la Istorietta
troiana e nell’ambito leggendario dell’epica
cavalleresca il Tristano riccardiano e la Tavola ri-
tonda (in cui la storia di Tristano e Isotta è congiunta al ciclo di Re Artù).
• Salimbene da Parma
• La “Chronica”
Salimbene da Parma (1221-1288), frate francescano, visse a Lucca (1239), Siena (1241), Pisa
(1243) e Parma (1247) e infine in Francia, a Lione,
dove conobbe dei seguaci di Gioacchino da Fiore,
alla cui dottrina aderì fino al 1250. Delle sue numerose opere cronachistiche rimane solo la Chronica, giunta mutila, che racconta le sue tante esperienze: è una galleria colorita e spesso caricaturale
di fatti e ritratti narrati in un latino a un tempo
colto e popolare, che accoglie forme e termini del
dialetto lombardo ed emiliano.
• Iacopo da Varazze
• La “Legenda aurea”
Iacopo da Varazze (circa 1228-1298), frate
domenicano, dal 1292 vescovo di Genova, deve la
sua fama alla raccolta di vite di santi Legenda
aurea o Legenda sanctorum (1255-66). Scritta in
latino e diffusa in versioni volgarizzate, l’opera
ebbe notevole influenza sulla successiva letteratura
religiosa e costituì un importante repertorio iconografico per gli artisti. In latino compilò anche un
Chronicon Ianuense (Cronaca genovese), storia di
Genova dalle origini al 1297; in volgare scrisse Sermoni moraleggianti.
Brunetto Latini e Bono Giamboni
•
•
•
•
Brunetto Latini
Il “Tesoro”
Il “Tesoretto”
Bono Giamboni
La figura principale fra i prosatori duecenteschi
resta il fiorentino Brunetto Latini (circa 1220 circa 1294). Notaio, divenne sindaco di Montevarchi nel 1260, quando si recò come ambasciatore dei
guelfi di Firenze in Castiglia. Esiliato in Francia per
sei anni in seguito alla sconfitta di Montaperti, si
dedicò alla professione notarile e all’attività letteraria. Tornato in patria, riprese la vita politica, divenendo priore di Firenze (1287). In lingua d’oïl
compose il Tesoro (Li livres dou Trésor), un testo
enciclopedico in 3 volumi che tratta ogni branca
del sapere: teologia, storia, fisica, geografia, agricoltura, etica, economia, retorica e politica. L’opera
attinge a fonti classiche e medievali, fra cui la Bibbia, gli scrittori latino-cristiani Isidoro di Siviglia
e Orosio, il padre della Chiesa Ambrogio e il filosofo latino Boezio. Tradotto in volgare, il Tesoro
ebbe due versioni poetiche e godette di ampia diffusione. Dante la considerò una fonte preziosa
per la Commedia e riconobbe nel suo autore un suo
maestro ideale (Inferno, canto XV). La stessa materia è alla base del Tesoretto (circa 1262), poema
allegorico didascalico incompiuto che ricalca il
modello del Roman de la rose. Contributi importanti allo sviluppo della prosa aulica vennero dalla
Rettorica, volgarizzazione e rielaborazione di una
parte del De inventione di Cicerone, e dalla
traduzione di tre orazioni dell’oratore latino.
Bono Giamboni (circa 1240 - circa 1292),
fiorentino, giudice di professione, fu un pregevole
volgarizzatore dell’Arte della guerra di Vegezio e
delle Storie contro i pagani di Paolo Orosio. Opera
originale è invece la compilazione allegorico-didascalica Libro de’ vizi e delle virtudi (circa 1270),
in cui egli riuscì ad armonizzare gli elementi eticofilosofici con quelli allegorico-narrativi e a creare
dunque la prima opera dottrinale autonoma.
SCHEMA RIASSUNTIVO
PROSA
La prosa in volgare è in ritardo rispetto allo sviluppo
della poesia. Il primo rappresentante fu il bolognese
Guido Faba (1190-1243), che propose modelli epistolari in volgare (Gemma purpurea, 1239 e Parlamenta et epistole, 1242-43).
IL “NOVELLINO”
Il Novellino è una raccolta di novelle di autore anonimo (o di più autori), formatasi in Toscana nel
corso del sec. XIII e destinata con finalità pedagogiche e morali a un pubblico borghese cittadino, cui
gli esempi narrati offrivano modelli di comportamento e di educazione raffinata. Le origini furono
la tradizione classica, i romanzi cavallereschi, vite di
santi.
VOLGARIZZAMENTI
Sono traduzioni in volgare di testi storici latini o
dell’epica cavalleresca francese che hanno svolto
un’importante opera di fissazione del nascente volgare.
Salimbene da Parma
Salimbene da Parma (1221-1288) è autore di una colorita Chronica in latino che accoglie forme dialettali
lombarde ed emiliane.
Iacopo da Varazze
Iacopo da Varazze (circa 1228-1298) è famoso per la
Legenda aurea, raccolta di vite di santi in latino e
diffusa in versioni volgarizzate.
BRUNETTO LATINI
In lingua d’oïl il notaio fiorentino Brunetto Latini
(circa 1220 - circa 1294) compose il testo enciclopedico Tesoro (Li livres dou Trésor), preziosa fonte
per Dante; scrisse poi il poema allegorico-didascalico
il Tesoretto.
BONO GIAMBONI
Bono Giamboni (circa 1240 - circa 1292), giudice
fiorentino, pregevole volgarizzatore, nel Libro de’
vizi e delle virtudi riuscì ad armonizzare gli elementi
eticofilosofici con quelli allegorico-narrativi e a
creare dunque la prima opera dottrinale autonoma.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono le origini e i temi del Novellino?
2. Qual è stata la funzione del volgarizzamento
nella prosa delle origini?
3. Qual è stato l’apporto di Brunetto Latini alla
formazione della prosa volgare italiana?
4 IL DOLCE STILNOVO
La scuola poetica definita da Dante “dolce stilnovo” è la
più omogenea e ricca espressione culturale della fine del
Duecento. Per la profondità di contenuti e per la qualità del linguaggio poetico lo stilnovo risultò il punto di
riferimento delle successive più alte elaborazioni della
poesia italiana. Se a Guido Guinizelli si deve il primo impulso alla riflessione teorica e al rinnovamento del linguaggio poetico, è soprattutto l’esperienza dello stilnovo
fiorentino, rappresentato da Guido Cavalcanti e da
Dante, il centro della nuova scuola.
Origini e concetti guida
• Le origini a Bologna
• Profondità speculativa e qualità formale
La nascita della nuova poetica ebbe luogo a Bologna,
sede di un prestigioso Studio universitario, dove si
coltivavano le tendenze più radicalmente innovative
della filosofia e della medicina. Il nome della
scuola poetica deriva da alcuni versi del Purgatorio dantesco (XXIV, 55-57) in cui il poeta
lucchese Bonaggiunta Orbicciani esprime il proprio
riconoscimento della superiorità della nuova
scuola: “O frate, issa vegg’io – diss’elli – il nodo /
che il Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal
dolce stil novo ch’i’ odo!”. È sempre Dante, nella
Commedia e nel De vulgari eloquentia, a fornire
la genealogia e anche lo sviluppo dello stilnovo,
indicando Guinizelli come l’iniziatore della nuova
maniera, poi superato da Cavalcanti e dallo stesso
Dante.
La tematica dello stilnovo si ricollega a tutta la tradizione poetica duecentesca, a partire dalla grande
lirica provenzale; sono indiscutibili i debiti verso
la scuola siciliana e verso Guittone d’Arezzo. Decisivo, a favore dello stilnovo, è il rapporto tra
profondità speculativa e qualità formale: la sintassi dei testi stilnovisti è complessa e costruita,
scandita secondo precisi canoni retorici, ben lontani
dall’oscurità dei testi siculo-toscani; il lessico è organizzato secondo precise partiture foniche, in
modo da assorbire nel flusso musicale le affermazioni concettuali spesso dense e difficili.
• Guido Guinizelli
•
•
•
•
Il manifesto teorico dello stilnovo
Amore e cor gentile
La concezione aristocratica dell’Amore
Il linguaggio dolce
L’ambiente dotto di Bologna offrì al giudice Guido
Guinizelli (circa 1235-1276) della fazione dei
Lambertazzi una ricca formazione di tipo filosofico, grazie alla quale il poeta rinnovò gli stereotipi della tradizione lirica e trasformò i modi
della poesia. Di questo cambiamento è testimonianza la canzone Al cor gentil rempaira sempre
Amore, considerata il manifesto teorico dello stilnovo. Essa si apre con l’enunciazione programmatica dell’identità tra amore e “cor gentile”. Poi,
mediante una rigorosa concatenazione razionale, in
un crescendo di argomenti arricchiti da immagini
tratte dal mondo sensibile, che preparano la visione
celeste delle ultime due stanze, il poeta si sforza di
definire amore, gentilezza e la particolare funzione
salvifica della “bella donna”. La concezione
dell’Amore, nel suo valore assoluto, è rigorosamente aristocratica, ma la gentilezza non
appartiene alla nobiltà di sangue, bensì a chi possiede determinate qualità d’animo, che il poeta indica con il termine “coraggio” di origine provenzale. Accanto a queste componenti, fondamentale
è l’uso di un linguaggio dolce, definito da Dante
come prerogativa essenziale dello stilnovo guinizelliano. Esso mira, attraverso una selezione severa del lessico e un rigoroso controllo stilistico, a
rendere nel dettato poetico il sentimento interiore
provocato dall’amore. Di Guinizelli sono pervenuti
cinque canzoni e quindici sonetti, tramandati da due
canzonieri: alcuni di questi testi esprimono anche
altra ispirazione stilistica, assumendo toni comicorealistici della contemporanea poesia borghese toscana.
Guido Cavalcanti
Guido Cavalcanti (circa 1259-1300) è l’esponente
più significativo dello stilnovo. Con Dante e tutti i
poeti stilnovisti, la sua poesia, per originalità lirica
e intensità espressiva, influenzò manifestamente
Petrarca e tutto il petrarchismo.
• La vita
• L’uomo politico
• L’esilio da Firenze
Fiorentino di una potente famiglia di guelfi bianchi,
sostenne la fazione dei Cerchi contro quella dei
Donati, guelfi neri, e nel 1267 si fidanzò con Bice,
figlia di Farinata degli Uberti. Fu coinvolto precocemente nelle lotte politiche della città. Nel 1280
fu tra i garanti di parte guelfa alla pace stipulata
tra guelfi e ghibellini, e nel 1284 partecipò ai lavori
del Consiglio Generale del Comune, insieme a Bru-
netto Latini e a Dino Compagni. In seguito a una
disposizione emanata nel 1293 da Giano della
Bella, a Cavalcanti venne vietata la partecipazione
alla vita politica. Il provvedimento di ordine pubblico, volto a placare le continue liti tra fazioni
rivali, non fu sufficiente. Nuovi violenti disordini
cittadini costrinsero nel 1300 i Priori del Comune
(fra i quali si trovava Dante, che pure considerava
Cavalcanti “primo dei suoi amici”) ad allontanare
da Firenze i rappresentanti più turbolenti delle
fazioni: Cavalcanti venne così esiliato a Sarzana,
allora insalubre zona di confino. Nello stesso anno
la condanna fu revocata, ma Cavalcanti rientrò a
Firenze ormai ammalato e morì subito, probabilmente per febbri malariche.
• Il canzoniere
• Tema dominante l’amore come passione irrazionale
• La battaglia d’amore
• Il linguaggio di Cavalcanti
Il suo canzoniere è composto di 52 testi (sonetti,
canzoni e ballate) da cui non si possono ricavare indicazioni cronologiche utili per stabilire la data di
composizione. Intorno al 1283 il nome di Cavalcanti doveva essere assai noto tra i poeti stilnovisti:
nella Vita nuova, infatti, Dante lo considera uno dei
più “famosi trovatori in quello tempo”. Il tema largamente dominante del suo canzoniere è Amore,
inteso come passione irrazionale che allontana
l’uomo dalla conoscenza e dalla felicità speculativa, conducendolo a una “morte” che è a un
tempo morale e fisica. I trattati di medicina medievale (derivati da testi arabi) ritenevano che la “malattia d’amore” (l’amor heroicus) potesse avere
anche esito mortale. Nutrito di letture filosofiche e
in contatto con gli ambienti averroisti di Bologna,
Cavalcanti procede nei suoi testi a un’indagine
sull’origine, la natura e gli effetti che la passione
amorosa produce nell’uomo: programmatica in
tal senso è la sua canzone dottrinale Donna me
prega. Provenienti dagli ambiti della “filosofia naturale” (fisica, astrologia, medicina e “psicologia”
nel senso di “scienza dell’anima”) e applicate alla
passione amorosa, le sue ampie metafore (quali la
battaglia d’amore, con ferite, “sbigottimenti”, intervento degli spiriti vitali, paure, fughe, distruzione e morte) prendono vita in un linguaggio
drammatico e lirico che lascia nel lettore un
senso di malinconia e fatalità. L’enfasi drammatica della poesia di Cavalcanti è però stemperata e
controbilanciata da un senso di stupore malinconico
nei confronti di una realtà interiore che sempre trascende il soggetto e la sua sofferenza. Nei suoi testi
ciò si realizza con sapienti tecniche, quali la distanza dell’io poetico dal proprio discorso, l’ironia
implicita nei frequenti diminutivi, un lessico concettuale e filosofico arduo, un sistema di immagini
e paragoni.
Gli stilnovisti minori
Fra le altre figure minori dello stilnovismo
fiorentino emergono Lapo Gianni, amico di Dante
e autore di rarefatte e sognanti Rime, e Dino
Frescobaldi (1271-1316), la cui produzione ruota
attorno al tema della “donna sdegnosa”.
• Cino da Pistoia
• Il tema dominante del ricordo
Un rilievo a parte merita invece Cino da Pistoia,
nome con cui è noto Guittoncino dei Sighibuldi,
(circa 1270-1336 o 1337). Dopo gli studi di diritto a
Bologna e a Orléans, insegnò legge nelle università
di Siena, Perugia, Napoli e, forse, Firenze. Tra il
1303 e il 1306 fu esiliato come guelfo di parte nera.
Tra i suoi scritti latini, d’argomento giuridico, è degna di menzione la Lectura super codicem (1314).
In volgare, invece, resta un canzoniere composto da
più di 160 poesie. Stimato da Dante e Petrarca, che
misero in evidenza la “dolcezza” evocativa e musicale della sua poesia, Cino da Pistoia appartiene
solo parzialmente all’esperienza stilnovista: la
critica ha infatti riscontrato nei suoi testi (oltre alla
presenza di materiali siciliani e siculo-toscani) temi
e motivi poetici fortemente personali. Infatti egli rielaborò gli spunti dello stilnovo fiorentino in una
poetica ispirata al tema dominante del ricordo,
che oppone l’amaro del presente alla dolcezza
del passato. Per questo e per la musicalità del
verso, Cino viene spesso indicato come il tramite
fra lo stilnovo e la successiva esperienza poetica
petrarchesca.
SCHEMA RIASSUNTIVO
DOLCE STILNOVO
È la più omogenea espressione culturale della fine
del sec. XIII, sorta nell’ambito culturale bolognese e
poi diffusasi a Firenze. Per la profondità dei contenuti (l’enunciazione programmatica dell’identità naturale e sostanziale tra amore e “cor gentile”, la funzione salvifica della “bella donna”) e per il raffinato
e rigoroso controllo stilistico risulta il punto di riferimento delle elaborazioni successive della poesia itali-
ana. I protagonisti oltre a Dante: Guinizelli, Cavalcanti, Cino da Pistoia.
GUIDO GUINIZELLI
Bolognese (circa 1235-1276), fu autore della canzone
Al cor gentile rempaira sempre Amore, ritenuta il
manifesto teorico dello stilnovo. Con grande dolcezza di linguaggio, pone l’identità tra amore e “cor
gentile”, la funzione salvifica della “bella donna”.
GUIDO CAVALCANTI
Fiorentino (circa 1259-1300), fu l’esponente più significativo dello stilnovo. Amico di Dante, è autore
di un canzoniere (di sonetti, ballate e canzoni) il cui
tema dominante è l’amore come passione irrazionale,
espresso con un linguaggio lirico drammatico e nel
contempo con malinconico distacco.
CINO DA PISTOIA
Nome con cui è noto Guittoncino dei Sighibuldi
(circa 1270 -1336 o 1337). È autore di un canzoniere
stimato da Dante e Petrarca per la dolcezza evocativa
e musicale del verso. Egli è considerato il tramite fra
gli stilnovisti e la successiva poesia petrarchesca per
aver rielaborato gli spunti dello stilnovo con una poetica ispirata al tema del ricordo del dolce passato opposto all’amaro presente.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Come si realizza nello stilnovo il “linguaggio
dolce”?
2. Che cosa enuncia la canzone di Guinizelli che
è considerata manifesto teorico dello stilnovo?
3. Qual è il tema dominante del canzoniere di
Cavalcanti?
4. Perché Cino da Pistoia viene spesso indicato
come tramite fra stilnovo e poesia
petrarchesca?
IL TRECENTO
Il Trecento è il secolo aureo della nostra letteratura.
Dante, Petrarca e Boccaccio fondano l’idea
stessa di letteratura italiana. Essi concepiscono
la poesia come conoscenza e come espressione
di una lingua nitida, luminosa, comunicativa,
che sarà capace di unificare una nazione divisa
in diverse regioni geografico-culturali. Con Dante
arriva ai vertici l’esperienza medievale della lirica e
della
poesia allegorica e didattica; con Boccaccio si fortifica
la nostra tradizione novellistica (che trova
un’ulteriore
sintesi in Sacchetti) e, in qualche misura, la stessa
tradizione cronachista. Petrarca è il simbolo del
nuovo
intellettuale: sebbene il circolo classicistico degli
scrittori
che usano il latino guardi ancora all’esperienza
duecentesca, Petrarca pone le basi di quella nuova
educazione letteraria che si chiamerà “umanesimo”.
A lato, ma come un esempio altissimo di ricerca letteraria
e spirituale, troviamo l’opera dei cosiddetti scrittori
religiosi, soprattutto Cavalca, Passavanti, santa
Caterina
da Siena e la tradizione francescana dei Fioretti.
1 DANTE ALIGHIERI
Dante Alighieri è considerato il più grande poeta italiano
e uno dei maggiori autori della letteratura universale.
Tutta la sua opera è fortemente radicata in una passione
civile e morale e in una tensione spirituale altissime: essa
costituisce l’esito più elevato e complessivo del pensiero
e della cristianità medievali. Per la prodigiosa varietà di
mezzi espressivi, la vastità e profondità di visione, la Divina commedia è un momento fondante della letteratura
in lingua italiana.
La vita
• L’inizio dell’attività politica
• La morte di Beatrice e la crisi religiosa
Nacque nel 1265 a Firenze in una famiglia appartenente alla piccola nobiltà guelfa fiorentina. Rimasto assai presto orfano della madre Bella (circa
1275), perdette il padre Alighiero di Bellincione
prima del 1283. Nel 1274, ancora bambino, incontra per la prima volta Beatrice (Bice di Folco Portinari), che amerà di amore sublimato secondo i
canoni dello stilnovo fino alla sua morte, nel 1290.
Al 1285 risale il matrimonio con Gemma di
Manetto Donati, che gli diede almeno tre figli.
Nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino
e all’assedio del castello di Caprona, scontri che
coinvolgevano la guelfa Firenze e le ghibelline
Arezzo e Pisa. Fu questo il suo primo affacciarsi
alla vita pubblica. L’adesione alla corporazione
dei medici e degli speziali fu preludio all’attività
politica, iniziata nel 1295 con l’entrata nel
Consiglio speciale del Capitano del popolo e conclusasi con la nomina a priore. Gli anni ’80 e i
primi anni ’90 lo videro occupato nelle prime esperienze poetiche; di sicura attribuzione sono almeno una cinquantina di Rime di vario metro, alcune appartenenti a questi anni, altre composte successivamente, che risentono della scuola siciliana,
di Guittone, di G. Guinizelli e G. Cavalcanti. Nel
1290 la morte di Beatrice provocò in Dante una
profonda crisi religiosa, da cui fu indotto a rig-
orosi studi filosofici e teologici, che completarono
la sua giovanile formazione retorica intrapresa sotto
la guida di Brunetto Latini. Fra il 1292 e il 1293
compose la Vita nuova, in cui raccolse 31 liriche
inserite in un contesto narrativo: la realtà storica
della donna amata, Bice di Folco Portinari, è sottoposta a un processo d’idealizzazione da cui nascerà la miracolosa Beatrice destinata poi a guidare
il pellegrino Dante nel viaggio della Commedia.
Dopo la spaccatura della parte guelfa tra Bianchi
(fautori d’una politica di autonomia) e Neri (legati
strettamente alla politica del papato e capeggiati dai
Donati, la famiglia di sua moglie), Dante si schierò dalla parte dei Bianchi, in cui primeggiava
la consorteria dei Cerchi. Mentre era a Roma per
un’ambasciata presso Bonifacio VIII, nel novembre
del 1301, i Neri coadiuvati dal legato papale Carlo
di Valois conquistarono la Signoria. Accusato dai
suoi avversari al potere di baratteria (corruzione),
Dante rifiutò sdegnato di giustificarsi e fu
condannato a morte in contumacia nel marzo del
1302. Lo attendevano una ventina d’anni di esilio
segnati da un’intensissima attività intellettuale.
• L’esilio
• Le speranze per l’imperatore Arrigo VII
Abbandonata attorno al 1304 la causa dei Bianchi,
intenzionati a rientrare a Firenze con le armi, e
sempre sperando in un’amnistia, Dante iniziò una
vita di vagabondaggio. Tra le tappe certe di questi
primi anni d’esilio si annoverano quelle nella Verona dei della Scala (dal 1303?), nella Treviso di
Gherardo da Camino (1305-06?) e nella Lunigiana
di Moroello Malaspina (1306). Nel frattempo componeva il Convivio (1304-07) e il De vulgari eloquentia (1304-05). Nuovo fervore di speranza gli
venne in occasione della discesa in Italia nel 1310
del nuovo imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, dal quale si attendeva il ristabilimento d’un
ordine supremo basato su un accordo tra autorità
imperiale e papale. Di grande interesse sono le epistole con cui il poeta partecipò alla vicenda,
esaltando la figura e il ruolo di Arrigo e fulminando
i fiorentini che a lui avevano osato opporsi. Il sogno
di giustizia e concordia universale e quello d’un
onorevole ritorno in patria furono vanificati dalla
morte improvvisa dell’imperatore nel 1313. Nel
maggio del 1315 rifiutò di avvantaggiarsi di
un’amnistia
che
aveva
per
condizione
un’ammissione di colpa. Nel novembre dello stesso
anno la Signoria fiorentina confermava la condanna
a morte per lui e per i suoi figli. Tra la comparsa
sulla scena italiana di Arrigo VII e la sua morte,
Dante venne chiarendo le proprie persuasioni
politiche in un trattato in lingua latina sulla Monarchia.
• Gli ultimi anni
• A Verona presso Cangrande della Scala
• A Ravenna presso Guido da Polenta
Dopo la conferma della condanna Dante soggiornò
presso Cangrande della Scala a Verona. Qui nel
1320 discusse pubblicamente una questione De situ
et forma aquae et terrae, intesa a dar conto
dell’emergere della terra sulle acque nell’emisfero
boreale con riferimento alla dottrina aristotelicoscolastica che voleva invece gli elementi disposti in
sfere concentriche. Attorno a questi anni (1319-20)
si colloca anche la composizione delle due Egloghe
latine indirizzate a Giovanni del Virgilio. Forse
nello stesso 1320 avvenne l’ultimo trasferimento
della vita dell’esule: a Ravenna presso Guido
Novello da Polenta. In questa città, di ritorno da
Venezia dove si era recato come ambasciatore per
conto del suo ospite, si spense per malattia nella
notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 e fu sepolto
in un’arca adiacente la chiesa di San Pier Maggiore,
più tardi dedicata a san Francesco.
Le opere minori
• La “Vita nuova”
• L’amore per Beatrice
• “Libro de la memoria” in versi e prosa
• L’amore mezzo di contemplazione mistica
• Le liriche più famose
Composta intorno al 1293, a un paio d’anni dalla
morte di Beatrice, è la prima opera organica di
Dante, narrazione “fervida e passionata” del suo
amore per Beatrice. È anche il primo romanzo
autobiografico della nostra letteratura e si compone di 25 sonetti, 4 canzoni, una stanza e una
ballata, intercalati da pagine di prosa che narrano la storia di questo amore. Il “libro de la memoria” è povero di avvenimenti: qualche incontro,
qualche episodio di scarso valore concreto, ma
quello che conta è la storia dei moti interiori, che
superano la visione “cortese” dell’amore, propria
dello stilnovo e di Cavalcanti, verso una concezione idealizzata in senso cristiano, mezzo di
contemplazione e di visione mistica. La Vita
nuova contiene alcune delle liriche più alte e famose di Dante, come il sonetto Tanto gentile e tanto
onesta pare, oppure Donne che avete intelletto
d’amore.
• Il “Convivio”
• Il contenuto enciclopedico
• L’esaltazione del sapere filosofico
La stesura dell’opera, progettata con velleità enciclopediche in 15 trattati a commento di 14 canzoni, risale agli anni 1304-07. Tre gli argomenti
principali: l’ordinamento dei cieli, la natura della
filosofia e infine quella della nobiltà, da intendersi
non come distinzione di nascita, ma come eccellenza intellettuale e morale. Centro propulsivo
ideale del discorso non sarà più Beatrice ma la
“donna gentile” già apparsa nella Vita nuova in atto compassionevole nei confronti del poeta dopo
la morte dell’amata, e che si rivela, qui nel Convivio, descrizione allegorica della Filosofia.
L’esaltazione del sapere filosofico rappresenta un
fondamentale punto d’arrivo in vista dell’avventura
poetico-speculativa della Commedia.
• Il “De vulgari eloquentia”
• Il volgare superiore al latino
• Il volgare unitario dell’Italia
Iniziato attorno al 1304 e lasciato interrotto nel
1305, il De vulgari eloquentia è dedicato alla teoria linguistica, un interesse che compare, ma soltanto marginalmente, anche nelle disquisizioni del
Convivio. Contrariamente a quanto asserito nel
Convivio, nel De vulgari eloquentia è il volgare
a essere proposto come superiore rispetto al
latino, lingua artificiale. Scopo primario di Dante
è l’identificazione d’un volgare unitario che abbia tutte le caratteristiche per affermarsi come lingua della più alta comunicazione artistica. Esso non
potrà coincidere con alcuna delle parlate regionali, essendo come una pantera “che fa sentire il
suo profumo ovunque e non si manifesta in nessun
luogo”. Dovrà essere “illustre”, “cardinale”, “aulico” e “curiale”, ovvero risplendente sugli altri volgari, capace di farli rivolgere attorno a sé, ben
regolato e caratterizzato da altissimo decoro ed eleganza.
• Il “De monarchia”
• Il rifiuto di subordinare il potere imperiale alla
Chiesa
Scritto dopo la morte di Arrigo VII, il grande e appassionato trattato politico di Dante si articola in 3
libri. Il primo libro argomenta che una monarchia
universale è necessaria per il raggiungimento dei
più alti ideali dell’uomo; il secondo specifica che
essa dovrà essere romana, essendo la Roma d’oggi
erede dell’impero che, voluto da un disegno divino,
creò le condizioni ideali per l’avvento del Cristo; il
terzo e ultimo illumina i rispettivi ambiti d’azione
del pontefice e dell’imperatore. Principio fondamentale è che il potere imperiale non deriva da
quello papale, ma direttamente da Dio. Così
come pertiene al papa il mandato divino di condurre
l’umanità
alla
beatitudine
eterna,
sarà
dell’imperatore quello di facilitare agli uomini il
raggiungimento della felicità terrena. Sono obiettivi
che le due massime autorità dovranno perseguire in
piena autonomia.
La “Divina Commedia”
•
•
•
•
Il significato del titolo
La struttura del poema
Il tema
Le fonti dell’ispirazione dantesca
Pensato semplicemente come Commedia da Dante,
il titolo assunse ufficialmente l’attributo “divina”
per iniziativa di Ludovico Dolce, curatore di
un’edizione stampata a Venezia dal Giolito nel
1555. Secondo Dante (De vulgari eloquentia, Epistola a Cangrande) il concetto di commedia è col-
legato a un genere di vicenda orribile negli inizi
e felicemente conclusa, nonché a uno stile medioumile, rispetto a quello elevato della tragedia. La
stesura, avviata probabilmente negli anni 1306-07,
impegnò il poeta per il resto della sua vita. Il
poema si articola in 3 cantiche: l’Inferno (34
canti, ovvero 33 più uno d’introduzione generale),
il Purgatorio e il Paradiso (33 canti ciascuno),
per un totale di 100 canti, composti da 14 233
versi endecasillabi riuniti in terzine incatenate
(schema ABA BCB CDC DED...).
Esso è concepito come il resoconto d’un viaggio
di sette giorni nei regni d’oltretomba intrapreso
dal poeta per risolvere una crisi che lo ha colto a
metà del proprio cammino esistenziale (35 anni).
Sarà Beatrice, la donna amata dal poeta nella giovinezza, a scendere dal Paradiso per affidare Dante
alla guida di Virgilio, il massimo poeta della latinità. Fortificato dalla sua presenza, l’8 aprile, venerdì Santo, del 1300 (anno del Giubileo bandito da
Bonifacio VIII) il pellegrino Dante si addentra nella
voragine sotterranea dell’Inferno, dove incontra le
anime dannate. Il 10 aprile, Pasqua di Resurrezione,
affronta sulle pendici della montagna del Purgatorio la parte penitenziale del proprio viaggio in
compagnia delle anime in attesa di liberazione. Passato sotto la diretta tutela di Beatrice, dopo aver
raggiunto il Paradiso Terrestre spicca il volo (13
aprile, mercoledì di Pasqua) verso il Paradiso, dove
nel cielo Empireo potrà finalmente, sia pure per pochi istanti, godere della contemplazione di Dio. È
lo stesso Dante a stabilire il fine della sua opera
nell’Epistola a Cangrande: affrancare i viventi
dalla miseria del peccato e guidarli verso la suprema felicità.
Non vi è dubbio che Dante trasse ispirazione dalla
Sacra Scrittura, da testi della latinità classica e dalla
letteratura cristiana. Posizione privilegiata
nell’immaginario dantesco occuparono il rapimento
di san Paolo al terzo cielo, menzionato nella Seconda lettera ai Corinti, 12, e la discesa agli Inferi
di Enea nel VI libro del poema di Virgilio. La Commedia è dunque concepita come Eneide della modernità, epica dello spirito cristiano.
LA
STRUTTURA
DI
PURGATORIO E PARADISO
INFERNO,
L’Inferno si trova al di sotto di Gerusalemme, posta
da Dante al centro dell’emisfero boreale. È preceduto
da un Antinferno in cui stanno gli ignavi, rifiutati da
Dio e dal Demonio, ed è diviso in nove cerchi, che
scendono verso i peccati più gravi: I il Limbo dei
morti senza battesimo; II lussuriosi; III golosi; IV avari e prodighi; V iracondi e accidiosi; VI promotori
di eresia (eresiarchi); VII suddiviso in tre gironi, è
luogo di pena dei violenti: contro il prossimo, contro
se stessi, contro Dio (bestemmiatori), contro la natura
(sodomiti), contro l’arte (usurai); VIII, detto Malebolge, è diviso in 10 fosse (bolge), con seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri,
consiglieri fraudolenti, seminatori di discordie,
falsari; IX, costituito da un fiume di ghiaccio, è diviso
in 4 zone: Caina (traditori dei parenti), Antenora
(traditori della patria), Tolomea (traditori degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori). Conficcato
nel ghiaccio al centro della Terra si trova Lucifero.
Il Purgatorio è una montagna agli antipodi di Gerusalemme, nell’emisfero australe. Alla base del monte
vi sono le due balze dell’Antipurgatorio, con scomunicati, pigri a pentirsi, morti di morte violenta, principi negligenti. Nel Purgatorio vero e proprio le
anime sono ripartite in 7 cornici corrispondenti ai
sette peccati capitali: I superbi; II invidiosi; III iracondi; IV accidiosi; V avari e prodighi; VI golosi;
VII lussuriosi. In cima al Purgatorio sta il Paradiso
Terrestre; al suo limitare, Virgilio lascia Dante alla
guida di Beatrice.
Il Paradiso, a cui Dante ascende attraverso la Sfera di
Fuoco, è diviso – secondo la concezione aristotelicotolemaica – in 9 cieli concentrici. Forze motrici dei
cieli sono le intelligenze angeliche: I cielo, o della
Luna, Angeli; II, di Mercurio, Arcangeli; III, di
Venere, Principati; IV, del Sole, Potestà; V, di Marte,
Virtù; VI, di Giove, Dominazioni; VII, di Saturno,
Troni; VIII, delle Stelle Fisse, Cherubini; IX,
Cristallino o Primo Mobile, Serafini. Dante giunge
così all’Empireo, sede dei beati e di Dio, dove gli fa
da guida Bernardo da Chiaravalle.
• Valore universale della “Divina commedia”
• Un’opera di conversione
• L’opera più famosa della letteratura italiana
La Divina commedia è un’opera di conversione,
un lungo percorso attraverso la scoperta del peccato e del male verso la redenzione dell’uomo e la
visione mistica. Ambiziosissima enciclopedia della
scienza, del pensiero e della spiritualità medievali,
prima opera sicuramente classica della tradizione in
volgare, monumento di lingua, di poesia e di sentire civile e morale, messaggio prodigiosamente
versatile, capace di raggiungere diversissimi settori
di pubblico (incluso quello popolare), la Divina
commedia si è affermata nei secoli come l’opera
della letteratura italiana più nota e più letta in
Italia e nel mondo.
• “Inferno”
• La voragine infernale
• La legge del contrappasso
Per Dante il viaggio agli Inferi sotto la guida di
Virgilio è, come del resto quello nel Purgatorio
e nel Paradiso, un viaggio di conoscenza: conoscenza del peccato, della sua natura, delle sue
gradazioni di gravità, delle sue conseguenze per
la vita terrena e quella ultraterrena. La struttura
della voragine infernale che giunge al centro della
Terra, basata su principi aristotelici e ciceroniani,
è divisa in 9 cerchi. Incontrate nei 5 cerchi superiori della cavità (alto Inferno) le anime di coloro
che furono incapaci di controllare naturali pulsioni
e appetiti, nel basso Inferno Dante trova i più esecrabili peccatori, nei quali agì una vera e propria
lucida volontà di arrecare, con la violenza o con
la frode, offesa e danno a Dio, a sé o ai propri
simili. Spiccano, nella prima compagine, le figure
di Francesca da Rimini, di Ciacco, di Filippo Argenti; nella seconda quelle di Farinata degli Uberti,
Cavalcante de’ Cavalcanti, Pier delle Vigne, Bru-
netto Latini, Ulisse, Guido da Montefeltro e
Ugolino della Gherardesca. Alla struttura ripetitiva
dell’incontro con le anime si accompagnano
molteplici elementi di variazione. Per esempio: gli
scenari di pena, regolati dalla legge del contrappasso (valida anche nel Purgatorio), secondo cui la
pena deve richiamare, per analogia o per contrasto,
la colpa, e soprattutto i sentimenti contrastanti di
Dante di fronte ai suoi interlocutori (sdegno, ironia,
ma anche palpitante partecipazione).
• “Purgatorio”
• La montagna del Purgatorio
• L’ascesa dai peccati più gravi ai meno gravi
• Beatrice sostituisce Virgilio
Immaginato da Dante, in relazione all’Inferno,
come montagna prodotta da uno spostamento di
masse terrestri a contatto con Lucifero precipitato
dal cielo, il Purgatorio si erge su un’isola situata
agli antipodi di Gerusalemme nell’emisfero delle
acque. Lo spazio della montagna tra le due zone
estreme dell’Antipurgatorio (in prossimità della
spiaggia) e del Paradiso Terrestre (sulla sommità),
è diviso in 7 balze, sulle quali i penitenti passano
purificando di volta in volta l’inclinazione verso
uno dei peccati capitali. Mentre nella discesa infernale ci s’imbatteva in colpe sempre più gravi,
l’ascesa purgatoriale rivela un criterio di gravità
decrescente: dall’amore rivolto al male (superbia,
invidia e ira) all’amore del bene tiepidamente esercitato (accidia) per giungere, nelle balze più elevate, all’amore eccessivo di beni mondani (avarizia, gola e lussuria). Se nell’Inferno Dante aveva
sperimentato l’operare divino come giustizia, nel
Purgatorio egli diviene partecipe della divina
misericordia. Di centrale interesse risultano gli incontri con artisti e poeti quali Casella, Sordello
da Goito, Bonaggiunta da Lucca, Guido Guinizelli,
Arnaut Daniel, Stazio e Oderisi da Gubbio. Gli ultimi canti sono fortemente marcati dalla presenza
di Beatrice, la donna amata che ha acquisito connotazioni allegoriche di Rivelazione, Amore
Divino, Grazia, Fede, Teologia, e sostituisce Virgilio.
LA
FORTUNA
COMMEDIA”
DELLA
“DIVINA
La ricezione della Divina commedia non è uniformemente lineare. Già largamente diffusa e commentata
a partire dal figlio di Dante Jacopo nel Trecento,
fu guardata con sospetto negli ambienti più radicali
dell’umanesimo fiorentino, poco gradita al Seicento
e al Settecento. Trovò in Vico il campione che la
consegnò all’abbraccio dell’Europa romantica, per la
quale Dante divenne, secondo la parola di E.
Pasquini, “mito del genio come forza della natura,
accanto a Omero e a Shakespeare”. Significativo è
il ricorso alla figura di Dante e alla sua opera da
parte del Risorgimento italiano per la formulazione e
propagazione degli ideali d’indipendenza e di unità
nazionale. Incontrastata fortuna arrise al poema nel
Novecento, in Italia e fuori d’Italia, in special modo
nel mondo anglosassone. Innumerevoli, attraverso i
secoli, gli autori in vario modo segnati dal contatto
con il capolavoro: da Boccaccio e Petrarca a Chaucer
e Milton, da Shelley e Coleridge a Foscolo e Leopardi, da Pound ed Eliot a Gozzano e Montale. Ricchissimo anche il riscontro nel settore delle arti figurative. Fra i nomi più illustri: Botticelli e Michelangelo in Italia; Blake e Rossetti in Inghilterra; Doré,
Ingres, Delacroix e Rodin in Francia.
• “Paradiso”
•
•
•
•
L’organizzazione gerarchica del Paradiso
L’Empireo
Bernardo di Chiaravalle sostituisce Beatrice
La visione di Dio
La regola strutturale del 9+1, valida per Inferno e
Purgatorio (nove cerchi più il vestibolo nel primo
caso, nove ripartizioni inferiori più il Paradiso Terrestre nel secondo), vale anche per il Paradiso,
dove ai 9 cieli (dei pianeti, delle Stelle Fisse e
Primo Mobile) si aggiunge l’Empireo. Da
quest’ultimo, dove godono della beatitudine eterna,
gli spiriti scendono a manifestarsi al pellegrino nel
cielo di cui subirono l’influsso in vita. Il Paradiso
risulta così organizzato gerarchicamente. I tre
cieli inferiori (Luna, Mercurio, Venere) ospitano
coloro che non raggiunsero l’assoluta perfezione. A
questi seguono, in ascesa, i cieli degli spiriti attivi:
quello del Sole con i sapienti, di Marte con i militanti per la fede, di Giove con i giusti, e quello degli
spiriti contemplativi, Saturno. I rimanenti due cieli
sotto l’Empireo consentono al pellegrino di perfezionare la propria preparazione all’ultima ascesa
assistendo al trionfo di Cristo, della Vergine e degli
angeli e sottoponendosi a un esame sulle virtù teologali (fede, speranza, carità). Nel cielo Empireo, il
vero e proprio Paradiso, sede di Dio e dei beati,
gli appare una “candida rosa” composta da innumerevoli anime assise su troni in file disposte
come in un anfiteatro. Tra queste egli scorge Beatrice, che ha lasciato il ruolo di guida a san Bernardo di Chiaravalle. La preghiera di Bernardo assicura l’intercessione della Vergine Maria, grazie
alla quale il pellegrino ottiene infine l’inusitato
privilegio di penetrare nel mistero della divina
essenza.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Nasce a Firenze nel 1265 da famiglia della piccola
nobiltà guelfa. Nel 1285 sposa Gemma Donati. Nel
1290 la morte di Beatrice, la donna amata da lontano
di amore sublimato, lo getta in una crisi religiosa.
Dopo la spaccatura della parte guelfa in Bianchi e
Neri, parteggia per i Bianchi, fautori di una politica
di autonomia dal papato. Nel 1301 i Neri prendono
il potere e condannano Dante a morte in contumacia.
Da allora fino alla morte, avvenuta nel 1321 a
Ravenna, Dante è costretto a vivere in esilio.
LE OPERE MINORI
Vita nuova. Nella Vita nuova (1292-93) la realtà storica della donna amata, Bice di Folco Portinari, è sot-
toposta a un processo d’idealizzazione da cui nascerà
l’immagine dell’amore divino, la miracolosa Beatrice.
Convivio. Nel Convivio (1304-07) centro propulsivo
ideale del discorso non è più Beatrice, ma la “donna
gentile”, già apparsa nella Vita nuova in atto compassionevole nei confronti del poeta dopo la morte
dell’amata, e che si rivela allegoria della Filosofia.
De vulgari eloquentia
Il trattato De vulgari eloquentia (1304-05) è dedicato
alla teoria linguistica di un volgare superiore al
latino: un volgare che dovrà essere “illustre”, “cardinale”, “aulico” e “curiale”, ovvero risplendente
sugli altri volgari, capace di attirarli, ben regolato e
caratterizzato da altissimo decoro ed eleganza.
LA “DIVINA COMMEDIA”
Composta di 3 cantiche, Inferno (34 canti), Purgatorio (33) e Paradiso (33), per un totale di 100
canti, è scritta dal 1306-07 fino alla morte dell’autore.
È un’opera di conversione, un lungo percorso attraverso la scoperta del male e dei peccati verso la redenzione dell’uomo. Scritta in terzine di endecasillabi è il più grande affresco della cultura occidentale;
e quello in cui è più chiaro il concetto di una nuova
dignità umana fortificata dalla riflessione sul dolore
dell’esistenza.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Perché Dante fu esiliato da Firenze?
2. Quali sono le liriche più celebri della Vita
nuova?
3. Di che cos’è allegoria la “donna gentile” nel
Convivio?
4. Quali sono le caratteristiche del volgare “illustre”?
5. Qual è il significato universale della Divina
commedia?
6. Di quante cantiche e di quanti canti è composta
la Divina commedia?
2 FRANCESCO PETRARCA
Poeta di raffinata sapienza formale, con il suo Canzoniere tocca i vertici della lirica europea ed eserciterà
una profonda influenza sulla poesia in Italia e in Europa.
Il petrarchismo si affermerà come modello imitativo e
come scuola fino a tutto il Settecento, e il rapporto con
Petrarca resterà sempre un passaggio obbligato per chi
intende il linguaggio poetico come strumento di scavo interiore. La sua concezione della cultura, in cui ha un ruolo
decisivo il rapporto con i classici latini, e il suo atteggiamento intellettuale, così pieno di curiosità e inquietudine,
ne fanno un grande precursore dell’umanesimo.
La vita
•
•
•
•
•
Il trasferimento in Provenza
La carriera ecclesiastica
La residenza a Valchiusa
La laurea poetica in Campidoglio
Il ritorno in Italia
Nacque ad Arezzo nel 1304 da Eletta Canigiani e
da ser Pietro, detto Petracco, un notaio fiorentino
di parte bianca esiliato assieme a Dante. Nel 1312
la famiglia si trasferì a Carpentras, in Provenza,
dove ser Petracco aveva intenzione di esercitare la
professione vicino alla sede papale di Avignone.
Petrarca fu mandato a studiare legge a Montpellier
e poi, con il fratello Gherardo, a Bologna. In questi
anni alimentò l’interesse per i classici (Cicerone,
Virgilio, Livio) e per i padri della Chiesa, soprattutto sant’Agostino. Nel 1326, alla morte del padre,
tornò ad Avignone. Qui, nella chiesa di Santa
Chiara, il giorno di venerdì Santo del 1327,
avvenne, secondo la testimonianza dello stesso poeta, l’episodio dell’incontro-innamoramento con
Laura, destinata a diventare la figura ispiratrice
centrale nel Canzoniere. Esaurito il patrimonio paterno, intraprese la carriera ecclesiastica (che
non gli impedì, d’altro canto, di avere relazioni
amorose da cui nacquero due figli: Giovanni e
Francesca) e divenne nel 1330 cappellano di
famiglia del cardinale Giovanni Colonna, ciò che
gli permise di viaggiare in diversi paesi d’Europa. È
del 1333 la sua scoperta, a Liegi, di due orazioni
ciceroniane, la Pro Archia e l’apocrifa Ad equites
Romanos. Nel 1335 il nuovo papa Benedetto XII
lo nominò canonico nella cattedrale di Lombez; al
1335 e al 1336 risale l’invio di due epistole allo
stesso papa che chiedevano il ritorno in Italia della
sede pontificia. Dopo un primo viaggio a Roma,
dove lo impressionarono profondamente i vestigi
dell’antichità classica, si trasferì da Avignone alla
vicina ma assai più tranquilla Valchiusa, dove si
dedicò all’attività di scrittore, sia in latino (Africa;
De viris illustribus), sia in italiano, lavorando alle
rime che dovevano sfociare nel Canzoniere e ai
Trionfi. Alternava momenti di ritiro e solitudine
dediti allo studio a viaggi e attività pubblica. Grazie alla notorietà procuratagli dalle opere latine
(alle quali sempre Petrarca affidò il suo desiderio
di gloria, piuttosto che alle liriche in volgare),
nell’aprile del 1341 gli fu conferita a Roma, in
Campidoglio, la laurea poetica. Nel 1342 raccolse
per la prima volta le rime in lingua volgare. Intanto
la morte di Laura, nella pestilenza che in quegli
anni devastava l’Europa, e la decisione del fratello
Gherardo di farsi monaco accentuavano
l’inquietudine e l’intimo dissidio tra il desiderio
di raccoglimento e riflessione e l’ambizione
mondana. Nel 1343 a Verona scoprì le lettere di
Cicerone ad Attico.
Nel 1347 per sostenere la riforma politica di Cola
di Rienzo, che intendeva dare a Roma un ruolo
propulsivo per unificare l’Italia, tornò in Italia,
dove si legò in amicizia con Boccaccio. Nel 1351
si stabilì a Padova presso Francesco da Carrara e
dal 1353 al 1361 alla corte viscontea di Milano.
Per i Visconti, da Giovanni a Bernabò, s’impegnò
in diverse missioni diplomatiche (fu anche presso
l’imperatore Carlo IV, a Praga). Spostatosi a
Padova per sfuggire alla peste che si diffondeva in
Lombardia, si trasferì poi a Venezia. Qui gli fecero
visita nel 1363 gli amici Boccaccio e Leonzio Pilato. Tenendo residenza a Padova, Venezia e poi ad
Arquà, sui Colli Euganei, ma sempre impegnato in
viaggi, trascorse gli ultimi anni continuando il lavoro intellettuale. A questo periodo appartiene il
De sui ipsius et multorum ignorantia, polemico libello di risposta a quattro giovani aristotelici che
lo avevano tacciato d’ignoranza. Morì ad Arquà
(oggi Arquà Petrarca) la notte tra il 18 e il 19
luglio 1374.
Le lettere
• La struttura dell’epistolario
• Un prezioso strumento biografico
Petrarca è la prima figura nella storia della letteratura italiana il cui itinerario esistenziale e intellettuale possa essere seguito minutamente sulle
lettere. Petrarca stesso raccolse per argomento le
sue lettere: Rerum familiarum libri (Libri delle cose
familiari), Sine nomine (Senza nome), polemiche
contro il papato avignonese, Rerum senilium libri
(Libri della vecchiaia); postume sono le Variae e
la singola epistola Posteritati (Alla posterità),
prezioso sunto autobiografico. L’epistolario
petrarchesco consente di seguire il poeta nei suoi
molteplici spostamenti, di sondare i suoi affetti,
le scelte politiche, le vicende dell’impegno civile e
dell’operare diplomatico, i motivi delle inclinazioni
e delle avversioni intellettuali, l’assillo delle costanti meditazioni morali, la sostanza e il carattere
del suo credo umanistico.
Il “Secretum”
• Un’opera-dialogo fra Petrarca e sant’Agostino
• L’amore per Laura e per la gloria mondana:
catene sulla via della salvezza
Composto in prima stesura tra il 1342 e il 1343, il
Secretum, opera filosofico-morale in tre libri, uno
per ciascuna giornata di fitto dialogo tra l’autore
(designato come Franciscus) e sant’Agostino
(Augustinus) in presenza della Verità, fu ripreso una
decina d’anni più tardi e completato tra il 1356 e
il 1358. La prima giornata di colloquio sviluppa
la nozione che felicità e infelicità dipendono
dall’umano volere, e che è proprio una malattia
della volontà a tenere Francesco in peccato e quindi
a renderlo infelice. Egli vuole il vero bene, ma non
lo persegue con il dovuto fervore. Un esame di
coscienza che tocca ciascuno dei sette peccati capitali per poi soffermarsi sull’accidia occupa invece la
seconda giornata di dialogo. Ma è la terza a portare
in superficie le passioni centrali ed esiziali che impediscono a Francesco di condurre con dedizione
assoluta la salvifica, costante meditazione sulla vita
e sulla morte. Bellissime, seducenti catene, esse
sono l’amore per Laura e l’amore di gloria. Invano l’amante tenterà di far passare per spirituale e
virtuoso il sentimento per una donna d’eccezione.
Agostino ha buon gioco nel mostrare come
Francesco non abbia amato come si conviene. Si
giunge così all’ultimo male: l’amore per la gloria
mondana, che, lasciando intravedere una sopravvivenza del nome nel tempo, impedisce la vista
della vera immortalità. Sgombra la mente, messe a
nudo le proprie colpevoli debolezze, Francesco non
si volge tuttavia alle opere divine con zelo esclusivo come vorrebbe Agostino. Pervenuto alla fine
della lunga confessione-meditazione, dichiara di
averne tratto beneficio e propone di rinforzare la
propria volontà, ma la scelta di radicale rinunzia
alle vanità del mondo rimane solo un auspicio.
Le altre opere latine
•
•
•
•
•
•
•
L’”Africa”
“De viris illustribus”
“Salmi penitenziali”
“Rerum memorandarum libri”
“De vita solitaria” e “De otio religioso”
“De remediis utriusque fortunae”
“Bucolicum carmen”
Nel primo periodo a Valchiusa Petrarca intraprese
la stesura del poema Africa, a cui legò molta della
sua ambizione di gloria letteraria, sebbene oggi ci
appaia un fallimento poetico per la sua magniloquenza retorica. L’Africa è un poema epico in esametri ispirato alla seconda guerra punica, cen-
trato sull’eroica figura di Scipione l’Africano e celebrativo dell’alto destino provvidenziale del popolo
romano. A questo periodo appartengono anche le
prime fatiche del De viris illustribus, galleria di
profili biografici di personaggi tratti dalla storia
antica, dalla Sacra Scrittura e dalla mitologia classica. Della crisi del 1342-43, che lo portò a vivere
in modo più intimo e sofferto il proprio cristianesimo (tanto che si suole parlare di conversione),
sono documento esemplare i Salmi penitenziali
(1348), modellati sul testo biblico ma percorsi da
venature ciceroniane e agostiniane. Agli anni tra
il 1343 e il 1354 appartengono: i Rerum memorandarum libri, incompiuta raccolta di aneddoti ed
esempi edificanti modellata sulla silloge di Valerio
Massimo; il De vita solitaria, in cui la solitudine
è proposta come condizione primaria per un perfezionamento intellettuale e morale da ottenersi
con lo studio delle lettere e la meditazione religiosa;
il De otio religioso, affine per materia al De vita
solitaria e concepito in seguito a una visita al fratello Gherardo in monastero; il De remediis utriusque fortunae (la cui composizione si protrasse
fino al 1366), esortazione allegorica, sostenuta da
argomentazioni stoico-cristiane, a rispondere virtuosamente alle alterne vicende della fortuna. A
queste opere in prosa si aggiunge il Bucolicum
carmen, raccolta di egloghe allegoriche secondo il
modello della poesia pastorale virgiliana.
Il “Canzoniere”
• La struttura
• Ricerca di mediazione tra amor sacro e amor profano
• L’esperienza intima dell’io
• La lingua del “Canzoniere”
• La figura femminile
• Amore della donna e amore della fama
• La Vergine ultimo porto di salvezza
Il Canzoniere si è affermato attraverso i secoli come
l’opera di Petrarca più significativa e di più
duratura rilevanza per l’evoluzione della storia
della poesia e della poetica occidentali. Frutto di
un lavoro di composizione, revisione e ordinamento
che cominciò attorno al 1335 e impegnò il poeta
fino alla morte, il Canzoniere (il cui titolo originale è Rerum vulgarium fragmenta, Frammenti
di volgare), presenta nell’ultima forma 317 sonetti,
29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. Una
compagine che risulta divisa dal componimento I’
vo pensando, et nel penser m’assale in due parti:
rime in vita e rime in morte di Laura.
Frutto della tradizione latina (classica e patristica)
e di quella volgare moderna, dai provenzali allo
stilnovo e a Dante, il Canzoniere rappresenta
l’estrema testimonianza di una ricerca di mediazione tra eros e caritas, tra amor profano e
amor sacro, di quel tentativo di conciliare Ovidio
con la Sacra Scrittura che tanta parte ebbe nel configurare la produzione letteraria medievale, specialmente lirica. Si tratta di una poesia tutta risolta in
una puntuale resa della psicologia amorosa, fortemente radicata nell’esperienza intima dell’io,
spiritualizzante e incline a eleganti soluzioni formali. La lingua è depurata da ogni tentazione real-
istica, improntata a un ideale di alto decoro e perfetta armonia. Ciononostante, è assolutamente
dominante la figura femminile, fulcro radioso di un
mito personale del poeta, che ripete liberamente,
con coscienza cristiana, il mito della negazione del
soddisfacimento erotico proposto dallo splendido
archetipo ovidiano della storia di Apollo e Dafne.
Laura è moderna incarnazione di Dafne che si sottrae alle sollecitazioni di chi la desidera; come
Dafne, si trasforma in lauro: quel lauro che dovrà
coronare la fronte dell’amante divenuto poeta.
Amore della donna e amore della fama: un orizzonte meditativo scrutato minutamente, come nel
Secretum. La complessa articolazione introspettiva della storia d’amore trova completamento in
chiave di ritrattazione nella canzone alla Vergine,
ultimo componimento della raccolta, in cui
all’esaltazione della donna terrena (non altro, a ben
vedere, che “poca mortal terra caduca”) si
sostituisce quella della donna divina (la “vera beatrice”) invocata come ultimo porto di salvezza
per l’anima resa esausta dagli ingannevoli e vani affanni mondani, ma assetata di verità assolute.
I “Trionfi”
• Il modello della “Commedia” di Dante
L’altra opera poetica in volgare sono i Trionfi
(scritti fra il 1348 e il 1374). Si tratta di
un’ambiziosa visione allegorico-didattica in terzine divisa in sei parti: Trionfo dell’Amore, della
Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo,
dell’Eternità. In essi, guardando al grande modello
della Commedia dantesca, Petrarca intese inserire il
vagheggiamento del personale mito amoroso animato dalla figura di Laura sia nel flusso della storia
degli uomini, sia in immutabili quadri di riferimento morale e in prospettiva metastorica. Sono i
grandi temi della vita interiore del Petrarca, primo
fra tutti quello dell’umano dibattersi tra la dispersione mondana e la compiuta maestà dell’eterno,
a essere drammatizzati nei Trionfi, con un gusto
figurativo e compositivo ancora in buona parte
medievale e un esito poetico nel complesso deludente.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Nasce ad Arezzo nel 1304, da un notaio fiorentino
esiliato come Dante. La famiglia si trasferisce in
Provenza, ad Avignone, dove allora era la sede papale. Dopo gli studi di diritto, intraprende la carriera
ecclesiastica. Alterna momenti di ritiro a Valchiusa,
presso Avignone, con viaggi e attività diplomatica.
Diviene l’intellettuale più famoso della sua epoca
(nel 1341 è incoronato poeta laureato a Roma, in
Campidoglio). Nel 1342-43 attraversa una profonda
crisi morale-religiosa per la morte di Laura, la donna
da lui amata, e la monacazione del fratello. Dal 1351
risiede a Milano, presso i Visconti, poi a Venezia.
Muore nel 1374, nella sua residenza di Arquà (oggi
Arquà Petrarca), sui Colli Euganei, presso Padova.
LE LETTERE
Composto dai Rerum familiarum libri, dalle Sine
nomine, dai Rerum senilium libri e dalle postume
Variae, oltre alla singola epistola Posteritati,
l’epistolario è un’eccezionale autobiografia intellettuale poetica.
IL “SECRETUM”
Composto in prima stesura tra il 1342 e il 1343, è
un’opera filosofico-morale in tre libri di prosa sul
tema della virtù e della felicità umana.
ALTRE OPERE LATINE
L’Africa è un poema epico in esametri ispirato alla
seconda guerra punica, centrato sull’eroica figura di
Scipione l’Africano e celebrativo dell’alto destino
provvidenziale del popolo romano. I Salmi penitenziali sono modellati sul testo biblico. In prosa: Rerum
memorandarum libri, incompiuta raccolta di aneddoti ed esempi; De vita solitaria, in cui la solitudine
è proposta come condizione primaria per un perfezionamento intellettuale e morale; De otio religioso, affine per materia al De vita solitaria e concepito in
seguito a una visita al monastero del fratello; De
remediis utriusque fortunae, esortazione allegorica,
sostenuta da argomentazioni stoico-cristiane, a
rispondere virtuosamente alle alterne vicende della
fortuna. Il Bucolicum carmen è una raccolta di
egloghe allegoriche secondo il modello della poesia
pastorale virgiliana.
IL “CANZONIERE”
Il Canzoniere è composto nella sua forma definitiva
di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4
madrigali. Tutta la lirica di Petrarca è un sommesso
colloquio del poeta con la propria anima; e voluttà
di perdersi in quel dolce errore della sua coscienza.
Essa costituisce il modello fondativo della lirica
d’amore italiana.
I “TRIONFI”
I Trionfi sono una visione allegorico-didattica in terzine divisa in sei parti: Trionfo dell’Amore, della Pudi-
cizia, della Morte, della Fama, del Tempo,
dell’Eternità.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Il Secretum è un libro filosofico? Chi sono i
personaggi principali?
2. Petrarca attribuiva più importanza alla sua opera in latino o a quella in italiano volgare?
3. Di cosa trattano i Trionfi?
4. Qual è il ruolo di Laura nel Canzoniere?
3 GIOVANNI BOCCACCIO
A concludere la miracolosa corona trecentesca dei tre
grandi padri fondatori della letteratura italiana è la figura
di Giovanni Boccaccio. È il nostro più grande narratore:
il Decameron vuole essere un quadro grandioso della vita
con le sue luci e le sue ombre, una “Umana commedia”
che ha al centro l’agire dell’uomo nel mondo, piuttosto
che la prospettiva dell’eterno. L’opera di Boccaccio è un
ponte tra il Medioevo e il grande rinnovamento del Rinascimento. La sua prosa di straordinaria versatilità, capace
di passare dai toni solenni delle costruzioni ricche di subordinate a grande secchezza narrativa e dialogica, rimarrà modello insuperato per lunghi secoli.
La vita e le opere
Nacque nel 1313 a Firenze, figlio illegittimo di ser
Boccaccino di Chellino, ricco uomo d’affari di Certaldo, che l’avviò giovanissimo alla carriera finanziaria, portandolo con sé a Napoli (1327), dove si era
trasferito in qualità di agente della banca dei Bardi,
finanziatrice del re di Napoli Roberto d’Angiò.
• Gli anni di Napoli e i primi scritti
•
•
•
•
Alla corte angioina
Il “Filocolo”
Il “Filostrato”
La “Teseida”
Il trasferimento a Napoli segnò un momento decisivo nella formazione di Boccaccio. Mentre si dedicava alla pratica di banca, ebbe l’opportunità di
frequentare gli ambienti signorili della città e la
stessa corte angioina. Al 1334 risale la Caccia di
Diana, poemetto allegorico-mitologico di 18 canti
in terza rima in cui sono vagheggiate e celebrate le
belle donne dell’aristocrazia napoletana.
Assai maggiore l’impegno riversato nella composizione del Filocolo (1336-38?), romanzo in prosa
che narra un’avventurosa ed edificante storia
d’amore: è la prima consistente testimonianza di un
vitale bisogno espressivo. In esso appare per la
prima volta, in veste di ispiratrice e dedicataria,
una Fiammetta (Maria d’Aquino, figlia illegittima
di re Roberto d’Angiò), che rimarrà privilegiato
punto di riferimento della sua ideale autobiografia
sentimentale. Attorno al 1335, o forse al 1339, Boccaccio lavorò al Filostrato, romanzo sentimentale
in ottave sull’amore tradito di Troiolo per Criseida.
Del 1339-41 è il più sofisticato Teseida delle nozze
d’Emilia: un poema in 12 canti in ottave, che narra
una vicenda d’amore sullo sfondo delle gesta guerresche di Teseo e delle Amazzoni.
• Il ritorno a Firenze e le opere della maturità
•
•
•
•
•
•
•
•
La “Comedia delle ninfe fiorentine”
L’”Amorosa visione”
L’”Elegia di madonna Fiammetta”
Il “Ninfale fiesolano”
L’amicizia con Petrarca
Le opere umanistiche in latino
Il “Corbaccio”
L’esposizione della “Commedia” di Dante
Tra il 1340 e il 1341 Boccaccio ritornò a Firenze.
Gli anni subito dopo il rimpatrio risultarono fecondi
per lo scrittore che si avviava alla piena maturità.
La Comedia delle ninfe fiorentine (1341-42),
formata da testi poetici in un quadro di prosa,
narra l’elevazione all’amore spirituale di un rozzo
pastore, Ameto, da parte di sette ninfe. Un tragitto
di avvicinamento all’amore e alla virtù si può
riscontrare anche nell’Amorosa visione (1342-43),
poema allegorico di 50 canti in terzine, architettato
su modelli danteschi e intessuto di reminiscenze
ovidiane. D’impianto essenzialmente realistico è
invece il romanzo Elegia di madonna Fiammetta
(1343-44), storia di travagli amorosi raccontata in
prima persona dalla protagonista, in cui
all’ambientazione nella Napoli dei suoi tempi
risponde la continua evocazione del mondo esemplare della mitologia classica. Punto d’arrivo della
produzione precedente il Decameron è il poema
in ottave Ninfale fiesolano (1344-46?) che, partendo dalla narrazione dei tragici amori del pastore
Africo e della ninfa Mensola, giunge a celebrare
le leggendarie origini di Fiesole e Firenze; in esso
alterna abilmente il realismo della letteratura
popolare e il tono alto della poesia lirica.
Nell’epidemia di peste del 1348 gli era morto intanto il padre, oltre a vari amici e conoscenti. Subito
dopo, tra il 1349 e il 1353, scrisse il suo capolavoro,
la raccolta di novelle Decameron. Alla fine del
decennio gli nacque Violante, illegittima, come gli
altri figli, amorevolmente ricordata nelle epistole e
nell’egloga XIV. Gli anni ’50 e ’60 lo videro onerato d’incarichi pubblici e missioni diplomatiche
e attivissimo nello studio, nella scrittura e nelle
relazioni con amici intellettuali. Di straordinaria
importanza l’incontro, nel 1350, e l’amicizia con
Petrarca. A questi anni risalgono le opere umanistiche in latino, destinate ad alimentare considerevolmente la sua fama in Europa. Ambizioso
repertorio dei miti antichi, rivalutati come veicolo
di verità morali e religiose, la Genealogia degli
dei gentili (Genealogia deorum gentilium) culmina
nell’appassionata difesa della poesia. Repertorio di
conoscenze geografiche classiche e medievali è il
Monti, selve, laghi, fiumi, stagni o paludi e nomi
del mare (De montibus...). Un programma moral-
istico (il tema è quello del favorito dalla fortuna
ridotto in miserevole stato da superbia e stoltezza)
informa l’opera Delle sventure degli uomini illustri (De casibus virorum illustrium), compilazione di
profili biografici che spazia da Adamo a Giovanni il
Buono, re di Francia. Complementare, seppure non
del tutto affine, è lo scritto Delle donne illustri (De
mulieribus claris). Nel 1367 pubblicò le 16 egloghe
del Bucolicum carmen, di ispirazione virgiliana e
petrarchesca.
Risale forse agli anni 1354-55 la composizione del
Corbaccio, libello in prosa volgare ispirato da una
forte misoginia. Scosso da una lettera del beato Pietro Petroni che lo ammoniva ad abbandonare la
poesia e a meditare invece sulla morte imminente,
fu incoraggiato dallo stesso Petrarca a perseverare
negli amati studi. A questo periodo (1361) risalgono l’Epistola consolatoria a Pino de’ Rossi e
forse la Vita di san Pier Damiani (Vita sanctissimi
patris Petri Damiani heremite). Nel 1365 fu inviato
in ambasceria presso la corte papale ad Avignone.
Boccaccio fu grande ammiratore di Dante (nel
1351 aveva scritto un Trattatello in laude di Dante)
e venne perciò invitato dal Comune di Firenze a
dare pubblica lettura della Commedia dantesca;
iniziate nell’ottobre del 1373, le lezioni (Esposizioni sulla Commedia di Dante) s’interruppero
all’inizio del 1374 quando ritornò, malato, a Certaldo. Qui si spense il 21 dicembre 1375.
Il “Decameron”
• La “cornice” narrativa dei racconti
• La celebrazione della classe borghese-mercantile
Scritto negli anni immediatamente successivi alla
peste del 1348, tra il 1349 e il 1353, il Decameron
reca l’impronta dell’evento luttuoso. È infatti per
sottrarsi all’epidemia e al degrado morale della
vita fiorentina a essa conseguente, che i 10 giovani
protagonisti della storia portante (Pampinea,
Filomena, Elissa, Neifile, Emilia, Lauretta, Fiammetta, Panfilo, Filostrato, Dioneo) decidono, nel
corso di un incontro casuale nella chiesa di Santa
Maria Novella, di rifugiarsi nel contado. Nel salubre regime di vita comunitaria instaurato in villa,
trova luogo, accanto a giochi, danze e gradevoli escursioni, anche il racconto di novelle, il cui tema
è giornalmente imposto, per un totale di dieci
giornate (da qui il titolo) dal re o dalla regina di
volta in volta eletti dalla brigata. Da questa, che
viene chiamata la “cornice” e giustifica la
produzione narrativa, risulta così una compagine
di 100 novelle, alle quali si aggiungono dieci canzoni a ballo intonate a turno dai giovani in fine di
giornata.
Amplissimo è il catalogo dei materiali cui Boccaccio attinge, spesso modificando liberamente i contenuti del testo di partenza, talvolta dando vita a
vere e proprie parodie. Nel Decameron trova artistica celebrazione la classe borghese-mercantile
venuta alla ribalta in Italia tra Duecento e Trecento,
una classe che a Boccaccio piacque contemplare
nei suoi tentativi di nobilitarsi alla luce degli
ideali cortesi. Fulgido modello umano risulta alla
fine quel messer Torello da Pavia che, pur se “cit-
tadino e non signore”, appare dotato d’animo e
modi splendidamente signorili, esibiti nel corso di
una gara di cortesie con il Saladino, sultano del
Cairo.
• Una “Umana commedia”
• Un quadro grandioso della vita
• L’interesse per l’umano agire nel mondo
• Un preludio al Rinascimento
Osservazione comune a lettori di ogni secolo, è che
nel Decameron si concretizzi un progetto narrativo d’inusitata ambizione. E certo Boccaccio, nel
pensare all’opera come quadro grandioso della
vita, di tutta la vita, con le sue luci e le sue ombre,
nella sua infinita capacità di coinvolgere chi la contempla, occasione continua di meraviglia ed
emozione, di riflessione psicologica e giudizio morale, teneva presente il grande modello della Commedia dantesca. Quella di Boccaccio è dunque una
“Umana commedia”, caratterizzata da un deciso
concentrarsi dell’interesse sull’umano agire nel
mondo per il mondo, piuttosto che nella prospettiva dell’eterno.
Il realismo del Decameron è da intendere, tra
l’altro, come predilezione per vicende collocate nel
presente, in luoghi individuati con precisione, rappresentazione non esclusivamente a fini comici di
personaggi che incarnano i più bassi strati sociali.
Boccaccio adotta dunque una poetica in cui non
hanno più luogo l’esibizionismo erudito e il gusto
mitologico, abbandona le sovrastrutture allegoriche, si fa avvocato dei diritti all’appagamento
sessuale,
propone
continuamente
all’ammirazione del lettore le risorse pragmatiche dell’individuo, il valore azione in quanto
azione. Se è giusto riconoscere che sul Decameron
il Medioevo accampa diritti non indifferenti, è perciò quasi impossibile non vederlo anche come
vivido ed esaltante preludio alla grande stagione
del pensiero e della letteratura rinascimentali.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Nasce nel 1313 a Firenze, figlio illegittimo di un
ricco uomo d’affari. Trascorre il periodo della formazione a Napoli, dove frequenta gli ambienti signorili
e la corte di Roberto d’Angiò e scrive le prime opere.
Nel 1340-41 ritorna a Firenze. Qui svolge importanti
incarichi pubblici e diplomatici e scrive le opere della
sua maturità. Muore a Certaldo nel 1375.
LE OPERE GIOVANILI DEL PERIODO
NAPOLETANO
Filocolo (1336-38?), romanzo sentimentale in prosa;
Filostrato (1335 o 1339), poema narrativo in ottave
la cui materia è l’amore tradito di Troiolo per Criseida; Teseida delle nozze d’Emilia (1339-41?), composto da 12 canti in ottave sullo sfondo delle gesta
guerresche di Teseo e delle Amazzoni.
IL RITORNO A FIRENZE E LE OPERE
DELLA MATURITÀ
Amorosa visione (1342-43), poema allegorico di 50
canti in terzine, architettato su modelli danteschi e
intessuto di reminiscenze ovidiane. L’Elegia di
madonna Fiammetta (1343-44) narra una storia di
travagli amorosi raccontata in prima persona dalla
protagonista. Il Ninfale fiesolano (1344-46?), poema
in ottave, parte dalla narrazione dei tragici amori del
pastore Africo e della ninfa Mensola, per giungere a
celebrare le leggendarie origini di Fiesole e Firenze:
è la sua opera più matura prima del Decameron.
IL “DECAMERON”
Il Decameron, raccolta di 100 novelle inquadrata in
una “cornice” narrativa (1349-53), è il capolavoro del
Boccaccio. Un realismo attento alla definizione di
un’umanità reale, e al tempo stesso votata a una profonda dignità, rende quest’opera l’esempio narrativo
di una straordinaria commedia umana.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono le opere principali del periodo napoletano?
2. Di cosa parla l’Elegia di madonna Fiammetta?
3. Che cos’è la “cornice” del Decameron?
4. Perché il Decameron è una “umana commedia”?
5. Qual è il tipo di “uomo” che emerge dal Decameron?
6. Qual è il tema del Corbaccio?
4 LETTERATURA
DIDATTICO-ALLEGORICA
L’eredità didattica proveniente dalla cultura predicatoria
e dalla filosofia scolastica è all’origine di un’ampia letteratura didattico-allegorica, che, pur senza rivelare particolari capolavori, risulta molto importante anche per comprendere la prospettiva di un’opera eccezionale come la
Commedia dantesca. Il lavoro dei cronachisti consente di
riconoscere quella ricerca di concretezza, di gusto municipale e popolare, che sempre ritroveremo anche nella
prosa migliore del Trecento. I romanzi Reali di Francia
e il Guerrin Meschino di Andrea da Barberino saranno
destinati a un’eccezionale diffusione popolare fino
all’Ottocento. Nel quadro spicca il grande capolavoro di
Marco Polo: il Milione è una delle vette della letteratura
medievale, e uno dei più straordinari resoconti di viaggio
di tutti i tempi.
I poemi allegorici
•
•
•
•
L’”Intelligenza”
Francesco da Barberino
Fazio degli Uberti
Federico Frezzi
Frutto dell’imitazione della Divina commedia e
dell’aspirazione della filosofia scolastica a un
sapere onnicomprensivo sono i numerosi poemi che
nel Trecento forniscono sotto chiave allegorica
ampie visioni del mondo. Fra i testi più antichi
troviamo l’Intelligenza, poemetto allegorico-didattico ritrovato nel 1846. Opera di un anonimo
fiorentino, fu scritto fra la fine del Duecento e
l’inizio del Trecento ed è costituito da 309 stanze
in nona rima, sull’esempio di modelli provenzali e
stilnovistici. Narra l’incontro allegorico del poeta
con una donna bellissima (l’Intelligenza), che abita
un favoloso palazzo (il corpo umano).
Del toscano Francesco da Barberino (1264-1348)
restano due opere didascaliche, pubblicate attorno
al 1314: i Documenti d’Amore, versi in volgare
con commento in latino, e Reggimento e costumi di
donna, in versi e prosa.
Cecco d’Ascoli (si chiamava in realtà Francesco
Stabili) nacque nei pressi di Ascoli Piceno intorno
al 1269, fu astrologo presso l’università di Bologna,
fu condannato per eresia e arso sul rogo a Firenze
nel 1327. Fra i suoi testi (commenti, lezioni e
poesie) è rimasto celebre il poema in sesta rima
incompiuto intitolato Acerba. Con gusto enciclopedico e didattico, vi si raccolgono nozioni astronomiche, astrologiche, alchimistiche e naturalistiche di origine araba, in polemica sia con la Divina commedia di Dante sia con il pensiero ufficiale aristotelico-tomista della Scolastica.
Il fiorentino Fazio degli Uberti (circa 1350-1367)
è noto per un poema allegorico-didattico in sei canti
di terzine, il Dittamondo (Dicta mundi), composto
tra il 1346 e il 1367 e lasciato incompiuto. Sul modello della Commedia dantesca, Fazio immagina che
la Virtù, apparsagli in sogno, gli indichi il cammino
della salvezza: un viaggio per l’Europa, l’Africa e
l’Asia con la guida del geografo Solino. L’opera,
di carattere enciclopedico, è pregevole per la
freschezza e l’entusiasmo delle descrizioni,
soprattutto di quelle naturalistiche.
L’umbro Federico Frezzi (circa 1346-1416) fu
nominato vescovo di Foligno nel 1404. Scrisse un
lungo e macchinoso poema allegorico in terzine, il
Quadriregno (1394-1403), nei cui 74 canti si tratta
di un viaggio dell’uomo dalle passioni alla verità
attraverso i regni dell’Amore, di Satana, del Vizio
e della Virtù. L’imitazione della Commedia è evidente, ma vi è anche qualche spunto preumanistico.
I cronachisti
• La “Vita di Cola”
• Dino Compagni
• Giovanni e Matteo Villani
La Vita di Cola è un’opera anonima in romanesco (parte di una cronaca trecentesca giunta mutila
e pubblicata da Ludovico Antonio Muratori nel
1740): composta intorno al 1357-58, narra le vicende di Roma e del tentativo di riforma politica di
Cola di Rienzo tra il 1325 e il 1357. È un testo di
grande importanza storico-linguistica.
Il fiorentino Dino Compagni (circa 1255-1324) è
noto soprattutto per la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (1310-12), una storia delle
lotte che dilaniarono Firenze tra il 1280 e il 1312.
L’opera, giustamente celebre come fonte storica,
si distacca dal modello storiografico oggettivo-erudito della cronaca medievale e rievoca gli avvenimenti in modo appassionato e personale, secondo
la sua ottica di protagonista della vita politica
fiorentina schierato dalla parte popolare e dei Bianchi, come Dante.
Giovanni Villani (1280-1348) scrisse una Cronica
(edita solo nel 1537) dalla Torre di Babele alla
discesa in Italia del francese Carlo d’Angiò (1266).
Lo stile è piuttosto scarno e distaccato. Resta
comunque un testo importantissimo del nostro Trecento. Suo fratello Matteo Villani (1280/90-1363)
continuò la Cronica fino al 1363, con intenti più
moralistici che documentari.
LA TRADIZIONE CLASSICA
La letteratura latina è ancora molto fiorente. Non
si può parlare di un vero e proprio preumanesimo:
agli scrittori italiani in latino deve essere riconosciuto
un forte interesse per la cultura classica, senza
comunque alcun motivo di crisi della tradizione
scolastico-medievale. D’altra parte, il processo di adeguatezza ai modelli della latinità è già duecentesco.
Accanto a Zanobi da Strada, a Giovanni del Virgilio,
al gruppo del cenacolo “veronese” (Guglielmo da
Pastrengo) e ancora al dotto Ferreto de’ Ferreti, la
figura maggiore della lirica latina in Italia è il
padovano Albertino Mussato (1261-1329). Nelle
sue opere Mussato difese la libertà comunale nel
quadro dei poteri universali della Chiesa e del papato.
Con il dialogo Evidentia tragediarum Senecae promosse la tragedia di impostazione classica, di cui offrì un modello con la Ecerinis.
Nell’ambito di questo gusto antico devono essere
considerati anche i numerosi volgarizzamenti della
letteratura latina classica (per esempio, le traduzioni
ovidiane di Andrea Lancia).
Marco Polo
• La vita
• Il “Milione”
Il mercante veneziano Marco Polo (1254-1324) si
recò nel 1271 con il padre e lo zio in Cina e divenne
uomo di fiducia del Gran Khan Qubilai. Rientrato a
Venezia nel 1292, fu fatto prigioniero dai genovesi
dopo la battaglia della Curzola (1298). La sua fama
è legata all’opera Divisament dou monde (anche
Livres des Merveilles du monde), meglio nota come
Milione, dal soprannome veneziano di Marco Polo,
che la dettò a Rustichello da Pisa, suo compagno di
prigionia. L’opera, che narra le esperienze compiute durante il viaggio in Oriente, è scritta in “vol-
gare gallico”, cioè in francese, secondo la moda del
tempo.
Il Milione è ricco sia di informazioni
sull’organizzazione amministrativa della Cina, sia
di stupefatte rievocazioni delle meraviglie
d’Oriente. All’esattezza della narrazione, riflesso
dello spirito pragmatico e razionale della Venezia
mercantile di fine Duecento, si sposa il fascino
poetico delle descrizioni, a testimoniare
l’inesauribile curiosità del mondo medievale verso
l’esotico e il favoloso. La struttura narrativa è salda;
lo stile è spoglio di suggestioni letterarie, ma vibrante di contenuto entusiasmo. Per queste ragioni
il critico Luigi Foscolo Benedetto ha potuto
definire l’opera “una delle sintesi più potenti che
ci abbia lasciato il Medioevo, laica e terrena, da
porsi accanto alle due celebri sintesi in cui si è riassunto il Medioevo teologico e filosofico, la Summa
di san Tommaso d’Aquino e la Divina commedia”.
I romanzi
• Andrea da Barberino
Generalmente la materia è attinta ai cicli classici
(Tebe, Troia, Roma, Cesare ecc.), o a quelli carolingio e bretone; la scelta metrica può essere sia
in prosa sia in rima. Il Fiore d’Italia di Guido da
Pisa è un’opera di divulgazione: il racconto è quasi
ingenuo, ma anche limpido e sincero. L’anonimo
Avventuroso Ciciliano narra il viaggio di cinque
baroni siciliani fuggiti dopo il Vespro. Pieno di digressioni, sembra privo di originalità. L’anonimo
Tavola Ritonda (rifacimento del Meliadus e del
Roman de Tristan) è il miglior volgarizzamento
d’argomento bretone.
Andrea da Barberino (circa 1370 - circa 1431)
fu un autore fecondo di romanzi e adattò ai propri
gusti borghesi le severe storie del mondo carolingio
come le smaglianti avventure del mondo bretone. I
suoi capolavori sono i Reali di Francia e il Guer-
rin Meschino, che godettero di un’eccezionale diffusione fino a tutto l’Ottocento, tanto da diventare
una componente dell’immaginario popolare.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LETTERATURA
ALLEGORICA
DIDATTICO-
Fra i testi più antichi troviamo l’Intelligenza. Di
Francesco da Barberino restano i Documenti
d’Amore e Reggimento e costumi di donna, pubblicati
attorno al 1314. Cecco d’Ascoli è autore dell’Acerba;
Fazio degli Uberti è noto per il Dittamondo.
CRONACHISTI
Dino Compagni scrive un’appassionata Cronica
delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (1310-12) sulla
lotta di fazione a Firenze ai tempi di Dante. Giovanni
Villani (1280-1348) scrisse una Cronica dalla Torre
di Babele alla discesa in Italia degli Angioini (1266),
continuata dal fratello Matteo Villani (1280/
90-1363) fino al 1363, con intenti più moralistici che
documentari.
MARCO POLO E IL “MILIONE”
Mercante veneziano, si recò nel 1271 con il padre e
lo zio in Cina e divenne uomo di fiducia del Gran
Khan Qubilai. Rientrato a Venezia nel 1292, scrisse
in francese il Milione, resoconto straordinario del suo
soggiorno in Cina: l’opera costituisce una sintesi potente del mondo medievale ed è una delle più famose
della letteratura italiana.
ROMANZI
Sul ciclo carolingio e bretone, Andrea da Barberino
scrisse i famosissimi Reali di Francia e il Guerrin
Meschino, che godettero di straordinaria popolarità
fino all’Ottocento.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Chi sono i grandi cronachisti del Trecento?
2. Qual è l’importanza del Milione?
3. Quali sono i più famosi romanzi del Trecento?
5 LETTERATURA
RELIGIOSA
La letteratura religiosa non è solo un esempio di spiritualità ma anche di altezza letteraria. Scrittori come Cavalca,
Passavanti o Caterina da Siena sono capisaldi della letteratura trecentesca. Il libro dei Fioretti di San
Francesco ci sorprende per sintesi poetica e capacità narrativa.
I “Fioretti” e la letteratura
francescana
• I “Fioretti di San Francesco”, sintesi della spiritualità tardomedievale
• Angela da Foligno
• La “Storia di fra Michele minorita”
• Giovanni Colombini
I Fioretti di San Francesco appaiono come la
sintesi di tutta la tarda spiritualità medievale.
L’autore, anonimo, lavorò intorno al 1370-90 su un
volgarizzamento degli Actus beati Francisci et sociorum eius (Atti del beato Francesco e dei suoi
compagni) di Ugolino da Monte Santa Maria; il
testo fu poi ampliato con l’aggiunta di altri notevoli
scritti: le Considerazioni sulle Stimmate, i Detti e
la Vita del beato Egidio, la Vita di frate Ginepro.
L’anonimo autore ha conservato l’arcaicità leggendaria dell’originale latino, sfrondandolo delle
riflessioni dottrinarie per riportarlo a una misura
popolare. Lo spirito francescano è felicemente
rispecchiato nella grazia candida e schietta delle
descrizioni; in pagine celebri come quelle della
predica agli uccelli, del discorso sulla perfetta letizia, delle tortorelle rivive il messaggio francescano,
con il suo candore fanciullesco e la sua tensione di
fede.
La beata Angela da Foligno (1248-1309) vede
testimoniata la sua vita spirituale da un’opera di
grande intensità: il Liber de vera fidelium experientia (Libro della vera esperienza dei fedeli), in cui
ritroviamo il Memoriale, scritto da Arnaldo da Foligno (1292-96) sotto dettatura della beata.
Straordinaria, anche per commozione umana, la Storia di fra Michele minorita, resoconto della morte
del fraticello Michele Berti da Calci, condannato
dall’Inquisizione nel 1389.
Un esempio di equilibrio spirituale e limpidezza espressiva sono le Lettere del senese beato Giovanni
Colombini (1304-1367, fondatore dell’Ordine religioso laico dei Gesuati). L’eredità francescana si
cristallizza in un dramma più mistico e privato:
l’ansia comunque non soffoca un’umiltà che diventa racconto familiare e tenero.
Letteratura domenicana
• Domenico Cavalca
• Iacopo Passavanti
• Caterina da Siena
Rispetto al biografismo e alla semplicità
popolaresca della scuola francescana, la letteratura prodotta in ambiente domenicano, in
quello che significativamente si chiama Ordine dei
Predicatori, si mostra più attenta agli aspetti dottrinari e persuasori.
Il pisano Domenico Cavalca (circa 1270-1342) fu
un importante predicatore domenicano. Scrisse
nove trattati religiosi, tra cui il Pungilingua, lo
Specchio dei peccati e lo Specchio di croce. La sua
fama è tuttavia legata alla vivace e originale libera versione delle Vite dei Santi Padri, una silloge
greca (sec. VI) che raccoglie le vite di alcuni santi
del cristianesimo orientale e occidentale, ricca di
aneddoti.
Anch’egli predicatore domenicano, il fiorentino Iacopo Passavanti (1302-1357) scrisse lo Specchio
di vera penitenza, in cui raccolse la materia delle
prediche di Quaresima tenute a Firenze nel 1354.
La trattazione teorica è inframmezzata da 48 esempi, racconti edificanti, centrati sulla paura della
dannazione e sul gusto del tenebroso e del terribile.
Tratti da storie bibliche, leggende medievali e da
racconti agiografici, gli esempi, dall’atmosfera cupa e fosca, si valgono di uno stile asciutto e rapido,
privo di compiacimenti esornativi.
Santa Caterina da Siena (1347-1380) fu terziaria
domenicana. Dapprima senza saper scrivere,
cominciò a dettare lettere di consolazione, di incoraggiamento e di esortazione a persone di ogni ceto
sociale, a chiunque le domandasse aiuto, a intellettuali, condottieri, esponenti politici, contribuendo così sorprendentemente alla soluzione di
diverse questioni tra i Comuni e i partiti del tempo.
Le sue 381 Lettere, indirizzate fra il 1370 e il 1380
a papi, re e gente comune, mostrano un linguaggio
appassionato e diretto, ricco di espressioni e richiami biblici, ma anche aperto al linguaggio parlato nella sua terra. Notevole, ma più letterario,
anche il Dialogo della divina Provvidenza, dettato
ai discepoli nel 1378.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LETTERATURA FRANCESCANA
La letteratura francescana trova la sua sintesi nei
Fioretti di San Francesco, di fine Trecento, che sono
una vera sintesi della spiritualità tardomedievale.
LETTERATURA DOMENICANA
Domenico Cavalca e Iacopo Passavanti sono i due
più grandi predicatori di questi anni; la loro scrittura è
corposa e figurativa ma linguisticamente equilibrata.
Santa Caterina da Siena nelle sue Lettere sa trovare
un’espressione nitida e densa alla sua volontà di consolazione ed esortazione.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i maggiori esponenti della letteratura francescana?
2. In che cosa si distingue la letteratura domenicana da quella francescana?
3. Quali sono i maggiori esponenti della letteratura domenicana?
6 LA LIRICA E LA
NOVELLISTICA
Chiusa nell’imitazione di uno stilnovismo ormai esaurito
e schiacciata dalla figura di Petrarca, di cui però è incapace di cogliere la novità dirompente, la lirica nel Trecento è destinata a esiti minori. Più vitale si dimostra la
produzione novellistica: il Trecentonovelle di Sacchetti si
rifà al modello di Boccaccio e conoscerà una duratura
diffusione.
La lirica
• Gli epigoni dello stilnovo
• I rimatori realisti
Lo stilnovismo è esaurito a partire dalle nuove
scelte della Commedia di Dante. L’esperienza del
Petrarca, che scrive in volgare, sembra ancora non
compresa. Epigono esemplare che non riesce a com-
prendere la novità espressa proprio da coloro che
fondarono la scuola, risulta Sennuccio del Bene
(1275-1349).
Matteo
Frescobaldi
(circa
1300-1348) propose uno stilnovismo semplice
anche se un po’ scontato. Il veneziano Giovanni
Quirini fu un ottimo divulgatore di Dante e del
dolce stilnovo. Ancora più esteriore e libresca
l’imitazione dello stilnovismo a partire dalla
seconda metà del secolo. Un autore interessante
è Antonio Beccari (1315-1371), che trovò una
sintesi di elementi danteschi con tratti della tradizione giullaresca.
Anche nel Trecento continua l’esperienza dei rimatori realisti. Il realismo disordinato e ribelle duecentesco si trasforma in un senso più ordinato e
borghese del vivere: sotto questo aspetto il nuovo
realismo contiene in sé anche un’esigenza moralistica e religiosa, aperta a un cronachismo vivace e
cordiale. La figura centrale di quest’ambito è Antonio Pucci (1310-1388), autore di numerose opere:
il Centiloquio, Le proprietà di Mercato Vecchio,
La guerra di Pisa e numerosi cantari cavallereschi
come Apollonio di Tiro, la Madonna Lionessa e la
Reina d’Oriente.
LA LETTERATURA FRANCO-ITALIANA
La letteratura franco-italiana (o francoveneta) indica
quel complesso di opere, prevalentemente cavalleresche, scritte nei secoli XIII e inizio XIV nella bassa
valle del Po, in una lingua che gli autori credevano
francese, ma che in realtà risulta un ibrido di italiano
e francese. Carattere essenziale è la fusione delle due
tradizioni francesi, quella epica carolingia con quella
amorosa di eredità bretone.
Fra le opere più importanti ricordiamo un gruppo di
poemi carolingi (su Buona d’Antona, su Berta, madre
di Carlomagno, sul Carlomagno giovane, sugli amori
di Milone e Berta, sorella dell’imperatore), dovuti
probabilmente all’opera di un solo autore, e l’Entrée
de Spagne (poema di un padovano, continuato nel
Trecento da Niccolò da Verona, autore della Prise de
Pampelune).
La novellistica e Sacchetti
• Giovanni Sercambi
Il lucchese Giovanni Sercambi (1347-1424) è
noto per il Novelliero, una raccolta di 155 novelle
composte tra il 1374 e il 1385 ed esemplate sul
modello di Boccaccio. In un linguaggio ricco di
accenti parlati e di coloriture dialettali l’opera
fornisce “essempli” utili all’uomo di governo, ricorrendo anche a motivi spregiudicati e scurrili, che
anticipano il gusto della facezia del Quattrocento.
Fra le altre opere, sempre riconducibili a un impegno civile, si ricordano Croniche delle cose di
Lucca dal 1164 al 1424 (pubblicate postume nel
1892).
• Franco Sacchetti
• La vita e le opere minori
• Il “Trecentonovelle”
Figlio di un mercante fiorentino, Franco Sacchetti
(circa 1330-1400) è l’altro grande narratore del
Trecento dopo Boccaccio. Esercitò la mercanzia e
partecipò alla vita politica di Firenze. In seguito alla
peste del 1374 maturò una crisi morale, acuita da
due avvenimenti: il tumulto dei Ciompi del 1378
(un evento sconvolgente per la sua concezione
moderatamente conservatrice) e la condanna per
alto tradimento del fratello Giannozzo nel 1379. La
prima opera di Sacchetti è il poemetto in ottave
La battaglia delle belle donne di Firenze con le
vecchie (1563), composto in onore delle nozze di
Maria Felice Strozzi. Sul modello della Caccia di
Diana di Boccaccio, il tema giocoso del contrasto
tra la bella giovinezza e la turpe vecchiaia è inserito
nella struttura popolaresca di quattro cantari, maliziosamente rivisitati. Agli anni ’60 risalgono le
prime poesie del Libro delle rime. I versi più antichi utilizzano ora il linguaggio cortese ora quello
comico; in un gruppo di poesie per musica (madrigali, cacce, ballate) vengono sperimentati ritmi vivaci e cantabili, dando vita a deliziosi quadretti. Le
ultime liriche, che risentono della crisi del 1374, ab-
bandonano questo tono leggero e adottano un atteggiamento pedagogico, tipico della produzione in
prosa dell’autore.
L’intenzione etica è anche alla base del capolavoro
di Sacchetti, il Trecentonovelle, raccolta composta
tra il 1392 e il 1396-97, di cui ci sono giunte solo
223 novelle. Pur richiamandosi al modello del Decameron, l’opera è priva di cornice e presenta un
tono di conversevole familiarità, che imprime alla
narrazione il carattere di un estroso vagabondaggio
della memoria. Con un linguaggio da “uomo discolo e grosso”, che rifugge i preziosismi letterari
e conferisce dignità artistica alla parlata quotidiana,
ogni novella mette in scena un brano di vita del
mondo borghese e popolare dell’epoca. La descrizione comico-realistica dei personaggi ha una
funzione esemplare di insegnamento e di ammonizione, che giustifica la ragione artistica delle
“moralità”, cioè delle considerazioni morali dei
fatti narrati, poste a suggello di ciascuna novella.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LIRICA
La lirica è tutta centrata sull’imitazione dello stilnovo. Sennuccio del Bene, lucido epigono dello stilnovismo; Matteo Frescobaldi con uno stilnovismo
semplice, anche se un po’ scontato; Antonio Beccari,
che trova una sintesi di elementi danteschi con tratti
della tradizione giullaresca.
Nei rimatori realisti, il realismo disordinato e ribelle
duecentesco si trasforma in un senso più ordinato
e borghese del vivere, che contiene in sé anche
un’esigenza moralistica (per esempio, Antonio
Pucci).
NOVELLISTICA
Giovanni Sercambi, con il suo Novelliero, è ricco
di coloriture e di accenti parlati. Il grande novelliere
Franco Sacchetti con il Trecentonovelle mostra
equilibrio e vivacità, ma anche un “buon senso” moralistico e borghese che non era presente in Boccaccio.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono le ragioni degli esiti minori della
lirica trecentesca, escluso Petrarca?
2. Qual è la differenza fra poeti realisti del Duecento e poeti realisti del Trecento?
3. Chi è l’autore del Novelliero?
4. Qual è il carattere della narrazione di Sacchetti?
IL QUATTROCENTO
Sul piano storico-politico il Quattrocento è segnato
dalla fine della guerra dei Cent’anni tra Francia e
Inghilterra
e dalla discesa del re di Francia Carlo VIII (1494) in
Italia;
l’intera penisola diventa terra di conquista per i potentati
europei. Nel 1492 la morte di Lorenzo il Magnifico
e la scoperta delle Americhe annunciano una nuova
era.
Si afferma compiutamente l’umanesimo. Il centro
della cultura umanistica è l’uomo nella sua vita attiva
nel mondo, non più la contemplazione e l’indagine
delle realtà ultraterrene proprie della visione della
Scolastica medievale. La riscoperta dei classici latini
e greci viene interpretata come una spinta
all’impegno
nelle funzioni civili per la costruzione di una società
nuova, non più feudale. Al criterio di verità fondato
sulla coerenza logico-formale proprio della Scolastica
l’umanesimo contrappone la ricerca storico-filologica,
la retorica, come uso persuasivo del discorso.
Rispetto al commento gli umanisti preferiscono il
lavoro
di traduzione, inteso come opera di conservazione
e di ripristino della civiltà antica.
L’umanesimo con Coluccio Salutati diventa il riferimento
essenziale della nuova letteratura: si scrive in
latino, si
studia con accanimento il greco. La letteratura
umanistica
non è più solo fiorentina, cioè non è solo quella di
Valla,
Bruni, Bracciolini, diventa anche veneziana, estense,
milanese e poi napoletana. A metà secolo si sviluppa
la letteratura in volgare: la corte medicea di
Lorenzo
il Magnifico ospita Pulci, Poliziano; Boiardo scrive
il suo Orlando innamorato e Sannazaro, a Napoli,
il capolavoro di fine secolo, l’Arcadia.
1 L'UMANESIMO
La cultura umanistica è caratterizzata innanzitutto dalla
riscoperta dei testi latini e greci e dalla conseguente riaffermazione dell’autonomia dei valori del mondo classico. Il concreto lavoro filologico risveglia un particolare
spirito critico, che da una parte si esercita sulla tradizione
della Scolastica medievale, dall’altra afferma i doveri
politici della cultura. Viene rivalutata l’importanza
dell’uomo nella sua vita attiva nel mondo in contrasto
con una visione principalmente contemplativa del divino e
del sovrannaturale.
Il preumanesimo
•
•
•
•
Gli “studia humanitatis”
I classici nel Medioevo
L’impulso di Petrarca
Il contributo di Boccaccio
Il termine umanesimo deriva dall’espressione studia humanitatis (studi relativi all’umanità), che
nell’antichità classica designava un’educazione
mirante alla formazione complessiva dell’individuo
attraverso studi letterari e filosofici. Durante i
secoli del Medioevo la cultura degli antichi romani, sempre molto ammirati, era stata di fatto
omologata e resa subalterna a quella cristiana.
Già all’inizio del Trecento tra uomini di cultura appartenenti per lo più all’ambiente dell’università di
Padova era sorto un interesse differente e più specifico per l’età classica. A dare un impulso decisivo agli studi umanistici fu tuttavia Petrarca sia
con la sua opera latina (in maniera particolare il
De viris illustribus e l’Africa), sia con l’attività di
scopritore di opere classiche perdute (tra le altre,
trovò l’orazione Pro Archia e le lettere di Cicerone)
e di filologo. Il suo prestigio culturale contribuì
notevolmente all’affermazione della nuova cultura,
a cui diede un importante contributo anche Giovanni Boccaccio, che introdusse a Firenze lo studio
del greco e contribuì a formare una generazione di
giovani intellettuali toscani.
• L’umanesimo civile di Salutati
• Il valore civile della cultura classica
La prima figura di rilievo in senso umanistico è
quella di Coluccio Salutati (1331-1406), cancelliere di Firenze per più di trent’anni, tenace sostenitore dell’alto valore civile della cultura classica.
Compose vari trattati: il De saeculo et religione
(Il mondo e la religione, 1381); il De fato, fortuna et casu (Il fato, la fortuna e il caso, 1396-99); il
De nobilitate legum et medicinae (La nobiltà delle
leggi e della medicina, 1399); il De tyranno (Il tiranno, 1400), dove esalta l’impegno civile contro
l’ascetismo. Notevole il suo epistolario, in cui si
intravede la grande rete di interessi e di rapporti fra
Salutati e i suoi contemporanei.
LO SVILUPPO DEGLI STUDI GRECI
Nel Quattrocento gli studi greci vivono una particolare rinascita, che di per sé ha un valore culturale significativo. In effetti la cultura greca significava una
forte apertura a un platonismo irrequieto e quindi
una scelta opposta a quella della teologia medievale.
Fu Salutati a stimolare la presenza a Firenze di
maestri greci: il bizantino Manuele Crisolora arrivò nel 1396 nello Studio fiorentino per insegnare
il greco. Sono tradotti soprattutto Platone e Plutarco,
ma anche Omero e i tragici. Crisolora andò anche
in Lombardia, lasciando una grande impronta culturale. Oltre le lezioni del Crisolora non si devono
dimenticare altri due elementi storici essenziali per
comprendere questa rinascita del greco: il concilio di
Ferrara-Firenze per la riunione temporanea della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa (1438-1443); il
nuovo afflusso di maestri greci dopo la conquista di
Costantinopoli da parte dei turchi (1453). Una figura
importante è il bizantino Giorgio di Trebisonda
(1395-1486), il quale polemizzò con quelle
traduzioni umanistiche che spesso, in nome della
forma, arrivavano a sovvertire il periodo e i concetti.
Altra figura di rilievo è il bizantino Giorgio Gemisto
(1360-1450), che assunse lo pseudonimo di Pletone;
con Gemisto Pletone nasce il neoplatonismo
fiorentino, capace di recuperare argomenti iniziatici
della filosofia gnostica ed ermetica (gli Oracoli caldaici, Zoroastro, Ermete Trismegisto) e il grande pensiero platonico (da Platone al neoplatonismo di
Plotino e Proclo), che troverà la sua migliore sintesi
in Ficino. Il cardinal Bessarione (1403-1472) non
solo si impegnò per la riunificazione delle due Chiese, ma anche per la raccolta di una grande e utile
biblioteca di autori greci.
L’umanesimo filologico e filosofico
•
•
•
•
•
Il ritrovamento di opere classiche
Leonardo Bruni
Francesco Filelfo
Flavio Biondo
Vittorino da Feltre
L’interesse per i classici favorì una ricerca, svolta
con intensità crescente e coronata da grandi successi, dei testi di opere antiche, andate smarrite
o del tutto dimenticate durante il Medioevo. Tali
ritrovamenti permisero una maggiore conoscenza
della lingua latina, che tornò a essere – almeno
nella prima metà del Quattrocento – praticamente
l’unica lingua di uso letterario, ma soprattutto fecero comprendere la grande distanza tra il latino
classico e il latino medievale e constatare lo stato
di degrado in cui molte volte erano stati ridotti
i testi del passato. Si impose così la necessità di
definire e mettere in atto strumenti e strategie per
restituire correttezza e completezza ai testi ritrovati.
Da questa esigenza nacque la filologia umanistica,
che operava basandosi soprattutto sugli aspetti
storici e letterari e sulla sensibilità del filologo,
conoscitore competente di un’infinità di testi. Le
figure più rappresentative della prima generazione
furono certamente Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.
Leonardo Bruni (1370-1444) studiò a Firenze con
Coluccio Salutati; si formò in un ambiente domin-
ato dalla cultura neoplatonica ed entrò in contatto
con N. Niccoli, P. Bracciolini e Cosimo de’ Medici.
Il suo impegno di traduttore dal greco durò per
larga parte della sua vita. Platone (Fedone, Gorgia,
Apologia, Critone, Simposio), Aristotele (Etica
Nicomachea ecc.), Plutarco, Senofonte, san Basilio,
Omero e Demostene furono tra gli autori di cui si
occupò. Nel 1405, grazie ai buoni uffici di Salutati,
divenne funzionario presso la corte papale di Innocenzo VII. Tornato a Firenze nel 1427, chiuse
la sua carriera come cancelliere della Repubblica
Fiorentina. L’opera più nota è costituita dalle Historiae Florentini populi, iniziate nel 1414 e concluse con il Rerum suo tempore in Italia gestarum
commentarius (Commentari sugli avvenimenti del
suo tempo in Italia, 1440). Nelle Vite di Dante e
Petrarca (1436) riconobbe l’importanza del volgare e la validità del suo uso letterario e per primo
attribuì a Petrarca il merito di aver aperto la stagione umanistica.
Interessante, anche per la ricchezza quantitativa
della sua produzione, il lavoro di Francesco Filelfo
(1398-1481) che nel 1427 ebbe dal Comune di
Firenze l’incarico di commentare pubblicamente
la Commedia di Dante; giunto al canto VII dell’Inferno fu costretto a lasciare la città per il suo atteggiamento antimediceo. Rientrò a Firenze nel 1469
e ottenne nel 1481 la cattedra di greco; quindici
giorni dopo la nomina morì. Scrisse diverse opere
di poesia latina, tra cui le Satyrae (1448); le Odae
(1498, postumo); i Convivia mediolanensia (1449).
Notevole è anche il lavoro di Flavio Biondo
(1392-1463). Visse tra la città natale, Forlì, e Bergamo; dal 1434 lavorò alla Curia romana. Il suo capolavoro sono le Historiarum ab inclinatione Romanorum decades (1439), in cui si evidenzia la
necessità di studiare la storia come un fenomeno
complesso, linguistico, civile e culturale.
Chi più sentì la relazione fra lo studio dei classici
e l’educazione fu Vittorino da Feltre (1373-1446),
il fondatore della “Ca’ zoiosa” a Mantova. Non lasciò opere; fu l’insegnante per eccellenza, un vero
e proprio mito della pedagogia umanistica; di lui esistono innumerevoli ritratti scritti da vari umanisti
del tempo.
• Poggio Bracciolini
• Le “Facezie”
Anche Poggio Bracciolini (1380-1459) studiò con
Coluccio Salutati a Firenze. Nel 1403 si recò a
Roma, dove divenne segretario apostolico. In
questa veste partecipò al concilio di Costanza
(1414-18) con l’antipapa Giovanni XXIII. Frequenti viaggi in Francia, Svizzera e Germania gli
permisero di visitare importanti biblioteche monastiche alla ricerca di codici antichi. Scoprì così, tra
gli altri, i manoscritti di molte orazioni di Cicerone, le Institutiones oratoriae di Quintiliano, il
De rerum natura di Lucrezio. Dal 1418 al 1422
visse in Inghilterra e poi fino al 1453 a Roma.
Scrisse numerosi trattati in forma di dialogo: fra essi si segnala per il suo tono pessimistico il De infelicitate principum (L’infelicità dei principi, 1440).
Compose poi una Historia Florentina (1454-59),
opera di grande erudizione in cui vengono narrati
gli eventi di Firenze dalla prima guerra con Gio-
vanni Visconti (1350) sino alla pace di Lodi (1455).
Avverso all’uso letterario del volgare, Bracciolini
utilizzò nelle sue opere sempre il latino, anche per
le Facezie (il Liber facetiarum, Libro delle facezie),
che raccoglie una nutrita serie di aneddoti e brevi
novelle composte tra il 1438 e il 1452. Le Facezie,
che prendono generalmente a pretesto un motto arguto, esaltano la nuova civiltà umanistica, ponendo
al centro “morale” delle loro narrazioni l’abilità,
la cultura e l’impegno dell’uomo civile, consapevole dei propri diritti.
• Leon Battista Alberti
• Il trattato “Della famiglia”
• I trattati sull’architettura e la pittura
Leon Battista Alberti (1404-1472), che fu sommo
architetto (suoi sono la facciata di Santa Maria
Novella a Firenze e il Tempio Malatestiano di
Rimini), letterato, matematico e teorico delle arti
visive, è forse, assieme a Leonardo da Vinci, la
figura
più
versatile
e
rappresentativa
dell’umanesimo italiano. Il suo capolavoro letterario rimane il trattato in quattro libri Della famiglia
(1433-41). Scritto in forma dialogica e ambientato
a Padova al capezzale del padre morente, il testo
svolge i temi della felicità, dell’educazione, del
matrimonio e delle proprietà domestiche. Basi
per il raggiungimento della vita perfetta sono il
tempo (da sfruttarsi anche in senso economico al
meglio) e la famiglia, cellula prima di ogni armonia
sociale. Nel proemio al terzo libro Alberti sostiene
che il volgare è giunto a un tale grado di eccellenza da poter ormai competere con il latino. Il
modello di educazione teorizzato nel trattato rimanda al concetto umanistico di “rinascita”: l’uomo,
al centro dell’universo, è chiamato a costruire se
stesso con l’aiuto dell’esperienza diretta, con
l’ingegno e con la rielaborazione culturale del
sapere. Raccolti intorno al 1440, gli Intercoenales
sono brevi dialoghi satirici in latino scritti sul
modello di Luciano e aventi come oggetto i più
svariati temi morali. I cento Apologhi in latino
scritti nel 1437 sono brevi aforismi o apologhi di
carattere filosofico. Il satirico Momus, un’opera
latina scritta prima del 1450, è incentrato
sull’analisi del potere politico e condanna le ingiustizie del mondo. La Grammatichetta vaticana è
una delle prime grammatiche volgari e dimostra
l’intento di Alberti di promuovere e valorizzare il
volgare anche come lingua letteraria. I sonetti in
corrispondenza con Burchiello, le Rime (frottole,
egloghe, elegie ecc.) e i dialoghi Deifna e Ecatonfilea appartengono all’importante produzione poetica in volgare. Con ogni probabilità, scrivendo
Tirsis, fu anche l’iniziatore dell’egloga volgare
quattrocentesca.
Rilievo fondamentale hanno i suoi trattati sull’arte:
Sulla pittura (1436) e De re aedificatoria
(Dell’architettura, 1443-45). Essi sono incentrati
sul concetto di “misura”, attraverso cui l’uomo è
capace sia di definire con semplicità la simmetria
e le proporzioni tra sé e la natura, sia di progettare
una
nuova
convivenza
civile
basata
sull’equilibrio,
interiore
ed
esterno,
e
sull’imitazione dell’armonia della creazione divina.
La lezione umanistica di Lorenzo
Valla e di Enea Silvio Piccolomini
Lorenzo Valla ed Enea Silvio Piccolomini sono figure esemplari del nostro umanesimo: Valla con il
suo rigore filologico smascherò i fondamenti documentari del potere temporale dei papi; Piccolomini
fu letterato di vastissima erudizione e grande papa
mecenate (con il nome di Pio II).
• Lorenzo Valla
• La vita
• I dialoghi sul senso del bene e della libertà
• La dimostrazione della falsità della donazione di
Costantino
• Il capolavoro: gli “Elegantiae latinae linguae”
Appartenente a una famiglia romana di funzionari
curiali, Lorenzo Valla (1407-1457) fu avviato agli
studi umanistici da G. Aurispa e Rinuccio di
Castiglion fiorentino. Ottenne la cattedra di retorica all’università di Pavia (1430), dove perseguì
con rigore la ricerca filologica. Nel 1433 si oppose
alla scuola dei glossatori dell’ateneo con un libello
in nome di una moderna scienza giuridica; la polemica lo obbligò ad abbandonare Pavia per riparare a Milano e a Firenze. Nel 1435 entrò alla
corte del re d’Aragona e di Sicilia Alfonso V.
Nel 1448 tornò a Roma come segretario apostolico
di papa Niccolò V. I caratteri distintivi dell’ampia
produzione di Valla sono l’uso della filologia come
strumento di conoscenza e l’opposizione a ogni
principio di autorità acriticamente accettato in
favore della libertà di ricerca.
I dialoghi De vero falsoque bono (Il vero e il
falso bene, ed. definitiva 1431), De libero arbitrio
(1439), De professione religiosorum (I voti dei religiosi, 1439), cercano di ristabilire il senso del
vero bene, della reale libertà e della sincera perfezione evangelica oscurati dai filosofi. Un tentativo di semplificare il linguaggio filosofico improntato alla logica di Aristotele, allora imperante,
fu condotto nelle Dialecticae disputationes (1439).
Per sostenere Alfonso d’Aragona in lotta con Roma
per l’investitura del regno di Napoli scrisse il
celebre De falso credita et ementita Constantini
donatione (Della falsamente creduta e inventata
donazione di Costantino, 1440), che dimostra su
basi filologiche la falsità del documento della
donazione di Costantino a papa Silvestro, che
stava alla base del potere temporale della Chiesa.
Su diretta commissione di Alfonso V scrisse gli
Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri tres
(1445-47), ricchi di informazioni e vivaci nella narrazione. Convinto che il benessere dell’uomo e
della civiltà dipendessero dalla trasparenza e dalla
univocità della comunicazione, si batté per il ripristino della lingua latina nel suo capolavoro, gli
Elegantiae latinae linguae (Le eleganze della lingua latina, 1444), iniziato sin dal 1435: attraverso
un esemplare studio filologico, viene condotta
un’organica trattazione degli aspetti linguistici
del latino, ricondotto al modello di Cicerone contro
le deformazioni introdotte dai grammatici medievali. Nel 1449 applicò gli agguerriti strumenti della
nuova filologia al testo evangelico nelle Adnota-
tiones in Novum Testamentum, aprendo la strada
agli studi sul Vangelo di Erasmo da Rotterdam.
• Piccolomini, il papa umanista
• Pienza, modello di città ideale
• La produzione letteraria
• L’autobiografia
Enea Silvio Piccolomini (1405-1464) fu papa con
il nome di Pio II. Fine umanista, si mise in luce
come segretario del cardinale Capranica al concilio
di Basilea, sostenendo le tesi conciliaristiche (superiorità del concilio sul papa) nel De gestis
Basileensis concilii (I fatti del concilio di Basilea,
1440). Si dedicò a lavori eruditi e alla letteratura,
ottenendo nel 1444 la corona poetica. Intrapresa la
carriera ecclesiastica, divenne vescovo di Trieste
nel 1447 e nel 1450 di Siena. In questo periodo
ritrattò le posizioni conciliariste, facendosi sostenitore del primato dell’autorità assoluta del papa nel
De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto con-
cilio (Gli avvenimenti di Basilea durante e dopo il
concilio, 1450). Fu eletto pontefice nel 1458. Fu un
grande mecenate e cercò di realizzare il sogno
umanistico della città ideale, a misura d’uomo,
promuovendo la riqualificazione urbanistica del
suo borgo natio, Corsignano, oggi Pienza. I lavori
furono affidati dal 1460 all’architetto Bernardo
Rossellino. Morì durante i preparativi per una crociata contro i turchi che egli stesso aveva bandito
e si apprestava a condurre dopo aver inviato senza
frutto una lettera al sultano Maometto II per indurlo
alla conversione (Epistola ad Mahometem, 1460).
La sua produzione letteraria è composita e in
gran parte precedente la sua carriera ecclesiastica. Affrontò tematiche galanti nella raccolta di
liriche d’amore in latino Cinthia e nella commedia Chrysis (1444), ispirata ai modi di Plauto.
Grande fama ebbe il romanzo De duobus amantibus (I due amanti, 1444) per la fine resa psicologica
dei personaggi, per la freschezza della narrazione
e la limpidezza del linguaggio. Oltre agli scritti
riguardanti il concilio di Basilea, compose anche
un trattato geografico noto come Cosmographia
(1461), rimasto incompiuto, e un’opera di grande
erudizione, articolata in tre parti: sui Germani,
sull’Europa e sull’Asia. Durante gli anni di pontificato attese anche alla stesura dei 12 libri
dell’autobiografia (Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, Commentari agli avvenimenti notevoli accaduti ai suoi
tempi), che arriva fino al 1563; scritta in uno stile
elegante e raffinato, offre uno spaccato di grande
interesse delle vicende politiche ed ecclesiastiche
del tempo.
Umanesimo neoplatonico: Ficino e
Pico della Mirandola
• Marsilio Ficino
• Giovanni Pico della Mirandola
Intorno alla metà del secolo la diffusione del platonismo trova un’altissima sintesi culturale con
l’opera di Marsilio Ficino (1433-1499), che fondò
l’Accademia fiorentina (1462) e tradusse tutto
Platone (1484). Nelle opere De voluptate (Il piacere, 1457), De religione christiana (1474),
Theologia platonica (1482), De vita (1489) elaborò
una filosofia al centro della quale mise l’anima,
principio generatore dell’universo. Il suo umanesimo imperniato su una ripresa del platonismo e
del neoplatonismo influenzò grandemente la cultura rinascimentale, contribuendo alla definizione
di una moderna idea di persona e di amore.
Altra figura importante è Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), alla costante ricerca della concordia di tutte le filosofie e di tutte le religioni,
in special modo della cabbalà (la corrente mistica
dell’ebraismo), con la rivelazione cristiana, e autore
della celebre orazione De dignitate hominis (La
dignità dell’uomo, 1486), sintesi di grande pregio
del pensiero umanistico ed espressione mirabile
della fiducia del valore e della grandezza
dell’uomo, a cui Dio ha dato la facoltà di essere
artefice del proprio destino, facendolo superiore
agli stessi angeli.
SCHEMA RIASSUNTIVO
UMANESIMO
Attraverso la valorizzazione della civiltà greco-latina,
viene rivalutata l’importanza dell’uomo nel suo agire
nel mondo per la costruzione di nuovi modelli di società, in contrasto con una visione del mondo rinviante soltanto all’ultraterreno.
Salutati
La prima figura di rilievo è quella di Coluccio
Salutati, cancelliere di Firenze per più di trent’anni,
tenace sostenitore dell’alto valore civile della cultura
classica.
UMANISTI
Leonardo Bruni
Nelle Vite di Dante e Petrarca (1436) riconosce
l’importanza del volgare e la validità del suo uso letterario.
Poggio Bracciolini
Le Facezie esaltano la nuova civiltà umanistica ponendo al centro “morale” delle loro narrazioni l’abilità,
la cultura e l’impegno dell’uomo civile.
Vittorino da Feltre
È il modello dell’insegnante umanista.
Leon Battista Alberti
L’uomo, al centro dell’universo, è chiamato a costruire se stesso con l’esperienza diretta, con l’ingegno e
con la rielaborazione del sapere.
Valla e Piccolomini
Lorenzo Valla (che dimostra la falsità della donazione
di Costantino) ed Enea Silvio Piccolomini (grande
papa mecenate con il nome di Pio II) risultano personalità emblematiche del nostro umanesimo sia per
gusto letterario sia per ricerca filologica.
NEOPLATONISMO FIORENTINO
Marsilio Ficino
Ficino reinserisce nella tradizione cristiana il grande
filone del pensiero platonico e neoplatonico.
Pico della Mirandola
Rivendica la dignità dell’uomo, fatto da Dio artefice
del proprio destino e superiore agli stessi angeli.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è l’elemento centrale della cultura umanistica?
2. Come può essere definito l’umanesimo di
Salutati?
3. Qual è il lavoro più importante di Bracciolini?
4. Che cosa significa “misura” per Leon Battista
Alberti?
5. Qual è la ricerca filologica più famosa di
Valla?
2 LA LETTERATURA
UMANISTICA ALLA
CORTE DEI MEDICI:
LORENZO IL MAGNIFICO,
POLIZIANO, PULCI
Grazie allo straordinario prestigio culturale acquisito nei
secc. XIII e XIV, Firenze è stata fin dall’inizio della civiltà
umanistica il centro supremo degli studi, la patria o il
luogo di riferimento dei maggiori esponenti di tutte le arti.
Il signore di Firenze, Lorenzo il Magnifico, fu il simbolo di questa corrente umanistica, caratterizzata dal mecenatismo signorile, da una grande libertà intellettuale,
da un gusto aristocratico per la bellezza, da un vivo interesse a raccordare gli ideali classici con la tradizione
comunale fiorentina, tanto che proprio in ambito mediceo
si ebbe una decisiva rinascita della lirica in volgare ad
opera dello stesso Lorenzo, di Luigi Pulci e di Agnolo
Poliziano.
La letteratura umanistica in volgare
• Il Burchiello
La letteratura umanistica in volgare nasce da una
lingua attenta al modello toscano stilnovistico e
petrarchesco, ma soprattutto attratta da una forma
che vuole essere concreta e reale, aperta a sperimentazioni espressive.
Domenico di Giovanni detto Burchiello
(1404-1449) è forse il primo esempio di questa
nuova vivacità poetica. Nato poverissimo, condusse
una vita sregolata e nella più profonda indigenza.
La “burchia” era un piccolo battello da carico in cui
le merci venivano disposte alla rinfusa. Burchiello
si guadagnò il suo pseudonimo per l’accumulazione
caotica e bizzarra di immagini, presenti nella sua
poesia satirica e antiletteraria. I sonetti caudati che
compongono le sue Rime (1757, postumo) sono
infatti caratterizzati da uno sperimentalismo
comico-giocoso in cui parole e immagini ven-
gono giustapposte senza nesso logico, seguendo
un criterio parodistico. Queste rime diedero origine
a una caratteristica maniera poetica detta “burchiellesca”.
Dal 1469, quando sale al potere Lorenzo de’
Medici, fino alla sua morte (1492) si sviluppa attorno alla corte medicea la più alta forma di
umanesimo italiano. Lorenzo, Poliziano, Ficino,
Pico della Mirandola e, in tono popolaresco, Pulci
sono i grandi protagonisti di questa epoca aurea.
Lorenzo il Magnifico
• Le linee della sua politica
• La produzione letteraria
• Una poesia venata di malinconia
Lorenzo de’ Medici (1449-1492), detto il Magnifico, governò Firenze dal 1469, garantendo il
rispetto formale delle istituzioni comunali democratiche, anche se di fatto le esautorò, accentrando
in sé tutto il potere. In politica estera, praticò una
strategia di alleanze, che lo portò a essere il perno
dell’equilibrio venutosi a costituire fra gli stati
d’Italia. Per quanto riguarda la sua produzione letteraria, al periodo giovanile risalgono la Nencia da
Barberino (1473), gustoso idillio rusticano in cui
il poeta si finge pastore e loda con la fresca immediatezza di un popolano le bellezze della sua
donna, e i poemetti L’uccellagione di Starne (anche
Caccia col falcone) e Il simposio, caricatura dei
più noti bevitori fiorentini, di tono comico-realistico sul modello di Pulci. In seguito si fece più
viva l’adesione alle teorie neoplatoniche sostenute da Marsilio Ficino: l’Altercazione (1473-74) è
un dialogo filosofico con lo stesso Ficino circa il
sommo bene. Del 1483-84 è un Comento in prosa
e in poesia (41 sonetti) che narra con freschezza di
notazioni psicologiche una storia d’amore sul modello della Vita nuova di Dante. Posteriori al 1486
sono i due poemi idillici Ambra e Corinto e i due
libri di strambotti delle Selve d’amore, che rileggono lo stesso tema in toni più intimi e sofferti,
venati di malinconia. La stessa atmosfera di malin-
conia si ritrova nelle opere della maturità, come le
Canzoni a ballo e i Canti carnascialeschi, fra i
quali è il notissimo Trionfo di Bacco e Arianna
che esprime la fugacità della vita. Scrisse anche
opere di argomento religioso, quali la Rappresentazione di san Giovanni e di san Paolo (1491) e
nove Laudi.
Agnolo Poliziano
Nel circolo mediceo fu Agnolo Ambrogini
(1454-1494), detto il Poliziano, a realizzare una
fondamentale sintesi tra la cultura classica e la
tradizione volgare fiorentina di Dante, Petrarca
e Boccaccio.
• La vita e le opere
• Precettore dei figli di Lorenzo il Magnifico
• Gli studi filologici e la produzione in latino
• Le canzoni a ballo
Da Montepulciano si trasferì nel 1469 a Firenze,
ove ebbe come maestri alcuni tra i più bei nomi
della cultura umanistica: Cristoforo Landino, Giovanni Argiropulo e Marsilio Ficino. Entrò nella
cancelleria privata dei Medici, ottenendo a ventun
anni l’incarico di precettore dei figli di Lorenzo,
Piero e Giovanni, il futuro papa Leone X. In questi
stessi anni intraprese la carriera ecclesiastica e nel
1477 divenne priore della Collegiata di San Paolo.
Frattanto iniziò a comporre Le stanze per la giostra
per la vittoria di Giuliano de’ Medici alla grande
giostra cavalleresca tenutasi a Firenze nel 1475,
e interrotte probabilmente attorno al 1478, quando
Giuliano fu ucciso sotto i suoi occhi, vittima della
congiura dei Pazzi. A essa, e alla dura repressione
esercitata da Lorenzo per rafforzare il proprio
potere, Poliziano dedicò una breve opera in latino,
Commentario della congiura dei Pazzi (1478),
esplicita apologia del potere mediceo. A questo
periodo appartiene probabilmente anche la raccolta
dei Detti piacevoli. Verso la fine del 1479, forse per
contrasti con la moglie di Lorenzo, Clarice Orsini,
Poliziano si allontanò da Firenze e dimorò a
Venezia, Padova e Mantova. In quei mesi scrisse
e fece rappresentare la Fabula di Orfeo, uno dei
primi testi teatrali di argomento classico in volgare.
Nel 1480, ritrovato il pieno accordo con i suoi protettori, tornò a Firenze e si dedicò completamente
agli studi classici, trascurando la produzione poetica in volgare a favore della poesia latina, soprattutto epigrammi ed elegie (celebri quelle In violas,
e In Albieram Albitiam, per la morte di una quindicenne), e dell’impegno filologico. Sono testimonianza della sua attività di questi anni i poemetti
in esametri latini inclusi nelle prolusioni accademiche: Manto (1482); Rusticus (1483); Ambra
(1485) e Nutricia (1486), di contenuto teorico e
metodologico. La sua ricerca filologica (raccolta
nei Miscellanea, 1489) dette frutti di importanza
decisiva; notevoli anche i suoi apporti
all’interpretazione di Aristotele e i giudizi letterari
di cui sono piene le Epistole (1494). Celebri sono
rimaste le sue canzoni a ballo in volgare (fra
tutte, I’mi trovai, fanciulle e Ben venga maggio e
il gonfalon selvaggio), che traducono in un lin-
guaggio di grande misura una gioiosa cantabilità
popolaresca.
• Le “Stanze per la giostra” e la “Fabula
d’Orfeo”
•
•
•
•
•
L’argomento delle “Stanze per la giostra”
L’ottava del Poliziano
La lingua
La “Fabula di Orfeo”
La nascita del dramma pastorale
Scritte in ottave e interrotte poco dopo l’inizio del
secondo libro, le Stanze per la giostra furono pubblicate solo nel 1494. Le prime strofe sono dedicate
alla glorificazione di Firenze e di Lorenzo (Lauro),
nuovo protettore delle arti e della poesia; segue
la comparsa della figura di Iulo (Giuliano), la cui
giovinezza rude e selvatica è trascorsa nei piaceri
della caccia e nel disprezzo per l’amore. Ma un
giorno, durante una caccia, egli diviene preda di
Cupido, s’innamora e inizia così la sua formazione
di uomo sensibile ai valori di amore e della gloria.
Il secondo libro si apre con la celebrazione di
Lorenzo, poeta e innamorato; a Iulo viene ordinato
in sogno di conquistare la donna amata, dimostrando il proprio valore nelle armi. Qui si interrompe il poema, la cui importanza, al di là della
trama, abbastanza fragile, consiste nella creazione
di una dimensione in cui si rapportano in perfetto
equilibrio la potenza illuminata dalla cultura e
la bellezza che suscita l’amore. Questo mondo
ideale ha come contesto una natura splendente,
ancora incontaminata: una rappresentazione tutta
terrena, ma non per questo meno affascinante, del
mito del paradiso terrestre, in cui l’essere umano
può sentirsi perfettamente appagato. L’ottava di
origine popolare viene nobilitata attraverso una
raffinata eleganza di intarsi letterari, derivati sia
dalla tradizione della poesia lirica volgare, sia
dall’attenzione filologica alla produzione classica,
trattata e tradotta con grande maestria, mentre la
lingua è costituita da una preziosa rielaborazione
e fusione della tradizione fiorentina degli ultimi
due secoli, senza cedimenti alla tentazione di passive imitazioni.
Elaborata sullo schema delle sacre rappresentazioni, la Fabula d’Orfeo ha come contenuto il
mito del poeta e musico Orfeo, che grazie alla
sua arte divina riesce a commuovere e vincere
la morte, ottenendo dal re degli Inferi Plutone la
restituzione della sposa Euridice. Non sapendo però
resistere all’umanissimo desiderio di rivolgere lo
sguardo all’amata lungo il cammino che li riporta
sulla terra, la perde per sempre. Poliziano come pochi altri credette nel valore assoluto della poesia
portatrice di valori eterni di bellezza e di armonia; ma allo stesso tempo sentì, specialmente dopo
il 1480, il senso della fugacità della vita, del rapido
tramonto della giovinezza, la fine inevitabile di un
sogno. Dal punto di vista teatrale la Fabula riveste
una notevole importanza perché segna la nascita
del dramma pastorale, che avrà un grande sviluppo nel corso del Cinquecento.
Luigi Pulci
• L’amicizia con Lorenzo il Magnifico
• La “Beca da Dicomano”
• Il raffreddamento dell’amicizia con Lorenzo
Luigi Pulci (1432-1484), erede della tradizione
burlesca e popolana della cultura fiorentina, fu
figura dissonante nel clima raffinato e neoplatonico
della corte medicea. Nel 1461, grazie alla protezione di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo
il Magnifico, riuscì a entrare nella cerchia medicea
con l’incarico di scrivere il suo capolavoro, il Morgante, la cui composizione lo occupò fino alla
morte. Iniziò un periodo di grande amicizia tra il
poeta e il signore di Firenze, che lo soccorse più
volte quando si trovò in difficoltà economiche. Dal
1466 iniziò un periodo molto positivo della sua
vita: scrisse la favola villereccia Beca da
Dicomano (in parodia della Nencia di Barberino
di Lorenzo); ebbe l’incarico di celebrare la giostra
vinta da Lorenzo nel 1469; lo accompagnò nel 1471
in un’importante missione diplomatica a Napoli
presso la corte aragonese; prese in moglie nel 1473
Lucrezia degli Albrizi. In questi anni ebbe inizio
anche un aspro contrasto con Matteo Franco, un
sacerdote amico di Marsilio Ficino e molto influente nella corte medicea, che si concretizzò in una
serie di sonetti pungenti, in cui Pulci ironizzò in
maniera aperta anche su argomenti teologici di
grande rilevanza come l’immortalità dell’anima.
Per questi motivi l’amicizia di Lorenzo si andò
raffreddando e Pulci preferì allontanarsi sempre
più spesso da Firenze. Nel 1478 apparve probabilmente la prima edizione, ancora ampiamente incompleta, del Morgante; la seconda edizione, in 23
cantari (canti) costituiti da ottave, uscì a Firenze
nel 1481, mentre l’edizione definitiva in 28 cantari
fu pubblicata con il titolo di Morgante maggiore
nel 1483. Nella parte finale è contenuto un duro
attacco contro un frate, probabilmente Savonarola,
che aveva condannato pubblicamente Pulci per i
suoi scritti sacrileghi. Nel 1484, convinto
dall’agostiniano Mariano da Gennazano, Pulci fece
pubblica ammenda in un’opera in terzine dal titolo
Confessione, che valse a calmare le polemiche e
rese realizzabile il progetto di un ritorno a Firenze.
Ma Pulci morì improvvisamente a Padova e fu
sepolto come eretico in terra sconsacrata.
• Il “Morgante”
• La trama
• Morgante e Margutte, protagonisti dell’eccesso
• Lo stile di Pulci
Se già nelle opere minori (in particolare nei Sonetti
e nella Beca da Dicomano) Pulci dà prova di una
fantasia sbrigliata e di un gusto per la bizzarria
e per la parodia di tutto ciò che è ritenuto intangibile, il culmine di tale atteggiamento culturale
è raggiunto nel poema Morgante, che capovolge
tutti i valori propri della materia epica
cavalleresca. Già la trama, versione grottesca delle
narrazioni tipiche delle canzoni di gesta, ha uno sviluppo inconsueto: si narra infatti che Orlando, colpito dalle calunnie di Gano e seccato per il com-
portamento credulone di Carlo Magno, vecchio e
quasi rimbambito, parte per l’Oriente in cerca di
avventure. Ma la trama rivela poco delle caratteristiche del poema perché l’interesse dell’autore è
rivolto alla rappresentazione imprevedibile, volutamente eccessiva, di fatti inverosimili. Le figure in
cui si manifesta meglio l’estro del poeta sono quelle
del gigante Morgante e del mezzo-gigante Margutte. Morgante, armato del battaglio di una campana, è l’immagine stessa di ciò che è eccessivo
per la sproporzione tra l’immensa forza fisica e
la scarsa lucidità mentale. Margutte, invece, che
finirà per morire soffocato dalle proprie risate, è
la rappresentazione del capriccio della volontà e
della natura: è la parodia dell’ideale umanistico
di uomo artefice del proprio destino in un quadro
di armonica perfezione, conseguita attraverso un
percorso razionale. Ma Margutte è dotato di
un’astuzia invincibile, di un eccezionale gusto
per il male, che si realizza in una contromorale
fondata sul furto, l’imbroglio, i piaceri della gola,
e si manifesta in avventure caratterizzate da una
prodigiosa voracità e da sadica perfidia nei con-
fronti delle vittime. Lo stile di Pulci non si richiama all’uso colto del volgare toscano, ma
nemmeno si appiattisce sull’uso parlato e
popolareggiante; si rivolge al patrimonio di espressioni gergali proprie di settori marginali della
società (Pulci compose persino un Vocabolarietto
di lingua furbesca, che raccoglieva termini ed espressioni degli ambienti della malavita). Nei suoi
versi la parola tende sempre all’ambiguità e il
gioco generato dall’accostamento delle parole, dal
loro richiamarsi attraverso assonanze fonetiche, talvolta prende il sopravvento sullo sviluppo della
narrazione e impone svolte imprevedibili.
Gerolamo Savonarola
• La figura politica e religiosa
• Le “Prediche”
Alla fine del secolo campeggia drammaticamente
la figura del predicatore domenicano Gerolamo
Savonarola (1452-1498). Dopo la calata del re di
Francia Carlo VIII e la cacciata di Piero de’ Medici
(1494), Savonarola si fece ispiratore di una repubblica popolare. Savonarola riuscì a contenere
il radicalismo puritano dei “piagnoni” suoi seguaci,
ma non evitò, specie dopo le sue gravi accuse al
papa Alessandro VI e le denunce sull’immoralità
della
Chiesa,
l’attacco
dei
partigiani
dell’oligarchia (“arrabbiati”) e dei Medici (“palleschi”). Scomunicato e processato per eresia, Savonarola fu impiccato e le sue ceneri furono disperse in
Arno.
Ci restano molti scritti dottrinari (Compendium logicum, 1491; Compendio delle rivelazioni, 1495;
Epistola della sana e spirituale lezione, 1497; Trattato circa il reggimento del governo della città di
Firenze, 1498).
Ma il suo capolavoro sono le Prediche (raccolte
postume), in cui con un linguaggio drammaticamente intessuto di riferimenti biblici denuncia le
compromissioni mondane della Chiesa ed esprime
la sua speranza per il ritorno del cristianesimo
all’originario spirito evangelico. La sua figura affascinò una lunga schiera di uomini di cultura (Pico
della Mirandola, Guicciardini, Michelangelo e
molti umanisti).
SCHEMA RIASSUNTIVO
BURCHIELLO
I sonetti caudati delle sue Rime sono caratterizzati
da uno sperimentalismo comico- giocoso che giustappone parole e immagini senza alcun nesso logico.
LORENZO DE’ MEDICI
Grande mecenate e uomo di cultura, fece di Firenze il
centro della vita culturale, artistica e politica italiana;
la sua produzione si divide fra gli atteggiamenti concreti popolari-burchielleschi e l’adesione al pensiero
neoplatonico dell’Accademia fiorentina. Nelle Selve
d’amore e nei Canti carnascialeschi la sua poesia è
di vena malinconica.
POLIZIANO
I suoi capolavori sono la Fabula d’Orfeo e le Stanze
per la giostra. Poliziano come pochi altri credette nel
valore assoluto della poesia portatrice di valori eterni
di bellezza e di armonia; ma allo stesso tempo sentì
il senso della fugacità della vita, del rapido tramonto
della giovinezza, la fine inevitabile di un sogno.
PULCI
Il suo capolavoro, il poema eroicomico Morgante, è
la parodia dell’ideale umanistico di uomo artefice del
proprio destino in un quadro di armonica perfezione.
SAVONAROLA
Nella sua azione politica e nelle sue Prediche denuncia la corruzione della Chiesa e auspica il ritorno del
cristianesimo alla semplicità evangelica delle origini.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. In che cosa consiste la novità stilistica di
Burchiello?
2. Qual è l’opera più nota di Lorenzo il Magnifico?
3. Quali sono i due capolavori di Poliziano?
4. Per che cosa si caratterizzano le canzoni a
ballo di Poliziano?
5. In che cosa si differenziano i due protagonisti
del Morgante di Pulci?
6. Qual è la proposta religiosa di Savonarola?
3 LA LETTERATURA
UMANISTICA A FERRARA
E NAPOLI: BOIARDO E
SANNAZARO
Fuori dalla corte medicea l’umanesimo italiano si diffonde soprattutto a Venezia, Ferrara e Napoli. Offre altri
due esempi altissimi: il poema cavalleresco di Boiardo,
che opera presso la corte ferrarese degli Este, e la letteratura pastorale di Sannazaro, vero maestro della corte aragonese a Napoli.
La diffusione dell’umanesimo in
Italia
•
•
•
•
•
Milano e Ferrara
Venezia
La nascita della stampa
Urbino e Roma
Napoli
Nell’Italia settentrionale ebbero importanza la
corte di Milano, ove operarono i grandi artisti
fiorentini Bramante e Leonardo da Vinci e vissero
gli scrittori Antonio Loschi (1368-1440) e
Francesco Filelfo, e quella degli Estensi a Ferrara, resa illustre dalla presenza di poeti come Tito
Vespasiano Strozzi (1424-1505), Pasquale Collenuccio (1447-1492), autore di belle Rime
petrarchesche, Nicolò da Correggio (1450-1508),
che scrisse il dramma la Fabula di Cefalo (1487)
e soprattutto Matteo Maria Boiardo. Particolare importanza, soprattutto nelle arti, ebbe il contributo di
Venezia: in campo letterario non vanno dimenticati Francesco Barbaro (1390-1454), autore di un
interessante trattato De re uxoria (Sul matrimonio,
1416) sul matrimonio e l’educazione dei figli;
Leonardo Giustinian (1388-1446), dottissimo patrizio autore di orazioni in latino e di poesia lirica in
volgare (gli Strambotti, diffusi dal 1474). Venezia,
inoltre, fu il ponte naturale tra cultura greca e
civiltà latina e il primo centro editoriale italiano,
grazie a uno sviluppo rapido e di grande qualità
del nuovo strumento della stampa: il più presti-
gioso editore dell’epoca fu l’umanista veneziano
Aldo Manuzio (1450-1515). Un rilievo particolare
nel centro Italia ebbe la corte di Urbino, soprattutto sotto il duca Federico di Montefeltro e naturalmente Roma, dove operarono tra gli altri Giulio Pomponio Leto (1428-1497), fondatore
dell’Accademia pomponiana, e Bartolomeo Sacchi detto il Platina (1421-1481), primo prefetto
della Biblioteca Vaticana. Figure di grande rilievo
illustrarono l’umanesimo napoletano, sviluppatosi
sotto la protezione della dinastia aragonese; il
centro organizzativo fu l’Accademia fondata dal
Panormita (Antonio Beccadelli, 1394-1471) e
diretta successivamente da Pontano (1429-1503),
ma la figura di maggiore spicco è Sannazaro. Importante la produzione novellistica di Masuccio
Salernitano.
• Giovanni Pontano
La produzione letteraria di Giovanni Pontano
(1429-1503) tocca quasi tutti i generi ed è scritta
prevalentemente in latino. Scrisse una serie di
Dialoghi, politici e astrologici, nei quali appaiono
i tratti caratteristici del suo umanesimo: una concezione attiva della vita, che Pontano attuò polemizzando contro l’ignoranza, la superstizione, i
pedanti, i politici. Pontano amò sopra ogni cosa
la poesia e in essa lasciò il segno di una cultura
e di una sensibilità raffinata, educata sui classici
e insieme attenta a tutti gli aspetti della vita del
suo tempo. Scrisse egloghe e raccolte di poesie
(Amores, 1455-58; Hendecasyllabi sive Baiae,
1490-1500, che cantano l’atmosfera festosa dei
bagni di Baia; Iambici, per la morte del figlio Lucio; Tumuli, che raccoglie epitaffi per la moglie
morta Adriana e per il figlio Lucio), poemi di carattere astrologico Urania (1476) e Meteororum
liber (Libro delle meteore), l’opera didascalica De
hortis Hesperidum (L’orto delle Esperidi). Il suo
capolavoro è probabilmente il poema De amore
coniugali, in cui Pontano canta le gioie della vita
familiare. Famose le dodici Neniae, scritte per il
figlio Lucio, opere che lo pongono con Poliziano
e il Boiardo del Canzoniere ai vertici della
produzione lirica dell’umanesimo.
• Il “Novellino” di Masuccio Salernitano
Masuccio Salernitano è il soprannome del sorrentino Tommaso Guardati (circa 1415-1475).
Segretario di Roberto di Sanseverino, principe di
Salerno, frequentò la corte di Napoli, a contatto con
il Panormita, Giovanni Pontano e Zaccaria Barbaro.
È noto per il Novellino (postumo, 1476), raccolta di
50 novelle divise per temi in cinque decadi. Tra le
fonti, accanto a quella imprescindibile di Boccaccio, vi sono i trattati degli umanisti e in particolare
le opere di Pontano. La raccolta si caratterizza per
la presenza di trame drammatiche, dai toni cupi
e crudeli, che rivelano un gusto compiaciuto per
le situazioni estreme e l’orrido. La vena narrativa
ha la meglio sui toni edificanti, lo stile rinuncia
all’imitazione delle costruzioni solenni, di stampo
latino, tipiche di Boccaccio, e diviene più libero
ed espressivo grazie anche all’uso del dialetto nelle
scene più ricche di comicità popolaresca.
Boiardo e il poema cavalleresco
• La vita
• Le opere in latino
• Il “Canzoniere”
Matteo Maria Boiardo (1440 o 1441-1494), di
Scandiano, presso Reggio Emilia, è l’autore del
grande poema Orlando innamorato. Fu determinante nella sua formazione umanistica l’ambiente
culturale ferrarese e la partecipazione alla vita
mondana presso la corte estense. Nel 1463-64
compose i 15 Carmina de laudibus Estensis (Carmi
in lode degli Este), che riprende motivi mitologici
virgiliani, e le 10 egloghe dei Pastoralia. Nel 1476
iniziò il suo capolavoro, l’Orlando innamorato, e
compose in latino gli Epigrammata, in cui sul modello di Marziale celebra la vittoria di Ercole I contro
il cugino Niccolò che aveva ordito una congiura
ai suoi danni. Nel 1480 divenne governatore di
Modena e nel 1487 capitano di Reggio Emilia, carica che tenne sino alla morte. In quegli anni com-
pose le Egloghe volgari e la commedia in 5 atti
Timone. Tra le opere volgari figurano anche gli
Amorum libri tres (o Canzoniere), incentrati sulla
storia d’amore con Antonia Caprara e composti tra
il 1469 e il 1476. Se Petrarca è il maestro a cui si
rifà Boiardo, è stato osservato che la convergenza
di più modelli (Virgilio, Tibullo, Ovidio, Properzio,
Lucrezio, Claudiano, ma anche Dante e gli stilnovisti) e una nuova sensibilità umanistica rompono in
queste poesie l’equilibrio petrarchesco, inserendovi
elementi poetici eterogenei e originali. Tra questi,
la visione stilizzata della natura, il gusto dei diminutivi e delle personificazioni e infine le figurazioni
animalesche di marca cortese e siciliana. Oggi il
Canzoniere di Boiardo viene unanimemente considerato il più bel canzoniere d’amore del Quattrocento italiano.
• L’“Orlando innamorato”
• La trama
• La fusione dell’esperienza epica e di quella lirica
• Elementi magici e meravigliosi
Poema epico-cavalleresco in ottave, l’Orlando innamorato fonde i materiali del ciclo carolingio
(sulle gesta di Carlo Magno e i suoi paladini) con
quelli del ciclo bretone (sulle gesta e gli amori alla
corte del re Artù) della letteratura francese ed è
legato alla tradizione dei “cantari” di piazza.
L’edizione completa del testo (che comunque rimase incompiuto) uscì nel 1495, un anno dopo la
morte di Boiardo. Scritto in volgare ferrarese (ma
si tratta di un ferrarese illustre con elementi desunti
dal toscano letterario e arricchito da vari latinismi),
il poema narra le vicende di Angelica, contesa e
inseguita dai paladini cristiani Orlando e Ranaldo,
entrambi innamorati di lei. Le vicende
dell’inseguimento sono condizionate dai cambiamenti di sentimento di Angelica e Ranaldo che, per
effetto magico della fonte dell’amore e del disamore a cui bevono, s’invaghiscono o si disamorano
vicendevolmente. Ciò dà luogo a una vertiginosa
serie di inseguimenti e di fughe incrociate. Dopo
aver ucciso il re tartaro Agricane, Orlando rincontra
Ranaldo, sfuggito all’incantesimo della fonte. Tra i
due scoppia una furibonda lite. L’assedio di Parigi,
posto dal re dei mori Agramante, convince però i
due cugini rivali a ritornare in Francia per difendere
i cristiani. Dopo un nuovo duello tra i due, Carlo
Magno decide di consegnare Angelica al paladino
che meglio avrà combattuto i saraceni. Nel frattempo nasce l’amore tra Ruggiero, uno dei cavalieri mori, e la guerriera cristiana Bradamante. Qui
l’opera s’interrompe (stanza 26 del canto IX) e da
qui riprenderà la narrazione Ariosto (vedi Ludovico
Ariosto).
La novità di Boiardo consiste nella fusione del ciclo
carolingio e di quello bretone in unica linea narrativa in cui domina l’ideale umanistico
dell’energia amorosa, capace di nobilitare (ma
anche di spaventare) l’uomo; nella creazione di tipi
psicologici assai vari, anche se in parte stilizzati.
Attraverso la sovrapposizione dell’esperienza
epica a quella lirica, Boiardo ha saputo interpretare la necessità del superamento dell’ideale astratto della letteratura amorosa in favore del mondo
polifonico del poema moderno. Contrappunto
dialettico dell’elemento umano sono gli elementi
magici e “meravigliosi” inseriti nel poema e caratterizzati da un linguaggio ricco di immagini e
di aggettivazioni iperboliche. Giardini incantati,
fonti miracolose, esseri mostruosi e apparizioni
sono solo alcuni degli elementi soprannaturali che
popolano il testo.
Iacopo Sannazaro e la letteratura
pastorale
• La produzione in latino
• L’”Arcadia”
• L’influsso in Italia e in Europa
Iacopo Sannazaro (1455/56-1530) è la figura più
rappresentativa dell’umanesimo a Napoli. Il suo
lavoro fu rilevante non solo per quanto riguarda
la letteratura in volgare, ma anche la letteratura in
latino. Entrato nell’Accademia Pontaniana, fu nominato (1481) gentiluomo della corte aragonese.
Seguì Federico III d’Aragona nell’esilio francese
(1501). Morto il re, tornò a Napoli. Prima del suo
ritorno a Napoli, l’attività di Sannazaro fu prevalentemente in volgare: i giochi scenici, Farse, e le
Rime (postume, 1530) sono momenti di alta espressività. Dal suo ritorno a Napoli, la sua
produzione si esprime in maggior misura in latino.
Il suo latino è comunque vibrante e poco accademico: le Elegiae, spesso improntate ad alta malinconia; gli Epigrammata; le Eclogae piscatoriae,
che trasferiscono l’ambiente bucolico tra i pescatori
della costa napoletana; il De partu Virginis (Il parto
della Vergine), che racconta la natività secondo le
modalità espressive della mitologia classica.
Il capolavoro di Sannazaro è comunque l’Arcadia (1501), libro misto di prose e versi e vero
e proprio capostipite del “romanzo pastorale”.
La trama del romanzo prende spunto da una vicenda autobiografica: mascherato sotto i panni di
Sincero, l’autore immagina un viaggio nel mondo
di Arcadia per sfuggire alle pene di una triste vi-
cenda amorosa e gustare le gioie della vita semplice
e schietta dei pastori; il cammino si conclude con la
scoperta della morte dell’amata. La nostalgia per
un’impossibile età dell’oro è il tema dominante,
tradotto in un’inedita prosa lirica, dalla trama delicatissima e quasi evanescente, con ritmo musicale,
ricca di riferimenti colti e aulici. Enorme fu la fortuna del romanzo. In Italia ebbe numerosissime
edizioni, molti commenti eruditi; in Spagna, Portogallo, Francia e persino in Inghilterra esercitò un
influsso ampio e profondo.
SCHEMA RIASSUNTIVO
I
CENTRI
DI
DELL’UMANESIMO
DIFFUSIONE
Milano (Bramante, Leonardo da Vinci), Venezia
(Barbaro; stampa: Aldo Manuzio), Ferrara
(Boiardo), Roma, Napoli (Pontano, ai vertici della
poesia lirica del Quattrocento; Masuccio Salernitano
scrive il Novellino, la più importante raccolta di racconti quattrocentesca; Sannazaro).
BOIARDO
Nel poema cavalleresco Orlando innamorato
Boiardo dichiara l’ideale umanistico dell’energia
amorosa, che è capace di nobilitare l’uomo. Attraverso la sovrapposizione dell’esperienza epica a
quella lirica, Boiardo ha saputo interpretare la necessità del superamento dell’ideale astratto della letteratura amorosa in favore del mondo moderno e polifonico del poema. Il Canzoniere ha Petrarca come
modello, ma la convergenza di più modelli rompe
l’equilibrio petrarchesco, inserendovi elementi poetici eterogenei e originali.
SANNAZARO
Il capolavoro, l’Arcadia, misto di prose e di versi, è
il capostipite del “romanzo pastorale” che ebbe duraturo successo in tutta Europa. Tema dominante la nostalgia per un’impossibile età dell’oro, esposto con
una prosa lirica e musicale, ricca di riferimenti colti.
Importante anche la produzione in lingua latina (Elegiae, di impronta malinconica; Eclogae piscatoriae,
temi pastorali trasferiti tra i pescatori napoletani; De
partu Virginis, la natività di Gesù secondo moduli
narrativi della mitologia classica).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i principali centri di diffusione
dell’umanesimo, oltre Firenze?
2. A quali cicli epici si rifà l’Orlando innamorato?
3. È importante il Canzoniere di Boiardo?
4. Qual è il tema dominante dell’Arcadia di Sannazaro?
5. Quale genere letterario si diffonde in Europa
per merito dell’Arcadia?
IL CINQUECENTO
Secolo decisivo per le sorti d’Europa, inizia
con la creazione del grande impero asburgico di
Carlo V
e le inevitabili guerre per la supremazia tra Impero
e Francia; in tale quadro l’Italia è territorio di conquista
e teatro di lotte che culminano con il sacco
di Roma (1527). Dal 1530 è riconosciuto il predominio
di Carlo V sull’Italia, che sarà definitivamente sancito
con la pace di Cateau-Cambrésis (1559). Parallelamente
si affermano la grande Riforma protestante di Lutero
prima, e lo scisma inglese poi: si rompe così l’unità
religiosa dell’Europa. La Chiesa cattolica, da parte
sua,
con il concilio di Trento ridefinisce le sue strutture
e precisa i suoi dogmi reagendo alla scissione prot-
estante.
Intorno agli anni ’30 ritroviamo la sintesi della cultura
umanistico-rinascimentale nell’opera di Machiavelli
e Ariosto. L’opera di Guicciardini è il simbolo
di una società italiana ormai irrimediabilmente
in crisi, schiacciata dal potere dei Francesi
e degli Spagnoli. Il lavoro filologico e poetico di
Bembo
(insieme a quello di Castiglione e di tanta altra
trattatistica) stabilisce il canone del classicismo
italiano
(il petrarchismo). Solo marginalmente si diffonde la
cultura
del manierismo (soprattutto Folengo e Pietro
Aretino
e, diversamente, Bandello) accanto alla grande esperienza
vernacolare del teatro veneto (Ruzante). Dagli anni
’50
in poi la letteratura entra in una crisi profonda che
è anche
sintomo di decadenza politica: lo stesso classicismo,
sempre più coincidente con le istanze manieristiche,
prelude a un inevitabile conformismo culturale
Figura di sintesi altissima quanto dolorosa è Torquato
Tasso, la cui Gerusalemme liberata è il segno
di un’aspra tragedia, di un declino
culturale e storico ormai senza via di uscita.
1 CLASSICISMO
RINASCIMENTALE
Nella letteratura italiana, alla ricerca di un proprio modello linguistico-letterario, a partire dagli anni ’20 e ’30
del sec. XVI si consolida un’idea di classicismo, di
raffinatezza e di armonia linguistico-espressiva che non
si limiti a proporre i canoni di un’imitazione generica
della letteratura classica. Pietro Bembo si pone il problema della lingua letteraria e ne fissa il canone; a lui, inoltre, risale l’idea ancora attuale di “classico”, come testo
che impone il proprio valore attraverso i tempi. Baldesar
Castiglione invece codifica le norme di comportamento
del perfetto uomo di corte. Verso la metà del secolo il
dibattito si irrigidisce in una precettistica più severa: le
norme classicistiche vanno a coincidere con il nuovo clima
della Controriforma.
Pietro Bembo
Il veneto Pietro Bembo (1470-1547) fu una delle figure salienti del periodo rinascimentale; egli pose le
basi del petrarchismo e diede un contributo decisivo alla codificazione della lingua letteraria
italiana.
• La vita e le opere
•
•
•
•
•
Il lavoro editoriale con Manuzio
Gli “Asolani”
La carriera ecclesiastica
Segretario di papa Leone X
Cardinale
Nato in una ricca famiglia del patriziato veneziano,
ebbe una formazione umanistica completa e studiò
il greco a Messina alla scuola di Costantino Lascaris. Ritornato a Venezia, collaborò con il grande
stampatore Aldo Manuzio presso il quale pubblicò
il suo primo testo: una breve prosa latina intitolata
De Aetna (1496). Nel 1501, sempre per Manuzio,
curò un’edizione delle rime del Petrarca e una
della Commedia dantesca (1502). Tra il 1497 e
il 1499 fu alla corte ferrarese, dove approfondì gli
studi filosofici. Nel 1505, presso Manuzio, stampò
gli Asolani, dialoghi in 3 libri in cui si alternano
poesia e prose. Tipico prodotto della letteratura cortigiana d’influsso neoplatonico, gli Asolani trattano
dell’esperienza amorosa. La novità dell’opera consiste nel fatto che il tema dell’amore è sviluppato
non più solo nella canonica forma poetica, ma
anche in quella prosastica. Le rime presenti si segnalano per uno stile petrarchesco assai rigoroso.
Nel 1506 Bembo si trasferì da Venezia a Urbino,
presso la corte dei Montefeltro, e abbracciò la carriera ecclesiastica per esigenze economiche. Al
periodo urbinate, durato sei anni, appartengono le
Stanze, 50 ottave di stile petrarchesco recitate a
corte nel 1507. Nel 1512, a Roma, divenne segretario di Leone X; appartiene a questo periodo la polemica con l’umanista Giovan Francesco Pico e la
conseguente stesura del trattato De imitatione, in
cui si sosteneva la necessità per la prosa di imitare
un solo scrittore: Cicerone. Nel 1522 Bembo si stabilì a Padova, città in cui progettò e ultimò le Prose
della volgar lingua (1525), un trattato in 3 libri che,
in forma di dialogo, svolge il tema della lingua e
della letteratura in volgare. Divenuto ormai celebre,
nel 1530 pubblicò le Rime, che costituivano
l’applicazione dei suoi precetti linguistici in campo
poetico. In quello stesso anno fu nominato storiografo e bibliotecario della Repubblica di Venezia,
per la quale redasse una Historia veneta. Nel 1539
il papa Paolo III lo nominò cardinale. Raccolse
inoltre le proprie lettere in un Epistolario,
anch’esso pubblicato dopo la sua morte avvenuta a
Roma.
• Il problema della lingua
• Boccaccio e Petrarca modelli della lingua letteraria
• Il petrarchismo
• Classicismo del volgare
• Lingua e dialetto
Stabilita la necessità di usare il volgare come lingua
letteraria, nel primo libro delle Prose della volgar
lingua Bembo sostiene il recupero del toscano di
Dante, e soprattutto di Boccaccio e di Petrarca,
come lingua letteraria nazionale, in opposizione a
chi proponeva l’uso della lingua delle corti (per esempio, Baldesar Castiglione) o quello del fiorentino
contemporaneo. Nel secondo libro, riferendosi specificamente alla poesia del Petrarca, Bembo individua in Petrarca il modello di perfezione stilistica, metrica e retorica da imitare per i versi. Nel
terzo libro egli detta le regole grammaticali della
lingua volgare unitaria, ricavandole dai testi dei
tre grandi scrittori del Trecento. In questa maniera
Bembo delinea un “classicismo del volgare” (una
lingua fondata sulla “gravità” e la “piacevolezza”)
in grado di superare in modo unitario l’ibridismo
linguistico e stilistico dei vari volgari italiani scritti.
La sua soluzione riuscì a imporsi nella società
letteraria italiana: Ariosto, per esempio, modificò
la lingua del Furioso e molti altri scrittori si adeguarono alle norme e alle regole codificate da
Bembo. L’anno 1525 (prima edizione delle Prose)
può essere considerato la data d’inizio dell’affermazione in sede letteraria del toscano ed è solo
da tale data che si può, a ragione, distinguere tra
“lingua” e “dialetto”. Infatti quest’ultima categoria
presuppone l’esistenza di una lingua unitaria, sia
pure solo sul piano letterario.
Baldesar Castiglione
Baldesar Castiglione (1478-1529) fu il letterato che
codificò gli ideali rinascimentali della perfetta
società aristocratica.
• La vita e le opere minori
• Al servizio dei Gonzaga e dei Montefeltro
Nato a Casatico, presso Mantova, ricevette, nella
Milano di Ludovico il Moro, un’educazione umanistica di primissimo ordine che comprese oltre alle
arti e alle lettere anche il greco. Nel 1499 per la
morte del padre rientrò a Mantova, dove si mise al
servizio di Francesco Gonzaga. Iniziò così la fortu-
nata carriera di “cortegiano”, che proseguì nel 1504
a Urbino al servizio di Guidobaldo da Montefeltro. Nel 1513 il duca di Urbino lo inviò a Roma
come ambasciatore presso la corte papale di Leone
X, dove conobbe Bembo, Bibbiena e Raffaello. Rientrato a Mantova nel 1516, riprese servizio come
ambasciatore presso i Gonzaga e sposò Ippolita
Torelli, che gli diede tre figli. Rimasto vedovo nel
1520, abbracciò la carriera ecclesiastica. Nel 1524
il nuovo papa Clemente VII lo nominò nunzio
apostolico a Madrid, presso la corte di Carlo V.
Morì di malaria a Toledo. La sua produzione letteraria minore consta di alcune rime volgari e latine di
carattere encomiastico, di un’egloga (Tirsi, 1506) e
di un nutrito epistolario. A ciò si deve aggiungere
il prologo (oggi perduto) alla Calandria del Bibbiena e l’epistola latina a Enrico VII De vita et gestis
Guidubaldi Urbini ducis (1508).
• Il “Cortegiano”
• Il perfetto uomo di corte
• La donna di palazzo
• L’amore platonico
• La fortuna del “Cortegiano”
Ma Castiglione è giustamente celebre per il trattato in 4 libri, scritto in forma dialogica e intitolato Il libro del Cortegiano. Lo iniziò verso
il 1513-14 e lo pubblicò a Venezia nel 1528. Il
Cortegiano è ambientato nell’anno 1506, quando
l’autore immagina che presso la corte urbinate dei
Montefeltro si riuniscano, intorno alla duchessa Elisabetta Gonzaga, alcuni eletti personaggi (fra i
quali storicamente riconoscibili sono Bembo, Bibbiena, Giuliano de’ Medici). Nell’arco di quattro
serate, attraverso le loro conversazioni, si delineano
il ritratto psicologico, fisico e le regole di comportamento del perfetto uomo di corte. Nel
primo libro ne vengono elencate le qualità fisiche e
morali: nobiltà, esercizio nelle armi, conoscenza di
tutte le arti liberali e così via. La lingua in cui si
esprimerà il “cortegiano” (contrariamente alle tesi
di Bembo) dovrà essere il volgare delle migliori
corti, nobilitato dai termini più eleganti “d’ogni
parte d’Italia”. Nel secondo libro si descrivono i
comportamenti del cortigiano ideale nelle più svariate circostanze: diplomazia, conoscenza dei giochi
di società, opportuna scelta degli amici, capacità
ironiche, spirito. Nel terzo libro si delineano i tratti
ideali della “donna di palazzo”, versione femminile del cortigiano: bellezza, devozione, intelligenza, moralità. Il quarto libro, dopo una prima
parte ancora dedicata ai rapporti tra principe e cortigiano, si chiude con una lunga disquisizione filosofica sull’amor platonico, strumento fondamentale
per la conoscenza del Sommo Bene. Lo stile del
Cortegiano è improntato agli ideali rinascimentali di equilibrio, classicità e compostezza.
Modello ideale di una pratica sociale e di una visione aristocratica del mondo, il Cortegiano ebbe
da subito una grande fortuna presso le principali
corti europee, che durò fino alla rivoluzione
francese. La sua grandezza e quella del suo autore
stanno nel porsi come coscienza critica di alcuni aspetti della condizione umana di ogni tempo.
Classicismo freddo e rigoroso:
Annibal Caro
• Ludovico Castelvetro
A metà secolo il classicismo rischia di irrigidirsi
in un modello formale e tutto esteriore. È il caso
del modenese Ludovico Castelvetro (1505-1571),
noto soprattutto per la Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta (stampata nel 1570, ma elaborata
prima), straordinario commento fatto con metodo
rigoroso e radicalmente razionale; nonostante
l’acume, il suo classicismo si trasforma in fredda
precettistica.
• Annibal Caro
• Le prime traduzioni dal greco
• La polemica con Castelvetro
• La traduzione dell’”Eneide”
Originario di Civitanova Marche, Annibal Caro
(1507-1566) studiò a Firenze e passò poi a Roma.
La sua prima prova letteraria fu una libera
traduzione dal greco del romanzo pastorale Amori
pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (iniziata
nel 1537). Compose anche versi che si ispiravano
ai modi di Berni (vedi par. Berni e il modello burlesco). Nel 1544, su commissione di Pier Luigi
Farnese, scrisse la commedia Gli straccioni (1582,
postuma). Divenne noto negli ambienti letterari romani per la polemica con Castelvetro, che lo aveva
attaccato a proposito della canzone Venite
all’ombra de’ gran gigli d’oro, a cui rimproverava
l’eccesso di irregolarità linguistiche. Il Caro rispose
scrivendo l’Apologia (1558) e alcune rime oltraggiose. Nel 1536, stanco della vita cortigiana, si ritirò
nella sua villa di Frascati dove attese alla sistemazione delle Rime (1569, postume) e riunì le
Lettere famigliari (1575-77, postume), importante
testimonianza storica e culturale dei tempi scritta
in un volgare armonico ed equilibrato. La sua opera più nota rimane tuttavia la traduzione in volgare e in endecasillabi sciolti dell’Eneide virgili-
ana (1563-66), versione che intenzionalmente
“riscrive” l’originale poema con grande abilità retorica. L’ideale classico vi si ritrova reinterpretato
alla luce della nuova sensibilità estetica e morale
del Rinascimento.
LETTERATURA IN LATINO
La grande esperienza dell’umanesimo latino quattrocentesco fu esaltata dall’opera di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). In Italia la letteratura in latino entrò in crisi già dagli anni ‘20. Oltre al De partu Virginis (1527) del già citato Iacopo Sannazaro, l’opera
più interessante è la Syphilis sive de morbo gallico
(1530) dello scienziato veronese Girolamo
Fracastoro (1483-1533), autore anche del dialogo
Naugerius, sive de poetica (1555, postumo) in cui
egli definisce l’oggetto della poesia forma pura e
sostiene che la specificità della poesia consiste nello
stile. A partire dagli anni ‘30 il latino divenne solo
lingua specialistica o da documenti ufficiali. L’unico
lavoro che val la pena di menzionare sono le Historiarum sui temporis del comasco Paolo Giovio
(1483-1552), una storia in 45 libri delle vicende italiane dal 1494 al 1547 pubblicata fra il 1550 e il ‘52.
SCHEMA RIASSUNTIVO
CLASSICISMO
A partire dagli anni ‘20 e ‘30 si consolida un’idea
di raffinatezza e armonia linguistico- espressiva, non
più generica imitazione della letteratura classica.
Pietro Bembo
Il veneziano Pietro Bembo (1470-1547) delineò un
“classicismo del volgare” in grado di superare in
modo unitario l’ibridismo linguistico e stilistico dei
vari volgari italiani scritti. L’anno 1525 (prima edizione delle sue Prose della volgar lingua) può essere
considerato la data d’inizio dell’affermazione in sede
letteraria del toscano come modello linguistico; ed è
solo da tale data che si può, a ragione, distinguere tra
lingua e dialetto.
Baldesar Castiglione
Baldesar Castiglione (1478-1529), nato presso
Mantova, fu cortigiano presso i Gonzaga e poi i Montefeltro di Urbino. Divenuto ecclesiastico, fu mandato
come nunzio apostolico a Madrid presso Carlo V. È
autore del trattato Il libro del Cortegiano, in 4 libri e
in forma dialogica: nell’arco di quattro serate si delineano il ritratto psicologico e fisico e le regole di comportamento del perfetto cortigiano. Lo stile linguistico dell’opera è improntato agli ideali rinascimentali
di equilibrio, classicità e compostezza.
CLASSICISMO FREDDO E RIGOROSO
Specie a metà secolo, è sempre più evidente il diffondersi di un classicismo tutto esteriore e precettistico. Gli esponenti più significativi sono il modenese
Ludovico Castelvetro (1505-1571), autore di un
commento volgarizzato alla Poetica di Aristotele
(1570), e soprattutto il marchigiano Annibal Caro
(1507-1566), autore di una libera traduzione in volgare dell’Eneide di Virgilio (1563-66).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Con quale opera Bembo segna una tappa fondamentale nella questione della lingua?
2. Quali sono gli autori che Bembo propone
come modelli del volgare letterario?
3. Cosa significa “classicismo del volgare”?
4. Quali qualità e quale comportamento deve
avere il perfetto “cortegiano” delinato da
Castiglione?
5. Quali tratti ideali deve avere la “donna di
palazzo”?
2 LUDOVICO ARIOSTO
Ludovico Ariosto è la voce più elevata della poesia rinascimentale. L’Orlando furioso propone una visione moderna e insieme ideale della dignità umana; si offre come
sintesi di un’eleganza narrativa che, comunque, mantiene
in vita quella concretezza comica, se non addirittura ironica, tipica del racconto epico. Ariosto è l’esempio di un
Rinascimento allegro e potente; è il modello di una letteratura perfetta, che sa equilibrare, quasi senza sforzo, musica, plasticità figurativa, nitore e ricchezza poetica.
La vita
• Gli incarichi diplomatici
• Il governo della Garfagnana
Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia nel 1474,
figlio di un militare al servizio degli Estensi. A Ferrara seguì studi di giurisprudenza, poco amati, e alla
fine poté dedicarsi esclusivamente alle lettere. Già
nel 1493 fu tra gli organizzatori degli spettacoli
teatrali della corte estense, di cui divenne funzionario con incarichi militari e diplomatici. Nel 1502
fu capitano di guarnigione a Canossa e dal 1503
al 1517 segretario del cardinale Ippolito d’Este. Fu
così costretto a viaggiare, con pochissimo entusiasmo, tra Ferrara, Bologna, Modena, Mantova,
Firenze e soprattutto Roma. A partire dal 1504 (e
poi per tutta la vita) aveva cominciato a scrivere
l’Orlando furioso e nel 1508-09 aveva rappresentato le due commedie La Cassaria e I Suppositi.
Nel 1517 rifiutò di seguire Ippolito nella sede
vescovile di Agria (Ungheria). Assunto alla corte
del duca Alfonso, poté finalmente dedicarsi alla letteratura. Nel 1520 portò a termine Il Negromante, la
sua terza commedia, e nel 1521 pubblicò la seconda
edizione del Furioso (la prima è del 1516). In
questo stesso anno scrisse la Satira V, da cui si apprende la sua sofferta accettazione dell’incarico di
governatore della Garfagnana (1522-25), non facile
compito che egli assolse, con il figlio Virginio, a
Castelvecchio. Tornato all’amata Ferrara nel 1525,
dopo essere stato nominato sovrintendente agli
spettacoli di corte, si preoccupò di acquistare una
casetta dove dal 1527 visse sino alla morte, godendo di relativa agiatezza e dedicandosi all’attività
letteraria e a portare a termine La Lena, l’ultima
commedia. Nel 1531 si recò a Venezia, dove morì
poco dopo. Negli ultimi anni si era occupato della
revisione stilistica e strutturale del Furioso (giunto
ormai alla terza edizione, 1532). In un’edizione
postuma del 1545 furono aggiunti i Cinque Canti,
di datazione incerta, forse da collocare fra la prima
e la seconda edizione.
Le opere minori
•
•
•
•
Le commedie
Le “Rime”
Le “Satire”
L’epistolario
La commedia comica e la lirica latina furono gli
ambiti privilegiati da Ariosto all’inizio della sua at-
tività letteraria. Ancora in tarda età egli si cimentò
con traduzioni di Terenzio e Plauto. Le sue prime
due commedie (La cassaria, 1508, e I suppositi,
1509), inizialmente scritte in prosa, successivamente versificate, sono commedie di ambiente che,
nell’osservazione minuta di vizi, virtù, intrighi ed
equivoci umani, risentono anche del modello novellistico boccacciano. Macchinosa e meno interessante risulta la terza commedia (Il Negromante,
1520), in endecasillabi sdruccioli. La Lena (1528)
è senza dubbio la più riuscita: si tratta di una
commedia di carattere in cui trionfano le astuzie di
due giovani innamorati sugli interessi di una corrotta coppia matura. Si suppone che Ariosto abbia cominciato a scrivere versi in volgare solo in
età matura, forse all’inizio della sua relazione con
Alessandra Benucci (1513, poi segretamente
sposata nel 1527). Le sue Rime, sul modello
petrarchesco e con influssi boiardeschi, constano
di 41 sonetti, 12 madrigali, 5 canzoni e 27 capitoli
in terza rima. Le sette Satire, scritte tra il 1517 e il
1524, in terzine sul modello delle epistole oraziane,
rappresentano uno dei momenti più alti dell’arte
poetica ariostesca: articolate in una sostanziale
struttura dialogica di tipo epistolare, esse si rivolgono a personaggi reali a cui furono effettivamente
inviate. Valutazioni, paragoni e inserti favolistici
ne arricchiscono la vivace polifonia narrativa.
L’importante epistolario (che consta di ben 214
lettere scritte tra il 1498 e il 1532) comprende
soprattutto missive di carattere ufficiale in cui
emergono i conflitti interiori dell’autore e la sua dimensione umana.
L’“Orlando furioso”
•
•
•
•
Le redazioni
La lingua
La trama
Struttura aperta del poema
Poema epico-cavalleresco in ottave, l’opera ebbe
tre redazioni: 1516, 1521 (40 canti), 1532 (46
canti). L’autore cercò una lingua più uniforme ed
equilibrata, vicina al fiorentino letterario, limitando
gli eccessi regionalistici presenti nella prima edizione. Il fascino della lingua del Furioso risiede infatti nella felice coesistenza (armonizzata dal tessuto musicale del testo e dall’artificio metrico) di
termini familiari e tecnici con l’insieme della lingua letteraria canonizzata. Il Furioso comincia
proprio dalla fine del poema boiardesco, interrotto
quando re Carlo decide di consegnare Angelica a
colui che meglio si sarà distinto nella battaglia contro i mori. La trama del poema non risponde a
un’unità di azione e segue tre direttrici principali:
l’azione epica, che funge da cornice, è incentrata
sulla guerra tra cristiani e saraceni; l’azione sentimentale, invece, si muove intorno a Orlando, alla
sua ricerca di Angelica, alla conseguente perdita
del “senno” e al suo ritrovamento; infine, l’azione
celebrativa è imperniata sui contrasti d’amore tra
il moro Ruggiero e la valorosa guerriera cristiana
Bradamante. Dalle loro nozze (e dalla conversione
al cristianesimo di Ruggiero) avrà inizio la dinastia
estense. Dalla narrazione principale si dipartono
continuamente racconti minori (spesso introdotti
da un personaggio), che costituiscono ulteriori centri focali dello svolgimento narrativo. Si comprende
così la tecnica con cui le azioni sono intrecciate sia
tra loro, sia rispetto alla vicenda generale. I rari interventi dell’autore in prima persona fungono così
da elementi coordinatori e indicano il senso morale o psicologico delle azioni. L’infinita imprevedibilità della vita, lontana da qualsiasi centro stabile, viene espressa dalla struttura “aperta” del
poema, che indica il passaggio dal teocentrismo
medievale alla visione del mondo antropomorfica
della nuova sensibilità umanistica.
• Il giudizio critico
• Una superiore e ironica contemplazione della
natura umana
La grandezza di Ariosto nell’Orlando furioso sta
nella profonda ironia e nel divertito distacco con
cui riesce a operare l’armonica conciliazione
delle contraddizioni umane in una superiore e in
sé risolta contemplazione della natura umana. Il
poema, già amato dai contemporanei, ebbe una
grande fortuna critica per la capacità di esprimere
lo spirito di un’epoca. Per Benedetto Croce Ariosto
seppe armonizzare serenamente i contrasti del
mondo. Per Italo Calvino l’Orlando furioso è un
mirabile gioco combinatorio di percorsi e destini
incrociati, simile all’errabondo movimento
dell’esistenza umana.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Ludovico Ariosto (1474-1533), nato a Reggio Emilia,
si trasferì a Ferrara dove studiò. Svolse numerosi incarichi politici e diplomatici per gli Estensi, per i
quali organizzò anche numerosi spettacoli teatrali.
LE OPERE MINORI
Quattro commedie: le prime due (La Cassaria, 1508;
I Suppositi, 1509) sono di ambiente, incentrate
sull’osservazione minuta di vizi, virtù, intrighi ed
equivoci umani, e risentono del modello novellistico
boccacciano; risulta più macchinosa la terza (Il
Negromante, 1520); La Lena (1528) è senza dubbio
la più riuscita. Le sette Satire (1517-24), in terzine sul
modello delle epistole oraziane, sono da considerare
uno dei momenti più alti dell’arte poetica ariostesca.
L’”ORLANDO FURIOSO”
Poema epico-cavalleresco di 46 canti in ottave, è articolato in tre azioni: l’azione epica, che funge da
cornice, è incentrata sulla guerra tra cristiani e saraceni; l’azione sentimentale, invece, si muove intorno
a Orlando, alla sua ricerca di Angelica, alla conseguente perdita del “senno” e al suo ritrovamento;
infine, l’azione celebrativa è imperniata sui contrasti
d’amore tra il moro Ruggiero e la valorosa guerriera
cristiana Bradamante. L’autore cerca una lingua più
uniforme ed equilibrata, vicina al fiorentino letterario, limitando gli eccessi regionalistici.
IL GIUDIZIO CRITICO
La grandezza di Ariosto risiede nell’armonica conciliazione delle contraddizioni umane, risolta con superiore ironia e divertito distacco.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Di che genere sono le commedie ariostesche?
2. Che tipo di struttura hanno e a chi sono rivolte
le Satire?
3. Perché l’Orlando furioso è un poema a struttura “aperta”?
4. Quante sono le redazioni del Furioso?
3 NICCOLÒ MACHIAVELLI
E FRANCESCO
GUICCIARDINI
Se per la poesia rinascimentale fu Ariosto la voce più alta,
per la prosa il culmine venne ragguinto da Machiavelli
e Guicciardini. Machiavelli espone nel Principe la teoria
dello Stato moderno e delinea il profilo dell’uomo
“prudente e virtuoso”. Guicciardini, politico sul campo
in anni cruciali per la storia italiana, ne diviene lucido e
scettico storiografo. Se la storiografia umanistica aveva
cercato nell’insegnamento del passato una virtù nuova per
il presente, quella del primo Cinquecento muta prospettiva: gli storici maturano una concezione drammatica e
dinamica della storia.
Niccolò Machiavelli
Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei
maggiori prosatori italiani, è il teorico di una polit-
ica rigorosamente razionale, come unica risposta
possibile all’egoismo degli uomini.
• La vita e le opere
•
•
•
•
Le opere storiche e politiche
Il confino e il carcere
Il ritiro in campagna: stesura dei capolavori
Le opere letterarie
Nato a Firenze nel 1469, ebbe una formazione
umanistica quando la città di Lorenzo de’ Medici
era all’apice della potenza e del prestigio culturale.
Dopo il rogo di Savonarola (1498), Machiavelli
iniziò l’attività politica al servizio della Repubblica
fiorentina come segretario dei Dieci di Balia, organo di governo della città. Svolse diversi incarichi diplomatici, dei quali stilò precisi resoconti:
nel 1500 fu inviato presso Caterina Sforza, contessa
di Forlì; nel 1501 fu in Francia; tra il 1502 e il 1503
si recò più volte presso Cesare Borgia, divenuto
signore delle Marche e della Romagna (incontri dai
quali trasse materiale per l’opuscolo Descrizione
del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vittellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503).
Nel 1503 fu mandato a Roma per seguire il conclave e nel 1504 si recò di nuovo in Francia presso
Luigi XII. Intanto era cresciuto il suo peso politico:
scrisse Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) e ottenne l’incarico (1505-09)
di preparare la milizia della Repubblica. Anche in
quegli anni Machiavelli continuò un’importante attività diplomatica: nel 1506 fu al seguito delle campagne militari di papa Giulio II e nel 1507-08 partecipò a una missione presso l’imperatore Massimiliano, al ritorno dalla quale stilò il Rapporto di cose
della Magna (1508), rielaborato poi nel Ritratto
delle cose della Magna (1512). Nel 1510 fece un
terzo viaggio in Francia e ne trasse il Ritratto di
cose di Francia (1510), penetrante indagine sulle
caratteristiche politiche di quello Stato. Nel 1512 si
ruppe l’equilibrio tra Francia e Spagna; a Firenze
la Repubblica, alleata dei francesi, dovette capitolare ai Medici, che assunsero di nuovo il governo
della città appoggiati dalla Spagna. Machiavelli fu
allontanato da tutti gli incarichi e condannato
al confino per un anno; sospettato poi di aver
preso parte a una congiura antimedicea (1513), fu
incarcerato, torturato e condannato a un nuovo confino. Amnistiato dopo l’elezione del papa Medici
Leone X, si ritirò nel podere dell’Albergaccio, vicino a San Casciano, in Val di Pesa. In questo isolamento, di cui parla nella celebre lettera del 1513
allo storiografo e uomo politico Francesco Vettori,
scrisse i suoi capolavori, in primo luogo il trattato
Il Principe (1513-14), poi l’impegnativa riflessione
storico-politica dei Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio (1515-17), i dialoghi De re militari
(L’arte della guerra, 1521), e infine la Vita di Castruccio Castracani (1520).
Scrisse anche opere di genere letterario: il
Decennale primo e il Decennale secondo (1504-06
e 1516) in terzine dantesche, che cantano le vicende
drammatiche d’Italia; il Discorso o dialogo intorno
alla nostra lingua (1515-16) a favore del
fiorentino; il poemetto satirico l’Asino (1518), su
temi filosofici; la favola Belfagor arcidiavolo, o il
demonio che prese moglie (circa 1518); e soprattutto la commedia La mandragola (1518), la cui
rappresentazione in occasione di una festa medicea
segnò una parziale attenuazione dell’ostilità dei signori nei confronti dello scrittore, che ricevette
nuovi incarichi. Nel 1525 rappresentò a Firenze
la commedia Clizia, storia grottesca di un amore
senile, e concluse le Istorie fiorentine, pubblicate
nello stesso anno. Poco dopo ottenne la revoca
dall’interdizione dai pubblici uffici. La nuova
guerra della Lega formata da papato, Francia e
Firenze contro l’impero di Carlo V lo vide coinvolto in attività diplomatiche e militari; ma la Lega
fu travolta (1527, sacco di Roma), i Medici cacciati
e a Firenze fu restaurata la repubblica guidata da
esponenti savonaroliani, ai quali Machiavelli era
sgradito e sospetto. Morì nel giugno 1527.
Nel clima severo introdotto dalla Controriforma le
opere letterarie di Machiavelli furono giudicate
scandalose, prive di valori morali. Nel 1559 vennero tutte inserite nell’Indice dei libri proibiti.
• “Il Principe”
• I vari tipi di principato
• Il duca Valentino, modello di uomo prudente e virtuoso
• La politica deve ricercare l’utile per l’insieme
dello Stato
• Rapporto tra politica e morale
• La concezione della fortuna
• L’appello a uno Stato italiano
• La virtù dell’individuo
Scritta tra il luglio e il dicembre del 1513, l’opera
più famosa e innovativa di Machiavelli è un breve
“ghiribizzo” (per sua definizione) di 26 capitoli,
in cui egli compendia la riflessione politica e filosofica acquisita in quindici anni passati al servizio
dello Stato. Nella prima parte Machiavelli sviluppa
l’analisi dei vari tipi di principato (ereditari,
nuovi, misti) e del modo in cui vengono acquistati.
Lo scrittore presenta anche alcune figure di fondatori di Stati, come Mosè, Ciro, Teseo e Romolo
e di riformatori come Girolamo Savonarola, nei
confronti del quale esprime il giudizio lapidario
di “profeta disarmato”. L’attenzione è però con-
centrata (cap. VII) sulle azioni del duca Valentino,
Cesare Borgia, indicato come l’esempio migliore di
“uomo prudente e virtuoso”, cioè di politico capace
di coniugare un progetto di vasto respiro (la formazione di un solido Stato nell’Italia centrale) con la
scelta oculata degli strumenti adatti per indebolire
gli avversari, utilizzare gli amici potenti senza divenirne ostaggio, sfruttare le situazioni favorevoli,
acquisire la stima e la fedeltà del popolo e della
piccola nobiltà. Machiavelli sottolinea anche
l’importanza per il principe di avere un esercito
proprio invece che dipendere da uno mercenario.
Nella seconda parte ribalta il concetto tradizionale di teoria politica, tradizionalmente orientata a proporre modelli ideali di organizzazione
statale e di comportamento dei governanti. Per Machiavelli il fulcro dell’attività politica è costituito
dalla ricerca di ciò che è utile per l’insieme dello
Stato (che coincide con l’utile del principe e
dell’insieme dei sudditi) e il terreno d’indagine
della politica è la “verità effettuale della cosa”
e non “la immaginazione di essa”. Ne deriva un
radicale capovolgimento del rapporto tra polit-
ica e morale; il giudizio sugli atti del principe non
dipende dalla loro corrispondenza ad astratte
norme, ma dalla loro congruità a produrre la
sicurezza dello Stato. Celebre è poi la concezione
della fortuna sviluppata da Machiavelli: essa è la
sintesi instabile delle diverse e imprevedibili
forze che agiscono nella storia; con questa mobilissima antagonista deve misurarsi la virtù del
principe, che può prevalere solo se sa prevederne
gli sviluppi, contrastarne le bizzarrie, infine dominarla con l’audacia non sconsiderata. Machiavelli
conclude il suo scritto con un caldo appello a un
esponente della dinastia medicea perché raccolga
l’aspirazione di tutti gli italiani a combattere e
vincere il “barbaro dominio” delle potenze
straniere. Il Principe pone le basi della nuova concezione della politica proprio perché individua in
essa l’ambito in cui si può realizzare la virtù
dell’individuo, cioè la capacità di affrontare gli
eventi razionalmente, avendo come fine il raggiungimento di un modo di convivenza tra gli uomini
in cui l’interesse individuale si realizzi e si riconosca nell’interesse collettivo.
• I “Discorsi” e la “Mandragola”
• I “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”
• Visione pessimistica del comportamento umano
• La “Mandragola”
Al vero centro del proprio pensiero, cioè la formazione e la conservazione dello Stato, Machiavelli
dedica, oltre alle pagine del Principe, lo sforzo di
riflessione dei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio. Machiavelli ricava conferme alla necessità
del consenso dei cittadini, alla ricerca
dell’equilibrio di interessi tra le classi sociali, alla
funzione non solo militare ma anche politica di
un esercito composto di cittadini, come del resto
all’utilizzo della religione come strumento di coesione dello Stato. Nel ripercorrere la storia di Roma
(e in parallelo quella di Firenze nelle Istorie
fiorentine, largamente improntate allo stile oratorio
della storiografia classica) lo scrittore sottolinea
come anche gli ordinamenti più solidi vengono cor-
rotti e indeboliti dalla stoltezza, dagli errori,
dall’incostanza degi individui. Proprio perché si
propone traguardi molto alti, la visione pessimistica del comportamento umano è una costante
in Machiavelli. Essa va accentuandosi negli anni
dell’inattività politica e si manifesta, in chiave
artistico-letteraria, nella commedia della Mandragola, in cui l’obiettivo “basso” e il tema comico (la
conquista di una donna con l’inganno) mettono in
luce l’incapacità degli individui di andare oltre il
proprio meschino interesse personale. Forse è la
protagonista femminile Lucrezia colei che meglio
interpreta l’ideale di Machiavelli: vittima di intrighi
e meschinità, essa è poi capace di cogliere
l’occasione offerta dalla fortuna e di diventare
l’artefice della propria vita.
• Il dibattito su Machiavelli
• Lo stravolgimento del pensiero di Machiavelli
nella Controriforma
• Il vero rapporto “fini-mezzi”
In ambiente gesuitico venne elaborata, come sintesi
di tutto il pensiero machiavelliano, l’espressione
divenuta proverbiale “il fine giustifica i mezzi”,
che mai appare nei suoi scritti. L’aggettivo “machiavellico” divenne sinonimo, in tutta Europa, di
astuto, senza scrupoli e tale significato fu conservato. Nel Settecento si vide in Machiavelli sia il
teorico dell’assolutismo, sia l’ardente repubblicano
che attraverso il Principe insegna ai popoli a insorgere contro i tiranni. Durante il Risorgimento,
criticato per l’“immoralità” delle sue tesi, fu però
ritenuto un profeta dell’unità d’Italia. Nel sec. XX,
da un lato si è teso a storicizzare il suo pensiero,
inquadrandolo nel particolare contesto storico,
dall’altro si è operato lo sforzo di utilizzarlo come
stimolo alla riflessione sull’attualità. In realtà Machiavelli fonda la politica come scienza autonoma,
in cui il rapporto “fini-mezzi” va inteso nel senso
che in politica non valgono predicazioni morali e
nessun “fine” – anche quello moralmente più alto –
può realizzarsi se non è fornito di “mezzi” adeguati
e coerenti.
Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini (1483-1540) fu protagonista della politica italiana negli anni delle guerre
tra Francia e Spagna per il dominio della penisola, e
ne divenne anche il lucido interprete sul piano storiografico.
• La vita e le opere
•
•
•
•
•
Ambasciatore in Spagna
I governatorati di Modena, Reggio e Romagna
Luogotenente generale della Chiesa
L’attività letteraria
Governatore di Bologna
Discendente di una delle più importanti famiglie
fiorentine, ricevette una solida formazione umanistica. Nel 1512 interruppe la stesura della sua
prima opera, le Storie fiorentine, per assumere un
incarico diplomatico, un’ambasceria alla corte di
Spagna, ove rimase fino al 1514. Qui scrisse l’opera
politica il Discorso di Logrogno (1512), una proposta di organizzazione politica dello Stato
fiorentino, cui fece seguire poco dopo l’altro discorso Del governo di Firenze dopo la restaurazione
dei Medici e un Diario di viaggio. Tornato in Italia
ed entrato in buoni rapporti con i Medici di nuovo
al potere, nel 1516 ebbe da papa Leone X
l’incarico di governatore di Modena (in seguito
governerà Reggio Emilia e la Romagna). In quegli
anni si dedicò alla stesura del Dialogo del reggimento di Firenze (1525). In campo politico operò
soprattutto per favorire l’alleanza tra Francia e Papato in funzione antimperiale (lega di Cognac), al cui
interno fu nominato luogotenente generale della
Chiesa. Dopo il sacco di Roma (1527), venne
rimosso dalle cariche che ricopriva.
Tornato a Firenze, da cui nel frattempo erano stati
cacciati i Medici, si dedicò all’attività letteraria:
scrisse una parte dei Ricordi (1528) e opere
storiche, come le Cose fiorentine (1528-31) e
soprattutto le Considerazioni sopra i Discorsi del
Machiavelli (1528), rilevanti per comprendere la
sua concezione della politica. Bandito dalla città a
causa delle sue simpatie medicee, prima si ritirò
nella proprietà di Finocchieto e poi si rifugiò in Romagna presso Clemente VII. Quando nel 1530 la
Repubblica Fiorentina fu abbattuta, Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con il papa, che
nel 1531 lo nominò governatore a Bologna e nel
1533 lo volle con sé in un viaggio a Marsiglia
per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi
all’organizzazione del potere mediceo a Firenze,
ma poco alla volta venne emarginato: ritiratosi allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al lavoro letterario e in particolare alla stesura del suo
capolavoro, la Storia d’Italia, iniziata nel 1536 e
non del tutto terminata quando lo colse la morte
nella villa di Montici.
• I “Ricordi”
• La riflessione sulla “ruina d’Italia”
• La discrezione del saggio
• Il “particulare” come difesa della dignità e
dell’equilibrio
Nessun’opera di Guicciardini fu pubblicata durante
la sua vita: fra le altre, rimasero tra le carte di
famiglia più di duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con il nome di Avvertimenti e poi
con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura di
queste brevi riflessioni coprì tutto l’arco della vita
dello scrittore, dagli anni giovanili (la prima serie di
pensieri risale addirittura agli anni spagnoli) fino al
1530. Guicciardini riflette sulla “ruina d’Italia”
con una lucidità che esclude ogni riferimento a
modelli e teorie: non cerca e non accetta spiegazioni e interpretazioni universali della realtà
politica. Egli è convinto che, in linea di massima,
i rapporti umani siano caratterizzati da una negatività raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni azione politica sia determinato più
da mutamenti in superficie che da iniziative che
pretendono di agire sui meccanismi profondi del
processo storico. A essi si deve abituare “il buon
occhio del saggio” per esercitare la “discrezione”,
cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo sguardo di chi deve guidare la cosa pub-
blica. In questo quadro l’obiettivo da perseguire
è costituito dal “particulare”, che riguarda sia la
sfera personale, dove si identifica con il “decoro”
(cioè la reputazione e l’onore personali e familiari),
sia il campo politico, in cui si realizza come il
migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure
forze contrastanti. Il “particulare” non è quindi la
trasformistica capacità di fare comunque i propri
interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto
la salvaguardia della propria dignità in tempi di
crisi in cui non si riescono a realizzare alti ideali
collettivi.
LA TRATTATISTICA STORICA
La politica non è più l’espressione di una vita
“civica”, bensì delle regole dello Stato e delle sue
tecniche di conservazione. Molto diffusa le lettura di
Machiavelli e Tacito. Si può anzi parlare di “tacitismo”, ovvero della più grande riflessione di questi
anni intorno all’assolutismo. In posizione prevalentemente antimachiavellica si possono ricordare: i Dis-
corsi sopra Cornelio Tacito (1594) del nobile
fiorentino Scipione Ammirato (1531-1601); Della
ragion di Stato (1589) del cuneese Giovanni Botero
(1544-1617); i dialoghi Della perfezione della vita
politica (1579) del veneziano Paolo Paruta
(1540-1598). Interessante l’opera del marchigiano
Traiano Boccalini (1556-1613), che cominciò a
scrivere i Commentarii sopra Cornelio Tacito (1677,
postumo) prima del 1590. Nel 1605 diede inizio ai
Ragguagli di Parnaso (1612, 1613 e 1615, postumo),
una raccolta di ritratti e schizzi, spesso arguti e burleschi, dei principali esponenti del mondo cortigiano
e politico del suo tempo. Numerose sono le osservazioni di argomento politico: a più riprese dichiara
il proprio favore per la Repubblica di Venezia, ammirata per la libertà garantita dall’illuminato governo
aristocratico, e attacca la corruzione della curia romana e la monarchia spagnola, per la sua crudeltà e
debolezza.
• La “Storia d’Italia”
•
•
•
•
•
•
La crisi di una civiltà
Il sacco di Roma
Violenza, presunzione e cecità dei principi italiani
La politica campanilistica
L’Italia come organismo unitario, di tipo federale
La lingua
Questa concezione dell’agire umano è il risultato
di una drammatica sconfitta non solo di una
politica o di una strategia militare, ma di tutta una
civiltà. La Storia d’Italia (20 libri) fu pubblicata,
con numerosi tagli censori, a Firenze nel 1561 e
più completa a Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente breve: dal 1492 (morte
di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII, l’ultimo papa Medici). In questi decenni
si passò dalla prosperità e dall’equilibrio del tardo
Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente
rappresentata dal sacco di Roma (1527) da parte
delle truppe dell’Impero, raccontato da Guicciardini in pagine di alto valore letterario. Egli individua i principali responsabili di tale disastro in
Ludovico il Moro e in papa Alessandro VI, che,
mossi da un irrefrenabile desiderio di potenza,
chiamarono in Italia gli eserciti stranieri. Più in
generale la narrazione mette in risalto il percorso
di violenza, di presunzione, di cecità dei principi
italiani che si illusero di saper controllare e
utilizzare per i propri piccoli interessi dinastici
o territoriali forze di gran lunga più potenti di
loro. Da queste vicende Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina
di ogni singolo stato italiano derivano dalla crisi
di tutto il sistema politico. Così dallo studio del
passato nasce una riflessione politica proiettata nel
futuro: l’identità storico-culturale d’Italia ha
bisogno di realizzarsi in un organismo unitario,
che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini
non si illuse che ciò potesse avvenire in tempi
brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì costantemente lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza opposta dalla realtà.
Unica opera che Guicciardini scrisse per la pubblicazione, la Storia d’Italia presenta una lingua di
grande nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le Prose della volgar lingua di Bembo.
SCHEMA RIASSUNTIVO
NICCOLÒ MACHIAVELLI
Nato a Firenze (1469-1527), fu uomo politico e diplomatico. Sue opere principali sono: Il Principe
(1513-14), Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
(1515-17), i dialoghi De re militari (1521) e la Vita di
Castruccio Castracani (1520). È autore anche della
commedia La mandragola (1518).
Il pensiero politico
Il fulcro dell’attività politica è costituito dalla ricerca
di ciò che è utile per l’insieme dello Stato (che coincide con l’utile del principe e dell’insieme dei sudditi) e il terreno d’indagine della politica è la “verità
effettuale della cosa” e non “la immaginazione di
essa”. La formazione e la conservazione dello Stato è
il vero centro del pensiero machiavelliano, che fonda
la politica come scienza autonoma, capace di affrontare razionalmente i casi della “fortuna” e di
fornire i “fini” di “mezzi” adeguati e coerenti.
FRANCESCO GUICCIARDINI
Francesco Guicciardini (1483-1540) fu uomo politico
protagonista negli anni delle guerre fra Spagna e
Francia. Tra le opere principali, i Ricordi, il cui tema
è la politica: l’uomo politico deve possedere “il buon
occhio del saggio” per esercitare la “discrezione”,
cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare
in mezzo alle infinite e concrete variazioni che si
propongono, e per perseguire il “particulare”, cioè
l’onore e la dignità in un’epoca di crisi priva di alte
finalità collettive.
La “Storia d’Italia”
Nella Storia d’Italia (dal 1492 al 1534), dalle vicende
storiche Guicciardini ricava la convinzione che non
è più possibile ragionare in termini campanilistici,
in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato
italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico.
Così dallo studio del passato nasce una riflessione
politica proiettata nel futuro: l’identità storico-cul-
turale d’Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario, che egli pensa di tipo federale.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Chi è l’”uomo prudente e virtuoso” per Machiavelli?
2. Quale concezione della fortuna ha Machiavelli?
3. Quale rapporto deve per Machiavelli esistere
tra politica e morale? Qual è il vero fulcro
dell’attività politica?
4. Che cos’è l’obiettivo del “particulare” secondo
Guicciardini?
5. Che cosa auspicava Guicciardini per il futuro
politico dell’Italia?
4 NOVELLISTICA E
TEATRO DEL
RINASCIMENTO
L’eccezionale produzione letteraria di cui fu artefice
l’Italia nel Cinquecento si espresse con particolare ricchezza anche nei generi della novella, che ebbe in Matteo
Bandello l’esponente più importante, della commedia, con
l’esperienza anticlassicista del Ruzante, e della tragedia.
La novellistica e Matteo Bandello
• Straparola e “Le piacevoli notti”
Il modello più imitato rimase Boccaccio e i testi
erano quindi inseriti in una cornice narrativa. Bandello costituì una vera novità nel grande filone del
genere. Tuttavia altri autori si distinsero, come il
bergamasco Giovan Francesco Straparola (morto
dopo il 1557), il cui nome è legato alla raccolta Le
piacevoli notti (1550 e 1553) ambientata nell’isola
di Murano: sono fiabe e novelle su temi fiabeschi,
due delle quali, in bergamasco e in pavano,
costituiscono importanti documenti linguistici.
• Matteo Bandello
• La vita
Letterato finissimo, Matteo Bandello (1485-1561)
seppe portare l’arte rinascimentale della conversazione alla dignità di genere letterario. Nato a
Castelnuovo Scrivia da una famiglia nobile, entrò
giovanissimo nel convento milanese dei domenicani; viaggiò, condusse vita mondana, fu agente
diplomatico presso la corte di Isabella d’Este a
Mantova. Nel 1522 lasciò definitivamente il convento e chiese, senza successo, di essere sciolto dai
voti. Continuò la sua vita di cortigiano, mettendosi
a servizio tra gli altri di Cesare Fregoso, luogotenente del re di Francia Francesco I. Fu nominato
vescovo di Agen (1550) ma resse la carica solo
nominalmente. Durante i vent’anni di permanenza
in Francia, Bandello ebbe modo di rielaborare alcune opere minori scritte in Italia e soprattutto curò
la grande raccolta di Novelle. Tra il 1536 e il 1538
scrisse i Canti XI delle lodi della signora Lucrezia
Gonzaga, che pubblicò nel 1545 insieme ai capitoli
in terza rima intitolati Le tre Parche. Del 1539,
invece, è il volgarizzamento dell’Ecuba di Euripide, mentre precedente (1509) è la traduzione latina
della novella boccacciana dedicata a Tito e Gisippo.
Alla sua produzione poetica appartengono più di
200 Rime, di gusto petrarchesco, edite solo nel
1816.
• Le “Novelle” di Bandello
•
•
•
•
Temi e registri
Le fonti
La lingua
Il giudizio critico
Bandello scrisse novelle durante tutta la vita e infine le raccolse e organizzò in 4 libri, di cui pubblicò i primi tre a Lucca (1553-54) e l’ultimo a
Lione (1573). A differenza del Decameron, le sue
Novelle non sono inserite in alcuna struttura
generale e il loro accostamento non segue un ordine o un criterio tematico ben definito. Si tratta,
come ha scritto lo stesso autore, d’una “mistura
d’accidenti diversi”. Tuttavia ogni novella è preceduta da un’epistola dedicatoria, indirizzata a
personaggi contemporanei, nella quale l’autore dichiara le circostanze “cortigiane” in cui finge di
aver ascoltato la storia che si accinge a narrare.
Grande è la varietà di temi e registri di questi
testi: si va dal tragico al grottesco, dal comico al
farsesco, dall’osceno al patetico. Si osserva
comunque una certa predilezione per il genere erotico e per gli “amori sfortunati”. Celebre la storia
di Giulietta e Romeo. Le fonti delle novelle sono
assai varie: dal fatto di cronaca alla leggenda
popolare, al resoconto di viaggio; abbondano i
rilievi storici e i piccoli eventi quotidiani della vita
delle corti, così che le novelle si possono definire il
prolungamento scritto delle “conversazioni” cortigiane. Nella lingua delle Novelle si riscontrano numerosi dialettalismi settentrionali e svariati gallicismi; lo stile è intenzionalmente dimesso. Il realismo quotidiano che domina tematicamente questi
testi impone del resto una sintassi piana, volta alla
rappresentazione “vera” e non letteraria degli
eventi.
Il senso della grande arte narrativa di Bandello è
racchiuso nella sua capacità di proporre
un’indagine psicologica sempre sottile e concreta, ma non per questo rifiutandosi a notevoli
aperture fiabesche e comiche o tragiche o
all’improvviso oscene. Le sue Novelle ebbero
grande fortuna europea, da Shakespeare a Stendhal,
da Alfred de Musset a Byron, per citare gli autori
più noti.
La commedia
• Bibbiena
• Il teatro in veneto
La commedia cinquecentesca in italiano riprende
materiali classici (Plauto e Terenzio) e più recenti
(Decameron). Anche per la lingua la commedia
cinquecentesca si apre a una contrapposizione di
timbri e linguaggi diversi. Accanto alla Cassaria
(1508), la prima commedia in volgare dell’età
umanistica, e ai Suppositi (1508) di Ariosto, i maggiori risultati nella prima metà del secolo sono la
Mandragola (1518) di Machiavelli e La Calandria
(1513) del cardinale Bernardo Dovizi, noto come
Bibbiena dal luogo di nascita (1470-1520). La
Calandria mostra un particolare e positivo equilibrio fra ordine teatrale ed espressività della lingua.
La commedia non fu estranea in seguito alla sperimentazione manieristica o dialettale. Scrissero
commedie Agnolo Firenzuola (vedi Agnolo Firenzuola), il Lasca e Giambattista Gelli (vedi par. Bizzarria manierista: Lasca e Gelli), Pietro Aretino
(vedi Pietro Aretino) e Giordano Bruno (vedi box
Giordano Bruno, l’uomo del trapasso). Verso la fine
del secolo Annibal Caro scrisse Gli straccioni
(1582, postumo).
Altissimo è l’esempio del teatro veneto. Già al 1514
risale l’anonima Bulesca, una commedia in dialetto
con varie battute in gergo furbesco (ovvero il linguaggio, comicamente trattato, del mondo della delinquenza e del vagabondaggio). Agli anni ’30 può
risalire l’anonima Veniexiana, un vero esempio di
teatro “diretto”, rapidissimo, fondato sulla massima
quotidianità del dialetto.
Ruzante
Il padovano Angelo Beolco, detto Ruzante, o
Ruzzante (1496-1542), è una delle figure maggiori
del Cinquecento. Il mondo rinascimentale viene da
lui parodiato in chiave anticlassicistica attraverso la
grottesca ed espressionistica rappresentazione del
mondo rurale.
• La vita e l’attività teatrale
• La maschera del Ruzante
Figlio naturale di un medico, ricevette una buona
educazione a contatto con la cultura accademica e
aristocratica dell’entroterra veneto. Dopo il 1520
entrò al servizio del nobile mecenate veneziano
Alvise Cornaro, con il quale strinse amicizia e di
cui amministrò le vaste proprietà situate nella campagna padovana. La sua attività teatrale iniziò
probabilmente come attore dilettante nella parte
di Ruzante, maschera comica del contadino
rozzo e in miseria, maltrattato dai potenti e sbeffeggiato dalle donne. Presto egli assunse questa
figura come propria immagine e pseudonimo, facendone il personaggio principale della sua
produzione in dialetto pavano, cui diede un grande
spessore umano e psicologico.
• Le commedie
• “Betìa”
• I tre atti unici
•
•
•
•
Il mondo contadino, grottesco e tragico
La “Moscheta”
La “snaturalité”
Le ultime commedie
Il primo testo scritto di Ruzante fu la Pastoral
(1518), che riprende lo schema della commedia bucolica e in parte anche le situazioni tipiche del
genere colto (amori convenzionali e atteggiamenti
artefatti), ma li modifica in maniera grottesca ed espressionistica attraverso l’uso dei dialetti padovano
e bergamasco e la presenza della greve comicità
contadina. Il primo testo in cui si manifesta tutta
l’originalità dello scrittore è la commedia in versi
Betìa (1524-25), che prende spunto dal genere dei
“mariazi” (farse rusticali per nozze o fidanzamenti),
rappresentando una lunga disputa fra contadini per
conquistare la mano della bella Betìa. Il conflitto
tra il mondo naturale della campagna e le dure conseguenze imposte dalle leggi e consuetudini innaturali della città diventa straordinario gioco scenico
nei tre atti unici che rappresentano il momento
più alto della produzione di Ruzante: il Dialogo
facetissimo (1528), in cui è protagonista la carestia,
che riduce il contadino Menego a tale livello di
fame da spingerlo a minacciare un suicidio
grottesco; il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (1529), che celebra il dramma di un
contadino sopravvissuto a una battaglia (mirabilmente descritta “dal basso”), che torna a Venezia
e trova la moglie in compagnia di un mascalzone
dal quale viene picchiato; il Bilora (1529) in cui,
ancora una volta, un contadino accoltella, dopo una
serie di diverbi, il vecchio e ricco mercante presso
il quale la moglie è andata a vivere. In queste opere
il mondo contadino è rappresentato senza abbellimenti o sfumature letterarie, senza patetismi
né tendenze caricaturali: in primissimo piano vi
è la rappresentazione nuda e dolente della realtà,
da cui il riso sgorga per il susseguirsi scomposto
dei gesti e delle parole con i quali i protagonisti
tentano di farsi schermo dalla condizione
grottesca della vita, mentre diventa sempre più
forte nello spettatore la percezione della tragicità
dei fatti narrati con linguaggio e strumenti comici.
Di maggiore complessità scenografica e più attenta
ai modelli letterari è la Moscheta (1529), commedia in cinque atti che mette in scena le avventure di due contadini inurbati, Ruzante e sua moglie
Betìa, della quale si sono innamorati anche
l’agricoltore Menato e il soldato bergamasco Tonin.
La situazione dà luogo a un crescendo di vicende
comiche che coinvolgono i quattro personaggi e
che si concludono con la scelta spregiudicata di
un rapporto a tre tra Ruzante, Betìa e Menato. Nel
prologo Ruzante afferma il valore supremo della
“snaturalité”, la naturalità, che deve essere
posta a fondamento di tutte le relazioni umane e
che si traduce in una fruizione gioiosa del proprio
corpo. Tra gli elementi costitutivi della “snaturalité” vi è l’uso della lingua della propria terra,
nello specifico il pavano, che si contrappone alla
lingua artificiale, il “fiorentinesco” di origine colta
e letteraria, o alla lingua affettata e piena di
fronzoli, la “moscheta” (linguaggio usato da Ruzante per mimetizzarsi presentandosi travestito alla
moglie). Negli anni successivi la creatività di Ruzante s’impoverì: la Fiorina (1530) riprende la trama
della Moscheta, ma con minore vigore comico e po-
lemico. In seguito cercò di misurarsi con i modelli tradizionali e classici, trasferendo nel suo mondo
i temi della commedia di Plauto: documentano
questa svolta le commedie Piovana (1532), Vaccaria (1533) e l’Anconitana, di datazione incerta.
L’ultima opera pervenuta è la Lettera all’Alvarotto
(1536), indirizzata all’amico che era solito fargli da
spalla sul palcoscenico.
La tragedia classicistica
• Le regole della tragedia
All’inizio del Cinquecento la Poetica di Aristotele
divenne testo normativo dei principali generi letterari. Per la tragedia si ritenne che le riflessioni
compiute dal filosofo greco fornissero “regole”(le
unità di tempo, luogo e azione) da seguire
comunque per il genere tragico. La prima tragedia
fedele a queste norme fu proposta da Gian Giorgio
Trissino. A essa seguì l’opera di altri autori: il
fiorentino Giovanni Rucellai (1475-1520) con
Rosmunda (1516) e Oreste (1525); il ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) con Orbecche (1541), di ispirazione senechiana; il padovano
Sperone Speroni (1500-1588) con Canace (1546);
il veneziano Ludovico Dolce (1508-1568) con
Didone (1547) e Marianne (1565); infine, Pietro
Aretino con Orazia (1546).
• Gian Giorgio Trissino
• La questione della lingua
Il vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550)
godette dell’appoggio dei papi Leone X, Clemente
VII e Paolo III, per i quali compì numerose missioni diplomatiche in Italia e Germania. Fu un fiero
sostenitore del classicismo letterario e artistico.
Nel dialogo Il castellano (1529) affrontò la questione della lingua, rifiutando le tesi della “toscanità” e della “fiorentinità” a favore di una fusione
dei vari dialetti (il “parlar comune”), sulla base
del dantesco De vulgari eloquentia, da lui tradotto.
Propose persino una riforma ortografica. Nell’Arte
poetica (1529-62) teorizzò il sistema dei generi letterari, stabilendo norme rispettose della poetica di
Aristotele e ispirate al classicismo. Le sue opere
teatrali costituiscono un’applicazione dei suoi principi: la commedia I simillimi (1548), sul modello di
Aristofane e di Plauto; la Sofonisba (1524), prima
tragedia “regolare”, in endecasillabi sciolti e
fedele allo schema della tragedia greca. Scrisse inoltre la raccolta di Rime volgari (1529), interessanti
per le sperimentazioni metriche; il poema epico
L’Italia liberata dai Goti (1547-48).
SCHEMA RIASSUNTIVO
NOVELLA
Continua l’imitazione del Boccaccio. Principale esponente Matteo Bandello (1485-1561), le cui novelle
non sono inserite in alcuna struttura generale e il
loro accostamento non segue un ordine o un criterio
tematico ben definito. Grande è la varietà di temi
e registri: si va dal tragico al grottesco, dal comico
al farsesco, dall’osceno al patetico. Si osserva
comunque una certa predilezione per il genere erotico
e per gli “amori sfortunati”.
COMMEDIA
Riprende temi classici e volgari (Decameron). Esponenti principali Bernardo Dovizi da Bibbiena
(1470-1520), autore della Calandria (1513), e Angelo Beolco detto Ruzante (1496-1542). Nelle sue
opere (Betìa, 1524-25; Bilora, 1529; Moscheta,
1529) il mondo contadino è rappresentato senza abbellimenti o sfumature letterarie, senza patetismi né
tendenze caricaturali: in primissimo piano vi è la rappresentazione grottesca e dolente della realtà, mentre
diventa sempre più forte nello spettatore la percezione della tragicità dei fatti narrati con linguaggio
(i dialetti padovano e bergamasco) e strumenti comici.
TRAGEDIA CLASSICISTICA
Segue le regole formulate nella Poetica di Aristotele:
unità di tempo, luogo e azione. Autore della prima
tragedia “regolare” (Sofonisba, 1524) è Gian Giorgio
Trissino (1478-1550), che affrontò anche la questione
della lingua a favore di un parlar comune contro la
fiorentinità (Il castellano, 1529).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i temi e le fonti delle Novelle di
Bandello?
2. Come è rappresentato il mondo contadino da
Ruzante?
3. Che cosa intende Ruzante con il termine “snaturalité”?
4. A quali regole si adegua la tragedia italiana del
Cinquecento?
5 ANTICLASSICISMO
Nel Rinascimento si manifestano anche proposte alternative al classicismo: esperienze plurilinguistiche e sperimentali (o persino parodistiche e grottesche come la lingua “macheronica”, cioè la contaminazione di parole latine con termini volgari e viceversa) promuovono una letteratura assai lontana dal modello petrarchesco, con
protagonisti eccezionali come Teofilo Folengo e Pietro
Aretino.
Teofilo Folengo
Il mantovano Teofilo Folengo (1491-1544), autore
del Baldus, un poema “macheronico”, rielaborò la
materia classica senza temere di contaminare la tradizione letteraria e senza fermarsi di fronte ad alcuna
stranezza.
• La vita e le opere
•
•
•
•
Il “Liber macaronicus”
“Baldus”, “Zanitonella” e “Moschea”
Bernardo di Chiaravalle sostituisce Beatrice
L’”Orlandino”
Gerolamo Folengo fu monaco benedettino con il
nome di Teofilo. Nel 1517 (o forse 1518) pubblicò
con lo pseudonimo di Merlin Cocai il Liber macaronicus, che comprendeva, tra gli altri testi, la
prima versione del poema epico Baldus di 6230
versi; ne pubblicò nel 1521 una seconda edizione,
aumentata e rielaborata, cui diede il titolo di Opera
del poeta mantovano Merlin Cocai dei Macheronici
(Opus Merlini Cocai poetae mantuani Macaronicorum). In essa, oltre al Baldus, assumono particolare importanza le egloghe della Zanitonella,
che cantano l’amore non corrisposto del contadino
Tonello per Zanina, e il poema eroicomico in tre
libri Moschea, che narra la guerra vittoriosa delle
formiche contro le mosche. Verso il 1525 uscì
dall’ordine benedettino e si mise al servizio di Camillo Orsini, capitano veneziano, come precettore
del figlio Paolo. Sotto lo pseudonimo di Limerno
Pitocco pubblicò un poema cavalleresco in italiano, l’Orlandino (1526) e un’opera singolare, il
Caos del Triperuno, composta da versi e prose in
latino, in italiano e in maccheronico. Nel 1530
tornò alla vita religiosa e con il fratello Giambattista si ritirò come eremita dapprima sul monte
Conero presso Ancona, poi in diverse località
dell’Italia meridionale e in particolare nella penisola sorrentina; qui fece la conoscenza della poetessa Vittoria Colonna e compose il poema religioso La umanità del Figliolo di Dio (1533), oltre
a numerosi epigrammi latini e al poemetto Janus
(1535). Verso il 1539 fu trasferito in Sicilia; tra
il 1535 e il 1540 pubblicò la terza edizione della
sua opera con il titolo Macaronicorum poema. Nel
1542 fu assegnato a un monastero presso Bassano
del Grappa dove due anni dopo morì. Negli ultimi
anni compose alcuni testi di argomento religioso
pubblicati dopo la sua morte nella raccolta Hagiomachia; postuma fu anche la quarta e ultima edizione dell’opera principale, nuovamente modificata
(1552).
• Il “Baldus”
• La trama
• Opera in perpetuo divenire
• Lingua espressionistica: latino e dialetto
Il poema al quale Folengo si dedicò per quasi tutta
la vita prende spunto da materiali dei cicli
cavallereschi, manipolati con estrema libertà compositiva. Baldo è figlio di Guido di Montalbano e
di Baldovina, figlia del re di Francia. Egli nasce a
Cipada, vicino a Mantova e, allevato da un vecchio
contadino, diventa capo di una banda di violenti che
si fanno valere con zuffe e percosse. Baldo e i suoi
s’imbarcano per andare a combattere contro mostri,
streghe e diavoli, fino a giungere all’inferno. Qui il
poema s’interrompe all’improvviso: il Baldus ha i
caratteri tipici di un’opera in perpetuo divenire
e la trama subisce corrispondenti modificazioni; a
ciò si aggiunge la decisione del poeta di non concludere il poema, lasciando volutamente spazio
all’immaginario del lettore. La regola fondamentale
è la ricerca paradossale di situazioni sempre nuove
con cui confrontarsi per sperimentare la forza espressionistica di una lingua che si regge sulla tensione fra i due suoi elementi costitutivi: da una
parte la rigidità metrico-grammaticale del latino
e dall’altra la magmaticità incontenibile, carnevalesca del dialetto. Ne consegue una continua
demistificazione di ogni tradizione colta, bruciata
non appena viene sfiorata dalla materialità, dalla
fisicità grottesca che caratterizza il poema.
Pietro Aretino
Pietro Aretino (1492-1556), singolare figura di
consigliere di principi e re, amico di letterati e
artisti, libellista temutissimo, fu penna spregiudicata e libera, trionfalmente digiuna di ogni
educazione umanistica.
• La vita e le opere
• I “Sonetti lussuriosi”
• Le commedie e la tragedia
Nato in povertà ad Arezzo, si trasferì a Roma
(1517), dove s’impose come autore satirico, scrittore di violente “pasquinate” (sonetti satirici che
ogni 25 aprile venivano attaccati a Roma alla statua
detta di Pasquino, un torso ellenistico). Lasciata la
città, vi tornò nel 1523 quando Giulio de’ Medici,
suo protettore, divenne papa Clemente VII. La pubblicazione dei 16 Sonetti lussuriosi (1526), scritti
a commento delle incisioni erotiche di Giulio Romano, fece scandalo e Aretino fu costretto a lasciare definitivamente Roma. Rifugiatosi presso il
campo militare dell’amico Giovanni delle Bande
Nere, alla morte di quest’ultimo si ritirò per pochi
mesi a Mantova presso i Gonzaga. Nel 1527 si
trasferì a Venezia (dove rimase sino alla morte),
circondandosi di una cerchia di amici intellettuali
di risonanza europea e divenendo così un punto di
riferimento culturale per tutta la città. Negli anni
veneziani sperimentò quasi tutti i generi letterari; si
ricordano le commedie La cortigiana (1534) e Il
marescalco (1527-30), la tragedia in versi Orazia,
opere cavalleresche, religiose e agiografiche
(Salmi, Passione di Gesù).
• I “Ragionamenti”
•
•
•
•
Il rovesciamento dell’ideale cortese
Lingua dissacratoria
Le “Lettere”
Il giudizio critico
La fama di Aretino è legata ai dialoghi osceni di
prostitute, indicati con il titolo generale di Ragionamenti o con quello di Sei giornate. Tra questi
si segnalano il Ragionamento della Nanna e
dell’Antonia (1534) e il Dialogo nel quale la Nanna
insegna a la Pippa (1536). Nel primo testo si assiste a un rovesciamento parodistico dell’ideale
percorso dell’educazione femminile codificato nel
Cortegiano di Baldesar Castiglione e nei trattati
d’amore: la monaca lasciva passa allo stato di
moglie infedele per giungere all’ideale perfezione
della cortigiana e cioè della prostituta. Sfruttando
tutte le potenzialità espressive del parlato volgare
e giocando su differenti modi linguistici (l’epico, il
ricattatorio, il comico, l’osceno, il devoto), Aretino
perviene a una lingua perfettamente adeguata a rappresentare la sua prospettiva dissacratoria e il suo
scetticismo morale. Con la stampa a Venezia (1538)
del primo libro delle sue Lettere, inventò il genere
letterario dell’epistolario volgare. Le Lettere, infatti, non sono semplici raccolte di epistole scritte
dall’autore, ma sono state pensate come libro.
Considerato autore osceno fino a tutto l’Ottocento,
Aretino è stato rivalutato dalla critica del Novecento per la vivacità stilistica dei mezzi espressivi e
per l’efficace e realistica rappresentazione della società cinquecentesca. La sua tematica e la sua operazione “antiletteraria”, tuttavia, si rivelano infine
d’orizzonte artisticamente e culturalmente limitato.
SCHEMA RIASSUNTIVO
ANTICLASSICISMO
Il plurilinguismo e la lingua “macheronica” (la continua contaminazione di parole latine con termini volgari e viceversa) sperimentano una forma opposta al
classicismo volgare.
TEOFILO FOLENGO
Monaco benedettino mantovano, Teofilo Folengo
(1491-1544) fu autore del poema epico maccheronico
Baldus, la cui regola fondamentale è la ricerca paradossale di sempre nuove situazioni con le quali confrontarsi, per sperimentare la forza espressionistica di
una lingua che si regge sulla tensione fra i due suoi
elementi costitutivi: da una parte la rigidità metricogrammaticale del latino e dall’altra l’espressione
carnevalesca del dialetto.
PIETRO ARETINO
Pietro Aretino (1492-1556), amico di letterati e
artisti, consigliere di principi e re, nei suoi Ragio-
namenti, scritti negli anni ‘30, sfruttò tutte le potenzialità espressive del parlato volgare e, giocando
su differenti modi linguistici (l’epico, il ricattatorio,
il comico, l’osceno, il devoto ecc.), pervenne a una
lingua perfettamente adeguata a rappresentare la sua
prospettiva dissacratoria e il suo scetticismo morale.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. L’anticlassicismo si pone come alternativa a
quale modello?
2. Qual è il carattere tipico del Baldus?
3. Quale fine ha nell’Aretino l’uso del parlato
volgare? A quale opera è legata maggiormente
la sua fama?
6 MANIERISMO
Il termine “manierismo” sta a indicare una concezione estetica fondata sull’imitazione di particolari aspetti di poetiche già affermate e definite come modelli. Inizialmente
utilizzato per designare una tendenza tipica dell’arte figurativa della seconda metà del Cinquecento, in ambito letterario la parola è di uso piuttosto recente: infatti solo alla
metà del sec. XX alcuni critici hanno iniziato a parlare di
manierismo per i cambiamenti che si manifestarono nella
produzione letteraria dal 1530 fino alla fine del secolo.
Alla base del manierismo letterario in primo luogo è la
teorizzazione del modello petrarchesco elaborata da
Bembo: essa comportava lo sviluppo di un virtuosismo
formale e concettuale da cui derivò un’infinità di minute
variazioni, che accentuarono ora l’uno ora l’altro degli
aspetti fusi in Petrarca in un quadro omogeneo (toni elegiaci, sottolineatura del tema del dolore, tendenza a privilegiare effetti decorativi e paesaggistici). Appartengono al
manierismo il piacere del paradosso di Berni, l’accentuato
autobiografismo eroicizzante di Cellini, la prosa raffinata
di Giovanni Della Casa, il controllo stilistico di Agnolo
Firenzuola, la bizzarria del Lasca e di Gelli e soprattutto
la grande poesia di Tasso.
Giovanni Della Casa
Giovanni Della Casa (1503-1556) fu una delle figure più rappresentative del petrarchismo
manierista.
• La vita e le opere
• La carriera ecclesiastica
• Le “Rime”
Nativo del Mugello, dopo aver studiato lettere a
Bologna, Firenze e Padova, nel 1534 decise di
trasferirsi a Roma. Lì intraprese una felice carriera
ecclesiastica che lo portò a diventare arcivescovo
di Benevento (1544) e nunzio apostolico a Venezia
(1549). Durante il soggiorno veneziano, istituì il
tribunale dell’Inquisizione in Veneto e compilò il
primo Index librorum proibitorum (1548). Nel 1555
papa Paolo IV lo chiamò a Roma come segretario
di Stato.
D’argomento politico sono le due Orazioni in prosa
volgare rivolte alla Repubblica di Venezia e a Carlo
V. Le Rime, edite postume nel 1558, vengono solitamente considerate il più bel canzoniere italiano
tra Ariosto e Tasso. Sono 66 componimenti di stile
petrarchesco strutturati in modo organico e unitario.
La loro originalità rispetto all’illustre modello risiede nella tematica, perché al tema amoroso Della
Casa preferisce i temi della disillusione, della
vanità del mondo, del rovello morale e dei conflitti
tra reale e ideale; nella struttura stilistico-metrica,
perché il discorso viene articolato superando spesso
l’unità del verso e della strofa. In questo modo i
concetti e le immagini non sono più confinati negli
spazi tradizionali, ma fluiscono liberamente imponendo al testo un ritmo nuovo e suggestivo.
IL PETRARCHISMO
È il fenomeno di imitazione che prese a modello i
contenuti, la lingua e le forme espressive di Petrarca.
Già nel Trecento e nel Quattrocento Petrarca fu un esempio fondamentale da seguire per aver fornito alla
lingua italiana un’omogeneità e una purezza quasi
classica. Contemporaneamente alla riflessione teorica
si diffuse, specialmente nelle città dell’Italia settentrionale, un petrarchismo cortigiano, attento alle forme,
al lessico, alle situazioni caratteristiche del Canzoniere. Ne trasse origine una vasta produzione, che
ebbe il suo culmine nel canzoniere di Matteo Maria
Boiardo. Con l’inizio del sec. XVI le caratteristiche
del petrarchismo mutarono profondamente: esso assunse i tratti di una concezione estetica compiuta,
immodificabile nella sua perfezione. Tale evoluzione
trovò il suo spunto concreto nel lavoro filologico
e poetico di P. Bembo. Nacque una vera e propria
corrente: Iacopo Sannazaro, Annibal Caro e il
fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565), che nel
dialogo L’Ercolano (1570, postumo) tentò (oltre al
recupero del “fiorentino”) un primo bilancio storico
della questione della lingua. Divenuto unasorta di linguaggio poetico convenzionale e omogeneo in tutta
Italia, il petrarchismo fu anche lo strumento con cui
si espressero alcune poetesse.
La romana Vittoria Colonna (1490-1547) unì nelle
sue Rime al rimpianto per la morte del marito un alto
senso della propria arte.
La bresciana Veronica Gambara (1485-1550), aristocratica e colta, scrisse sonetti, le Rime diverse di
alcune nobilissime e virtuosissime Donne (1559) e
Lettere.
La padovana Gaspara Stampa (1523-1554) nelle
sue Rime, pubblicate postume (1554), riprese
situazioni e modi della lirica d’amore contemporanea, rivitalizzati con l’espressione sincera e patetica
della sua intensa vita sentimentale.
La comunanza stilistica e di tematiche favorì anche,
nella seconda metà del Cinquecento, la compilazione
e la pubblicazione di antologie di poesia petrarchista.
Rapporti dialettici estremamente importanti si
istituirono tra petrarchismo e manierismo.
Quest’ultimo fece proprio tutto il patrimonio
lessicale, topico e di immagini proprio del
petrarchismo, ma non accolse il presupposto di immutabilità classica, di equilibrio raggiunto e di insuperabile armonia presente nell’elaborazione be-
mbesca; anzi, proprio attraverso l’utilizzo esasperato,
amplificato, settoriale di quegli strumenti, espresse
l’inquietudine profonda caratteristica degli ultimi
decenni del sec. XVI. Tra le figure più significative
del petrarchismo manierista, oltre a Torquato Tasso
(vedi Tasso e il periodo controriformistico), fu il
grande
artista
Michelangelo
Buonarroti
(1475-1564), le cui Rime, pubblicate postume (1623)
dal nipote omonimo, mostrano talora (soprattutto
quelle per Vittoria Colonna) una ricercatezza formale
che cede, nelle composizioni più tarde, a un sincero
tormento interiore, con una lingua dinamicamente in
lotta col canone petrarchista.
• Il “Galateo”
Il Galateo (1558, postumo), considerato il capolavoro di Della Casa, è un trattato sulle buone
maniere e sul corretto modo di comportarsi in società. L’opera deve il titolo (diventato sostantivo
per antonomasia) al nome latinizzato del suo committente: il vescovo di Sessa Galeazzo (Galatheus)
Florimonte. Nel testo un vecchio, illetterato ma
saggio, educa un giovane alle buone maniere da
tenere a tavola, nelle riunioni conviviali, nel vestire,
nelle conversazioni. In una prosa raffinata il Galateo codifica così, all’interno degli ideali umanistici della cortesia e della misura, norme di comportamento improntate all’ideale classico del
giusto mezzo.
Berni e il modello burlesco
Con un sistema retorico dominato da figure quali
l’illusione, l’amplificazione caricaturale, la parodia
e l’elencazione, Francesco Berni (circa 1497-1535)
diede l’avvio a una tradizione di poesia satirica e
demistificatoria.
• La vita
Nato a Lamporecchio in Val Nievole, ebbe la sua
prima educazione letteraria a Firenze. Nel 1517 si
trasferì a Roma presso il cardinal Bernardo Dovizi
detto il Bibbiena e poi da Angelo Dovizi, protonotaio apostolico. Quando, nel 1522, divenne papa il
fiammingo Adriano VI, Berni, che lo aveva duramente attaccato nelle sue poesie, dovette lasciare
Roma. Ritornatovi dopo l’elezione di Clemente
VII, passò successivamente al servizio del vescovo
di Verona Matteo Giberti. Nel 1532, a Firenze, servendo il cardinale Ippolito de’ Medici e divenuto
intimo del duca Alessandro de’ Medici, fu coinvolto nelle lotte che opponevano Ippolito al duca
Alessandro. In quelle drammatiche circostanze,
morì avvelenato.
• Poesia e parodia
• I “Capitoli”
• Lingua vivace, plebea, oscena
La prima opera di valore di Berni è il dramma
rusticale in ottave La Catrina (scritto intorno al
1516 ma edito postumo nel 1567), che narra il con-
trasto tra i villani Beco e Mecherino per il possesso
della bella Catrina. Agli anni 1524-31 risalgono
il Dialogo contra i poeti (1526), rifacimento, in
forma burlesca (cioè ribelle, parodistica) e toscana
dell’Orlando innamorato di Boiardo, e soprattutto
la maggior parte dei suoi celebri Capitoli in terza
rima. Questi, insieme a sonetti satirici, furono pubblicati in edizioni incomplete a partire dal 1537.
Nel clima dominato dal classicismo di Bembo,
Berni fu, insieme all’Aretino, il più violento demistificatore dell’edonismo letterario cinquecentesco. Le sue radicali dichiarazioni di poetica, unitamente ai suoi versi aspri e dissacratori, esprimono
un atteggiamento decisamente antiletterario.
All’interno del capitolo (componimento poetico
con forma metrica derivata dalla terzina
dantesca) Berni loda oggetti poetici paradossali
come l’orinale, la peste, l’ago, le pesche, il debito,
il caldo del letto, le anguille. Le realtà più miserabili della condizione umana vengono così
esaltate in un linguaggio vivacissimo e plebeo
in cui dominano, arguti e frequenti, i doppi sensi
osceni. La codificazione degli elementi stilistici che
compongono la poesia satirica di Berni è stata così
forte da determinare la nascita di una vera e propria
“maniera”.
Agnolo Firenzuola
• Traduzione di Apuleio
• I “Ragionamenti”
• Le commedie e i “Discorsi degli animali”
Agnolo Firenzuola, pseudonimo di Michelangiolo Giovannini (1493-1543), per la costante ricerca
di una forma dall’andamento musicale, ricca di artifici, sensuale e festosa, si impose come uno dei
maestri del manierismo.
Nato a Firenze, entrò nell’ordine monastico dei
Vallombrosani, in cui ricoprì importanti incarichi.
A Roma, dove si era trasferito nel 1518, entrò in
contatto con Pietro Aretino, Annibal Caro, Giovanni Della Casa. Tradusse le Metamorfosi dello
scrittore latino Apuleio, alle quali egli diede il titolo
di Asino d’oro (1525). Fra il 1523 e il 1525 compose i Ragionamenti, originale raccolta costituita
da novelle di contenuto erotico e comico, scritte
in una lingua vicina al parlato, e da dotti e raffinati
interventi sulla natura d’amore, per i quali è usato
un linguaggio ricercato e fortemente letterario.
L’opera rimase incompiuta. Scrisse due commedie,
La Trinunzia e I lucidi (1549, postumo) e stese La
prima veste dei discorsi degli animali (circa 1540),
libero adattamento di antiche favole indiane del
Pañcatantra conosciute da Firenzuola attraverso le
versioni latine e spagnole. In quest’opera la sua
vena narrativa si realizza in modo più limpido e
felice che nei Ragionamenti e si concretizza in una
serie di favole e di apologhi raccontati con garbo
in una lingua semplice, ma sempre stilisticamente
controllata. Compose anche il Celso, dialogo delle
bellezze delle donne (1548).
Bizzarria manierista: Lasca e Gelli
• A.F. Grazzini detto il Lasca
• Le “Cene”
• Giambattista Gelli
Il fiorentino Anton Francesco Grazzini
(1503-1584), nel 1540 fondò l’Accademia degli
Umidi, assumendo il soprannome di Lasca. Nel
1582 aderì alla nascente Accademia della Crusca.
Fu autore di farse (Il frate; La giostra; La Monica,
andata perduta) e di 7 commedie, tutte precedenti il
1566 (La gelosia; La spiritata; La strega; La pinzochera; La Sibilla; I parentali; L’arzigogolo). In
esse la soggezione ai modelli del teatro classico
è riscattata dall’osservazione di un piccolo mondo
cittadino, condotta con grazia e arguzia efficaci.
L’opera più nota è la raccolta di 22 novelle intitolata le Cene e divisa in tre parti. La prima fu
pubblicata solo nel 1756, la seconda nel 1743, la
terza, incompleta, nel 1815. Secondo il modello del
Decameron, una cornice inquadra le novelle, che si
immaginano narrate in tre sere da una compagnia di
cinque giovani e di cinque ragazze. Di argomento
vario (beffe, storie comiche e tragiche, avventure
amorose), le novelle reinterpretano il motivo della
burla boccaccesca con sensualità ed estro caricaturale. Il Lasca scrisse anche numerose rime sul
modello burlesco del Berni, del quale curò
un’edizione delle opere, e fu tra i primi a sperimentare il poema eroicomico con la Guerra de’ mostri
(1547).
Il fiorentino Giambattista Gelli (1498-1563),
autodidatta, frequentò la corte medicea di Cosimo
I e tenne tra il 1541 e il 1563 una serie di lezioni
pubbliche su passi dell’opera dantesca, raccolte poi
sotto il titolo di Letture sopra la “Commedia” di
Dante. Oltre a questa produzione critica ed esegetica compose due commedie, La sporta (1543) e Lo
errore (1553), entrambe di derivazione machiavelliana, opere di riflessione morale ma di sano gusto
popolare come I ragionamenti di Giusto bottaio
(1548) e soprattutto La Circe (1549) e, ancora, un
trattato sulla questione della lingua, Ragionamento
sopra le difficoltà di mettere in regole la nostra lin-
gua (1551), in cui, contro le teorie di Bembo, sostenne la superiorità del fiorentino parlato su quello
letterario e sulla lingua cortigiana da esso derivata.
BIOGRAFIA
E
VASARI E CELLINI
AUTOBIOGRAFIA:
Nel periodo rinascimentale la biografia e
l’autobiografia tesero a evidenziare funzioni esplicitamente elogiative ed encomiastiche. Biografia e autobiografia per la prima volta critiche furono le Vite di
Giorgio Vasari e i Ricordi di Guicciardini. È da sottolineare che parte del biografismo cinquecentesco fu
anche legato alle lotte religiose e politiche del periodo. L’aretino Giorgio Vasari (1511-1574), pittore e
scrittore, lavorò a Firenze, Venezia e Roma. Al soggiorno romano (1542-46) risale la prima stesura delle
Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori
italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri (1550), la
prima grande opera di storiografia artistica: l’autore
delinea uno sviluppo progressivo dell’arte in tre età,
culminanti con la maniera moderna di Raffaello,
Michelangelo e Leonardo, maestri insuperati
nell’imitazione della natura, scopo dell’arte. Per ogni
periodo, in una prosa vivace e limpida sono forniti
dettagliati profili biografici, accompagnati da giudizi
critici acuti, anche se a volte tendenziosi. Dopo un
approfondimento degli studi e un confronto con altri
critici d’arte, l’autore giunse a una seconda edizione
(1568), nella quale rafforzò l’impianto teorico sottolineandone il principio guida: la preminenza del disegno sul colore.
Con il fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1571), insigne scultore e orafo, si può parlare invece di vera
e propria autobiografia nel senso moderno. La Vita
(composta tra il 1558 e il ‘65, interrotta nel 1562 e
rimasta inedita fino al 1728) rovescia gli ideali cortigiani del Rinascimento in favore di una vibrante
e incalzante contraddittorietà, che dà alla scrittura
un ritmo tutto manierista e ribelle. Non si tratta più
del tradizionale “itinerario spirituale”; l’opera è
l’originale catalogo di ricordi dell’autore (spesso
amplificato da invenzioni romanzesche) e di impressioni che da essi sono scaturite. Altre opere da ricordare sono i due trattati sull’oreficeria e sulla scultura (1565-67).
SCHEMA RIASSUNTIVO
MANIERISMO
Si sviluppa a partire dal 1530 una tendenza, sorta in
ambito artistico, che privilegia, in letteratura, il virtuosismo formale con accentuazione di toni elegiaci,
effetti decorativi e paesaggistici, tema del dolore. Il
petrarchismo ne fu uno degli aspetti più manifesti.
GIOVANNI DELLA CASA
Giovanni Della Casa (1503-1556) fu ecclesiastico di
carriera. Le Rime, edite postume nel 1558, sono considerate il più bel canzoniere italiano tra Ariosto e
Tasso. Il Galateo, anch’esso postumo (1558) in una
prosa raffinata codifica, all’interno degli ideali umanistici della cortesia e della misura, norme di comportamento improntate all’ideale classico del giusto
mezzo.
FRANCESCO BERNI
Francesco Berni (circa 1497-1553), al servizio di ecclesiastici famosi e dei Medici, morì avvelenato. Nei
suoi Capitali, pubblicati a partire dal 1537, le radicali
dichiarazioni di poetica, unitamente ai versi aspri e
dissacratori, esprimono un atteggiamento decisamente antiletterario.
AGNOLO FIRENZUOLA
Pseudonimo del fiorentino Michelangiolo Giovannini
(1493-1543), monaco vallombrosano, compose tra il
1523 e il 1525 i Ragionamenti, originale raccolta
costituita da novelle di contenuto erotico e comico,
scritte in una lingua vicina al parlato, affiancata però
da dotti e raffinati interventi sulla natura d’amore, per
i quali il linguaggio diventa ricercato e fortemente
letterario.
LASCA
Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca
(1503-1588), fiorentino, scrisse le novelle delle Cene
(pubblicate postume, 1743, 1756 e 1815) di argomento vario (beffe, storie comiche e tragiche,
avventure amorose), che reinterpretano il motivo
della burla boccaccesca con sensualità ed estro caricaturale.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i temi e i modi peculiari del
manierismo?
2. Qual è l’originalità delle Rime di Della Casa?
3. Che cosa in Berni ha contribuito a creare una
vera e propria “maniera”?
4. A quali tradizioni letterarie si ispira Firenzuola?
7 TASSO E IL PERIODO
CONTRORIFORMISTICO
Il consolidamento delle monarchie assolute e il dominio
della Spagna sull’Italia sono gli elementi di un periodo
di grave crisi politico-culturale. Ancora più determinante
lo sconvolgimento prodotto dalla Riforma protestante, entrata solo limitatamente in Italia, ma che si diffuse rapidamente nel Nordeuropa. La Chiesa reagì convocando il
concilio di Trento (1545-1563) con l’intento di una più rigida definizione dei dogmi. Il forte controllo della Chiesa
non si esercitò soltanto direttamente (per esempio, con
l’Indice dei libri proibiti, pubblicato nel 1559) ma anche
indirettamente, attraverso il lavoro di elaborazione della
cultura cattolica. Interprete di questa drammatica crisi e
delle contraddizioni dell’epoca fu Torquato Tasso..
Una vita drammatica
• Le prime opere
• Alla corte di Ferrara
• La stesura della “Gerusalemme liberata”
•
•
•
•
•
•
•
•
La crisi psicologica e la mania di persecuzione
La fuga da Ferrara e nuove peregrinazioni
La reclusione in ospedale
Pubblicazione della “Gerusalemme liberata”
Il rilascio e nuove peregrinazioni
Le “Rime”
La “Gerusalemme conquistata”
Le ultime opere
Torquato Tasso (1544-1595) è una delle figure
più alte della letteratura italiana e la massima
espressione della cultura tardo-rinascimentale.
Grande poeta e scrittore, fece propria l’eredità del
Rinascimento coniugandola con le istanze e le
contraddizioni dell’epoca della Controriforma e
diede vita a un’arte capace di esprimersi con una
sensibilità moderna.
Tasso nacque a Sorrento in una famiglia della
piccola nobiltà: la madre, Porzia de’ Rossi, era toscana; il padre, Bernardo, di origine bergamasca,
elegante letterato petrarchista, si era stabilito nel
Regno di Napoli al servizio del principe di Salerno
Ferrante Sanseverino, che seguì a Roma dove si
fece raggiungere dal giovane Torquato, che cominciò una vita di peregrinazioni tra Bergamo, Urbino,
Venezia, Padova e altre località. Intanto aveva
cominciato a scrivere versi: nel 1559 pose mano a
un primo abbozzo di poema epico dal titolo Libro
primo del Gierusalemme; poco dopo pubblicò il
Rinaldo (1562). Lavorava contemporaneamente a
un’interessante riflessione sulla poesia, i Discorsi
sull’arte poetica, pubblicati più di vent’anni dopo
(1587). Nel 1565, a Ferrara, entrò al servizio
del cardinale Luigi d’Este: fu il periodo migliore
della vita di Tasso, al centro di significativi apprezzamenti da parte della corte, in particolare dalle
sorelle del duca, Lucrezia ed Eleonora. Questo periodo fu coronato dalla stesura e dalla messa in scena
della favola pastorale Aminta (1573), rappresentata con vivo successo nell’isoletta del Belvedere.
Nel corso dei due anni successivi il poeta si impegnò a fondo nella prima stesura del poema
sulla crociata, la Gerusalemme liberata, che fu
presentata al duca Alfonso e a sua sorella Lucrezia
suscitando il loro grande entusiasmo. Come riconoscimento della sua arte, nel 1576 venne nominato
storiografo di corte. Lo sforzo creativo e le tensioni
della vita cortigiana minarono il suo fragile equilibrio psichico, che si sentì sempre più vittima di
improbabili congiure. Per verificare la propria correttezza teologica volle sottoporsi al vaglio del
Sant’Uffizio: assolto, non accettò volentieri la
sentenza, in quanto si sentiva incerto nei confronti
della fede cattolica. Sempre più sospettoso, manifestò un atteggiamento delirante che culminò con
l’aggressione a un servo (1577), per cui venne
messo sotto custodia nel convento di San
Francesco. Tasso fuggì da Ferrara e iniziò a girovagare per l’Italia giungendo fino a Sorrento, dalla
sorella che non lo vedeva da anni. Si trasferì per
qualche tempo a Urbino, ospite di Francesco Maria
della Rovere e poi a Torino. Durante queste peregrinazioni cominciò a stendere i Dialoghi, su cui
continuò a lavorare fino ai suoi ultimi giorni. Tornato improvvisamente a Ferrara (1579) nel giorno
delle nozze tra Alfonso II e Margherita Gonzaga,
cominciò a dare in escandescenze e a inveire contro
il duca; arrestato, fu rinchiuso nell’ospedale di
Sant’Anna, dove fu sottoposto per quattordici mesi
a un regime di dura segregazione e per altri cinque
anni a un trattamento più blando. Durante la sua
reclusione uscì la prima edizione integrale della
Gerusalemme liberata (1581), che ottenne un immenso successo. Il poeta seguì con ansia e interesse
le vicende del suo lavoro e scrisse l’Apologia della
Gerusalemme liberata (1585) in difesa delle scelte
compiute. Dopo molte insistenze e intercessioni nel
1586 venne rilasciato e affidato al duca di Mantova,
Vincenzo Gonzaga. Tasso si allontanò presto dalla
città lombarda e riprese a girovagare senza una
meta apparente: fu a Bergamo, ove pubblicò la cupa
tragedia Re Torrismondo (1587), a Roma, a Napoli,
dove fu ospite del monastero degli Olivetani, per i
quali scrisse il poemetto Il monte Oliveto (1588);
tornò a Roma, dove risiedette presso Scipione
Gonzaga, per il quale scrisse la Genealogia di Casa
Gonzaga (1591). Tornò a Mantova, dove pubblicò
la Prima parte delle Rime (1591), una raccolta di
liriche in cui rielaborò con intensa sensibilità
l’intera eredità petrarchesca (i temi della
bellezza, della natura, dell’amore, della lontananza
e della morte). Di nuovo a Roma si dedicò alla re-
visione completa (con una sottolineatura moralistica e spesso più convenzionale) del poema
cavalleresco, ripubblicato con il titolo Gerusalemme conquistata (1593). Scrisse poemetti di
contenuto religioso (Le lagrime di Maria Vergine;
Le lagrime di Gesù), che pubblicò assieme alla Seconda parte delle Rime (1593), e si dedicò alla
stesura del poema Le sette giornate del mondo creato, lasciato incompiuto. Trovò un po’ di serenità
grazie all’attenzione di papa Clemente VIII, che gli
assegnò una pensione e gli promise l’incoronazione
solenne come poeta della cristianità. Per prepararsi
a questo evento Tasso si dedicò con rinnovato
entusiasmo ai Discorsi del poema eroico, stampati
nel 1594. All’improvviso, nella primavera del
1595, egli si spense a Roma.
L’“Aminta”
• Colpi di scena ed equivoci
• L’età dell’oro pastorale
• La perfezione umana è seguire l’istinto naturale
Questo dramma pastorale in cinque atti è la
prima opera in cui Tasso rivela la propria grandezza
poetica. Si incentra sull’amore del pastore Aminta
per la ninfa Silvia, ritrosa e scontrosa, che solo
alla fine, mossa dalla pietà, si decide a riconoscere
il proprio sentimento e ad accettare quello del
pastore. Il contenuto dell’opera è piuttosto esile e
si fonda su colpi di scena, come l’aggressione di
un satiro ai danni di Silvia, liberata da Aminta, e
su equivoci, come quello relativo alla notizia della
morte apparente prima della ninfa, poi del pastore,
che ha tentato il suicidio salvandosi all’ultimo momento. La conclusione felice è il coronamento di
tante prove e la vittoria dell’amore. Ciò che conta
non è la trama, ma l’esaltazione dell’età dell’oro
compiuta dal poeta; essa è vista come la realizzazione del desiderio naturale in contrapposizione
a un mondo in cui domina l’artificiosità
dell’onore, la mancanza di sentimenti autentici. Il
mondo dell’Aminta è una specie di paradiso terre-
stre non toccato dal peccato né tanto meno dalla
consapevolezza di esso; è la dimensione in cui
l’essere umano raggiunge la perfezione
seguendo il proprio istinto naturale. La finzione
pastorale permette al poeta di esprimere liberamente il proprio sogno di vita e di avvertirne la distanza incolmabile dalla società in cui vive.
La “Gerusalemme liberata”
•
•
•
•
•
Finalità educative della poesia
I campi contrapposti del Bene e del Male
Il paesaggio
La magia
L’amore
Frutto di un lungo lavoro e di vere e proprie angosce, il poema (in 20 libri in ottave) muove dalla
sostanziale accettazione dei precetti indicati nella
Poetica di Aristotele per la poesia epica. Partendo
dal principio delle finalità educative della poesia,
Tasso si propone di narrare una vicenda che esalti
il “meraviglioso cristiano”, si fondi sulla storia
(quella della prima crociata e della liberazione del
Santo Sepolcro) e presenti elementi atti a stupire
il lettore e a renderlo più disponibile ad accogliere
la verità. L’argomento scelto aiuta a dividere
nettamente la scena in due campi contrapposti,
uno seguace del Bene, l’altro espressione del
Male, a caratterizzare gli eroi, a riproporre la più
classica delle vicende epiche, l’assedio della città
nemica. Il racconto si apre con l’intervento divino
per invitare Goffredo a riportare l’unità tra le
schiere cristiane e a condurle sotto le mura di Gerusalemme per dar l’assalto finale alla città. In questo
quadro entrano in gioco diversi elementi che rendono più fluida e poeticamente efficace la narrazione: in primo luogo il paesaggio, composto di
tinte sfumate, di notturni carichi di fascino, di aspetti al tempo stesso accoglienti e minacciosi, capaci di rappresentare lo stato d’animo profondo dei
personaggi; poi la magia, suddivisa nettamente in
positiva e negativa riguardo ai fini, ma rivolta a
svelare la dimensione inconscia dell’animo umano,
dove risiedono le paure, i sogni, i desideri erotici
degli eroi; infine l’amore, che unisce in vari modi
i destini di donne pagane e di cavalieri cristiani.
L’amore per Tasso si congiunge per lo più a immagini di morte; ma nelle pagine che descrivono
il giardino di Armida rivive, con una nota di erotismo più maturo, il sogno della perfezione dell’età
dell’oro già evocato nell’Aminta.
Il giudizio critico e la fortuna
• Un maestro della crisi
• L’influenza sul barocco e sul melodramma
• Il giudizio dei romantici
Si potrebbe dire che con Tasso finisca il Rinascimento e inizi qualcosa di complesso e contraddittorio che è, in fondo, lo spirito stesso della
poesia “moderna”. Certamente egli è un maestro
della crisi e insieme il protagonista più alto di una
letteratura che sgrana la sua ricerca di nitidezza
realistica in favore di un tono sognante e soffuso,
tanto malinconico quanto custodito dalla bellezza
di una serena disperazione. La Gerusalemme liberata, il poema dell’“aspra tragedia” umana, è
anche il capolavoro di un sentimento antico perduto, ormai indefinito e, per tutti, insondabile.
Onorato già in vita, Tasso dopo la morte divenne
oggetto di ininterrotta ammirazione. Caposcuola
delle correnti letterarie secentesche, fu modello di
poetica della meraviglia per la cultura barocca
e, con le sue atmosfere idilliche e pastorali, diede
spunti ai poeti dell’Arcadia. Alla sua poetica si ispirarono anche molti scrittori europei del Seicento:
Milton, Shakespeare, Cervantes, Lope de Vega,
Calderón de la Barca. Notevole fu nel Settecento la
sua influenza sul melodramma. I poeti preromantici
e romantici videro in lui soprattutto l’immagine esemplare del genio che soffre fino alla follia il contrasto con le costrizioni e le ipocrisie della vita
quotidiana.
GIORDANO
TRAPASSO
BRUNO,
L’UOMO
DEL
Nato a Nola, Giordano Bruno (1548-1600) entrò
giovanissimo in convento per abbandonare bruscamente l’abito. Nel 1579 si recò a Ginevra, dove
scoprì che il calvinismo non era meno intollerante
del cattolicesimo. Fuggì poi in Francia, dove pubblicò la commedia Il Candelaio (1582), opera nel
filone della commedia comica cinquecentesca. Passato in Inghilterra (1583-85), pubblicò un gruppo di
dialoghi, originali sintesi dei temi caratteristici della
filosofia della natura italiana del Cinquecento (Telesio) e dell’ermetismo, temi cosmologici di ispirazione copernicana e temi morali improntati al platonismo (Cena de le ceneri, 1584; De l’infinito universo e mondi, 1584; Spaccio de la bestia trionfante,
1584; De la causa, principio et uno, 1584).
Nell’opera De gl’heroici furori (1585), inoltre, si
scagliò con violenza contro il petrarchismo. Scrisse
tre poemi in latino, avendo come modello Lucrezio
(De minimo, De monade, De immenso, 1591). Nel
1590 rientrò in Italia; denunciato al tribunale
dell’Inquisizione, fu condannato al rogo per eresia:
rifiutatosi di abiurare, venne arso in Campo de’ Fiori
a Roma. Filosofo aperto alla modernità scientifica
e filosofica, scevra da ogni pregiudizio, Bruno fu
anche uno scrittore di valore, dallo stile vigoroso, irregolare, ricco di immagini, anticipatore del barocco.
SCHEMA RIASSUNTIVO
TORQUATO TASSO
Nato a Sorrento (1544-1595), visse una vita drammatica peregrinando tra varie città e corti italiane, vittima di turbe psichiche, dello sforzo creativo e delle
angosce derivanti dalla vita cortigiana.
Opere principali
Aminta (1573), favola pastorale in cui il mondo è rappresentato come una specie di paradiso terrestre non
toccato dal peccato né tanto meno dalla consapevolezza di esso; è la dimensione in cui l’essere umano
raggiunge la perfezione seguendo il proprio istinto
naturale.
La Gerusalemme liberata (1581), poema in ottave in
20 canti, nel quale, partendo dal principio delle finalità educative della poesia, Tasso si propone di narrare una vicenda che esalti il “meraviglioso cristiano”, si fondi sulla storia (quella della prima crociata)
e presenti elementi atti a stupire il lettore e a renderlo
più disponibile ad accogliere la verità.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Perché nell’Aminta Tasso esalta l’età dell’oro
pastorale?
2. Come l’essere umano può raggiungere per
Tasso la perfezione?
3. Qual è per Tasso la finalità della poesia?
4. Che cosa si intende per “meraviglioso cristiano”?
5. Quali argomenti rendono poeticamente più efficace la narrazione della Gerusalemme liberata?
IL SEICENTO
Iniziato nel segno dei fermenti delle guerre di religione,
che culmineranno nella guerra dei Trent’anni
(1618-1648),
il Seicento è un secolo di grandi rinnovamenti
politici.
In tutta Europa, tranne che in Italia e in Germania,
si afferma lo Stato moderno, sia nella versione
parlamentare inglese, sia in quella assolutistica
francese.
Sul piano artistico il Seicento è l’epoca del barocco.
Il tema della “meraviglia” e dello “stupore” è il
motivo
principale di tutto il secolo. In Italia dominano
Marino
e la lirica concettista. Esiste anche un classicismo
barocco
(in un certo senso antimarinista) rappresentato
da Chiabrera e Testi; eccezionale appare la satira
di Frugoni. Nasce poi un nuovo genere: il “poema
eroicomico” di Tassoni, mentre si diffonde una
notevole
letteratura gesuitica (Bartoli e Segneri). Nella
produzione
in prosa spicca l’opera dialettale di Basile. La
novità
più importante è però il sorgere della prosa scientifica
di Galileo Galilei, a cui si affiancano per intensità
gli scritti filosofici di Campanella.
1 IL BAROCCO E
GIAMBATTISTA MARINO
Nel Seicento entra in crisi il modello culturale
umanistico-rinascimentale. La teoria copernicana mina
la certezza di un universo centrato sulla Terra (e quindi
sull’uomo) e introduce l’idea di uno spazio infinito.
L’epoca sanguinosa delle guerre di religione irrigidisce
una concezione della fede fondata sull’identità e
sull’appartenenza, sulla difesa dell’ortodossia contro
ogni tentazione di libera ricerca. Si fa strada un diffuso
senso di inquietudine e di smarrimento, di precarietà delle
cose umane; si dilatano gli orizzonti immaginativi, ma entrano in crisi i valori classici di compostezza, equilibrio
e armonia. In campo artistico questa crisi trova espressione nel barocco, che ostenta una poetica dello stupore
centrata sul bizzarro, sulla sproporzione, sul virtuosismo e
l’illusionismo tecnico. Il barocco letterario trova in Italia
il suo poeta più significativo in Giambattista Marino: il
suo Adone è l’esempio più coraggioso dell’esaltazione
della fantasia poetica e della ricerca di un nuovo modello
lirico aperto a un moderno virtuosismo espressivo.
Il concetto di barocco
La cultura del Seicento viene sintetizzata con il termine “barocco”. Ma la sintesi non è priva di difficoltà, sia nell’individuazione dei limiti cronologici, sia in una sua precisa definizione terminologica.
• Limiti cronologici
• Differenza tra manierismo e barocco
Il manierismo, pur radice importante e per certi versi causa del barocco, non ne è parte integrante; in
Italia riguarda il Cinquecento, dagli anni ’30 fino
al termine del secolo, ed è uno dei vettori più importanti della cultura. Si può parlare invece di barocco solo rispetto al secolo XVII: in Italia fino
agli anni ’90, mentre in Francia risulta già in crisi
a partire dal 1660. D’altra parte, esiste una chiara
differenza tematica fra le due scuole, spesso con-
fuse fra loro: il manierismo, con il suo virtuosismo e il suo culto del particolare, è una specie di
“controclassicismo” interno al classicismo; il barocco si manifesta con un’energia iconoclasta, anticlassicistica, del tutto autonoma dall’aspirazione
rinascimentale, secondo una ricerca ossessiva del
“nuovo”.
• Definizione terminologica
• Etimologia
• L’iniziale significato negativo
• Il valore positivo assunto nell’Ottocento
L’etimologia del termine non è chiara: pare che
“barocco” derivi dall’incrocio tra il sostantivo
“baroco”, che nella filosofia scolastica designava
un particolare sillogismo paradossale, e il portoghese barroco, indicante un tipo di perla irregolare e sgraziata. Proprio da quest’ultimo significato deriva l’aggettivo francese baroque (bizzarro), da cui a sua volta deriva il termine italiano.
In sede filosofica già nel Cinquecento il termine
identificava spregiativamente un modo falso e di
ragionamento, soggetto ancora alla superata mentalità aristotelica. E persino gli stessi autori che
oggi sono definiti barocchi per eccellenza (per esempio, Marino, Tassoni ecc.) usarono l’aggettivo
con connotazioni negative per indicare gli eccessi
stilistici dei loro colleghi. Un vasto gruppo di poeti
(come Rinaldi, Stigliani e Marino) che oggi
ascriviamo al barocco preferivano definirsi come
esponenti del “concettismo”. Il termine “barocco”
cominciò a entrare nel lessico comune della critica,
sempre in senso spregiativo, verso la fine del Settecento per iniziativa dei teorici del neoclassicismo
(Winckelmann, Milizia). Il significato spregiativo
fu contestato a fine Ottocento dallo storico
dell’arte tedesco Heinrich Wölfflin, che riconobbe
allo stile barocco, opposto all’arte classicista, un
valore positivo. Oggi il termine ha generalmente
un significato oggettivo, storico, che prescinde
da giudizi di valore generale: quando non è usato
in senso traslato (in cui mantiene sempre
un’accezione di esagerato e artificioso), tende a
identificare il gusto e lo stile di tutta un’epoca.
• Temi e prospettive del barocco
•
•
•
•
Virtuosismo, meraviglia, teatralità
L’invenzione linguistica
I termini chiave: ingegno, acutezza
Il concettismo
Il nesso “arte-natura” viene interpretato come sensuale comunicatività fra i due soggetti: il virtuosismo diventa la “meraviglia” e il “piacere” di una
continua simulazione dentro lo scambio simbolico
fra l’arte e la natura. L’opera d’arte è alla ricerca
di una “teatralità” assoluta (fra cruda quotidianità
e spettacolo visionario), e allo stesso tempo cerca
di esprimere la massima fisicità (dal macabro realistico all’erotico) insieme alla massima estasi religiosa.
Sono la tecnica e il preziosismo sorprendente
dell’invenzione linguistica (giochi di metafore,
improvvisazioni di analogie, paradossi, enfasi, iperboli e ambiguità dei testi) la novità moderna del
linguaggio barocco. Lo scrittore barocco rifiuta la
normale comunicatività del linguaggio, mette da
parte il primato conoscitivo e morale della lingua
rinascimentale, si apre a una scelta espressiva che
si giustifica solo nella sottigliezza dell’esecuzione,
nell’arguzia con cui sa inventare e rendere manifesta l’“artificiosità” dell’arte. Antitesi e contrasto drammatico diventano meccanismi strutturali
dominanti in tutti i generi letterari, così come in
tutte le manifestazioni artistiche.
I termini chiave del barocco sono: l’ingegno, cioè
la capacità della parola di trasferire le immagini
e i pensieri da un contesto a un altro; l’acutezza
(l’agudeza spagnola), ovvero la capacità di colpire
la sensibilità dell’ascoltatore; lo spirito, ossia la capacità di suscitare la meraviglia di chi legge. Fondamentale il termine concettismo (nel quale come
abbiamo visto si riconoscevano gli scrittori barocchi), che invita all’uso di “concetti” con i quali
uno scrittore sa impreziosire ed esasperare la comunicazione del linguaggio: il “concetto” è una
specie di illuminazione mentale che accende la
“meraviglia”, come se le parole fossero tanto più
vere quanto più capaci di visionarità, di invenzione
creatrice. Nel Cannocchiale aristotelico (1670) di
Emanuele Tesauro (1592-1672), l’“argutezza, gran
madre di ogni ingegnoso concetto” viene ricondotta
alla conversazione “civile” e dunque poetica, con lo
scopo di procurare piacere e infinita meraviglia.
IL BAROCCO IN EUROPA
Il paese in cui si afferma maggiormente il barocco è
la Spagna. Il Seicento, che in Spagna viene chiamato
il Secolo d’Oro, vede il trionfo del teatro con Lope
de Vega e Calderón de la Barca, mentre nella prosa il
romanzo picaresco, a partire dal Lazarillo de Tormes,
trova il suo vertice nei testi di Quevedo. In poesia,
invece, due correnti, il “gongorismo” (raffinato e
colto)e il “concettismo”, più introspettivo e sentimentale, si oppongono tra loro approfondendo un divario tra elementi che si trovavano equilibrati e composti nella poesia di Luis de Góngora. La migliore espressione della poesia barocca spagnola sono i ver-
si di Juana Inés de la Cruz. In Francia l’influenza
del pensiero cartesiano e razionalistico, unitamente
al classicismo di Nicolas Boileau, limiterà molto lo
sviluppo dello stile barocco, anche se il movimento
culturale del “preziosismo” si deve considerare
un’espressione francese dell’imitazione di Marino
che si diffondeva in Europa.
In Germania la più importante opera letteraria del
barocco è il romanzo di Hans Jacob Christoffel von
Grimmelshausen intitolato Simplicius Simplicissimus
(1669), dove domina il registro picaresco.
In Gran Bretagna, dal titolo del romanzo di John
Lyly, Euphues (1578-80), nascerà (sempre sull’onda
della moda europea del marinismo) la maniera narrativa detta “eufuismo”: narrazioni avventurose
scritte in un linguaggio ricco di artifici retorici e strutturato in una sintassi latineggiante.
• Uno stile internazionale
• Uno stile per tutte le arti
Il Seicento fu contemporaneamente l’età cupa della
dominazione spagnola e della Controriforma e l’età
del progresso filosofico-scientifico, in cui si afferma definitivamente la teoria copernicana (1543)
con gli studi di Keplero (1609) e di Galileo (1632).
La fine della certezza antropocentrica, il crollo
dell’unità religiosa, il sorgere prepotente nella scienza di un’idea di spazio scientifico infinito, la fortissima crisi dell’equilibrio classicistico imposto
dal manierismo cinquecentesco sono le prospettive
storiche in cui s’inquadra la grande stagione del
barocco. Fu uno stile “internazionale”: interessò
tutte le nazioni e tutte le forme artistiche, dalla
musica alla poesia e all’architettura. In un certo
senso, il barocco fu il primo fenomeno di cosciente
modernità, come se in un nuovo spazio simbolico
si aprissero alla creatività umana nuove strade e
nuove tecniche espressive.
• Il barocco italiano
• Una letteratura senza grandi libri
La nostra letteratura barocca è ferma a una risposta
che non sa dare: quale modello si può proporre
con l’esaurirsi di quel principio rinascimentale, e in
particolare del Bembo, che aveva legato la letteratura a una prospettiva ideale? Cosa vuol dire essere moderni, rinunciare a un sapere classicista? Per
quanto l’esempio italiano, specie Marino e il marinismo, sia stato esportato in tutta l’Europa, non
si può nascondere che il barocco letterario italiano risulta comunque una testimonianza di crisi
culturale, il segno di una letteratura senza grandi
libri. La crisi politica italiana, il peso della Controriforma sono certo cause di un disagio storico che
sembra privo di soluzioni. La cultura nobiliare laica
è afflitta da un individualismo tanto fazioso quanto
servile; la cultura gesuitica, specie dagli anni ’40,
deve far prevalere il senso strumentale e “predicatorio” della cultura, quale controllo sociale. Le
personalità migliori del nostro barocco sembrano
casi isolati, quasi scardinati da una reale società
letteraria. Fino alla fine del secolo, quando si affermerà in funzione antibarocca l’Arcadia (vedi
L’Arcadia), avremo un dibattito complesso ma
anche confuso, spesso arenato in un groviglio di
provincialismo e di intuizioni lasciate senza sviluppo, senza forza civile e culturale.
Giambattista Marino
Il napoletano Giambattista Marino (1569-1625) è
lo scrittore più significativo del nostro Seicento
e rappresentò un modello imitato dagli scrittori
dell’epoca in tutta Europa.
• La vita e le opere
•
•
•
•
A Roma
A Torino
A Parigi
Il trionfo dell’”Adone”
Avviato agli studi giuridici, si dedicò quasi subito
alla poesia come poeta cortigiano presso il duca
Ascanio Pignatelli e poi (1592) presso il principe
Matteo di Capua. Nel 1600 entrò al servizio del
cardinale Pietro Aldobrandini a Roma. Pubblicate le Rime (1602), cominciò a lavorare alla stesura
del poema Adone, che nel progetto iniziale avrebbe
dovuto essere di tre libri. Nel 1606 seguì Aldobrandini a Ravenna e in altre città del Nord. Giunto
a Torino (1608), scrisse per Carlo Emanuele I il
panegirico Il ritratto del serenissimo don Carlo
Emanuele duca di Savoia (1608), ottenendone in
cambio una generosa ospitalità dal 1610 al 1615.
A corte si scontrò con l’invidia del segretario del
duca, il poeta Gaspare Murtola, autore del poema
sacro La creazione del mondo (1608) deriso da
Marino. Nel 1608 Marino aveva stampato la raccolta lirica La lira. Gli anni torinesi furono particolarmente fecondi: riprese e ampliò il progetto
dell’Adone; nel 1614 stese le Dicerie sacre, tre
orazioni fittizie (La pittura, La musica, Il cielo) che
dimostrano un’abilità virtuosistica straordinaria nel
modellare la lingua nel genere “oratoria sacra”. Nel
1615 fu chiamato alla corte di Francia dalla regina Maria de’ Medici, a cui dedicò il poemetto
encomiastico Il tempio (1615). A Parigi scrisse al-
cune delle sue cose migliori: gli Epitalami (1616),
poesie per nozze, La galeria (1619), rassegna di
opere di scultura e pittura di artisti contemporanei.
Nel 1620 diede alle stampe La sampogna, composta da 12 poemetti, 8 di contenuto mitologico e
4 di tipo pastorale. Il trionfo giunse con l’Adone
(1623), poema in 20 canti la cui lussuosa edizione
fu finanziata dallo stesso re Luigi XIII. Poco dopo
Marino decise di tornare in Italia, accolto con
grandi onori a Torino, a Roma e soprattutto a Napoli. Nella sua città si dedicò alla composizione di
un poema religioso in ottave, La strage degli innocenti, già iniziata vent’anni prima; l’improvvisa
morte non gli consentì di concludere quest’opera,
pubblicata postuma nel 1638. Anche le Lettere (uscite a partire dal 1627) sono postume.
• I caratteri dell’opera di Marino
• Il superamento del classicismo
Il carattere del lavoro di Marino è chiarito già da
un’affermazione dello stesso poeta, che riguardo
alle proprie vaste letture scriveva: “Imparai sempre
a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò
ch’io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo”. Marino è il poeta che reinventa e rinnova con un’esuberanza
cromatica e figurativa mai vista nella nostra letteratura. Sembra aver superato senza ritorno il
classicismo a favore di una curiosità infinita e sensuale, originalmente barocca. Le liriche della Lira
sono una proliferazione di timbri e sonorità; la Sampogna è un esercizio di gusto inconsapevolmente
“esotico” e svaporato; la Galeria poi – forse il libro
migliore di Marino – rimane un incredibile tessuto
di rifrazioni e annotazioni curiose.
• L’“Adone”
• Il più lungo poema della letteratura italiana
• La “fabbrica delle meraviglie”
Il libro di maggior successo fu comunque
l’Adone. Con i suoi 40.000 versi è il più lungo
poema della letteratura italiana. La vicenda che
ne costituisce l’esile trama ha al centro
l’innamoramento di Venere per il bellissimo
giovane Adone. Marte, preso dalla gelosia,
costringe il giovinetto a una serie di peripezie e alla
fine ne provoca la morte a opera di un cinghiale. Lo
svolgimento del mito ha tuttavia un’importanza relativa. Ciò che conta è il modo con cui esso viene
raccontato e soprattutto l’infinita serie di episodi
secondari, di spunti descrittivi (come quelli celebri
del canto dell’usignolo o dell’elogio della rosa)
sfruttati oltre ogni aspettativa; l’abilità nel trasformare aspetti allegorici in luoghi della fantasia,
come il giardino del Piacere e l’isola della Poesia; e
ancora l’infinita gamma di piani e di livelli con cui
viene trattata la materia erotica che sta alla base
del mito: si va dalle allusioni appena accennate alla
narrazione audace e densa di particolari. L’Adone
è un immenso coacervo di immagini, una “fabbrica delle meraviglie”, un succedersi inarrestabile di metafore e sarebbe vano cercarvi un
centro logico; la sua novità sta proprio
nell’infrazione della regola classicistica dell’unità
del poema eroico e nel recupero della narrazione
affabulatoria dei grandi narratori di favole latini
(Apuleio, Ovidio, Claudiano) ed ellenistici (Apollonio Rodio, Mosco e Bione).
Il marinismo e la lirica concettista
•
•
•
•
•
•
•
•
Tommaso Stigliani
Claudio Achillini
Girolamo Preti
Bernardo Morando
Giovanni Sempronio
Scipione Errico
Ciro di Pers
Anton Giulio Brignole Sale
Marino fu il riferimento principale della poesia secentesca: amici e avversari videro nell’Adone il
problema poetico di un’epoca. Il “concetto” è una
specie di illuminazione mentale che accende la
“meraviglia”, come se le parole fossero tanto più
vere quanto più capaci di visionarità, di invenzione
creatrice.
Il lucano Tommaso Stigliani (1573-1651) fu un
marinista moderato, prima amico del Marino poi
suo acerrimo censore; scrisse Il mondo nuovo
(1618), un poema epico su Cristoforo Colombo,
e infine L’occhiale (1627), un libro di critiche
all’Adone. Il bolognese Claudio Achillini
(1574-1640) rese ancor più solenne e a tratti pedante la lezione marinista, mentre l’altro bolognese
Girolamo Preti (1582-1626) mostrò una maggiore
autonomia e ricchezza espressiva (Rime, 1614). I
temi tipici del Marino (l’orologio d’acqua, la girandola, la zanzara, il neo sul labbro) furono ripresi
ossessivamente dal pugliese Antonio Bruni
(1593-1635) nelle Tre Grazie (1627) e nelle Veneri
(1653). Un’aspirazione più religiosa accomuna altri
scrittori barocchi. Maffeo Barberini (1568-1644)
fu papa (1623) col nome di Urbano VIII; i suoi versi sono legati al petrarchismo, ma anche rinvigoriti da un forte gusto concettistico. Il fiorentino Gio-
vanni Ciampoli (1589-1643) fu amico e seguace
del Galilei: letterariamente ebbe viva la lezione del
Chiabrera.
La contaminazione del dramma pastorale nel romanzo spiega anche la presenza di parti meliche
e liriche nel tessuto della narrazione. Il genovese
Bernardo Morando (1589-1656) fece uso nel Rosalinda di molte canzonette, in cui emerge anche
l’idea di trasgredire o in qualche modo corrompere
il modello della bellezza femminile. Un esercizio di
variazione barocca su immagini sensuali è l’opera
(soprattutto La selva poetica, 1648) dell’urbinate
Giovanni Sempronio (1603-1646). Interessanti
sono le liriche (Poesie, 1626) dell’ascolano Marcello Giovanetti (1598-1631), in cui gli schemi barocchi lasciano filtrare una concreta vitalità poetica.
Il messinese Scipione Errico (1592-1670) sia con
le Rime (1619) e le Poesie liriche (1646), sia col
dialogo L’occhiale appannato (1629) mostra una
notevole ingegnosità. Molto interessante, anche per
il nostro gusto contemporaneo, il lavoro del friulano Ciro di Pers (1599-1663), autore di una tragedia, L’umiltà esaltata ovvero Ester regina (1664),
e di Poesie (postume, 1666): la sua scrittura sembra
lontana dai semplici schemi dei marinisti o degli
antimarinisti; c’è in lui una verità umana, una
passione, un senso struggente della vita e della
morte, qualcosa come una libertà morale che gli
permette di scrivere uno fra i migliori canzonieri
del suo tempo.
Nella seconda parte del secolo, mentre si prefigura
specie a Nord una prima tendenza razionalistica
e già quasi prearcadica, continua a dominare nel
Meridione il modello marinista, che in molti casi
appare addirittura esasperato. Il genovese Anton
Giulio Brignole Sale (1605-1665) accompagna la
prosa delle Instabilità dell’ingegno (1635), una
sorta di piccolo Decameron, con poesie che rappresentano la migliore società del tempo. Nel Sud
d’Italia l’esperienza concettista sembra esprimersi
con maggiore ricchezza. Il pugliese Giuseppe Battista (1610-1675) rivela una notevole esuberanza
immaginifica. I napoletani Federico Meninni
(1636-1712) e soprattutto Giovanni Lubrano
(1619-1693) sono rappresentanti del “secentismo
del secentismo”. Anche il siciliano Giuseppe
Artale (1628-1679), quando raccoglie la sua
Enciclopedia poetica (1679), mostra una lezione
barocca di enfasi prossima all’ossessività.
SCHEMA RIASSUNTIVO
BAROCCO
Definizione terminologica
Pare che “barocco” derivi dall’incrocio tra il sostantivo “baroco”, che nella filosofia scolastica designava
un particolare sillogismo paradossale, e il portoghese
barroco, indicante un tipo di perla irregolare e sgraziata.
Temi
Artificio, “acutezza”, preziosismo, “concettismo”: il
virtuosismo diventa la “meraviglia” e il “piacere” di
una continua simulazione fra l’arte e la natura.
MARINO
La lira (1608-14) è la raccolta lirica, ricca di sonorità
e invenzioni; La galeria (1619) è la rassegna di opere
di scultura e pittura di artisti contemporanei; il capolavoro dell’Adone (1623) è un immenso coacervo
di immagini, una “fabbrica delle meraviglie”, un
succedersi inarrestabile di metafore, come se fossimo
in un ellenismo tutto “italiano”, originalmente vivo e
personale.
LIRICA CONCETTISTA
Marino è il riferimento fondamentale. Il “concetto” è
una specie di illuminazione mentale che accende la
“meraviglia”, come se le parole fossero tanto più vere
quanto più capaci di visionarità, di invenzione creatrice. Gli autori più importanti: Stigliani, Achillini e
Ciro di Pers.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i temi di fondo della scrittura barocca?
2. Qual è il tema narrativo dell’Adone?
3. Quali sono le opere migliori di Marino insieme
con l’Adone?
4. Cosa vuol dire “concettismo”?
2 IL CLASSICISMO
BAROCCO
Nella letteratura barocca va segnalata una corrente “classicista” che si differenzia dall’imperante marinismo.
Autori come Tassoni, Chiabrera, Testi si rifanno alla
lezione di Torquato Tasso e alla tradizione rinascimentale, e al concettismo pieno di metafore di Marino contrappongono uno stupefacente sperimentalismo nei metri
poetici e nella lingua. Nel Seicento la forma narrativa si
sviluppa in senso moderno. Fiabe e novelle trovano nella
raccolta in dialetto napoletano di Basile la loro massima
espressione.
Alessandro Tassoni
•
•
•
•
La vita
Le opere
L’antipetrarchismo
Le “Filippiche contro gli Spagnuoli”
Il modenese Alessandro Tassoni (1565-1635) fra il
1599 e il 1603 fu a Roma al servizio del cardinale
Ascanio Colonna, che accompagnò in Spagna
(1600). Partecipò alla vita letteraria del tempo, aderendo alle Accademie della Crusca e degli Umoristi. Si mise al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia, di cui appoggiò la politica antispagnola. Nel
1618 accettò l’incarico di “gentiluomo ordinario”
del cardinale Maurizio di Savoia, figlio del duca
Carlo Emanuele I; poi (1626) passò al servizio del
cardinale Ludovico Ludovisi finché nel 1632 tornò
a Modena, diventando poeta di corte di Francesco I.
Nel 1608 pubblicò per la prima volta i Dieci libri
di pensieri diversi, ripubblicati nel 1612 e, in
redazione più ampia, nel 1620. I primi quattro trattano di scienza, i seguenti quattro di costume e
di morale; il nono di Cose poetiche, istoriche e
varie, mentre il decimo, aggiunto nel 1620, contiene un Paragone degl’ingegni antichi e moderni,
il quale anticipa la disputa sugli antichi e sui moderni che, a partire dalla Francia, divise il mondo intellettuale del Seicento tra sostenitori del modello
dei classici e fautori della libertà di ispirazione e
di innovazione. Si tratta di un’opera erudita, indicativa dello spirito eclettico e curioso di Tassoni e
della sua vena polemica, in questo caso rivolta a
sgombrare il campo letterario dall’ossequio classicistico alle regole della Poetica aristotelica. Contro la moda dei canzonieri ispirati all’opera di
Petrarca scrisse le Considerazioni sopra le Rime
del Petrarca (1609-11), in cui analizza i caratteri
dell’ispirazione del poeta per mettere al bando
ogni principio di autorità a favore di una libera
fantasia creatrice. Compose anche diversi scritti
rimasti inediti di argomento filologico, dimostrando
il suo interesse per lo studio dell’evoluzione della
lingua. Interessanti le opere politiche: le due Filippiche contro gli Spagnuoli difendono i Savoia
nella contesa tra questi e la Spagna per il Monferrato; lo stile è forte e vigoroso, animato da un sincero desiderio di libertà degli Stati italiani dalle potenze straniere.
• Tassoni e il poema eroicomico
• Vena satirica
• Il poema eroicomico
• La comicità di Tassoni
Il capolavoro di Tassoni resta La secchia rapita
(iniziato fra il 1614 e il 1618); l’edizione definitiva
apparve a Venezia nel 1630. Il motivo iniziale è
fornito dalla tradizione leggendaria di “un’infelice
e vil secchia di legno” rapita dai modenesi ai bolognesi. Il resto è tratto da vicende storiche diverse,
usate dal poeta in tutta libertà e calate nell’ambiente
municipale del tempo. Pervade tutto il testo una
vena satirica, che si rivolge con forza contro i
costumi morali, sociali e letterari contemporanei,
talvolta scadendo nella polemica personale. I riferimenti al costume contemporaneo e alle persone
reali sono mescolati con elementi fantasiosi in un
anacronistico, mobilissimo quadro, dove il serio
e il tragico s’intrecciano con il comico e il
grottesco, in una dimensione rivelatrice del nuovo
gusto barocco. Questa commistione di toni aulici e
plebei indica il carattere sperimentale dell’opera e
inaugura il “poema eroicomico”, nato dalla crisi
del poema cavalleresco umanistico (in cui serio e
comico si integrano) e dalla presenza del nuovo
modello della Gerusalemme di Tasso, in cui il
poema eroico si chiude in una “serietà” tragica e religiosa. La secchia rapita propone un gioco sottilissimo quanto vivace di alternanza di serio e faceto.
La comicità di Tassoni nasce soprattutto dallo
scontro fra la volgarità del provincialismo italiano e le aspirazioni eroiche di molti personaggi,
ancora profondamente legati agli ideali cortesi. Tassoni non fa parodia, né accede alla malinconia per
un mondo perduto. La sua lingua è vibrante, nella
testimonianza comica eppure seria dello strazio
politico italiano. Il poema eroicomico di Tassoni fu
preso a modello da altri scrittori con esiti molto inferiori.
Classicismo barocco: Chiabrera e
Testi
Sul piano della poesia lirica i due capiscuola della
corrente classicista e antimarinista del barocco sono
Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, che lasceranno
un’impronta sulla poesia anche del Settecento.
• Gabriello Chiabrera
• La produzione letteraria
• Sperimentalismo tematico e metrico-linguistico
• La poesia del “grazioso”
Nato a Savona, Gabriello Chiabrera (1552-1638)
studiò a Roma ed entrò al servizio del cardinal Cornaro. Ritornato a Savona, si interessò alla poesia e
ricoprì vari incarichi pubblici. Cosimo de’ Medici
gli concesse un vitalizio come ricompensa per la
composizione della favola teatrale Il rapimento di
Cefalo (1600) musicata da Giulio Caccini. Dal
1632 fino alla morte, attese alla revisione delle sue
numerose opere.
La produzione letteraria di Chiabrera comprende
quasi tutti i generi. Scrisse poemi epici (Gotiade,
1582; Ameneide, 1590; Il foresto, 1653, postumo),
poemetti didascalici sacri e profani (La disfida
di Golia, 1598; Il diluvio, 1598), tragedie, prose
morali e numerose raccolte poetiche, i cui testi
erano spesso destinati alla musica (Canzoni eroiche, sacre e morali, 1586-88; Sonetti, 1605; Canzonette, 1606).
Chiabrera è stato sempre inteso come una proposta
alternativa al concettismo di Marino. Il suo sperimentalismo tematico (basato sulla ricerca di soggetti tratti dai classici greco-ellenistici e dalla
poesia francese cinquecentesca, soprattutto Ronsard) o prettamente metrico-linguistico (incentrato sul recupero di generi strofici inusuali tratti da
Anacreonte o da Pindaro, sebbene Chiabrera non
conoscesse il greco) gli consentì una musicalità
nuovissima, chiara e leggera. Dalle sue “canzonette” prenderà l’avvio tanta poesia settecentesca
votata al “grazioso”.
• Fulvio Testi
• Il “Pianto d’Italia”
• Le “Poesie liriche” modello di poesia di ispirazione morale
Il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646) fu segretario
di stato del duca di Modena Francesco I. In questa
veste compì missioni diplomatiche a Mantova, a
Vienna, a Roma e in Spagna. Nominato governatore della Garfagnana dal 1639 al 1642, al
ritorno a Modena fu coinvolto in un intrigo antispagnolo e arrestato. Morì in carcere. Esordì nel
1613 con una raccolta di Rime, alla maniera di
Marino. L’alta passione civile ispirò il poemetto in
ottave Il pianto d’Italia (1617), calda esortazione
a Carlo Emanuele I di Savoia a liberare la patria
dalla dominazione spagnola. Nella produzione successiva (Poesie liriche, 1627-48) il concettismo
barocco viene abbandonato in nome di uno stile
classicheggiante, sul modello di Chiabrera. I temi
dell’impegno civile e politico, la critica aspra contro il malcostume delle corti ispirano modi sobri
e robusti, che rendono questa poesia un modello
di retorica alta e sentenziosa, forse il più importante del Seicento. Documento interessante della
complessa realtà sociale e politica della vita cortigiana sono le sue numerose Lettere, scritte in una
prosa concreta, secca e appassionata. Se Chiabrera
gettò le basi di tanta raffinatezza settecentesca,
Testi attuò il presupposto di una poesia di ispirazione morale di sicuro riferimento per le riproposte classicistiche del Settecento e dell’Ottocento.
Il caso di Francesco Fulvio Frugoni
• “Il cane di Diogene”
Il genovese Francesco Fulvio Frugoni
(1620-1686) crebbe e studiò in Spagna. Al suo
ritorno a Genova scrisse un poema giocoso, La
guardinfanteide (1639), pubblicato con lo pseudonimo di Flaminio Filauro. Al seguito di Anton Giulio Brignole Sale, ambasciatore genovese, viaggiò
lungamente in Europa. Verso il 1650 entrò
nell’ordine dei Minori di san Francesco di Paola
e negli anni seguenti compose alcune opere sacre.
Dal 1652 fu al servizio di Aurelia Spinola, vedova
del principe di Monaco: per lei scrisse il dramma
musicale L’innocenza riconosciuta (1653) e, dopo
la sua morte, una biografia romanzata e fortemente
elogiativa, intitolata L’eroina intrepida (1673).
Negli ultimi anni, esiliato da Genova, fu a Torino
e a Venezia. Si dedicò al teatro, al poema epico
e alla composizione di un’opera singolare di racconti satirici intitolata Il cane di Diogene (pubblicata postuma nel 1689). Nei sette volumi, o “latrati”, che compongono Il cane di Diogene, uno degli esempi più curiosi di prosa barocca italiana,
Frugoni utilizza una ricca varietà di temi, di stili
e soprattutto di linguaggi (usa la lingua dotta e
quella gergale, il francese o lo spagnolo, i neologismi e i dialetti), in modo da costituire un vero
e proprio pastiche, cioè un’opera che vuole concentrare in sé qualunque argomento e qualsiasi
modo per parlarne. Tuttavia, il virtuosismo lin-
guistico prevale sulla materia trattata e induce una
certa monotonia.
IL ROMANZO IN PROSA
In Italia il romanzo in prosa fiorisce nel Seicento con
molte e differenti prospettive narrative: si passa dal
romanzo d’avventura a quello d’amore, ambientato in
mondi idillici; dal romanzo morale e di devozione a
quello direttamente stimolato da episodi presenti.
I centri di maggiore produzione furono Venezia e
Genova. A Venezia vengono stampati romanzi “libertini”, come quelli di Girolamo Brusoni
(1610-1686): La gondola a tre remi (1657); Il carrozzino alla moda (1658); La peota smarrita (1662).
Il romanzo più tipicamente barocco viene scritto in
ambito genovese da Giovanni Ambrogio Marini
(1594-1662): Il calloandro fedele (1653), un gioco irresistibile di equivoci e intrecci.
A Genova Anton Giulio Brignole Sale scrisse un
famoso romanzo di edificazione, la Maria Maddalena peccatrice e convertita (1636).
TEATRO E MUSICA
Lo “spettacolo” è il concetto chiave della cultura barocca. Il mondo stesso è teatro e la “teatralità” della
scena richiede uno scambio continuo fra realtà e finzione. La letteratura drammatica italiana è comunque
meno ricca della grande produzione europea. Il primo
riferimento del nostro barocco è Il pastor fido (la
prima edizione è del 1590) del ferrarese Giovan
Battista Guarini (1538-1612). Il Pastor fido è una
“tragicommedia”; la meraviglia, persino la
“mescolanza” dei due generi presagisce il barocco,
anche se in Guarini è ancora fortissima l’esigenza di
una mediazione armonica fra i possibili eccessi espressivi. Importantissima è la sperimentazione della
fiorentina Camerata de’ Bardi (ovvero di quei letterati e musicisti sotto la protezione di Giovanni de’
Bardi). Il musicista Vincenzo Galilei (1520-1591) invoca una maturazione del canto vocale, a favore del
“recitar cantando”, come se la musica riuscisse a far
rivivere il modello della tragedia greca. Da queste
sperimentazioni nascono il melodramma e i primi
grandi autori: Ottavio Rinuccini (1564-1612) con
l’Euridice (1600); Alessandro Striggio (1573-1630)
scrive l’Orfeo su musiche di Claudio Monteverdi;
Gian Francesco Busenello (1598-1659) scrive
L’incoronazione di Poppea (1642) con musiche di
Monteverdi.
La fiaba napoletana di Basile
• Il capolavoro “Lo cunto de li cunti”
• Straordinaria vivacità narrativa
Il napoletano Giovan Battista Basile (1575-1632)
è l’autore del bellissimo Lo cunto de li cunti.
Dal 1600 al 1604 fu al servizio della Repubblica
di Venezia, dove ebbe la possibilità di conoscere
l’ambiente dei letterati e di farsi introdurre
all’Accademia degli Stravaganti. Tornato a Napoli,
frequentò l’Accademia degli Oziosi. Visse per un
breve periodo alla corte dei Gonzaga a Mantova
e successivamente lavorò al seguito della sorella
Adriana, una famosa cantante. Fu anche gov-
ernatore in alcune zone del Sud in rappresentanza
di nobili napoletani. Scrisse, usando lo pseudonimo
Gian Alesio Abbatius, anagramma del suo vero
nome, liriche e poemi che non si discostano dai
moduli marinistici e tardorinascimentali (Il pianto
della Vergine, 1608; Madrigali et ode, 1609, la favola marinara Le avventurose disavventure, 1611;
le Egloghe amorose e lugubri, 1612). Pubblicò
anche opere in dialetto napoletano molto apprezzate, che dimostrano il suo attaccamento alle
tradizioni e alla cultura partenopea (le egloghe Le
muse napoletane, 1635, postumo). L’amore per le
fiabe, le favole, i motti popolari e i proverbi lo
portò a raccogliere prezioso materiale: nacque così
il suo capolavoro (pubblicato postumo tra il 1634 e
il 1636 per volere della sorella Adriana), Lo cunto
de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille,
noto anche come Pentamerone. Si tratta di una
raccolta di 50 fiabe con una speciale cornice: le
fiabe vengono raccontate in cinque giorni da dieci
vecchie. La bellezza del libro è una vivacità narrativa straordinaria, un uso brillante e moderno
della lingua. La realtà e la fantasia si completano
in un’esuberanza lirica e insieme commovente che
forse non ha pari in tutto il barocco italiano. Dalla
sua raccolta furono derivate fiabe come Cenerentola, Il gatto con gli stivali, La bella addormentata.
Le storie di Bertoldo, Bertoldino e
Cacasenno
• Giulio Cesare Croce
• Un capolavoro della narrativa popolare di tutti i
tempi
Minori, ma vibranti per il medesimo sano gusto
popolare, sono i libri del bolognese Giulio Cesare
Croce (1550-1609). Nato povero, fu un vero e
proprio cantastorie e scrisse dialoghi, scherzi, pronostici e canzoni, sia in italiano sia in dialetto romagnolo, stampandoli su fogli volanti e opuscoli
che venivano venduti sulle piazze. La sua fama let-
teraria resta comunque affidata a quel piccolo capolavoro di narrazione popolare che sono le proverbiali Sottilissime astuzie di Bertoldo (1606), seguite dalle Piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, figliuolo del già detto Bertoldo (1608).
A Bertoldo e Bertoldino, Adriano Banchieri
(1567-1634) volle aggiungere una continuazione, Il
cacasenno (1620), che fu poi illegittimamente inglobato ai primi due. Scritto in una lingua popolareggiante, ma efficace nell’immediatezza della rappresentazione degli aspetti materiali della condizione
umana, il Bertoldo e le sue “continuazioni” sono
uno dei capolavori della narrativa popolare di
tutti i tempi.
SCHEMA RIASSUNTIVO
TASSONI
Il suo capolavoro è La secchia rapita (1627), che
propone un gioco sottilissimo e vivace di alternanza
di serio e faceto. Il “poema eroicomico” nasce dalla
crisi del poema cavalleresco umanistico (in cui serio
e comico si integrano) e dalla presenza del nuovo
modello della Gerusalemme di Tasso, in cui il poema
eroico si chiude in una “serietà” tragica e religiosa.
CLASSICISMO BAROCCO
Per la sua ricerca di una leggerezza facile e chiara,
è un’alternativa al marinismo; i rappresentanti maggiori sono Chiabrera e Testi.
FRUGONI
Il cane di Diogene (postumo 1689) risulta un vero e
proprio pastiche, cioè un’opera che vuole concentrare
in sé qualunque argomento e qualsiasi modo per parlarne.
LETTERATURA
POPOLARE
DIALETTALE
E
La raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti (postumo,
1634-36) del napoletano Basile presenta una vivacità
narrativa straordinaria, un uso brillante e moderno
della lingua. Minori sono i libri di Giulio Cesare
Croce, famoso per le Sottilissime astuzie di Bertoldo.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è il carattere della comicità di Tassoni?
2. Chi sono i principali esponenti del classicismo
barocco?
3. Qual è il carattere del classicismo barocco?
4. Qual è l’importanza del Cunto de li cunti, capolavoro di Giovan Battista Basile?
3 LA PROSA FILOSOFICA,
SCIENTIFICA E STORICA
L’altissima ricerca filosofico-scientifica di Campanella e
Galilei è anche un’ottima testimonianza di lingua esuberante, profonda, lucida e chiara. La prosa trova un ulteriore punto di riferimento nella produzione culturale dei
gesuiti e, in particolare, nell’opera di Bartoli. La storiografia è dominata dalla figura di Paolo Sarpi e dalla sua
polemica sugli esiti della Controriforma.
Tommaso Campanella
• La “Città del sole”
Nato nel 1568 a Stilo, in Calabria, Tommaso Campanella entrò quindicenne nell’ordine domenicano
e si dedicò allo studio della filosofia naturalistica
di Telesio, dell’astrologia, dell’occultismo, della magia. Presto sospettato di eresia, dal 1591 al 1597
subì quattro processi. Iniziò a dar corpo al progetto
messianico di una grande riforma politico-religiosa
secondo linee che furono esposte poi nella Città del
sole (1623), il suo capolavoro, che delinea una società fondata sull’organizzazione razionale della
vita sociale. Arrestato per una congiura contro la
dominazione spagnola (1599), si finse pazzo per
evitare la condanna a morte e fu rinchiuso in carcere fino al 1626. La carcerazione, all’inizio molto
dura, gli consentì in seguito di comporre numerose
opere (De sensu rerum et magia, 1620; Philosophia
realis, 1623; Metaphysica, 1625), di intrattenere
carteggi e perfino di ricevere visite e insegnare. Fu
liberato nel 1629, per interessamento del papa Urbano VIII. Riparò infine a Parigi, dove fu ben accolto
e dove poté attendere alla pubblicazione delle sue
opere e morì nel 1639.
Nei vari aspetti della natura Campanella si sforza di
scoprire la presenza del divino: le stesse tre “primalità” di potenza, sapienza e amore che permeano
ogni essere e sono immagine della Trinità. Rettificando il sensismo di Telesio, Campanella insiste
sull’attività dello spirito umano che ha il suo centro
nell’autocoscienza, una dottrina che anticipa le posizioni di Cartesio.
• L’opera poetica di Campanella
• I temi
• L’affermazione del poeta-profeta in contrapposizione al poeta-retore
Campanella scrisse anche una raccolta di Poesie
(1622) in vari metri (sonetti, madrigali, canzoni).
Alcune di esse espongono i capisaldi della sua
filosofia, altre sono preghiere animate da una profonda commozione e altre ancora – le più interessanti – riflettono i travagli della sua esperienza
biografica: la consapevolezza della propria missione, la drammatica contrapposizione a un mondo
folle e malvagio, l’esperienza della carcerazione
con i suoi momenti di disperazione o di abbandono
alla provvidenza divina. Nella sua poesia, che occupa un posto di rilievo nel panorama del Seicento
italiano, Campanella si richiama consapevol-
mente al modello dantesco del poeta-profeta, in
contrapposizione con la figura del poeta-retore,
artefice di “meraviglia”, dominante in epoca barocca.
Galileo Galilei
•
•
•
•
•
•
Il rinnovatore della scienza moderna
Il “Sidereus nuncius”
L’adesione alla teoria copernicana
Il “Dialogo sopra i due massimi sistemi”
La condanna dell’Inquisizione
L’”invenzione” di una lingua scientifica
Il pisano Galileo Galilei (1564-1642) è il rinnovatore della scienza moderna e come scrittore propose una scrittura realistica e concreta, priva di barocchismi. Si dedicò agli studi matematici. Le sue
prime pubblicazioni gli fecero ottenere nel 1589
la cattedra di matematica. Andò poi a lavorare a
Padova, realizzando ricerche sperimentali. Il per-
fezionamento del cannocchiale (1609) gli permise
l’osservazione più ravvicinata di alcuni fenomeni
celesti e la conseguente scoperta della natura montuosa della Luna, dell’esistenza delle macchie solari
e di quattro satelliti di Giove, tutte questioni che
mettevano definitivamente in crisi l’astronomia
tolemaica. Egli ne diede notizia con un trattato in
latino, il Sidereus nuncius (1610), dedicato al
granduca di Toscana Cosimo II. Ciò gli valse la
nomina a “primario matematico e filosofo” granducale, senza l’obbligo dell’insegnamento e con un
buon appannaggio economico. Nel 1613 la pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle
macchie solari lo mise in aperto contrasto con i
domenicani. Denunciato nel 1615 all’Inquisizione,
Galilei si difese con quattro scritti fondamentali,
le Lettere copernicane (1615), con le quali sollecitava la Chiesa ad astenersi dal pronunciarsi in
modo ufficiale su un argomento scientifico come
quello della teoria copernicana, da lui ritenuta compatibile con la Bibbia, se interpretata allegoricamente. Nel 1616 tuttavia il cardinale Bellarmino dichiarò l’inconciliabilità tra fede cattolica e teorie
copernicane e ingiunse a Galilei di astenersi da
studi su quell’argomento. Nel 1623 venne eletto
papa Urbano VIII, uomo di cultura aperto alle problematiche scientifiche e amico di Galilei. Questi
gli dedicò Il saggiatore (1623), un saggio sulle
comete scritto con una lingua chiara e pungente.
Inoltre, confidando nella protezione papale, scrisse
il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo:
tolemaico e copernicano, pubblicato dopo estenuanti trattative con la censura nel 1632. I gesuiti
e l’Inquisizione reagirono violentemente alla pubblicazione: Galilei fu convocato a Roma e nel giugno del 1633 fu costretto ad abiurare la verità
scientifica; poi fu condannato al domicilio coatto
prima a Siena e poi nella sua villa di Arcetri, sulla
collina di Firenze. Le sue condizioni di salute andarono rapidamente peggiorando e nel 1637 divenne cieco; ciononostante, continuò a studiare e
riuscì a far pubblicare clandestinamente in Olanda
i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a
due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali (1638).
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi è una delle
opere più significative della letteratura italiana,
sia per la complessità e l’importanza degli argomenti trattati, sia perché in essa viene creata la
prosa scientifica italiana. Galilei “inventa” e
utilizza una lingua rigorosa, limpida e precisa,
capace di spiegare il dato scientifico senza genericità e al tempo stesso di impiegare termini della lingua comune dando loro un definitivo valore scientifico. A tutto ciò si accompagna un continuo, gradevolissimo e sapiente ricorso all’ironia, piacere intellettuale che accomuna il grande scienziato ad Ariosto, il poeta che egli amò e apprezzò più di ogni
altro.
LA PROSA SCIENTIFICA
Da Galilei e dai suoi più stretti collaboratori, come
Vincenzo Viviani (1622-1703), trasse origine una
scuola di scienziati che, organizzati spesso in accademie, tennero vivo il metodo d’indagine scientifica e la libertà intellettuale del grande scienziato.
Il più celebre di tali centri di studio e di ricerca fu
l’Accademia del Cimento, fondata da Leopoldo, fratello del granduca di Toscana Ferdinando II. Di essa
fecero parte, tra gli altri, l’aretino Francesco Redi
(1626-1698), interessante figura di scienziato (scrisse
con prosa nitida ed elegante le Esperienze attorno
alla generazione degli insetti, 1668) e di poeta, autore
del celebre poemetto scherzoso Bacco in Toscana
(1685), una tripudiante esaltazione del vino, ricca
di felicissime invenzioni linguistiche. Accanto a lui
va posto il romano Lorenzo Magalotti (1637-1712),
scienziato, erudito e viaggiatore; di lui vanno ricordati i Saggi di naturali esperienze (1667) oltre a resoconti di viaggi e di avventure. Fuori dell’accademia,
ma fedele al metodo galileiano fu il fiorentino Evangelista Torricelli (1608-1647), inventoredel barometro e autore del trattato Opera geometrica (1644)
e delle Lezioni accademiche, pubblicate postume nel
1715. Interessante anche la figura di Marcello
Malpighi (1628-1694), il primo che fece uso del microscopio per studiare tessuti organici, autore di
scritti polemici nei confronti di coloro che avversavano la nuova medicina. Comunque nel complesso
in Italia la divulgazione scientifica ebbe vita difficile,
sia per l’opposizione del potere ecclesiastico, sia per
la debolezza sociale e culturale del naturale destinatario di tale cultura, la nuova classe borghese.
Gli scrittori gesuiti: Bartoli e Segneri
•
•
•
•
•
Daniello Bartoli
L’”Istoria della Compagnia di Gesù”
L’adesione alla teoria copernicana
Lo stile di Bartoli
Paolo Segneri
Resta sul ferrarese Daniello Bartoli (1608-1685) il
giudizio di Leopardi, che lo definì “il Dante della
prosa italiana”. Bartoli entrò giovanissimo nella
Compagnia di Gesù e vi compì tutti gli studi. Insegnante di retorica a Parma, dal 1637 divenne uno dei
più importanti predicatori italiani. Nel breve scritto
Dell’uomo di lettere difeso ed emendato (1645) assunse una posizione moderata nei confronti del
barocco, stile “moderno e concettoso”. Tra le sue
numerosissime opere minori, vanno segnalati il
trattato sull’Ortografia italiana (1670) e il De’ simboli trasportati al morale (1677). Il suo capolavoro è l’Istoria della Compagnia di Gesù
(1650-73). Il fine dell’opera non è storiografico ma
direttamente celebrativo e religioso. Cionondimeno, all’interno della sua opera si trovano grandiose descrizioni geografiche puntellate da precise
considerazioni di carattere storiografico. Su questa
base si aprono poi i ritratti a tutto tondo degli eroi
gesuiti: Francesco Saverio, Matteo Ricci. Lo stile
di Bartoli, lontano dagli eccessi del concettismo,
è giustamente celebre: pur all’interno della proliferante retorica barocca, la sua prosa appare elegante, fluida ed equilibrata in modo armonioso.
La letteratura controriformistica ha un punto di
forza nella produzione di predicatori. Le loro prediche non raggiungono alti profili teologici, ma certo
sono di altissima spettacolarità moralistica e retorica.
È il caso di Paolo Segneri (1624-1694); il suo
Quaresimale (1679) è un capolavoro della letter-
atura omiletica del Seicento: la vastissima e salda
cultura teologica trova espressione in un’eloquenza
appassionata, che rifugge da eccessivi contorcimenti retorici e dal concettismo oscuro in voga ai
suoi tempi. Da ricordare anche Sforza Pallavicino
(1607-1667) e la sua Istoria del Concilio di Trento
(1656-57).
Paolo Sarpi
•
•
•
•
La vita
L’”Istoria dell’interdetto”
L’”Istoria del concilio tridentino”
Le cause della rottura cattolici-protestanti
Il veneziano Paolo Sarpi (1552-1623) è il più
grande storico italiano di quest’epoca. Nel 1565
entrò nell’ordine dei serviti e in seguito divenne
teologo del duca di mantova Guglielmo Gonzaga e
collaboratore del cardinale Carlo Borromeo a Milano. Nel 1606 fu nominato teologo della Repub-
blica di Venezia. In questa veste partecipò al conflitto che si aprì (1604) fra la Serenissima e papa
Paolo V, quando Venezia si rifiutò di consegnare
al tribunale ecclesiastico due preti imputati di reati
comuni. Sarpi sostenne la posizione della Repubblica anche dopo l’interdetto (1606) e a prezzo di
una scomunica personale. Terminata la disputa con
un compromesso (1607), si avvicinò ai riformati
d’oltralpe, senza abbandonare l’ortodossia e coltivando a Venezia i suoi sogni di riforma della Chiesa cattolica.
La polemica con la Santa Sede per la questione
dell’interdetto è documentata da un’ampia serie di
scritti, tra cui spiccano i sette libri della Istoria
particolare delle cose passate tra il sommo pontefice Paolo V e la Repubblica di Venezia gli anni
1605-07 (postumo, 1624), nota anche come Istoria
dell’interdetto, che narra gli avvenimenti in modo
puntuale e rigoroso. Queste opere rivelano lo spirito
libero di Sarpi, teso alla costante ricerca della verità
attraverso una serrata indagine razionale. Importante testimonianza sono le Lettere ai protestanti:
in una prosa semplice e vigorosa, egli espone il
suo programma di riforma della Chiesa in nome del
rigore e della purezza delle origini evangeliche e la
sua strategia politica, volta ad agganciare Venezia
alla Francia e all’Inghilterra per controbilanciare la
forza degli Asburgo.
La Istoria del concilio tridentino è il capolavoro
di Sarpi, composto tra il 1608 e il 1618 e pubblicato a Londra nel 1619 con lo pseudonimo Pietro
Soave Polano. La storia del concilio di Trento vi è
minutamente ricostruita con appassionata cura filologica. Partendo dal diffondersi della Riforma in
tutta Europa, Sarpi ricerca le cause della rottura
tra cattolici e protestanti, individuandole negli
interessi mondani e temporali della curia romana. Quegli stessi interessi, a suo modo di
vedere, hanno causato il fallimento del concilio, da
cui sono usciti rafforzati l’autoritarismo papale e la
mondanizzazione della Chiesa. La prosa è scarna,
asciutta, ispirata a quella rigorosa di Galileo Galilei, di cui Sarpi fu amico e del quale condivise gli
interessi scientifici.
SCHEMA RIASSUNTIVO
CAMPANELLA
Esprime la sua teologia e il suo pensiero utopico di
riforma sociale e religiosa (Città del sole, 1623) con
una lingua esuberante e ricca. Le sue Poesie lo collocano tra i massimi poeti del secolo in Italia ed espongono una visione del poeta-profeta in contrasto
con il poeta-retore dominante all’epoca.
GALILEI
Il Dialogo (1623) è una delle opere più significative
della letteratura italiana, sia per la complessità e
l’importanza degli argomenti trattati, sia perché in
essa viene elaborata la prosa scientifica italiana, “inventando” una lingua rigorosa e duttile.
GLI SCRITTORI GESUITI
Segneri e soprattutto Bartoli presentano una scrittura
elegante, fluida e armoniosamente equilibrata, che in-
fluenzerà la prosa del Settecento e del primo Ottocento.
SARPI
È il maggiore storico della sua epoca. Nel suo capolavoro, la Istoria del concilio tridentino, individua
le cause della rottura tra cattolici e protestanti negli
interessi mondani e temporali della curia romana;
quegli stessi interessi, a suo modo di vedere, hanno
causato il fallimento del concilio, da cui sono usciti
rafforzati l’autoritarismo papale e la mondanizzazione della Chiesa.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è il capolavoro del pensiero utopico di
Campanella?
2. In che cosa si distingue la visione del ruolo del
poeta in Campanella da quella propria del barocco?
3. Perché Galilei ha un posto importante nella letteratura italiana?
4. Qual è il giudizio di Leopardi su Bartoli?
5. Quali sono le cause della rottura tra cattolici e
protestanti secondo Sarpi?
IL SETTECENTO
Il Settecento è l’età dei “lumi”, l’epoca
dell’illuminismo,
delle nuove esigenze razionali e della prima
rivoluzione
industriale. In tutta l’Europa si sviluppa una nuova
idea di modernità, che si basa sul senso laico
della cultura, sulla ricerca di una nuova e maggiore
comunicatività del pensiero. La Rivoluzione americana
(1775) e francese (1789) generano il nuovo Stato
borghese. In Italia l’illuminismo è quasi sempre mediato
da una perdurante eredità classica. L’Arcadia, Metastasio,
persino l’opera rigorosa di Parini, come il gusto
neoclassico di fine secolo, perseguono un equilibrio
tutto italiano fra ricerca razionale, reazione antibarocca
e recupero del miglior classicismo della tradizione.
L’opera storiografica e critica appare più
complessa:
Muratori e Vico sono i fondatori di una nuova filosofia
della storia. Solo a metà secolo l’illuminismo italiano
trova un carattere originale soprattutto in area lombarda
(l’esperienza della rivista “Il Caffè” e il pensiero
di Beccaria), sebbene di grande rilievo risulti anche
il pensiero dei meridionali Antonio Genovesi e
Ferdinando
Galiani. È nel teatro che la letteratura settecentesca
regala
gli esiti più innovativi: Goldoni a Venezia riforma
la commedia in senso borghese; Alfieri rinvigorisce
la tragedia portando sulla scena l’odio per ogni
forma
di tirannide. A cavallo fra Settecento e Ottocento,
nell’epoca della rivoluzione francese e dell’impero
napoleonico, il neoclassicismo verrà rappresentato
dall’importante esperienza di Monti, mentre una
nuova
mediazione fra classicità e romanticismo sarà es-
pressa
dall’opera di Ugo Foscolo.
1 UN NUOVO ORIZZONTE
STORICO
La storia del Settecento è sostanzialmente una lenta crisi
dell’Antico regime nobiliare. La monarchia spagnola è in
pieno declino; la monarchia francese dalla Reggenza a
Luigi XVI vive in una contraddizione senza via d’uscita.
Solo la monarchia costituzionale inglese consolida il suo
potere e la sua forza economica. L’impero asburgico estende l’egemonia sull’Italia e diventa la maggiore potenza
europea. La laicizzazione e la necessità di espansione
economico-culturale sono elementi che spiegano la
volontà di comunicazione tipica di questi anni. L’Italia,
priva di autonomia politica e largamente dipendente
dall’Austria, avverte maggior disagio rispetto ad altre
nazioni che si vanno sviluppando. Il problema vero dei
nostri intellettuali è mantenere la cultura italiana al
passo di quella europea, cercando una mediazione che
non ci separi dall’antica tradizione umanistica e sappia
confrontarsi con il razionalismo europeo, ampiamente diffuso. La riforma del linguaggio poetico operata
dall’Arcadia appare come una reazione al barocco.
L’Arcadia
• La poetica dell’Arcadia
• La poesia secondo Gravina
L’Accademia dell’Arcadia sintetizzò la reazione
di fine Seicento al marinismo e al barocco. Venne
fondata a Roma nel 1690, fra gli altri da Giovanni
Mario Crescimbeni, Gian Vincenzo Gravina e Giambattista Felice Zappi. Il programma letterario
prevedeva un vero e proprio culto della vita pastorale: ogni letterato assumeva un nome pastorale
greco (ricreando il mito dell’Arcadia, regione greca
sede del monte Parnaso sacro alle Muse); aveva un
simbolo distintivo (la siringa di Pan circondata da
lauro), e il luogo delle riunioni veniva chiamato Bosco Parrasio, in onore del monte Parnaso.
Il razionalismo arcadico rilanciò il genere della lirica; ma alla poesia barocca della meraviglia e della
metafora ardita contrappose un linguaggio poetico
chiaro e lineare. Era il classicismo (specie uman-
istico) la chiave per ritrovare qualcosa che, secondo
l’Arcadia, il barocco aveva dissipato. Il progetto
tuttavia rimase un mutamento di superficie: l’idea
di una nuova società si riduceva all’evasione in
una società astratta, salottiera, sostanzialmente artificiale. L’“antica favola”, che per Gravina doveva
tentare una riforma civile, e il rilancio della tradizione italiana, diventava il rito di una piccola società aristocratica, in una sterminata produzione
di “pastori” e “pastorelle” immersi in poesie
d’occasione (soprattutto “canzonette”) di facile
maniera. Crescimbeni (“custode generale”
dell’Arcadia fino alla sua morte, nel 1728) parlava
di classicismo “rifatto in piccolo”, rispettoso della
prudente politica culturale della Curia romana.
Anche se fu Gravina a stendere (1696) le leggi
accademiche dell’Arcadia, fu certo l’indirizzo di
Crescimbeni a segnare l’artificiosità dei volumi
collettivi Rime degli Arcadi e Vite degli Arcadi,
pubblicate dal 1708. La cosiddetta scissione del
1711 (rottura del sodalizio Gravina-Crescimbeni;
nascita dell’Accademia dei Quirini, a cui aderirono,
insieme al Gravina, Rolli e Metastasio) non segnò
in effetti alcun vero cambiamento. Al contrario, il
programma di reazione al barocco ebbe grande successo; l’Accademia si diffuse dappertutto così che
l’Arcadia divenne il più importante fenomeno
del mondo letterario italiano.
La riflessione razionalistica più interessante è
quella del calabrese Gian Vincenzo Gravina
(1664-1718). Nel trattato Della ragion poetica
(1708; la parte essenziale, intitolata Delle antiche
favole, è del 1696) Gravina riconosce alla poesia
il carattere della “finzione” fantastica e il potere
di comunicare a tutti (persino alle “menti volgari”)
le verità più nascoste. La poesia diventa una “maga,
ma salutare, e un delirio che sgombra le pazzìe”.
La sapienza è occulta; le favole sono le maschere
storiche attraverso le quali la verità assoluta si
manifesta nella comunicazione sociale: la poesia
assume un forte ideale di funzione civile. Le idee
di Gravina non furono mai accettate dall’Arcadia
ed egli, deluso, si chiuse in un rigido classicismo.
LA LIRICA ARCADICA
Il frutto autentico dell’Arcadia è la ricerca di una
chiarezza comunicativa e dunque un esercizio di semplificazione, che riesce a svincolare la produzione
settecentesca dalla rigida tradizione petrarchesca, a
favore di una cantabilità e di un “grazioso” quotidiano, che rimane un reale, anche se piccolo, ampliamento della prospettiva lirica italiana. Per questo
nuovo gusto sono da ricordare i sonetti di Giambattista Felice Zappi (1667-1719); e soprattutto i poeti della cosiddetta “seconda generazione arcadica”,
come Paolo Rolli (1687-1765: le Canzonette e cantate sono del 1727, mentre l’opera completa De’ poetici componimenti è del 1753) e Tommaso Crudeli
(1703-1745: postuma la Raccolta di poesie, 1746) e
ancora Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768). Si
può parlare ormai di un “rococò arcadico”, ovvero
di un gusto frivolo e leggero, reso effervescente da
una certa teatralità scherzosa, con una curiosa attenzione alla quotidianità. Chiaramente questo rococò
italiano è meno sontuoso e maggiormente classicistico rispetto al magniloquente rococò europeo: un poeta come Ludovico Savioli Fontana (1729-1804),
autore dei famosi Amori (1765), risulta un’originale
mediazione fra Arcadia, leziosità rococò e classicismo figurativo, capace di fornire qualche esempio
persino al neoclassicismo di Monti.
Il teatro
• Carlo Maria Maggi
• Pier Jacopo Martello
• Girolamo Gigli
Gli esempi migliori della letteratura italiana si scorgono soprattutto nella produzione teatrale. Certamente il peso della commedia dell’arte e del melodramma non consente ancora la rinascita (vedi
Carlo Goldoni) di un “teatro della parola”.
Il milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699) con
le sue quattro commedie (pubblicate postume nel
1701: Il Mancomale, 1695; Il barone di Birbanza,
1696; I consigli di Meneghino, 1697; Il falso filo-
sofo, 1698) propone un’invenzione realistica, una
comicità concreta, corroborata da un vero e proprio
sperimentalismo dialettale.
Il bolognese Pier Jacopo Martello (1665-1727),
invece, compie una specie di radicalizzazione del
gusto barocco, ottenendo un effetto tanto paradossale quanto espressivo, non solo nel suo teatro
(per il quale conia un nuovo metro di dodici sillabe,
detto appunto “martelliano”, sul modello
dell’alessandrino francese), ma soprattutto nelle
sue prose satiriche (L’impostore o Della tragedia
antica e moderna, 1714; Il segretario di Cliternate,
1717) e nella favola teatrale Il Femia sentenziato
(1724, contro Scipione Maffei).
Interessante la figura del senese Girolamo Gigli
(1660-1722): scrisse con spregiuticatezza, aggredendo amaramente la figura dell’ipocrita (Don Pilone, 1707) o del falso untuoso (La sorellina di Don
Pilone, 1712). Satira disperata e cruda sono le scritture del Gazzettino, testi proposti da Gigli come
finti notiziari, avvertimenti inventati o ideali, diffusi poi manoscritti tra il 1712 e il 1713.
La storiografia e il pensiero critico
La grande novità del pensiero critico settecentesco
italiano sono l’erudizione, le ricerche di archivio
e di repertori. In effetti, proprio questo esercizio
di ricerca produce un dinamismo e una presa di
coscienza culturale di enorme importanza. Studiosi
come Muratori, Maffei o Giannone non sono irrigiditi in un’erudizione inutile e polverosa: le loro
ricerche segnano la nascita di un modello culturale
a cui non solo l’illuminismo italiano, ma anche il
pensiero risorgimentale deve moltissimo.
• Lodovico Antonio Muratori
• La vita
• Per una letteratura della “ragione” e del “buon
gusto”
• L’opera storiografica
Lodovico Antonio Muratori (1672-1750), nato a
Vignola, studiò a Modena, trasferendosi poi a Milano come prefetto della Biblioteca Ambrosiana.
Qui conobbe la famiglia Borromeo e divenne amico
dello scrittore Carlo Maria Maggi, di cui scrisse
anche la Vita (1700). Nel 1700, a Modena, iniziò la
sua attività di archivista e bibliotecario di corte,
dedicandosi a un’intensa attività di studio.
S’impegnò nell’affermazione di una cultura improntata ai più autentici valori cattolici, combattendo ogni forma di superstizione e di dogmatismo.
Di rilievo fu la battaglia condotta per il rinnovamento del sapere, in sintonia con il razionalismo
illuministico del tempo. Dopo aver fatto parte
dell’Arcadia con il nome di Lamindo Pritanio,
elaborò un progetto di rinnovamento letterario che
espose nel trattato Primi disegni della repubblica
letteraria d’Italia (1703): alla letteratura di evasione contrappose una letteratura che si avvaleva della “ragione” e del giudizio critico e che,
come affermò nel trattato successivo Riflessioni
sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708),
si fondava sul “buon gusto” (definito come “il
conoscere ed il poter giudicare ciò che sia difettoso
o imperfetto o mediocre nelle scienze e nelle arti,
per guardarsene, e ciò che sia il meglio e il perfetto
per seguirlo a tutto potere”). Fu un grande storiografo, studiò in particolare il Medioevo, che rivalutò, dando inizio alla storiografia moderna su
basi scientifiche. Frutti di questi studi sono le fondamentali raccolte di fonti cronachistiche Rerum
Italicarum scriptores (1723-38), Antiquitates
Italicae Medii Aevi (1738-42) e gli Annali d’Italia
dal principio dell’era volgare sino all’anno 1749
(1744-49).
• Pensatori laici: Maffei e Conti
• Scipione Maffei
• Antonio Conti
Dalla nobiltà veneta vengono due pensatori originali, testimoni di un forte laicismo.
Scipione Maffei (1675-1755) nel saggio Della scienza cavalleresca (1710) accusa la nobiltà contem-
poranea, incapace di assumersi una razionale e concreta responsabilità di potere. Il “Giornale de’ letterati d’Italia” (1710-40; ma solo fino al 1718 è
diretto da Maffei e da Antonio Vallisnieri) è un
ulteriore tentativo di proporre una “universalità di
cognizione” per formare il nuovo uomo politico.
Notevole il suo tentativo di rinnovamento teatrale: la sua Merope (1713) è una grande prova di
tragedia colta ed erudita, certo raffinata e provvista
di buona disposizione scenica.
Antonio Conti (1677-1749) visse a Padova, dove
studiò matematica e fisica, a Venezia e poi a Parigi
e a Londra. Ebbe molteplici interessi e si cimentò in
traduzioni (Il riccio rapito dell’inglese Pope), testi
teatrali (le tragedie Cesare, Giunio Bruto, Marco
Bruto, Druso) e scritti filosofici spregiudicati
(Prose e poesie, 1739-56), in cui tentò di conciliare
la scienza contemporanea e il platonismo.
• Pietro Giannone
• L’autobiografia
La cultura napoletana mostra una certa vivacità sia
per il lavoro dell’Accademia degli Investiganti (operante soprattutto fra il 1663 e il 1670), sia per la
diffusione del grande dibattito sul giusnaturalismo,
la dottrina che riconosce l’esistenza di un diritto
naturale preesistente alla formazione dello Stato.
Pietro Giannone (1676-1748) è una grandissima
figura della cultura napoletana. Legato alla migliore
cultura giusnaturalistica, scrisse la Istoria civile del
Regno di Napoli (1723), in cui indaga l’origine
del potere civile ed ecclesiastico nel Meridione a
partire dal Medioevo. Ne deriva una storia laica
delle istituzioni, attraverso l’analisi della formazione degli istituti civili e la conseguente denuncia
degli abusi del potere temporale della Chiesa.
Scomunicato per il suo anticlericalismo, fu arrestato (1736) e morì in prigione. Nei manoscritti
del carcere (stampati solo nel 1755) troviamo il
Triregno (stampata integralmente solo nel 1895),
in cui Giannone vagheggia un cristianesimo “corporeo”, radicato e vissuto nelle condizioni reali
dell’esistenza. Il suo pensiero ebbe grande influenza sull’illuminismo italiano. Il capolavoro resta
comunque l’autobiografia Vita di Pietro Giannone (scritta in carcere dal 1736 al 1737, ma pubblicata solo nel 1905), che racconta la storia tragica
di un intellettuale e, in filigrana, il naufragio della
cultura laica italiana, che non sa reagire alla sordità
del potere. Il racconto è travolgente, con pagine
tenerissime e commoventi: sorprendente la lucidità e la consapevolezza con cui Giannone
descrive la propria tragedia esistenziale.
Giambattista Vico
• La vita e le opere
• La “Scienza nuova”
Il napoletano Giambattista Vico (1668-1744) è la
vera grande novità della cultura italiana. Prima
istitutore, ottenne poi una cattedra universitaria; la
prolusione del 1708, stampata l’anno dopo, De nostri temporis studiorum ratione (L’organizzazione
degli studi del nostro tempo) anticipa alcune delle
tesi fondamentali del suo pensiero. Del 1709 è il
trattato De antiquissima Italorum sapientia
(L’antichissima sapienza degli italici), dove sono
poste le premesse per l’affermazione della centralità della storia nel quadro del sapere dell’uomo.
Il suo capolavoro esce in prima edizione nel 1725
con il titolo Principi di una scienza nuova d’intorno
alla natura delle nazioni (1725); la seconda, ampiamente rielaborata e arricchita, è intitolata Cinque
libri dei principi di una scienza nuova (1730); la
terza e definitiva edizione, pubblicata pochi mesi
dopo la sua morte, comparve con il nome di Principi di scienza nuova (1744). Notevole l’orazione
In morte di donn’Angela Cimmino marchesa della
Petrella (1727), in cui lo scrittore delinea un modello altissimo di “virtù privata”. Il filosofo visse
sempre fra molti disagi economici.
• Il pensiero vichiano
• La rivalutazione della storia
Al centro della Scienza nuova vi è l’affermazione
che solo la storia (e non la natura) può essere indagata e conosciuta adeguatamente dall’uomo,
poiché solo ciò che si fa si può davvero conoscere.
Il sapere storico deve tener conto degli inganni
umani: anche i miti, più che semplici “imposture”,
devono essere considerati gli unici modi possibili di
conoscenza e di organizzazione civile. La “critica”
deve saper comprendere questa complessità e fondarsi sulla “filosofia” (il “vero”) e sulla “filologia”
(il “certo”); e deve dimostrare il lento progresso
della civiltà umana attraverso l’analisi delle forme
di “dominio” sulla debolezza. La celebre “discoverta del vero Omero” (l’antico poeta greco non è
mai esistito come figura storica e i poemi che a
lui vengono attribuiti sono in realtà la produzione
collettiva del popolo greco) non è una generica
esaltazione sacrale della poesia, bensì la concreta
definizione di un modello storico. Del resto, per
Vico la vita dei popoli si svolge in tre fasi dominate rispettivamente dal senso (infanzia, ovvero età
degli dei), dalla fantasia (fanciullezza, ovvero età
degli eroi) e dalla ragione (maturità, ovvero età de-
gli uomini). Il passaggio da una fase all’altra della
storia non è lineare e soprattutto né razionale né
cosciente, ma può conoscere dei ritorni, delle ripetizioni (i “ricorsi” storici). L’irrazionalità, l’istinto,
il mito, la fantasia, gli elementi che stanno
all’origine della storia (contro una tesi di sapienza
perduta) sono dati che ricorrono e di cui lo storico
deve tener conto quali modelli culturali.
Il melodramma e Metastasio
• Il libretto melodrammatico
• La riforma del melodramma
• Una forma espressiva di respiro internazionale
La lingua italiana era ancora molto diffusa in
Europa grazie soprattutto al melodramma e ai libretti, che ne costituivano l’elemento narrativo. La
scrittura, distinta in recitativi (l’azione e il dialogo
vero e proprio) e arie (situazioni più liriche e musicali), esaltava il valore spettacolare e fantasioso
del testo scenico. La reazione razionalistica, interessata ai valori morali e comunicativi della parola, criticava il melodramma tacciandolo di artificio e di grossolanità espressiva rispetto alle esigenze dello spettacolo e della musica. Ne chiedeva
dunque una riforma, per quanto il melodramma
continuasse a riscuotere un enorme successo.
D’altra parte, né le varie condanne (fra le migliori,
quelle del Gravina e del Muratori), né la satira del
mondo della musica e dello spettacolo (per esempio, Il teatro alla moda, 1720, di Benedetto Marcello, 1686-1739), avrebbero potuto scalfire una
delle forme espressive di maggiore respiro internazionale. Una riforma fu tentata da Apostolo
Zeno (1669-1750), poeta ufficiale della corte imperiale di Vienna, e dal librettista Pietro Pariati
(1665-1733). Ma solo Metastasio riuscì a esprimere
una mediazione per cui la preminenza del libretto
sulla musica non riduceva ma forse esaltava il
fascino della musica e dello spettacolo. La limpidissima facilità dei suoi testi, la levigatezza di
un’analisi psicologica che include sornionamente
l’idea di vita come “inganno e finzione”, sono pros-
pettive liriche in cui la fragrante chiarezza dello
spettacolo musicale settecentesco trova il suo
migliore equilibrio.
• Pietro Metastasio
• I primi melodrammi
• Poeta di corte a Vienna
• La vecchiaia
Il romano Pietro Metastasio (1698-1782), pseudonimo grecizzante di Pietro Trapassi, è il massimo
esponente della tradizione italiana arcade e classicheggiante. La sua prima raccolta di Poesie è del
1717 e comprende la tragedia Giustino, scritta a
quattordici anni. Scrive poi alcuni testi teatrali destinati alla musica come l’Endimione (1720) e Gli
Orti Esperidi (1721). Del 1724 è il suo primo melodramma, Didone abbandonata (1724), che ebbe
un successo eccezionale. A Roma, mise in scena diversi melodrammi, tra cui Catone in Utica (1728),
Semiramide riconosciuta (1729), Alessandro
nell’Indie (1729), Artaserse (1730).
Nel 1730 venne chiamato a Vienna con il titolo
di “poeta cesareo” e presso la corte asburgica rimase tutta la vita. Tra il 1730 e il 1740 scrisse le
sue opere migliori: i melodrammi Demetrio (1731);
Adriano in Siria (1732); Olimpiade e Demofoonte
(1733); La clemenza di Tito (1734), musicata da
Mozart; Achille in Sciro (1736); Ciro riconosciuto
(1736); Attilio Regolo (1740); inoltre le feste teatrali L’asilo d’amore (1732) e Le cinesi (1735),
l’azione sacra Betulia liberata (1734) e la canzonetta (musicata dallo stesso poeta) La libertà (1733).
Dopo questo decennio d’intensa attività, la
produzione andò rallentando, sia per la crisi attraversata dalla corte viennese dopo la guerra di successione austriaca, sia per un progressivo inaridirsi
della sua vena poetica, testimoniato anche da una
certa ripetitività che caratterizza i lavori successivi,
come i melodrammi Antigone (1743), Ipermestra
(1744), Il re pastore (1751), L’eroe cinese (1752),
Nitteti (1756), Romolo e Ersilia (1765) e Ruggiero
(1771) e la festa teatrale L’isola disabitata (1752),
oltre alla famosa canzonetta La partenza (1746).
Tutte le opere di Metastasio suscitarono l’interesse
di numerosi compositori europei (si pensi che
l’Artaserse ebbe più di cento versioni musicali).
Dopo la metà del secolo il poeta, ormai vecchio, si
chiuse progressivamente in se stesso, dedicandosi
ai doveri della vita di corte e alla riflessione sulle
ragioni del proprio lavoro, che si concretizzarono in
due opere di notevole lucidità: La Poetica di Orazio
tradotta e commentata (1745) e l’Estratto dell’Arte
poetica di Aristotele e considerazioni sulla
medesima (1773). L’edizione completa dei suoi
drammi fu stampata nel 1780-82.
• Le caratteristiche del melodramma di Metastasio
• Una dimensione volutamente irreale
Metastasio rinnovò il melodramma, trasformandolo in una dimensione di pura fantasia, dove parole e musica vengono fusi armonicamente. Il trad-
izionale bagaglio mitologico (si pensi anche agli ottimi risultati di Metastasio nel genere delle “feste
teatrali” e delle “azioni sacre”) fu vivificato dalla
sensibilità settecentesca, fatta di una continua oscillazione tra lucidità razionale e sollecitazioni
del sentimento. Metastasio utilizza tutte le risorse
della tradizione teatrale per dare valore a quelle
motivazioni psicologiche che spesso prendono il
posto dell’azione, talvolta macchinosa e artificiale.
I suoi eroi si muovono in una dimensione volutamente irreale e trovano la loro massima espressione nelle “ariette” conclusive delle scene, in cui
vengono tirate le fila dell’azione, mentre la sfera
dei sentimenti viene esplorata in maniera da metterne in risalto le contraddizioni, senza tuttavia
trasmettere allo spettatore la drammaticità del conflitto.
• La librettistica del Settecento
• Ranieri de’ Calzabigi
• Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart
Il melodramma resta vitale per tutto il secolo. Intorno agli anni ’30, l’opera buffa napoletana apre a
una comicità vivace, nutrita di una spensierata sperimentazione linguistica: l’intermezzo de La serva
padrona (1733) di Giovan Battista Pergolesi
(1710-1735), con libretto di Gennaro Antonio Federico, diviene a Parigi addirittura il motivo di una
complicata discussione, la cosiddetta querelle des
bouffons, 1752, in cui gli illuministi si schierano
a favore dei “buffoni”, ovvero del teatro musicale
italiano. Una vera riforma avverrà solo a metà
secolo. Metastasio, infatti, esaltando il librettista
dava totale libertà al compositore. Occorreva
un’integrazione più netta. Quando il musicista tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-1787) e il
librettista italiano Ranieri de’ Calzabigi si
mettono a lavorare in stretto accordo (così che la
scrittura del libretto è direttamente legata alla composizione musicale, favorendo uno schema drammatico più ordinato e classico), la riforma è finalmente ottenuta: Orfeo ed Euridice (1762) e Alceste
(1767) ne sono le grandi riprove. La maturazione
avverrà però più tardi con il lavoro di Mozart e di
Lorenzo Da Ponte.
Lorenzo da Ponte (1749-1838) ebbe una vita
travagliata, morì a New York in fuga dai suoi creditori. Scrisse per Mozart i libretti di tre opere decisive nella storia della musica, Le nozze di Figaro
(1786), Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni
(1787) e Così fan tutte ossia la scuola degli amanti
(1790). Questi libretti sono meccanismi perfetti
di vitalità creatrice, capace però di distruggere
spavaldamente tutti i valori culturali (e politici) che
il melodramma aveva per decenni custodito. Dappertutto si sente il brivido della catastrofe imminente: ma anche la bellezza di un vuoto nuovo, di
un’armonia fra testo e musica mai sentiti, modernissimi, e ancora sorprendenti per noi, per un pubblico di due secoli dopo.
SCHEMA RIASSUNTIVO
L’ARCADIA
La reazione al barocco è rappresentata sul piano poetico dall’Arcadia (1690), che propugna una nuova
semplicità razionalistica con un linguaggio chiaro e
lineare. Per Gravina la poesia assume una forte comunicatività sociale.
STORIOGRAFIA
Sono l’erudizione, le ricerche di archivio e di repertori la grande novità del pensiero critico settecentesco italiano. Muratori lotta per un rinnovamento del
sapere, in una prospettiva già illuministica; Giannone
propone una storia laica delle istituzioni; per Vico
solo la storia (e non la natura) può essere indagata e
conosciuta adeguatamente dall’uomo.
IL MELODRAMMA DI METASTASIO
La preminenza assoluta del librettista sulla musica,
l’ordine lirico e strutturale della parola scritta non riducono ma esaltano il fascino della musica e dello
spettacolo. Il melodramma di Metastasio è pura
fantasia, armonia perfetta di parole semplici e limpide e musica.
LA LIBRETTISTICA E DA PONTE
I libretti di Da Ponte (Le nozze di Figaro, Il dissoluto
punito ossia il Don Giovanni, Così fan tutte ossia la
scuola degli amanti) sono meccanismi perfetti di vitalità creatrice, capace però di distruggere spavaldamente, quasi per troppa luce, tutti i valori culturali (e
politici) che il melodramma aveva per decenni custodito.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è l’oggetto della reazione culturale
dell’Arcadia?
2. Qual è per Vico il compito della “critica” storica?
3. In che modo Metastasio riforma il melodramma?
4. Per quale grande musicista scrive i suoi libretti
Da Ponte?
2 L'ILLUMINISMO
ITALIANO
L’illuminismo italiano ha come riferimento principale il
pensiero illuministico francese di Montesquieu, Voltaire,
Rousseau e Diderot, mentre l’illuminismo inglese, in gran
parte riconducibile alla filosofia empirista, è conosciuto
solo parzialmente e soprattutto attraverso la produzione
romanzesca. Non fu mai un fenomeno radicale, né da un
punto di vista politico né sotto il profilo filosofico.
Caratteri generali
• Le tre fasi dell’illuminismo italiano
L’illuminismo italiano può essere distinto in tre periodi: 1. il periodo 1740-1750 è segnato da una larga
diffusione delle idee illuministiche; il nuovo equilibrio politico di metà secolo invita a un grande dibattito culturale; 2. il periodo 1760-1775 vede una fat-
tiva collaborazione fra intellettuali e principi illuminati; 3. nel 1775-1790 la collaborazione si interrompe e il riformismo, diretto dall’alto, si fa meno
dinamico.
L’illuminismo italiano fu sempre prudente e
mirò principalmente a uno svecchiamento della cultura. Del resto, anche fenomeni culturali non illuministici (la tradizione del riformismo moderato di
Muratori; il rigorismo religioso giansenista; persino
il gesuitismo, che ambiguamente si fece carico
della nuova cultura riformista) sono mossi da intenti riformistici, escludendo qualsiasi atteggiamento eversivo e radicale. I nostri illuministi, nonostante indubbie esitazioni, diedero comunque un
contributo interessante al dibattito europeo, arricchendo e giustificando il pensiero laico italiano.
Gli illuministi
• Francesco Algarotti
• Saverio Bettinelli
• Girolamo Tiraboschi
Il veneziano Francesco Algarotti (1712-1764) è
un esempio notevole di cosmopolitismo illuministico. Grande successo internazionale ebbe il suo
Newtonianismo
per
le
dame
(1737),
un’esposizione salottiera della scienza newtoniana
in forma dialogica, dove una marchesa “si converte” dalla fisica di Cartesio a quella di Newton.
Le sue Opere varie (1757) trattano diversi argomenti: dal Saggio sopra la pittura o dal Saggio
sopra l’opera in musica si passa al Saggio sopra
la lingua francese o al Saggio sopra la necessità di
scrivere nella propria lingua. Nel Saggio sopra il
commercio (1763) Algarotti affronta il problema se
le qualità dei popoli dipendano dal clima o dalle legislazioni. Il suo libro più bello restano tuttavia i
Viaggi di Russia, composti da otto lettere del 1739
e da altre del 1750-51: vero reportage giornalistico,
curioso e intelligente, è scritto in una lingua facile e
ordinata. Compose anche il romanzo Congresso di
Citera (1745), pervaso da un galante erotismo.
Saverio Bettinelli (1718-1808), mantovano, gesuita, propose una polemica feroce e aggressiva.
Le Lettere virgiliane (1757) sono un attacco, nel
nome di un classicismo razionale, a quasi tutta la
cultura italiana (persino Dante è considerato bizzarro). Anche le altre opere (Lettere inglesi, 1766;
Dell’entusiasmo delle belle arti, 1769; Discorso
sopra la poesia italiana, 1781; Il Risorgimento
d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il
mille, 1773) presentano una critica aspra, ma spesso
capziosa e confusa, non esente da una certa genericità.
Girolamo Tiraboschi (1731-1794), bergamasco,
gesuita, è l’autore di un’interessante Storia della
letteratura italiana, che segue e in qualche modo
sintetizza altre storie letterarie precedenti.
• Giuseppe Baretti
• La “Frusta letteraria”
Giuseppe Baretti (1719-1789), torinese, è invece
un esempio più concreto di lavoro intellettuale interessato davvero alla formazione di una cultura
comune. Raccolse in Piacevoli poesie (1750) i versi ispirati a F. Berni e al suo spirito comico-polemico. Fra il 1751 e il 1760 trascorse un primo
periodo in Inghilterra. Risale a questa fase
l’amicizia con lo scrittore inglese Samuel Johnson,
che lo spinse ad approfondire lo studio della lingua
e della letteratura inglese (pubblicò persino un Dizionario italiano-inglese, 1760). Tornato in Italia attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia, lasciò
una vivace testimonianza di quei paesi nelle Lettere
familiari a’ suoi tre fratelli, pubblicate nel 1770 e
tradotte anche in inglese. Fra il 1762 e il 1765 fu
ancora a Venezia, e lì pubblicò la rivista “Frusta
letteraria” (1763-65), sulle cui pagine – sotto le
spoglie di un personaggio fittizio, Aristarco Scannabue, militare in pensione – prese di mira con
una violenta polemica il “flagello dei cattivi
libri”, che venivano pubblicati in Italia. Aristarco,
che usa un linguaggio forte e corposo ricorrendo al
ridicolo e all’assurdo, esprime così il suo drastico
giudizio su molta letteratura contemporanea.
Umorale e aggressivo (rifiutò persino Goldoni), incarna la figura del “critico militante”, per lui la
letteratura non è un’operazione salottiera e distaccata dalla concretezza della vita, bensì una comunicazione forte, votata a negare la pedanteria e le
convenzioni (convenzionale gli sembrò addirittura
l’intento programmatico dell’illuminismo). Dal
1766 fu ancora in Inghilterra, che non abbandonò
più, se si escludono due brevi soggiorni in Spagna
e in Italia. Risale a questo periodo il Discours sur
Shakespeare et Monsieur de Voltaire (Discorso su
Shakespeare e Voltaire, 1776), con il quale difende
lo scrittore inglese dalle critiche di Voltaire (che
pure lo aveva introdotto in Francia), agevolando
la diffusione europea di Shakespeare nel XVIII
secolo.
MASSONERIA E ILLUMINISMO
All’interno della cultura illuministica, la “massoneria” assume un ruolo importante. Dalla tradizione
delle mason guilds (corporazioni di muratori) del
tardo Medioevo, si sviluppano in Inghilterra delle società di costruttori; nel Cinquecento e nel Seicento
viene a sovrapporsi la cultura simbolica
dell’ermetismo, così che le corporazioni diventano
vere e proprie “logge” (come la Gran Loggia
d’Inghilterra, 1717) che hanno una grande diffusione
in tutta l’Europa, specie nella classe borghese.
Deismo e razionalismo più o meno umanitario sono
gli elementi di una struttura di potere e di mutuo soccorso, capace di controllare la cultura e spesso gli
uomini di potere.
• Genovesi, Galiani e l’illuminismo meridionale
•
•
•
•
Antonio Genovesi
Ferdinando Galiani
Gaetano Filangieri
Francesco Mario Pagano
Il sacerdote Antonio Genovesi (1713-1769) è, insieme a Galiani, la grande figura dell’illuminismo
meridionale. Frequentò Vico; dal 1641 ebbe la cattedra di metafisica all’università di Napoli, e dal
1754 la cattedra di “meccanica e commercio”. Propose un liberismo moderato, che criticava i privilegi feudali e il protezionismo (celebri le Lezioni
di commercio, tenute nel 1757-58 e pubblicate fra
il 1765 e il 1767). Per difendersi dalle critiche ecclesiastiche, compose le Lettere ad un amico provinciale (1759). Pubblicò saggi filosofici (Diossina,
o filosofia dell’onesto e del giusto, 1766-77) e testi
di pedagogia. Sostenne l’utilità sociale delle lettere
(Vero fine delle lettere e delle scienze, 1753). Lasciò
anche un’interessante autobiografia: Vita di Antonio Genovesi (scritta prima del 1760, ma pubblicata
postuma nel 1924).
L’abate
abruzzese
Ferdinando
Galiani
(1728-1787) ebbe un notevole successo con il trattato Della moneta (1751), in cui sottolineò la
moderna concezione del valore simbolico del
danaro. Entrato nell’amministrazione borbonica,
fu inviato a Parigi in qualità di segretario
dell’ambasciata napoletana. Pubblicò in francese
Dialoghi sul commercio dei grani (1770), in cui
contrasta le teorie economiche fisiocratiche, che
sostenevano la centralità dell’agricoltura e del
libero commercio dei prodotti agricoli. Rientrato
a Napoli, rivestì importanti cariche pubbliche.
Mostrò molteplici interessi. Scrisse il Trattato in
difesa del dialetto napoletano (1779), il
Vocabolario delle parole del dialetto napoletano
(1789, postumo), il trattato politico De’ doveri dei
principi neutrali verso i principi belligeranti e di
questi verso i neutrali (1782, postumo). Il suo conservatorismo amaro e sprezzante, la prosa sempre
nervosa e chiara conferiscono alla sua opera una
notevole lucidità realistica.
Gaetano Filangieri (1753-1788) scrisse La scienza
della legislazione (a partire dal 1780), opera di
grandissimo impegno e intelligenza sul carattere
razionale della legislazione.
Francesco Mario Pagano (1748-1799) coi suoi
Saggi politici (pubblicati dal 1783 al 1785) analizzò
con passione e intelligenza, rifacendosi a Vico, le
origini storiche dell’oppressione.
SCHEMA RIASSUNTIVO
CARATTERI GENERALI
L’illuminismo italiano ha come riferimento principale il pensiero francese, anche se rimane un fenomeno
prudente e mai radicale.
GLI ILLUMINISTI
Algarotti fu un buon divulgatore delle scienze (Newtonianismo per le dame). Baretti propugnò con notevole vis polemica (la “Frusta letteraria”) la letteratura
come comunicazione forte, votata a negare la pedanteria e le convenzioni. Genovesi e Galiani propugnarono un liberismo concreto e furono importanti esponenti del pensiero economico settecentesco.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è la periodizzazione dell’illuminismo
italiano?
2. Chi assunse lo pseudonimo di Aristarco Scannabue e su che rivista scrisse?
3. Della moneta è il capolavoro dell’illuminismo
lombardo?
4. In quale campo si applicarono maggiormente
gli illuministi meridionali?
3 LA RIFORMA TEATRALE
DI GOLDONI
Allontanandosi dalla commedia dell’arte, Carlo Goldoni
si propose di scrivere il testo teatrale nella sua completezza, in modo da poter determinare il carattere psicologico dei personaggi, portando sulla scena la rappresentazione autentica della realtà sociale e non una sua caricatura.
Carlo Goldoni
• Gli esordi
Carlo Goldoni (1707-1793) è il grande rinnovatore del teatro italiano. Nato a Venezia da una
famiglia di origine borghese, studiò a Perugia, a
Rimini e a Pavia, dalla cui università di diritto, nel
1725, venne espulso a causa di uno scritto satirico
sulle ragazze della città, Il Colosso. Laureatosi nel
1731, cominciò a lavorare ai primi canovacci: Il
gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi è del
1733. Nel 1734 da Milano tornò a Venezia e assunse l’incarico di scrivere per il teatro San Samuele:
compose con successo le tragicommedie Belisario
e Don Giovanni Tenorio o sia il dissoluto. Fu poi a
Padova, a Udine e a Genova, dove conobbe e sposò
Nicoletta Conio (1736). Tornato a Venezia, ottenne
la direzione del teatro di San Giovanni Crisostomo
(1737-42) e dal 1741 al 1744 ebbe l’incarico di console di Genova a Venezia. La sua attività teatrale
cominciò a farsi intensa e qualitativamente importante; nel 1738 mandò in scena con buon successo
la commedia Momolo cortesan, seguita da Momolo
sulla Brenta e Il mercante due volte fallito. Si tratta
ancora di ampi canovacci, che preannunciano la
volontà di giungere alla stesura completa del testo
teatrale.
• La riforma del teatro
• Al teatro Sant’Angelo
• Al teatro San Luca
La prima commedia scritta interamente, in modo
da costrui-re lui stesso il carattere e lo spessore
psicologico dei personaggi e portare sulla scena la
realtà e non la sua caricatura filtrata attraverso gli
stereotipi delle maschere della commedia dell’arte,
fu La donna di garbo (1743). Nel 1744 si stabilì a
Pisa e vi rimase per alcuni anni. Scrisse Tonin bellagrazia e I due gemelli veneziani; nel 1745 scrisse
Il servitore di due padroni; nel 1748, L’uomo
prudente e La vedova scaltra (che fu uno straordinario successo). Nel 1749, dopo la messa in scena
della commedia La putta onorata, sottoscrisse con
la compagnia Medebach, che recitava al teatro
Sant’Angelo di Venezia, un contratto di quattro
anni, con l’impegno di produrre dieci testi l’anno
(di cui otto commedie). Tra le prime opere troviamo
Il cavaliere e la dama, La buona moglie e La
famiglia dell’antiquario (1749). Presto cominciarono le critiche al teatro goldoniano, soprattutto
a opera dell’abate Pietro Chiari, accentuate
dall’insuccesso toccato, nel carnevale del 1750, a
L’erede fortunata. Per la stagione 1750-51 si impegnò a scrivere ben sedici commedie, fra le quali
alcuni capolavori: Il teatro comico; La bottega del
caffè; Il bugiardo; Le femmine puntigliose; La
Pamela; L’avventuriero onorato; La dama
prudente; I pettegolezzi delle donne. Nel 1751
venne pubblicato il primo tomo della raccolta delle
sue Commedie.
Divenuto celebre, Goldoni propose i suoi testi
anche fuori Venezia: a Bologna furono rappresentate L’amante militare; Il feudatario; La serva
amorosa (1752). Nel 1753 fece rappresentare La
locandiera e Le donne curiose. Alla fine del 1753,
forse per disaccordi economici, Goldoni non
rinnovò il contratto con il teatro Sant’Angelo (che
assunse Chiari) e ne stipulò uno triennale con il
teatro rivale, il San Luca: tale scelta, rinfocolando
le polemiche tra i due autori, condizionò in maniera
significativa la produzione di Goldoni, che nel
1754-55 compose soprattutto drammi giocosi di facile successo: La sposa persiana; La cameriera
brillante; o attenti alle figure della cultura
borghese: Il filosofo di campagna; Il filosofo
inglese; Il medico olandese. Nel febbraio 1756
tornò alla grande commedia dialettale con Il campiello, seguito da altre opere di rilievo: Le morbinose
(1758); I morbinosi (1759); I rusteghi (1760);
Gl’innamorati (1760); La guerra (1760);
L’impresario delle Smirne (1760); e ancora, nella
stagione 1760-61, scrisse Un curioso accidente, La
donna di maneggio, La buona madre.
La sua fama era ormai grande, anche se
aumentavano le polemiche. Quando nel 1761 la
“Comédie italienne” gli rivolse l’invito di lavorare a Parigi, Goldoni accettò con piacere. Onorò
comunque il nuovo contratto con il teatro San Luca
scrivendo una serie di capolavori: nel 1761 La casa
nova, la Trilogia della villeggiatura (Le smanie per
la villeggiatura; Le avventure della villeggiatura;
Il ritorno dalla villeggiatura); nel 1762 Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte, Una delle
ultime sere de carnovale, con cui diede un melanconico, appassionato addio al suo pubblico.
• Gli anni parigini
• “Mémoires”
Il primo impatto con la nuova situazione fu deludente: la “Comédie italienne” non intendeva applicare i principi della riforma goldoniana, ma
richiedeva all’autore veneziano l’impulso per
rinnovare la tradizione della commedia dell’arte.
Così Goldoni scrisse gli scenari della Trilogia di
Arlecchino (1763), affidati poi all’improvvisazione
degli attori; presto tornò a comporre anche intere
commedie: nel 1763 Gli amori di Zelinda e Lindoro; nel 1765 Il ventaglio. A esse si aggiunsero
due lavori in francese Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant, 1771) e L’avaro fastoso (L’avare
fastueux, 1776). Il peggioramento delle condizioni
di salute lo costrinse a limitare l’attività. Nel 1778
venne stampata tutta la sua opera teatrale. Nel 1784
iniziò la stesura delle Memorie (Mémoires), che
concluse nel 1786 e pubblicò nel 1787 con la dedica
al re Luigi XVI. Nel 1792 il governo rivoluzionario
gli tolse la pensione reale che aveva ottenuto nel
1769. Morì l’anno dopo.
• Il mondo di Goldoni
• Una concezione realistica del ceto medio
• La comicità
• I capolavori
Nella Prefazione al primo tomo delle Commedie
(1750) Goldoni parla del libro del Mondo e di
quello del Teatro. “Il primo mi mostra tanti e poi
tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così
al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose e istruttive Commedie”. A ispirare Goldoni è dunque
la società civile, quella che viveva a Venezia nelle
case borghesi. Il suo punto di riferimento è la rappresentazione realistica del ceto medio e di una
morale più umana e concreta.
Una prova è anche la sua riflessione sulla comicità:
l’effetto comico nasce dal vedere “effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista,
i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in chi continua-
mente si pratica, in modo però che non urti troppo
offendendo”.
Nel Campiello, per esempio, scritto in veneziano
e in versi, sono rappresentati gli amori, i risentimenti, le liti, le chiacchiere che si svolgono in una
piazzetta veneziana in un giorno di carnevale. Nella
Locandiera, scritta in italiano, Mirandolina, la protagonista, padrona di una locanda (corteggiata da
due nobili, che essa tiene a debita distanza, e disprezzata dal Cavaliere, che sostiene di odiare le
donne) si propone di conquistare quest’ultimo con
il suo fascino fino a farlo invaghire follemente. Ma
alla fine lo umilia di fronte a tutti, sposando Fabrizio, il cameriere della locanda. Nei Rusteghi (1760),
in veneziano, entrano in conflitto – per la pretesa
di Sor Lunardo di combinare il matrimonio della
figlia senza informare gli interessati – le pretese di
quattro mercanti nemici giurati delle novità e tenaci assertori del potere dei padri e dei mariti e le
aspirazioni delle donne e dei giovani che vogliono vivere la loro vita in una festosa serenità. Il
tema dello scontro tra un vecchio abbarbicato al
passato e una donna, Marcolina, volitiva e aperta
alle novità, si ripropone in Sior Tòdaro brontolon
(1762), scritta in veneto. Nelle Baruffe chiozzotte
(1762, scritte in veneziano e chioggiotto) i personaggi sono pescatori di Chioggia, tra i quali per qualche scherzo scoppiano liti tanto profonde da finire
in tribunale, dove il “cogitore” Isidoro, figura in
cui è adombrato Goldoni stesso, dirime le questioni
e riporta la buona armonia. Goldoni tuttavia non
aspirò mai a cambiamenti radicali, ma a una
civiltà più gentile e rispettosa dei diritti, nella
quale tramontassero le consuetudini “rusteghe” in
favore di rapporti basati sulla lealtà, sul riconoscimento della sfera dei sentimenti, tenuti a freno però
dalla ragionevolezza.
I fratelli Gozzi
• Gasparo Gozzi
• Carlo Gozzi
• La produzione teatrale
Quando esaltò sulla “Gazzetta veneta” (1760) I
rusteghi goldoniani, Gasparo Gozzi (1713-1786)
rivelò chiaramente il suo buon gusto classico, ma
aperto alla rappresentazione della quotidianità.
Fondò a Venezia, insieme al fratello Carlo e a Giuseppe Baretti, l’Accademia dei Granelleschi, a
sostegno della tradizione classicista, per la quale
scrisse il famoso saggio Difesa di Dante (1758),
in polemica con Saverio Bettinelli (v.p. 161),
difendendo l’organicità della Divina Commedia. Fu
innanzi tutto un grande giornalista: redasse “La
Gazzetta veneta” (1760-61) e “L’Osservatore
veneto” (1761-62), in cui propose un giornalismo
moderno, attento ai fatti e ai costumi, prendendo a
modello l’inglese “Spectator”. Anche nei Sermoni
in endecasillabi sciolti (1763) rivela una vena moralista e bonariamente satirica che lo accosta
all’opera di Parini.
Carlo Gozzi (1720-1806) ebbe un atteggiamento
più chiuso e conservatore del fratello: a Venezia fu
protagonista di uno scontro violento con Goldoni e
con Chiari, dei quali contestava la riforma del teatro
comico in senso borghese e illuminista. Alla com-
media goldoniana contrappone con forza il ritorno
alla commedia dell’arte, alla sua comicità spontanea e alle sue invenzioni sceniche, privilegiando
soprattutto la fantasia creativa dell’intreccio:
L’amore delle tre melarance (1761), una fiaba recitata a soggetto, nasce da queste polemiche. Fra
il 1761 e il 1765 compose nove Fiabe teatrali, in
cui il meraviglioso si oppone alla mediocrità dei
valori borghesi: Il corvo; Il re Cervo; Turandot; La
donna serpente; La Zobeide; I pitocchi fortunati; Il
mostro turchino; L’augellin belvedere; Zeim re dei
geni. Caratterizzato da un’aspra satira contro i costumi del tempo e dalla polemica antiilluminista è il
poema eroicomico La Marfisa bizzarra (1761-68).
Le Memorie inutili (1797-98) sono infine
un’autobiografia, in cui lo scrittore si presenta in
tutta la sua scontrosità nel quadro della società
veneziana ormai in dissoluzione.
SCHEMA RIASSUNTIVO
GOLDONI
La vita
Nasce nel 1707 a Venezia e vive sempre della sua
opera di autore teatrale; importanti sono le sue collaborazioni con il teatro Sant’Angelo (1749-1753) e
con il teatro San Luca. Nel 1762 si reca a Parigi per
lavorare per la “Comédie italienne”. Muore a Parigi
nel 1793.
La riforma teatrale
Goldoni supera la forma della commedia dell’arte,
basata su un canovaccio che delinea gli elementi salienti della storia liberamente interpretata dagli attori,
per scrivere l’intero testo teatrale, con i suoi dialoghi,
per determinare la psicologia dei personaggi e rappresentare la realtà e non una sua caricatura.
I capolavori
Le commedie più importanti e continuamente rappresentate di Goldoni sono: La locandiera (1753);
Il campiello (1756), I rusteghi (1760); Sior Tòdaro
brontolon (1762); Le baruffe chiozzotte (1762).
Poetica
Il suo punto di riferimento è la rappresentazione realistica del ceto medio e di una morale più umana e
concreta. Goldoni non aspira a cambiamenti radicali,
ma a una civiltà più gentile e rispettosa dei diritti,
nella quale tramontassero le consuetudini “rusteghe”
in favore di rapporti basati sulla lealtà, sul riconoscimento ragionevole della sfera dei sentimenti.
ANTIGOLDONIANI
Alla commedia goldoniana Carlo Gozzi contrappone
con forza il ritorno alla commedia dell’arte, alla sua
comicità spontanea e alle sue invenzioni sceniche,
privilegiando soprattutto la fantasia creativa
dell’intreccio.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. In che cosa consiste la riforma teatrale di Goldoni?
2. Goldoni lavorò mai per la “Comédie italienne”?
3. Quali sono i capolavori di Goldoni?
4. Qual è la definizione goldoniana di “comico”?
5. Che cosa contrappone Goldoni alle consuetudini “rusteghe”?
6. Chi furono i rivali di Goldoni?
4 LA CULTURA
LOMBARDA E PARINI
Una più decisa aspirazione all’intervento attivo sulla realtà politica e sociale portò gli illuministi lombardi a impegnarsi nell’amministrazione pubblica, appoggiando attivamente il riformismo illuminato degli Asburgo, che
segnò però il passo soprattutto a partire dagli anni ’70.
Sempre negli anni ’70 dominano i modelli neoclassici:
massimo interprete è Giuseppe Parini, che media tra ragione e grazia, bellezza e dignità morale.
I fratelli Verri e Beccaria
•
•
•
•
•
Pietro Verri e la rivista “Il Caffè”
La produzione di Pietro Verri
Alessandro Verri
Cesare Beccaria
“Dei delitti e delle pene”
Il milanese Pietro Verri (1728-1797) fondò con il
fratello Alessandro l’Accademia dei Pugni (1761),
la fucina dell’illuminismo lombardo, da cui nel
1764 uscì la rivista “Il Caffè”, intorno alla quale
maturarono le riflessioni migliori del riformismo illuminista in Italia. Esaurita l’esperienza della rivista (1766), Verri entrò nell’amministrazione pubblica austriaca, anche se ne fu allontanato (1786)
per un insanabile contrasto con Giuseppe II. La
sua vastissima produzione è tutta improntata alla
concezione illuministica della cultura e del sapere,
secondo cui l’attività intellettuale ha senso solo
se guarda all’“utile” contro i “pregiudizi”, nella
misura in cui sa promuovere un rinnovamento morale, civile ed economico della società. “Cose e non
parole” è un motto del “Caffè”: in questo senso
l’illuminismo lombardo si sgancia completamente
da ogni residuo classicistico per tentare una cultura
impegnata nelle battaglie civili.
Notevole la produzione di Pietro Verri. Particolare
rilievo assumono le tematiche economiche: Elementi del commercio (1760); Dialogo sul disordine
delle monete nello stato di Milano (1804, postumo).
Il trattato Meditazioni sull’economia politica
(1771) rappresenta la sua opera più importante.
L’attenzione ai problemi sociali lo indusse a un
riesame del processo degli untori durante la peste
del 1630 a Milano: ne derivò il famoso scritto Le
osservazioni sulla tortura (1777, pubblicato postumo nel 1804). Nel 1777 iniziò la stesura di una
Storia di Milano (1783-98), insigne esempio di
storiografia illuministica. In altri scritti si impegnò
su temi più filosofici, come le Meditazioni sulla felicità (1763) e il Discorso sull’indole del piacere e
del dolore (1773). Interessante l’opera composta in
occasione della nascita della figlia Teresa, Ricordi
a mia figlia (1777), una delle prime opere letterarie
destinate a una bambina, in cui viene delineato un
modello educativo in grado di far crescere più con
le cure e l’affetto che con la severità.
Alessandro Verri (1741-1816) partecipò nel 1761,
con il fratello Pietro, all’Accademia dei Pugni e al
“Caffè”. Lo scritto la Rinunzia avanti notaio degli
autori del presente foglio periodico al vocabolario
della Crusca (1764-65) è una netta opposizione al
classicismo e al purismo linguistico ed ebbe larga
risonanza. Tra il 1761 e il 1766 lavorò al Saggio
sulla storia d’Italia, che però rimase inedito. Fu
poi con l’amico Beccaria a Parigi e a Londra: durante il soggiorno all’estero tenne un fitto carteggio
con il fratello Pietro, che rappresenta un prezioso
documento sulla vita culturale del secondo Settecento italiano. Rientrato in Italia, si trasferì definitivamente a Roma: qui maturò la sua adesione al
neoclassicismo e subì un profondo cambiamento
ideologico-politico, avvicinandosi a posizioni
papaline-reazionarie. Tradusse l’Amleto (1768) e
l’Otello (1777) di Shakespeare; compose le tragedie Pantea e La congiura di Milano, che pubblicò nel 1779 nel volume Tentativi drammatici.
Di maggior rilievo sono i suoi romanzi, Le avventure di Saffo (1782) e soprattutto le Notti romane
(1792) e Vita di Erostrato (1815), che testimoniano
un neoclassicismo velato di atmosfere preromantiche.
Cesare Beccaria (1738-1794), anche lui milanese,
è uno dei grandi esponenti dell’illuminismo italiano. Amico di Parini e dei fratelli Verri, con i quali
partecipò all’Accademia dei Pugni e al “Caffè”,
fu appassionato lettore dei principali pensatori
francesi del tempo (Montesquieu, d’Alembert, Diderot e, soprattutto, Rousseau). Il suo trattato Dei
delitti e delle pene (1764) è considerato
l’espressione più originale dell’illuminismo italiano: sviluppa una violenta polemica contro un sistema giudiziario irrazionale; condanna la pena di
morte e la tortura, considerati strumenti di uno
Stato barbaro, e propone pene meno crudeli; soprattutto teorizza una forma di Stato razionale e laico in
cui sia salvaguardata la dignità dell’uomo: “Non vi
è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in
alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona, e diventi cosa”. Di Beccaria rimangono anche altri trattati: Ricerche intorno alla natura dello stile (1770)
ed Elementi di economia pubblica, pubblicati postumi, frutto delle sue lezioni alle Scuole Palatine di
Milano.
CASANOVA, L’ULTIMO LIBERTINO
Il libertinismo, che nel Seicento era stato un
fenomeno di laicismo spinto alle estreme conseguenze e di trasgressione alle convenzioni della società,
durante l’illuminismo si radicalizza fino a ridursi a
un cinismo aspro, a un’esaltazione volontaristica del
dominio di sé sugli altri, attraverso la maschera
dell’erotismo. L’opera del marchese DonatienAlphonse-François de Sade (1740-1814) è da questo
punto di vista esemplare. Il libertinismo italiano è
meno originale: guarda al modello cinquecentesco
dell’Aretino ed è rappresentato spesso da semplici
avventurieri.
Giacomo Casanova (1725-1798), quando scrive
l’Histoire de ma vie (Storia della mia vita, 1790-98),
lascia l’esempio più alto del libertinismo italiano: non
un’opera di ribellione ideologica, bensì la sintesi di
una novellistica vibrante e insieme fredda, che si alimenta di curiosità, di beffe,di racconti erotici ripetuti
ossessivamente, quasi senza più desiderio, all’interno
di una morale nichilistica.
Giuseppe Parini
•
•
•
•
Il modello del poeta classicista
Le “Odi”
“Il giorno”
La nuova serie delle “Odi”
Nato a Bosisio (oggi Bosisio Parini), presso Lecco,
Giuseppe Parini (1729-1799) è il modello di poeta classicista, che media ragione e grazia,
bellezza e dignità morale. Fu assunto come precettore in casa dei duchi Serbelloni, dove poté dedicarsi alla poesia (di cui già aveva dato alcune prove
pubblicando Alcune poesie di Ripano Eupilino,
1752, di ispirazione prettamente arcade) e agli studi
letterari incoraggiati dall’illuministica Accademia
dei Trasformati, a cui era stato ammesso nel 1753.
In Accademia lesse alcuni testi satirici – tra cui il
Dialogo sopra la nobiltà (1757); il Dialogo sopra
le caricature (1759); Lettere del conte N. N. a una
falsa divota (1761) – e un’importante dichiarazione
di poetica, il Discorso sopra la poesia (1761), in
cui fondeva i principi dell’estetica sensistica con un
sobrio gusto classicistico. Quasi contemporaneamente pubblicò le prime Odi di contenuto civile: La
vita rustica (1757); La salubrità dell’aria (1759);
La impostura (1761). Licenziato dai Serbelloni nel
1762 per aver preso le difese di una cameriera maltrattata, Parini fu assunto per due anni dal conte Giuseppe Maria Imbonati, esponente dell’aristocrazia
illuminista, come precettore del figlio Carlo, per il
quale scrisse l’ode L’educazione (1764). In questi
anni Parini compose il suo capolavoro, le prime
due parti del poemetto satirico Il giorno: il Mattino (1763) e il Mezzogiorno (1765). Il notevole
successo dell’opera impose il poeta all’attenzione
dei rappresentanti del governo riformatore di Maria
Teresa d’Asburgo, soprattutto del conte Firmian,
che prima gli affidò la direzione della “Gazzetta di
Milano” (1769) e poi lo nominò professore di belle
lettere al Regio Ginnasio di Brera (1773). Parini
scrisse un’opera teatrale di modesta qualità (l’Ascanio in Alba, 1771), che fu musicata da Mozart; produsse testi didattici (Sui principi generali
delle belle lettere applicati alle belle arti, 1773-75)
e sulla riforma scolastica (Sul decadimento delle
belle lettere e delle belle arti, 1773). Ma soprattutto
si dedicò a un’intensissima produzione poetica,
spesso d’occasione, in cui acquistarono particolare
rilievo una nuova serie di Odi (1791), di contenuto
sociale e morale, tra le quali vanno ricordate:
L’innesto del vaiolo (1765); Il bisogno (1766); Le
nozze (1777); La laurea (1777); La caduta (1785);
La recita dei versi (1786); Il pericolo (1787); La
magistratura (1788); Il dono (1790); La gratitudine
(1791). Proseguì intanto, sia pure a rilento, la
stesura delle due parti mancanti del Giorno, il Vespro e la Notte, che però rimasero ampiamente incompiute. Forse la poesia satirica era diventata estranea sia al gusto del poeta, attratto dal neoclassicismo (A Nice, 1793; Alla Musa, 1795), sia alla
sensibilità dei tempi, dominati dalle vicende della
Rivoluzione francese, verso la quale il giudizio di
Parini fu severo (A Silvia. Sul vestire alla ghigliottina, 1795). Morì nel 1799.
• “Il giorno”
• La giornata del “giovin signore”
• Il disfacimento della nobiltà
• Un forte risentimento morale
L’opera fu pubblicata integralmente solo nel 1801
a cura di Francesco Reina. La struttura del poemetto consiste nella descrizione particolareggiata
della giornata di un “giovin signore”, attraverso i
consigli che l’autore, presentatosi come “precettor
d’amabil rito”, gli offre perché possa sempre fare
onore al suo rango. Prima si assiste alla descrizione
del risveglio del giovane eroe, nel tardo mattino, e
dunque alle operazioni per prepararsi alla giornata:
la colazione, la vestizione, l’incipriatura. Poi, nel
contesto di un lussuoso banchetto che caratterizza il
Mezzogiorno, il “giovin signore” incontra la dama
di cui è cicisbeo. Durante il pranzo (“i desinari
illustri”) il poeta descrive alcuni tipi particolari,
tra cui il mangione e il vegetariano, e prendendo
spunto dalle parole di costui racconta la vicenda
della “vergine cuccia”, uno degli episodi più celebri
del poemetto. Nel Vespro si prendono in consid-
erazione i falsi rapporti di amicizia basati solo sulle
convenzioni sociali, mentre nella Notte, tutta incentrata sul contrasto tra le tenebre degli esterni e lo
sfavillare dei saloni signorili, vi è la constatazione
dell’inarrestabile disfacimento della nobiltà. La
grazia rococò è sgranata dalle radici: la morte e un
terrore spettrale velano la vacuità dei nobili. Il costante ricorso da parte del poeta all’ironia vivifica
questa materia e crea un poema didascalico dai
contenuti paradossali, in cui il precettore, mentre
mostra di dare al suo discepolo insegnamenti adeguati per perpetuare la sua vita superficiale, corrode la considerazione che la classe nobiliare ha di
sé, mostrandone tutta la boria e l’insensatezza. La
dilatazione dei tempi e dei gesti, che il poeta propone continuamente, contribuisce a rendere evidente l’insignificanza di tanti gesti rituali e di tante
parole a suscitare un forte risentimento morale.
SCHEMA RIASSUNTIVO
“IL CAFFÈ”
LOMBARDI
E
GLI
ILLUMINISTI
“Cose e non parole” è un motto del “Caffè”;
l’illuminismo lombardo si sgancia completamente da
ogni residuo arcadico per tentare una cultura impegnata nelle battaglie civili. Protagonisti: Alessandro e
Pietro Verri (Le osservazioni sulla tortura del 1777);
Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene del 1764).
GIUSEPPE PARINI
È il modello del poeta classicista, che media ragione
e grazia, bellezza e dignità morale. La sua poetica si
fonda sull’equilibrio tra la compostezza classica e un
forte senso di responsabilità civile. Opere: Odi, raccolte in volume (1791); i lavori più vicini al nuovo
gusto neoclassico (Il messaggio, 1793; A Nice, 1793;
Alla Musa, 1795). Il capolavoro, il poemetto storico
Il giorno: Mattino (1763) e Mezzogiorno (1765),
mentre rimasero ampiamente incompiute le altre due
parti, il Vespro e la Notte.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale fu il programma culturale del “Caffè”?
2. Che cosa significa che Parini fu modello del
poeta classicista?
3. Qual è la differenza concettuale fra le Odi e Il
giorno?
5 NEOCLASSICI E
PREROMANTICI
L’illuminismo è di per sé una reazione radicale alla cultura ridondante del barocco. Come tale può accettare la
“classicità” solo in quanto esempio di ordine e di armonia: cioè quale incontro di natura e ragione. Da questo
punto di vista, l’illuminismo tende a reagire persino
all’Arcadia, troppo spesso retorica e superficiale nei contenuti. La classicità, insomma, è accettabile nel momento
in cui si offre come testimonianza eroica e concreta di vita
civile.
Il neoclassicismo
• La teorizzazione di Winckelmann
• Neoclassicismo e arti figurative
Un’immagine essenziale di grecità e romanità viene
cercata nell’ambito delle arti visive: gli scavi di Er-
colano (1738) e di Pompei (1748), la stessa nascita
dell’archeologia diventano le occasioni per un forte
ritorno del gusto classico. Un’opera di sintesi è
quella del tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768): i suoi Pensieri sull’imitazione
dell’arte greca nella pittura e nella scultura (1755)
e soprattutto la Storia dell’arte antica (1764) formulano i concetti cardine del neoclassicismo: una
bellezza pura, armonica, razionale quanto nostalgica, in cui la “nobile semplicità e quieta grandezza” diventa il senso di passioni che non vengono mai espresse direttamente, ma sono lasciate
intendere attraverso la compostezza e la luminosità della forma. L’arrivo di Winckelmann a
Roma (1755) è un momento essenziale per il classicismo italiano. Altri autori hanno determinato il
neoclassicismo: tra questi, il tedesco Gotthold
Ephraim Lessing (1729-1781), con il saggio Laocoonte o dei confini tra pittura e poesia (1766). I
pittori Anton Raphael Mengs (1728-1779) e Giambattista Piranesi (1720-1778) sono i promotori di
un nuovo ideale di bellezza, definitivamente moderno (cioè razionale, oggettivo e civile), ma sens-
ibile alle imitazioni dell’antichità, come se solo
nella purezza della natura, testimoniata dagli antichi, si ritrovasse la fonte del bello e del razionale.
Il neoclassicismo europeo produsse grandi risultati
in ambito architettonico e urbanistico – nella scultura, specialmente con Antonio Canova, nella pittura con Jacques Louis David – diventando l’arte
ufficiale della Rivoluzione francese e soprattutto
dell’impero napoleonico.
• Il neoclassicismo letterario
• Il neoclassicismo italiano
La diffusione del neoclassicismo letterario fu vasta
e articolata, spesso alimentando condizioni culturali complesse e apparentemente opposte (come il
preromanticismo). È il caso tedesco e inglese:
Hölderlin, Schiller, per molti aspetti Goethe, o gli
inglesi Shelley e Keats sono i grandi protagonisti di
un neoclassicismo europeo, sebbene siano al tempo
stesso i promotori di una nuova cultura che si radica
nel cuore della cultura romantica.
Anche in Italia il neoclassicismo significa tante
cose. Innanzi tutto un modello di “stile ufficiale”:
Parini (quello delle odi Il pericolo, 1787; Il dono,
1790; Il messaggio, 1793) propone una nitidezza
formale struggente e nostalgica. C’è poi una fase
più dichiaratamente di scuola, che viene condizionata dal dinamismo sorprendente delle vicende
politiche di quegli anni; il conservatorismo del papato, le repubbliche napoleoniche, la stagione
dell’impero francese e il ritorno austriaco sono vicende di segni opposti che pure chiedono al neoclassicismo un esemplare “grande stile”, la possibilità di una rappresentazione artistica. Questo
secondo tempo è ben rappresentato, tra fine Settecento e inizio Ottocento, dalla complessità di Monti
(vedi Vincenzo Monti) e di Foscolo (vedi Ugo Foscolo). Il neoclassicismo fu per gli italiani anche
uno strano campo di prova. In effetti poteva significare sia un avvicinamento all’Europa, sia un
modo per “sperimentare” il modello poetico senza
dover uscire da un campo di elezione tutto itali-
ano, come appunto la classicità. Anche per questo
motivo il neoclassicismo significa per l’Italia “mediazione” culturale, combinazione e ingresso di elementi culturali diversi.
Il preromanticismo
• I caratteri principali
Un fenomeno apparentemente opposto al gusto
neoclassico è il cosiddetto preromanticismo. I suoi
caratteri principali sono: la moda delle “visioni”
dell’aldilà
(Friedrich
Gottlieb
Klopstock,
1724-1803, soprattutto con Il Messia, 1748); la diffusione della poesia “notturna” e sepolcrale (con
un forte gusto macabro: Pensieri notturni, 1742-45
di Edward Young, 1683-1765; l’Elegia scritta in
un cimitero campestre, 1750, di Thomas Gray,
1716-1771); l’esplosione dei romanzi “gotici”,
ambientati tra fantasmi e leggende antiche (Il
castello di Otranto, 1764, di Horace Walpole,
1717-1797); la nascita di un gusto “primitivo”,
alla ricerca delle leggende segrete dei celti e dei
germani, come nel caso fortunatissimo dei Canti
di Ossian (1760), scritti da James Macpherson, il
quale finse di aver trovato e poi tradotto frammenti
di antichi canti epici celtici, opera del bardo Ossian.
Il gusto preromantico è portatore anche di un nuovo
sentimento della natura: i contenuti fantastici
preromantici finiscono per trovare punti in comune
anche
con
un
maestro
illuministico
dell’“individualità” e del “sentimentale”, JeanJacques Rousseau (1712-1778). Il preromanticismo ha la sua più forte espressione nel movimento tedesco dello Sturm und Drang (tempesta
e assalto), che rivendica lo spirito come la forza
naturale del “popolo”, e che ha avuto in Johann
Gottfried Herder (1744-1803) il suo maggiore esponente. In questo clima Wolfgang Goethe
(1749-1832) scrive il suo capolavoro di sintesi sentimentale e preromantica I dolori del giovane Werther (1774), base poi di altre opere su cui Goethe
fonderà una nuova visione classica e insieme romantica della letteratura.
• Il preromanticismo italiano
• Melchiorre Cesarotti
• Alessandro Verri, Bertola De’ Giorgi e Varano
In Italia l’esempio più alto di “mediazione” culturale è offerto dal lavoro di Melchiorre Cesarotti
(1730-1808). Notevole la sua traduzione delle
Poesie di Ossian figlio di Fingal, antico poeta
celtico (1763, 1772). Nella traduzione, Cesarotti si
avvale d’un linguaggio poetico che recupera modelli della poesia latina insieme a cadenze della
poesia popolare, creando una versificazione mossa
e vibrante, al di là degli schemi dell’ancora dominante petrarchismo e delle soluzioni linguistiche
puriste. Nel 1772 tradusse l’Elegia scritta in un
cimitero campestre di Thomas Gray e l’Iliade, di
cui fece una versione in prosa. Entrato nel 1785
nell’Accademia dell’Arcadia, pubblicò due opere
sull’estetica e sul problema della lingua, che rappresentano
il
risultato
più
significativo
dell’illuminismo italiano d’ispirazione sensistica: il
Saggio sulla filosofia del gusto (1785) e il Saggio
sopra la lingua italiana (1785).
Anche Alessandro Verri, dopo la prima stagione
illuministica, offrì un esempio di mediazione.
Trasferitosi a Roma (1767), comincia a scrivere
romanzi neoclassici, pur con un forte gusto delle
“rovine” e del mistero (Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, 1782; Notti romane al sepolcro
degli Scipioni, 1792 e 1804; La vita di Erostrato,
1815). Un altro scrittore come Aurelio Bertola De’
Giorgi (1753-1798) scrive “notturni”, pur se in un
luminoso gusto neoclassico (Viaggio nel Reno e ne’
suoi contorni, 1795; le Notti Clementine, 1775).
Anche Alfonso Varano (1705-1788) riprende i toni
biblici e danteschi delle “visioni” (soprattutto con
le Visioni morali e sacre, 1749-66), offrendo in tono
minore l’idea di piccolo laboratorio delle forme
tipico della poesia italiana di fine Settecento.
SCHEMA RIASSUNTIVO
NEOCLASSICISMO
Il teorico è Johann Joachim Winckelmann; i cardini
neoclassici sono una bellezza pura, armonica,
razionale quanto nostalgica, in cui riemerga la “nobile semplicità e quieta grandezza”. Il neoclassicismo
italiano è soprattutto un modello di “stile ufficiale”. Il
rappresentante maggiore è Monti.
PREROMANTICISMO EUROPEO
I suoi caratteri principali: la moda delle “visioni”
dell’aldilà (Klopstock); la diffusione della poesia
“notturna” e sepolcrale (Young e Gray); l’esplosione
dei romanzi “gotici”, ambientati tra fantasmi e leggende antiche (Walpole); la nascita di un gusto “primitivo”, alla ricerca delle leggende segrete dei celti
e dei germani (i Canti di Ossian, scritti da James
Macpherson).
Preromanticismo italiano
Un gusto per il “notturno” e le “visioni” è presente
anche in composizioni di misura neoclassica. Note-
voli le traduzioni da Ossian di Melchiorre Cesarotti;
il gusto delle “rovine” e del mistero di Alessandro
Verri, Aurelio Bertola De’ Giorgi e Alfonso Varano.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Chi sono i protagonisti del neoclassicismo
europeo?
2. Quali sono le caratteristiche del preromanticismo europeo?
3. Che novità presentano le traduzioni di
Cesarotti?
6 VITTORIO ALFIERI
Con le sue tragedie e il suo modello di vita, Vittorio Alfieri
propone un’idea di letteratura come sublime dramma
politico ed esistenziale. Diviene simbolo di una ricerca letteraria su cui si fonda una nuova responsabilità morale e
civile.
La vita
• La decisione di “spiemontizzarsi”
• Le “Rime” e l’autobiografia
Nato ad Asti nel 1749 da nobile famiglia, perse il
padre a un anno. Nel 1758 entrò nella Reale Accademia di Torino. Ebbe una personalità ribelle e intraprese lunghi viaggi (aprendosi peraltro a letture illuministiche), quasi per reagire alla “solita malinconia,
la noia, l’insofferenza dello stare”. L’ Esquisse du
jugement universel (Abbozzo di giudizio universale,
1773, scritto in francese) è il suo primo testo satirico;
Cleopatra, rappresentata nel 1775, è la prima prova
come drammaturgo. Gli anni tra il 1775 e il 1777
furono fondamentali per la sua vocazione letteraria:
decise di “spiemontizzarsi”, tuffandosi in uno
studio tenacissimo e rigoroso dei classici italiani
e latini; scrisse Antonio e Cleopatra (1775, poi rifiutata). Lasciati i suoi averi alla sorella, per non
dover dipendere da un monarca lasciò il Piemonte
e soggiornò a Pisa, Siena e Firenze, anche se la
sua prolungata permanenza fiorentina (dal 1777 al
1780) fu dovuta alla passione per la contessa
Luisa Stolberg-Gedern d’Albany (con lei nel
1780 fuggì a Roma, recandosi poi in Alsazia e a
Parigi, proprio allo scoppio della rivoluzione). Nel
1777 compose il trattato Della tirannide; fra il 1777
e il 1779 curò la stesura del trattato Del principe
e delle lettere, le Rime e la Vita; nel 1783 a Siena
stampava i primi due volumi delle sue tragedie,
che furono riviste e ripubblicate in sei volumi a
Parigi, fra il 1787 e 1789. Salutò lo scoppio della
Rivoluzione francese con l’ode Parigi sbastigliato
(1789), ma la violenza rivoluzionaria del Terrore
giacobino lo indusse a una revisione critica del suo
giudizio e più tardi a un vero e proprio odio nei
confronti della Francia, espresso nelle pagine ferocemente satiriche del Misogallo (1798), un pastiche di prosa e versi. Morì nel 1803 a Firenze, in
un’austera solitudine.
Fra le altre opere, meritano di essere ricordate le
Rime (1804), in cui trova piena espressione la vena
autobiografica di Alfieri. In stretto rapporto con la
poesia è la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da
esso (1806). Tutta la narrazione è tesa a mettere a
fuoco il momento in cui avvenne la “conversione”
umana e letteraria, culminante nel suo dovere di
scrittore tragico, impegnato in una società che
non aveva più alcuna vocazione per il tragico: il
tragico è solo nel passato, dal quale Alfieri attinge
temi, personaggi, lingua, pronto a vedersi “anche
sepolto prima di morire”, pur di contrapporsi alla
mediocrità del suo tempo.
• La produzione tragica
• La situazione base
Le principali tragedie pubblicate (1787-89)
nell’edizione di Parigi sono: Virginia; Agamennone; Oreste; Rosmunda; Ottavia; Timoleone;
Merope; Maria Stuarda; La congiura de’ Pazzi;
Don Garzia; Saul; Agide; Sofonisba; Bruto primo;
Mirra; Bruto secondo. La situazione alla base
dell’evento tragico è lo scontro tra eroi positivi,
che si connotano per “virtù” (giustizia, fedeltà), ed
eroi negativi, che annientano i valori umani con la
violenza. Accanto ai due “eroi” ruotano personaggi
minori, intriganti, che si muovono senza riuscire
però a inserirsi nello scontro fra le due individualità, il “bene” e il “male”, che si confrontano nella
loro reciproca grandezza, nella “maestà e maschia
sublimità” della tragedia. Il conflitto spesso non
rimane nell’ambito politico, ma si arricchisce delle
tensioni familiari, come nel ciclo di Edipo e di
Oreste.
L’ideologia
• La ribellione eroica alla tirannide
• Il classicismo come rigore morale
• La letteratura faro di libertà
Alla base della scelta letteraria della tragedia c’è il
rifiuto di tutto ciò che limiti l’individuo, prima
di tutto la società assolutistica dell’Antico regime.
La reazione diviene scelta di libertà dell’eroe dal
“forte sentire” che giunge allo scontro con il
potere. Il trattato Della tirannide riguarda soprattutto l’assolutismo, sostenuto dalla nobiltà e dalla
religione. Alla tirannide del presente Alfieri contrappone la vita civile dell’antica Roma repubblicana. L’unica via d’uscita è la ribellione, che non
culmina in un’azione costruttiva, ma nel “morire da
forti”, in quanto solo la morte è vero atto di libertà. La sua posizione ideologica e politica non deve essere interpretata, tuttavia, in senso giacobino
e rivoluzionario, ma come un’affermazione di
volontà dell’uomo, dell’individuo Alfieri, con il
suo sentirsi antico e classico. Il classicismo alfieriano non fu mai gusto neoclassico: indifferente a
una visione estetico-formale, fu la ricerca spasmodica di un modello di rigore morale tanto assoluto, quanto “impossibile”, se non allucinatorio.
Nel trattato Del principe e delle lettere (1789)
Alfieri analizza l’impossibilità dell’integrazione fra
potere e letterato, sottolineando la funzione corruttrice del potere nei confronti della letteratura, che
dovrebbe porsi come faro di libertà. Si rivela un
nuovo modello di scrittore: non più il letterato cortigiano, ma l’uomo che sente l’“infiammata voglia
e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non
essere nulla”.
Le tragedie maggiori
• “Antigone”
• “Saul”
• “Mirra”
L’Antigone (ideata nel 1776 e pubblicata nel 1783)
riprende il mito greco trattato da Sofocle. Antigone
assiste alla morte del fratello Polinice al quale intende dare sepoltura contro il volere del re Creonte.
La tragedia inscena lo scontro fra un potere ingiusto
ed empio e la giovane donna, che rispetta solo le
leggi del cuore e non esita a mettersi in urto con
il re, svelando i meccanismi perversi di cui egli si
avvale.
Saul (1782) è una tragedia di argomento biblico:
Saul, un valoroso guerriero di umili origini, viene
consacrato re di Israele dal sacerdote Samuele, ma
in seguito, accecato dalla brama di potere, compie
atti di empietà. Saul diventa il tiranno, e a lui si contrappone per volontà divina David, che ha ucciso in
duello il gigante filisteo Golia e ha sposato Micol,
figlia di Saul. Saul, vecchio e consapevole del declino della sua forza fisica, nutre invidia e rancore
per David. Solo il suicidio scioglierà il conflitto:
uccidendosi Saul si libera dai limiti della condizione umana e si fa portatore di una titanica protesta.
Mirra (ideata nel 1784 e pubblicata nel 1789) è
incentrata su una vicenda tratta dalle Metamorfosi
di Ovidio: Mirra ama di una passione incestuosa il
padre Cinico, re di Cipro. Per tentare di dimenticare l’empia passione, accetta di sposare Pereo, ma
durante la cerimonia impreca contro le sue nozze.
Pereo si uccide, Mirra rivela al padre il suo segreto
e si dà la morte.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LE OPERE
Nel 1777 compone il trattato Della tirannide; fra il
1777 e il 1779 cura la stesura del trattato Del principe
e delle lettere, le Rime e la Vita; nel 1783 a Siena
stampa i primi due volumi delle sue tragedie, ripubblicate in sei volumi a Parigi fra il 1787 e 1789.
POETICA
Alla base della scelta letteraria della tragedia c’è il rifiuto di tutto ciò che limiti l’individuo, prima di tutto
la società assolutistica dell’Antico regime. Il classi-
cismo alfieriano non è mai gusto neoclassico: indifferente a una visione esteticoformale, il suo classicismo è la ricerca spasmodica di un modello di rigore
morale, tanto assoluto quanto “impossibile”.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cosa caratterizza il classicismo alfieriano?
2. Con Alfieri nasce un nuovo modello di “scrittore”. Quale?
3. In che cosa consiste la “maestà e maschia sublimità” della tragedia alfieriana?
L'OTTOCENTO
L’Ottocento, almeno nella prima metà, è il secolo
del romanticismo; e quest’ultimo, da un punto
di vista sociale, è la cultura della borghesia al potere.
All’esaltazione illuministica della ragione il romanticismo
risponde con l’ideale di una radicale libertà degli individui
e dei popoli, radicata in un forte senso storico,
della fecondità dell’irrazionale e dell’indicibile.
Foscolo testimonia il complesso disagio di una cultura
combattuta a inizio secolo fra classicismo e modernità.
Manzoni invece si sente pienamente uno scrittore
romantico: i Promessi sposi sono il tentativo riuscito
di realizzare una letteratura nazionale e popolare.
Pur se apparentemente isolato, Leopardi si afferma
come il maggior poeta italiano dell’Ottocento:
la sua esperienza poetica significa, in effetti, la rinas-
cita
di una poesia italiana di valore internazionale.
Dopo l’Unità (1861) la cultura italiana sarà combattuta
fra fenomeni di crisi intellettuale e politica,
simboleggiata dalla Scapigliatura, e testimonianze
di grande ricerca storiografica e poetica come
quelle
di De Sanctis e Carducci. Un’apertura alle novità
europee verrà con il lavoro di Verga e la nascita, intorno
agli anni ’80, del verismo, parallela allo sviluppo
della filosofia positivista. A cavallo fra Ottocento
e Novecento l’opera di Pascoli e di D’Annunzio
coronerà
il decadentismo italiano, diventando il modello
di una lezione poetica che in modo diverso condizionerà
tutta la produzione della letteratura novecentesca.
1 IL PERIODO
NAPOLEONICO E
VINCENZO MONTI
La Rivoluzione francese significa per gli italiani la diffusione delle nuove idee giacobine. Si apre un intenso e a
volte drammatico dibattito politico, che ha il suo vertice
nell’opera di Vincenzo Cuoco. La stagione napoleonica
coincide invece con il consolidamento del gusto neoclassico incarnato dal suo protagonista indiscusso, Vincenzo
Monti.
L’Italia rivoluzionaria
• Una cultura che partecipa agli eventi pubblici
Nonostante il fermento generale, la situazione italiana cambia solo con l’entrata dell’esercito francese,
che sotto la guida di Napoleone invade nel 1796
l’Italia settentrionale, permettendo il sorgere di varie repubbliche locali. Sono momenti difficili e ricchi di speranze come di cocenti delusioni. La Repubblica Cisalpina nasce quando la Lombardia
viene liberata dagli austriaci, ma con il trattato di
Campoformio (1797) Napoleone cede Venezia
all’Austria; la Repubblica Partenopea, a cui
avevano aderito con entusiasmo intellettuali e letterati, finisce tragicamente sui patiboli dei Borboni
(1799).
I più avanzati fra gli intellettuali italiani danno
un forte contributo alla ricerca di una cultura
capace di maggiore partecipazione agli eventi
pubblici. L’impegno dei nuovi giornali (durante il
triennio giacobino, 1796-99, nascono più di cento
testate, tra cui spiccano “Il Monitore italiano” e “Il
Monitore napoletano”), il dibattito pubblico sempre
più acceso e fecondo (grande risonanza ebbe il concorso bandito, nel settembre del 1796,
dall’amministrazione generale della Lombardia sul
tema “Quale dei governi liberi meglio convenga
alla felicità dell’Italia?”, vinto poi da Melchiorre
Gioia) rivelano un entusiasmo civile che certo ha
le sue origini nelle elaborazioni culturali
dell’illuminismo italiano, ma che solo ora, durante
lo sviluppo degli eventi, esce dai circoli ristretti e
influenza scelte politiche.
• Critica del giacobinismo
• Vincenzo Cuoco
L’esito del giacobinismo francese nella politica del
terrore e soprattutto le necessità della politica imperiale di Napoleone, vista come l’imposizione con
le armi al resto dell’Europa degli orientamenti della
Francia rivoluzionaria sono i motivi principali di
una critica alle esperienze rivoluzionarie della
Francia nel tentativo di individuare un nuovo realismo politico di tono moderato e meno schematico.
La critica antigiacobina e le nuove tendenze
spirituali che presto diventeranno “romanticismo”
sono il fondamento del pensiero liberale, che sarà
il cardine della cultura ottocentesca.
Vincenzo Cuoco (1770-1823) è la personalità più
rilevante di questi anni. Partecipò alla rivoluzione
napoletana del ’99 e fu esiliato; durante il regime
napoleonico visse a Milano, dove diresse il “Giornale italiano” e pubblicò il romanzo filosofico
Platone in Italia (1804-06). Tornò a Napoli, lavorando per il governo di Gioacchino Murat. Col
ritorno dei Borboni, fu messo da parte. Il suo capolavoro è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, che pubblicò prima anonimo
(1801) e poi col suo nome nel 1806. Lucidissimo,
con una prosa scarna ma elegante, il saggio critica
l’astrazione del giacobinismo italiano che aveva
fatto della rivoluzione del ’99 una “rivoluzione passiva”, miope rispetto alle esigenze vere della
“nazione” e del “popolo”. Cuoco mostra un grande
senso realistico della storia, e rivendica l’autonomia
della rivoluzione italiana.
• La letteratura del periodo napoleonico
• Il ruolo di coesione culturale del classicismo
• Pietro Giordani
• Ippolito Pindemonte
Il classicismo assume un ruolo fondamentale di
coesione culturale, sebbene ciò in un certo senso
sia un paradosso: fu l’orientamento letterario più
diffuso durante il periodo napoleonico, ma anche
durante gli anni conformistici della Restaurazione,
quando fu matrice dell’Italia papalina. Se consideriamo l’importanza storica di un evento come il neoclassicismo, la variante “classicista” appare come il
nodo più difficile, ma anche più significativo, per
comprendere la cultura di questi anni. Ricordiamo
l’inestricabile continuità fra classicismo settecentesco e nuova prospettiva neoclassica in autori
come Melchiorre Cesarotti e Alessandro Verri che
sono la prova storica più chiara di questa paradossale continuità fra tradizione e innovazione.
Diverso il caso di Pietro Giordani (1774-1848),
fedele a un classicismo retorico ed eloquente, con
un tono rigoroso, un’idea seria, morale e dignitosa
della letteratura.
Ippolito Pindemonte (1753-1828) propose un
classicismo equilibrato e musicale. Nelle Prose e
poesie campestri e nell’epistola in versi Sepolcri
(1807) aveva mostrato una certa grazia e levigatezza del tono; il suo capolavoro rimane la bellissima elegiaca traduzione dell’Odissea (1822).
IL PURISMO
Alcuni scrittori come Basilio Puoti (1782-1847) con
L’arte di scrivere in prosa per precetti e per teoriche
(1845) e Antonio Cesari (1760-1828) con la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana
(1810) e soprattutto la riedizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1806-11) rivendicano
il ritorno alla purezza del toscano trecentesco (specie
dei “minori”). Queste riflessioni possono apparirci
oggi limitate: in verità dobbiamo vedervi anche
l’esigenza di affermare, in qualche modo, un’identità
nazionale italiana. Contro il “purismo” si pronuncia
Vincenzo Monti: non bisognava, per lui, tornare al
Trecento, ma scrivere in una lingua moderna e
“comune”, elaborata all’incrocio delle aree regionali
e dei contributi delle lingue straniere, sia pure in una
visione letteraria classicistica della lingua.
Vincenzo Monti
Massimo esponente letterario del neoclassicismo
italiano, Vincenzo Monti (1754-1828) ricoprì una
posizione di prestigio sia durante il periodo napoleonico sia nei primi anni della restaurazione.
• La vita e le opere
•
•
•
•
Gli anni romani
Gli anni milanesi
La traduzione dell’”Iliade”
Gli anni della Restaurazione
Nato a Fusignano di Alfonsine, presso Ravenna, si
formò nel seminario di Faenza e seguì i corsi di giurisprudenza e medicina all’università di Ferrara.
Nel 1776 pubblicò il suo primo libro di versi, La
visione di Ezechiello, dedicato al cardinale Scipione Borghese. Il successo dell’opera e la protezione
del cardinale gli permisero di trasferirsi a Roma,
dove rimase fino al 1797. Il clima culturale della
città papale, caratterizzato da un neoclassicismo
erudito e tradizionalista, si rivelò subito congeniale a Monti, che si dedicò a una produzione poetica celebrativa del potere pontificio: La bellezza
dell’universo (1781) per le nozze di Luigi Braschi,
nipote del papa, la Feroniade (pubblicata postuma
nel 1832) per esaltare con una visionarietà “allucinatoria” il progetto di risanamento delle paludi
Pontine e la celebre Ode al signor di Montgolfier
(1784), che canta il primo volo in pallone aerostatico. Monti si cimentò con successo anche nel
teatro, scrivendo due tragedie, l’Aristodemo (1786)
e il Galeotto Manfredi (1788). Nel 1791 si sposò
con la bellissima Teresa Pikler. Nel 1793 avviò la
Bassvilliana, in terzine dantesche (notevole per intensità visionaria e facilità narrativa), in cui, prendendo spunto dall’assassinio a Roma del
rivoluzionario francese Nicolas-Jean Hugou de
Bassville, convertitosi in punto di morte, condanna
gli orrori della Rivoluzione francese e celebra la
grandezza della fede redentrice.
Negli anni successivi, però, mostrò una moderata
simpatia per la rivoluzione: sospettato
dall’autorità romana, fu costretto a fuggire a Milano
sotto la protezione di Napoleone.
A Milano divenne poeta ufficiale del nuovo
potere napoleonico. Esaltò Napoleone nel Prometeo (1797), nell’ode Per la liberazione d’Italia
(1801) e ancora nel poemetto In morte di Lorenzo
Mascheroni (1801) e nella tragedia Caio Gracco
(1802). Sempre più inserito negli ambienti ufficiali
del regime, celebrò la gloria dell’imperatore dei
francesi in vari componimenti poetici d’occasione,
con ampi riferimenti al mito greco. Fu ricompensato con la nomina a poeta del governo italiano
(1804) e a storiografo del regno d’Italia (1806).
L’indiscussa egemonia sull’ambiente letterario milanese fu rafforzata dalla pubblicazione della
traduzione dell’Iliade (1810), da lui compiuta su
traduzioni latine, poiché conosceva poco il greco. Il
risultato della versione è comunque esaltante: una
lingua precisa e luminosa, un sentimento epico che
sa alternare malinconia, epos e narrazione in toni
quasi dolci e familiari.
Alla caduta di Napoleone Monti si schierò subito
con i vincitori, ai quali dedicò le azioni teatrali Il
mistico omaggio (1815); Il ritorno d’Astrea (1816);
Invito a Pallade (1819). Il governo asburgico cercò
di utilizzarne l’indiscutibile prestigio nominandolo
direttore della rivista letteraria “Biblioteca italiana”, ma Monti si trovò a essere progressivamente emarginato. Partecipò comunque con vivo
interesse al dibattito sulla questione della lingua
con la Proposta di alcune correzioni e aggiunte
al vocabolario della Crusca (1817-26), scritta in
collaborazione con il genero Giulio Perticari, assumendo una posizione critica nei confronti del
purismo più radicale. Diede il proprio contributo
alla grande polemica sul romanticismo con lo
scritto Sermone sulla mitologia (1825), in difesa
del valore poetico dei miti classici (la “meraviglia”
e il “portento” delle favole mitologiche contro “al
nudo arido vero”). La sua ultima opera, scritta a
più di settant’anni, Pel giorno onomastico della mia
donna Teresa Pikler (1826) è un testo ricco di sensibilità e di una melanconia sapientemente costruita
ma non soffocata dall’eleganza neoclassica.
• Il giudizio critico
• Un classicismo borghese
Il dato più evidente della personalità di Monti è
senza dubbio la sua plateale disponibilità a cambiare collocazione politica; anche in un periodo di
grande travaglio come quello rivoluzionario e napoleonico, in cui tutti gli equilibri ideali, politici
e militari vennero continuamente messi in discussione, è sconcertante osservare la sua totale mancanza di coerenza. Bisogna comunque dire che il
poeta romagnolo espresse a suo modo una forma di
coerenza, incentrata sul ruolo che egli aveva scelto
per sé fin dall’inizio: il ruolo del poeta di corte,
del letterato fedele alla tradizione del Cinquecento
e soprattutto del Seicento. Ebbe così un gran
merito: creare un “classicismo borghese itali-
ano”, il carattere di una cultura finalmente
nazionale, definita rispetto allo stile neoclassico internazionale.
SCHEMA RIASSUNTIVO
ANNI DELLA RIVOLUZIONE
Molti giornali italiani (“Il Monitore italiano”, “Il
Monitore napoletano”) contribuiscono al diffondersi
di una cultura capace di partecipare agli eventi pubblici.
La critica antigiacobina
Il più grande critico del giacobinismo è il napoletano
Vincenzo Cuoco, che nel suo Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799 ne denuncia
l’astrazione ideologica e la mancanza di una prospettiva politica realistica per l’Italia.
MONTI
Gli anni romani
Nel clima neoclassico papalino scrive opere come
l’Ode al signor di Montgolfier (1784) e la Bassvilliana (1793).
Gli anni milanesi
Passa al servizio di Napoleone. Scrive Il pericolo
(1798) e Per la liberazione d’Italia (1801); pubblica
la traduzione dell’Iliade (1810).
La Restaurazione
Con la Restaurazione passa al servizio degli austriaci.
Scrive Pel giorno onomastico della mia donna Teresa
Pikler (1826).
Giudizio critico
Monti è il più grande poeta neoclassico. Nonostante
l’incoerenza politica, ebbe un gran merito: creare un
“classicismo borghese italiano”, il carattere di una
cultura finalmente nazionale, definita rispetto allo
stile neoclassico internazionale.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Cosa significa per Cuoco il concetto di
“rivoluzione passiva”?
2. Giordani fu un neoclassico?
3. Quali sono i temi del neoclassicismo di Monti
durante gli anni a Roma?
4. Monti fu un poeta “purista”?
5. Qual è il merito principale del “classicismo
borghese” di Monti?
2 UGO FOSCOLO
Ugo Foscolo è il poeta che meglio ha rappresentato il
travaglio e la maturazione di una nuova letteratura fra
neoclassicismo e proposta romantica, tesa alla ricerca di
un proprio carattere “italiano”.
La vita e le opere
Nacque nel 1778, primo di quattro fratelli, da
Andrea, medico veneziano, e da Diamantina Spathis
nell’isola greca di Zante. Egli mutò il proprio nome
di Nicolò in Ugo nel 1795, per simpatia verso Ugo
Bassville, un rivoluzionario francese ucciso a Roma.
• La prima giovinezza
• Gli esordi letterari a Venezia
La famiglia, divisasi dopo la morte del padre
(1788), si ricompose a Venezia nel 1793. Qui Foscolo poté completare la sua preparazione scolastica, ricca soprattutto di letture di classici greci,
latini e italiani, e aperta anche all’influenza degli
illuministi francesi, in particolare di Jean-Jacques
Rousseau. Nel 1795 Foscolo esordì nel salotto letterario della contessa Isabella Teotochi Albrizzi
(con la quale ebbe una relazione d’amore). Nel
1797 fu rappresentata la sua tragedia Tieste (1796).
Inquisito dal governo veneziano, fuggì a Bologna,
pubblicò l’Ode a Bonaparte liberatore e si arruolò
nell’esercito napoleonico. Caduto il regime conservatore, rientrò a Venezia, dove ebbe l’incarico di segretario della municipalità.
• Gli anni milanesi
• La delusione nei confronti di Napoleone
• Il suicidio del fratello Giovanni
Nell’ottobre del 1797 con il trattato di Campoformio Napoleone cedette Venezia all’Austria:
Foscolo, deluso, si trasferì a Milano in volontario
esilio. Qui entrò in contatto con i principali letterati
italiani: incontrò Parini, collaborò con Melchiorre
Gioia alla redazione del “Monitore italiano”, fece
amicizia con Monti, della cui bellissima moglie,
Teresa Pikler, s’innamorò perdutamente. Nel 1798
iniziò a stampare a Bologna i primi capitoli del romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis,
che l’editore Marsigli pubblicò nel 1799, in un testo
tagliato e concluso malamente, contro la volontà
dello stesso Foscolo. A causa dell’avanzata
dell’esercito austro-russo, tornò a combattere nella
Guardia Nazionale; nel 1799 fu ferito a Cento; in
seguito partecipò alla difesa di Genova, città dove
scrisse l’ode A Luigia Pallavicini caduta da
cavallo.
La vittoria di Napoleone a Marengo (1800) gli consentì di tornare a Milano. Nel dicembre del 1801
Foscolo fu colpito dal grave dolore per il suicidio
del fratello Giovanni. Fino al 1803 visse anni di
grandi passioni e d’intensa attività creativa. Amò
ardentemente Isabella Roncioni, alla quale dedicò
dei sonetti (1801); a lei si ispirò per tratteggiare
la figura di Teresa, protagonista dell’Ortis, alla cui
stesura tornò a dedicarsi. Il romanzo, completamente rifatto, fu pubblicato in una prima edizione
integrale nel 1802; ne seguirono altre due, entrambe
ancora rivedute, nel 1816 a Zurigo e nel 1817 a
Londra. Di grande importanza sentimentale fu
anche la relazione con Antonietta Fagnani Arese,
a cui dedicò l’ode All’amica risanata (1802). In
ambito politico si distinse con l’Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione (1802), coraggioso atto di opposizione alla politica francese nei confronti
dell’Italia. Nel 1803 pubblicò l’edizione definitiva
delle Poesie di Ugo Foscolo (1803), composte da
dodici sonetti e da due odi, e concluse il lavoro
filologico sulla Chioma di Berenice, poema di Callimaco, tradotto da Valerio Catullo e illustrato da
U. Foscolo, in cui è esposta la concezione della
poesia come sintesi “del mirabile e del passionato”.
• Gli anni della maturità creativa
• Il soggiorno in Francia
• Il ritorno in Italia
• A Firenze
Nel 1804 Foscolo partì per la Francia per partecipare alla progettata e mai avvenuta spedizione di
Napoleone contro l’Inghilterra. Trascorse due anni
per lo più a Valenciennes; qui dall’inglese Fanny
Hamilton ebbe la figlia Mary Floriana, che presto
però perse di vista e ritrovò nel 1822 in Inghilterra.
Durante questi anni la sua produzione letteraria si
limitò a traduzioni dal greco di passi dell’Iliade e
dall’inglese del Viaggio sentimentale di Laurence
Sterne.
Nel 1806 tornò in Italia e dopo dieci anni di
lontananza si recò prima a Milano e poi a Venezia
per rivedere la madre. Fu ospite di Isabella Teotochi
Albrizzi e incontrò Pindemonte: dai colloqui con
costoro trasse l’ispirazione che poi sviluppò nel
carme Dei sepolcri, scritto tra il 1806 e il 1807 e
pubblicato a Brescia nel 1807, il cui immediato successo (oltre che l’intervento di Monti) valse al po-
eta la cattedra di eloquenza presso l’università di
Pavia (1808). Nel gennaio del 1809 vi tenne una
prolusione, ricca di accenti patriottici, Dell’origine
e dell’ufficio della letteratura, e nei mesi successivi
alcune lezioni; ma per ragioni politiche la cattedra
venne presto soppressa.
I dissapori generati da questa vicenda contribuirono
a isolare Foscolo negli ambienti culturali vicini al
regime, fino alla clamorosa rottura con Monti.
Amareggiato dall’insuccesso alla Scala della sua
tragedia Ajace (1811), interpretata da molti come
un attacco a Napoleone, nell’estate del 1812 Foscolo lasciò Milano e si trasferì a Firenze; qui nella
villa di Bellosguardo visse più di un anno in un
clima sereno, coinvolto in numerose vicende sentimentali (tra cui quelle con Eleonora Nencini e
con Quirina Mocenni Magiotti) e accolto nel salotto
della contessa d’Albany, vedova di Alfieri. Fu intensa anche la sua produzione letteraria: pubblicò
infatti la tragedia Ricciarda (1813) e la traduzione
del Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia
e l’Italia accompagnata dall’autobiografica Notizia
intorno a Didimo Chierico (1813), ma soprattutto
lavorò alla stesura di consistenti passi del poema Le
Grazie.
• L’esilio in Inghilterra
• Il rifiuto di aderire alla Restaurazione austriaca
• I difficili ultimi anni
Nell’inverno del 1813, dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Foscolo tornò a Milano, dove ben
presto fecero ritorno gli Asburgo. Gli austriaci gli
offrirono la direzione del periodico che poi sarebbe
stato la “Biblioteca italiana”, aperto ai contributi
della cultura italiana. Egli si dimostrò interessato al
progetto, ma al momento di prestare giuramento, il
30 marzo 1815, fuggì in Svizzera. Ricercato dalla
polizia, fu costretto a nascondersi, finché nel
settembre del 1816 decise di trasferirsi in Inghilterra. A Londra fu accolto dagli ambienti intellettuali con grande stima, presto incrinata da tenaci inimicizie, specie con altri esuli italiani. I primi anni
del soggiorno inglese furono abbastanza creativi:
tornò a lavorare alle Grazie (1822), riprese a
tradurre l’Iliade, impostò il progetto di un testo
satirico
intitolato
Lettere
dall’Inghilterra
(1816-18), di cui sistemò la parte nota come Gazzettino del bel mondo. Scrisse anche numerosi saggi:
Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia
(1818); Saggio sul Petrarca (1823); Discorso sul
testo della Divina Commedia (1825); Discorso
storico sul testo del Decamerone (1825). Nel
1824-25 per difendersi dalle critiche stese una Lettera apologetica, in cui esponeva le sue scelte di
uomo e intellettuale. Gli ultimi anni del poeta furono difficili e umilianti: oberato di debiti, per operazioni sconsiderate come la costruzione di una
villa, venne soccorso con grande generosità dalla
figlia, che gli mise a disposizione l’intera eredità
materna, e dall’amica senese Quirina Mocenni Magiotti. Non riuscì però a evitare il carcere e
l’angoscia di vivere sotto falso nome per sfuggire
ai creditori. In miseria e malato d’idropisia, si ritirò
nel villaggio di Turnham Green presso Londra,
dove morì il 10 settembre 1827. Nel 1871 le sue
ceneri furono traslate in Italia e sepolte nella chiesa
di Santa Croce a Firenze, la chiesa dei Sepolcri.
L’autobiografia ideale
•
•
•
•
Fugacità del tempo ed eternità della morte
Autoritratto ideale per i posteri
Le “Ultime lettere di Jacopo Ortis”
La “Notizia intorno a Didimo Chierico”
L’opera di Foscolo nasce su un nucleo di riflessioni relative alla fugacità del tempo e
all’eternità della morte. Da esse traggono origine
due filoni tematici strettamente intrecciati tra loro.
Il primo è costituito dalla costante tendenza dello
scrittore a offrire un autoritratto ideale da
trasmettere ai posteri. Ne sono testimonianza diversi sonetti (tra i quali Non son chi fui..., Solcata
ho fronte... e con taglio differente Alla sera e In
morte del fratello Giovanni), ma soprattutto le due
opere in prosa Ultime lettere di Jacopo Ortis e Notizia intorno a Didimo Chierico.
Nel romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo
Ortis, Jacopo, fuggito da Venezia sui Colli Euganei
dopo il trattato di Campoformio, vi incontra Teresa,
di cui s’innamora perdutamente. Ma essa è fidanzata al ricco Odoardo; così Jacopo se ne va senza
meta, meditando sulle sventure dell’Italia sottomessa allo straniero. Quando torna da Teresa,
ormai sposata, le vede in volto l’amarezza di una
vita priva d’amore; allora, persa ogni speranza, si
uccide. I riferimenti autobiografici a situazioni e
sentimenti dei suoi anni giovanili sono evidenti,
sia pure rivissuti e idealizzati con un atteggiamento
eroico. Le Ultime lettere sono anche il prodotto,
complesso e moderno, della letteratura europea
dell’epoca e hanno un illustre riferimento nei Dolori del giovane Werther di Goethe.
Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, invece,
Foscolo si rappresenta sotto l’ironica immagine di
Didimo, che ha trovato un equilibrio interiore accettando con saggezza le disillusioni della vita.
La funzione della poesia
•
•
•
•
•
•
La poesia unico argine contro il tempo distruttore
I “Sepolcri”
La bellezza fonte della poesia
“Le Grazie”
La materna Ellade culla della poesia
Il rapporto con i classici
Il secondo filone si fonda sull’esaltazione del ruolo
della poesia come unico mezzo per opporsi alla
forza distruttiva del tempo. Tramite la poesia,
afferma il poeta nell’ode All’amica risanata, la
bellezza della donna amata sarà ricordata in eterno,
come eterna è la fama di Ulisse cantata da Omero.
La poesia ha la funzione di tramandare gli affetti, le memorie, la gloria del passato e la speranza per l’avvenire conservati dai viventi mediante
la cura e la venerazione delle tombe. È questo, infatti, il nucleo concettuale del carme Dei sepolcri,
espresso con efficacia nei versi in cui si dice che le
Muse “fan lieti / di lor canto i deserti, e l’armonia
/ vince di mille secoli il silenzio”. Se la fonte della
poesia è la bellezza, “ristoro unico ai mali”, il
mondo ideale a cui essa appartiene è l’Ellade, simbolo di civiltà e di perfezione. Da essa provengono
le arti, che donano all’umanità l’armonia rasserenante. A questo mondo mitico viene dedicato il
complesso capolavoro incompiuto Le Grazie,
composto dai tre inni (a Venere; a Vesta; a Pallade)
attraverso i quali si celebra il cammino
dell’umanità dalla condizione ferina alla piena
acquisizione della civiltà. È un’opera di sintesi
umana e poetica: la sua stessa frammentarietà sottolinea la complessità di un poeta come Foscolo. La
dimensione dell’Ellade, poi, non è solo il ricordo di
un passato irrecuperabile: in essa si congiungono e
si unificano i due filoni ora tratteggiati, poiché la
“materna terra”, culla della poesia, è anche un
tratto fondamentale dell’autobiografia idealizzata,
che fa coincidere l’isola nativa di Zante con
Zacinto, sogno di bellezza. La poesia foscoliana si
alimenta di un profondo classicismo, che a sua
volta sa velare di una musicalità sensuale e irresist-
ibile una materia drammatica (e autobiografica) di
grande intensità. Il riscatto della classicità, in una
tensione “romantica” ed “egotistica”, sembra il filo
rosso che lega tutti i testi del poeta. Il rapporto che
Foscolo intrattiene con i classici (anche nel caso
delle traduzioni) è un tentativo quasi ossessivo di
recupero fisico della lingua antica, senza alcuna
civetteria o superficiale divagazione.
La fortuna dell’opera di Foscolo
• L’interpretazione risorgimentale
• Nel Novecento
La figura di Foscolo ebbe grande rilievo nel Risorgimento italiano, quando nello scrittore si vide un
modello di intellettuale disposto a ogni sacrificio
per affermare la libertà individuale e la dignità
nazionale. Soprattutto il filone laico e democratico,
rappresentato da Giuseppe Mazzini e da Giosue
Carducci, tributò una costante ammirazione al poeta e all’opera Dei sepolcri, interpretata essenzialmente in chiave eroico-patriottica.
Nel Novecento la critica ha sviluppato studi più
approfonditi e attenti a cogliere il significato
complessivo della produzione foscoliana. Ne è derivata un’interpretazione ricca di sfaccettature, che
collega Foscolo ad alcuni dei maggiori poeti
europei di tendenza ellenizzante e di ispirazione
romantica, come il tedesco Friedrich Hölderlin e
gli inglesi Percy Bysshe Shelley e John Keats.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Nasce nell’isola greca di Zante nel 1778. Completa
gli studi a Venezia a partire dal 1793. Nel 1797 si arruola nell’esercito napoleonico.
Deluso da Napoleone, che ha consegnato Venezia
all’Austria (1797), negando i principi di nazionalità,
si trasferisce a Milano (poi a Firenze), entra in contatto con i principali letterati dell’epoca (Parini e Monti)
e vive anni di grandi passioni e di intensa attività creativa.
Dopo la sconfitta di Napoleone e la restaurazione
austriaca fugge in esilio in Inghilterra (1816), dove
conduce una vita segnata dalle difficoltà economiche;
muore presso Londra nel 1827.
LE OPERE
L’“Ortis”
Riscritto nel 1802, dopo una stesura incompleta del
1798, il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis testimonia il travaglio letterario e politico di una cultura
italiana sostanzialmente delusa dai nuovi principi
rivoluzionari.
I “Sonetti” e i “Sepolcri”
I Sonetti (1803) e il carme Dei sepolcri (1806-07) impongono un neoclassicismo eroico e prerisorgimentale, mai tentato dai poeti neoclassici contemporanei
a Foscolo.
“Le Grazie”
Poema incompiuto in tre inni, celebra in una mitica
Grecia la poesia come supremo ideale di bellezza. È
uno dei capolavori di Foscolo.
GIUDIZIO CRITICO
Foscolo è uno scrittore di crisi ma anche di profonda
rinascita: accese il grande insegnamento musicale e
ideale del neoclassicismo di una passione drammatica
del tutto romantica ed europea.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale tessuto di modelli europei sta dietro la
composizione dell’Ortis?
2. Il classicismo di Foscolo è ancora come quello
settecentesco?
3. Qual è il concetto di “memoria” implicito nei
Sepolcri?
3 IL ROMANTICISMO
Il romanticismo si diffonde per tutto l’Ottocento: in un
certo senso rappresenta la cultura del secolo. Non è una
semplice opposizione alla razionalità dell’illuminismo,
anche se rispetto alla ragione pone l’accento sulla fecondità della passione, dell’irrazionalità e dell’indicibile. In
realtà il romanticismo si presenta in sorprendente continuità con la ricerca illuministica del “moderno”; però, è
come se la sua maturazione si manifestasse in una sorta
di trasgressione e di radicale novità culturale. D’altra
parte, il romanticismo per tutto il secolo raccoglierà orientamenti diversi e contrastanti: dall’esaltazione di un
libertario individualismo alla proposta del più introverso,
se non reazionario, spirito di conservazione. In Italia la
polemica romantica è condotta dalle riviste “Il Conciliatore” e “L’Antologia”: esponenti di spicco sono Giovanni Berchet e Silvio Pellico. Collaterali al romanticismo
sono gli esiti altissimi della poesia in dialetto del milanese
Carlo Porta e del romano Gioacchino Belli.
L’idea romantica
•
•
•
•
•
•
Le origini del termine “romantico”
Individualismo e popolo
Natura
Storia
Amore totale
Lo squilibrio dell’io tra fiaba e quotidiano
Il termine “romantico” deriva dall’inglese romantic (che ebbe inizialmente il significato perlopiù
negativo di romanzesco, fantasioso, irreale), derivante a sua volta da romance, che designa in
inglese il romanzo medievale e il poema
cavalleresco italiano. Sul continente il termine acquista alla fine del Settecento un significato
alquanto diverso, sinonimo di “pittoresco”. È però
lo scrittore tedesco Johann Gottfried Herder che
usa per primo il termine a designare la poesia
“moderna”, popolare e sentimentale, in contrapposizione alla poesia “antica”, cioè classica.
Gli elementi essenziali che costituiscono il tessuto
del nuovo movimento romantico sono individualismo e popolo, natura, storia, amore totale, il senso
di squilibrio dell’io tra fiaba e quotidiano.
L’io si deve esprimere; l’arte e la lingua non sono
strumenti di conoscenza razionale, bensì espressioni istintive della libertà individuale e insieme
dello spirito e dell’identità profonda del popolo.
Se viene rifiutato il meccanicismo illuministico è
solo perché la natura, per i romantici, resta il segreto stesso dell’energia vitale, la forza spirituale
che parla attraverso i simboli e le analogie. Nella
storia tutto è dinamico, anzi è rivoluzionario e
procede per fratture, superamenti, sintesi e crisi. Il
sentimento è romanticamente un dramma perpetuo; l’amore è una prova estrema e coincide ironicamente con l’incompiutezza e la passione del
frammento. Il senso di squilibrio (cioè l’aspetto
negativo) dell’io, rispetto ai limiti del tempo e della
realtà, pone il soggetto in una condizione di drammaticità che può ridursi sia a fiaba (i misteri delle
tradizioni popolari, l’onirismo, il culto oscuro del
Medioevo o l’esotico), sia paradossalmente alla
quotidianità, in uno sguardo realistico ugualmente
esasperato e assoluto.
IL ROMANTICISMO EUROPEO
In Germania il rapporto drammatico con gli antichi
è il punto originario del romanticismo. Il “preromanticismo” tedesco (vedi Il preromanticismo) è già di
per sé la proposta di una ribellione artistica fondata
sulla libertà del genio e sul suo tragico senso di impotenza espressiva. Proprio il capolavoro di
Wolfgang Goethe I dolori del giovane Werther (1774)
fu il segnale più suggestivo di quella tragicità a cui
sembrava destinato il nuovo eroe moderno. Ma
queste esigenze si consolidarono nella nuova forma
culturale del romanticismo solo nel momento in cui
la forza di ribellione seppe aprirsi a un impegno positivo e originale. All’opera di Goethe si affiancò il
lavoro teatrale di Friedrich Schiller, che nel famoso
saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795)
stabilì quella differenza – “ingenua” la poesia degli
antichi; “sentimentale”, riflessiva, critica e dunque
indefinita quella dei moderni – su cui sarebbe mat-
urata l’origine vera e propria del romanticismo
europeo, all’interno del cosiddetto “gruppo di Jena”,
ovvero il lavoro della rivista “Athenäum”, uscita dal
1798 al 1800, insieme con le opere dei fratelli Schlegel, di Ludwig Tieck e di Novalis.
In Inghilterra la maturazione romantica avviene attraverso l’opera altissima di William Wordsworth e
Samuel Coleridge (coautori delle Ballate liriche,
1798), le raccolte poetiche di John Keats e Percy
Bysshe Shelley e l’influsso di un “mito vivente”
quale George Gordon Byron. Il romanticismo inglese
è sì ribellione e senso realistico del dramma individuale, ma è soprattutto un nuovo ritratto sentimentale della natura, così come è evidente anche nei “romanzi storici” di Walter Scott.
In Francia, un atteggiamento antilluministico (di
dramma spirituale ed esistenziale) già era stato quello
di François-René de Chateaubriand, durante gli anni
della rivoluzione e dell’età napoleonica; il romanticismo divenne movimento consapevole per merito
del trattato di Madame de Staël Sulla Germania
(1813, però scritto tre anni prima). Durante la Restaurazione trionfò il modello sontuoso della prosa di
Chateaubriand; e solo con la rivoluzione di luglio si
verificò quel progressivo ma netto passaggio del romanticismo verso posizioni di tipo liberale e democratico. Autori come Alfred de Vigny, Victor Hugo e
soprattutto Alfred de Musset e Gérard de Nerval sono
i fondatori di un romanticismo francese alla ricerca di
codici nuovi e aperto all’esperienza straordinaria del
notturno come della malattia, della rappresentazione
realistica come di quella più esotica e sentimentale.
Il romanticismo italiano
• Un romanticismo meno esasperato
Il romanticismo italiano si delinea come un modello culturale più cauto e prudente rispetto agli
analoghi movimenti tedesco e inglese. Non fu mai
una vera rottura con la tradizione. Anzi, in certi casi
divenne un’occasione in più per esperire nuove formule rispettose della tradizione letteraria umanistica. La negazione di qualsiasi estremismo condusse
a un dibattito meno ricco, ma non per questo meno
interessante, rispetto a temi fondamentali come la
ricerca di un linguaggio “popolare”, cioè non accademico e astratto, o la necessità di proporre una
letteratura nazionale “utile” al progresso collettivo.
• Origini e prima generazione romantica
• La “Biblioteca italiana”
• Classicisti e romantici
• “Il Conciliatore”
Il romanticismo italiano trovò la sua elaborazione
nei dibattiti pubblici delle riviste. Quando la “Biblioteca italiana” diretta da Giuseppe Acerbi aprì
il suo primo numero con l’articolo di Madame de
Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, si
avviò immediatamente un acceso dibattito fra
classicisti e romantici. La rivista aveva
un’impostazione classicista, senza mai essere
settaria. La polemica, del resto, si irrigidì su ques-
tioni quasi secondarie (l’uso della mitologia classica, il rapporto con le letterature straniere, l’unità
drammatica del modello aristotelico). Posizioni
classicistiche più intelligenti (Pietro Giordani)
mantennero un sicuro punto in comune con le riflessioni romantiche nel desiderio di una letteratura
italiana “universale”.
I romantici italiani si raccolsero attorno alla rivista milanese “Il Conciliatore”, durata però solo
un anno (1818-19) perché soppressa dalle autorità
austriache. Nel gruppo emersero Pietro Borsieri
(1788-1852), autore del divertente e ironico Avventure letterarie di un giorno (1816) e della stesura
del Programma del “Conciliatore”; Ludovico di
Breme (1780-1820), un intellettuale di livello
europeo, forse l’unico italiano capace di misurarsi
con le riflessioni degli idéologues. Il gruppo del
“Conciliatore” tentò di mantenere in vita la ricerca
del nostro migliore illuminismo, sostenendo con la
novità romantica un senso storico della cultura, del
senso civile e di una comune coscienza nazionale.
• Giovanni Berchet
• Il carattere popolare della poesia
Il milanese Giovanni Berchet (1783-1851) è
famoso soprattutto per la Lettera semiseria di
Giovanni Grisostomo al suo figliuolo, pubblicata
nel 1816 nella “Biblioteca italiana” e considerata il
manifesto del romanticismo italiano. La finzione
di un padre che intende spiegare al figlio collegiale il significato della poesia romantica (presentandogli la traduzione, fatta dallo stesso Berchet,
di due ballate del poeta tedesco Gottfried August
Bürger) serve ad affermare il carattere sostanzialmente “popolare” della poesia e il suo rapporto
storico con il popolo. Nel rapporto fra scrittore e
pubblico, il “popolo” rappresenta il gusto medio e
borghese, opposto sia agli intellettuali raffinati, i
“parigini”, sia alla plebe ignorante, gli “ottentotti”.
Berchet, esule in Francia, Inghilterra e Belgio perché carbonaro, tradusse molto (Il Bardo di Thomas
Gray e il romanzo Il curato di Wakefield di Oliver
Goldsmith) e sperimentò egli stesso, soprattutto
con I profughi di Parga (1819-20) e le Romanze
(1824), il gusto medio della poesia “popolare” che
aveva teorizzato.
• Silvio Pellico
• “Le mie prigioni”
Piemontese di Saluzzo, Silvio Pellico (1789-1854)
è figura di rilievo del romanticismo risorgimentale.
Colto e amico di letterati italiani e stranieri, compose soprattutto tragedie. La sua Francesca da
Rimini venne rappresentata con grande successo nel
1815. Collaborò attivamente al “Conciliatore”,
pubblicandovi anche la prima parte di un romanzo,
Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro,
che lasciò incompiuto. Nel 1820 fu arrestato come
carbonaro e trasferito ai Piombi di Venezia; la
condanna a morte fu commutata poi nella carcerazione allo Spielberg, una fortezza in Moravia,
dove rimase fino al 1830. Appena graziato compose
l’opera autobiografica per cui è più noto, Le mie
prigioni (1832), che ebbe un grandissimo successo
di pubblico in Italia e all’estero (tradotta già nel
1833 in francese e successivamente in altre lingue).
Letta subito, al di là delle intenzioni dell’autore,
come atto di accusa contro il regime austriaco,
l’opera è la sofferente descrizione del mondo del
carcere come luogo dominato dall’ingiustizia e
dalla violenza, popolato di emarginati e vittime, illuminato talvolta da gesti di intensa pietà umana.
Dopo la liberazione si dedicò ancora alla tragedia,
scrivendo tra le altre Leoniero da Dertona e Gismonda da Mandrisio (1832), Corradino (rappresentato nel 1834 e pubblicato postumo), Eugilde
della Roccia (1832), che solo in parte ripeterono il
successo della Francesca da Rimini. Di scarso interesse è il suo trattato morale Dei doveri dell’uomo
(1834).
LA
SECONDA
ROMANTICA
GENERAZIONE
La chiusura del “Conciliatore”, la morte di Porta e
di Ludovico di Breme segnano una paralisi del mo-
vimento romantico. A Milano forse solo Manzoni,
anche se appartato e distante dalle polemiche, resta
un punto di riferimento. Tommaso Grossi
(1790-1853), a parte interessanti opere in dialetto
(Prineide, 1817 e La fuggitiva, 1816), scrive in lingua
italiana Ildegonda (1820), modello italiano della
“novella romantica in versi”, e il romanzo storico
Marco Visconti (1834), sulla scia dell’esempio manzoniano. Cesare Cantù (1804-1895), autore di una
famosa Storia universale (1838-46), non ha lo spessore dei primi romantici. Solo Giovita Scalvini
(1791-1843), segretario della “Biblioteca italiana”, è
autore curioso di lavori interessanti, come il poemetto Il fuoriuscito (iniziato nel 1822) e il Saggio sui
Promessi Sposi di Manzoni (1829), straordinario per
lungimiranza e acume critico. L’“Antologia”, rivista nata a Firenze nel 1821 per merito del ginevrino
Giovan Pietro Vieusseux con la collaborazione di
Gino Capponi (1792-1876), Cosimo Ridolfi
(1794-1865) e Giuseppe Montani (1789-1833), raccolse in qualche modo l’eredità del “Conciliatore”,
sebbene non avesse grande interesse a continuare la
disputa classico-romantico, ormai spenta, ma aspir-
asse solo a rilanciare una prospettiva moderna ed
europea della letteratura.
Carlo Porta
• La polemica antipurista e la simpatia per il romanticismo
• Le “Poesie”
• Tra comicità e dolente satira sociale
Carlo Porta (1775-1821), poeta in dialetto milanese, occupa un posto particolare nel romanticismo
italiano, esponente di quello che potremmo
chiamare realismo romantico. Funzionario statale,
nel 1792 pubblicò El lavapiatt del Meneghin ch’è
mort (Il lavapiatti del Meneghin che è morto) e, intorno al 1804, una spigliata e popolare versionetravestimento in milanese dell’Inferno di Dante. In
un articolo sulla “Biblioteca italiana” (11 febbraio
1816) Giordani aveva attaccato la poesia dialettale,
considerandola un esempio deleterio di particolarismo, da superare nella “pratica della comune lingua nazionale”. A questo attacco Porta rispose con
violenti sonetti e con l’adesione alle proposte romantiche. Però, più che adesione fu semplice simpatia o, meglio, un interesse aperto a quella prospettiva di modernità e di spontanea comunicatività che
Porta pensava essenziale non del romanticismo ma
della poesia stessa. Intenso fu comunque il ruolo
che egli ebbe nella vita culturale milanese: raccolse intorno a sé un ristretto e familiare cenacolo
di giovani letterati lombardi, tra cui Giovanni Berchet, Tommaso Grossi, Ermes Visconti; vi partecipò anche lo scrittore francese Stendhal, che ammirava molto la poesia di Porta. Dal 1814 al 1816
il poeta cominciò a raccogliere in vari quaderni
autografi le proprie opere, che dopo la sua morte
subirono censure moralistiche e cancellazioni da
parte di Luigi Tosi. Nel 1817 viene pubblicata una
piccola raccolta dal titolo Poesie. Postuma
l’edizione del 1826 curata dall’amico Tommaso
Grossi. Il mondo di Porta è una straordinaria rappresentazione linguistica del popolo e della
borghesia che affollano piazze e mercati della Milano del tempo. La sua opera è un altissimo risultato di rapida e guizzante comicità e di dolente satira sociale, come forse non accadrà mai
più (eccetto per il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli) in tutto il nostro Ottocento. Determinanti sono una profonda ma mai corriva simpatia
per il mondo dei perdenti e degli oppressi e l’infinita varietà dei registri del dialetto. Tra i risultati più straordinari, che lo pongono tra i grandi
della nostra letteratura, i componimenti poetici On
miracol (1813-14); La nomina del cappellan
(1819-20); I desgrazi de Giovannin Bongee
(1812-13); La Ninetta del Verzee (1814); El lament
del Marchionn di gamb avert (1816), On funeral
(1816).
Giuseppe Gioachino Belli
• Il “monumento” della plebe romana
• L’”inferno” romano
Figura complessa e a lungo ignorata della letteratura italiana, il romano Giuseppe Gioachino Belli
(1791-1863) rappresenta con Porta una voce particolarmente significativa del realismo romantico.
Nato da una famiglia impiegatizia fedele al regime
pontificio, lavorò a lungo come funzionario del
governo papalino. La sua formazione proseguì
quindi in maniera autodidatta: fu ampia e disordinata, subito caratterizzata da forti interessi letterari. Conobbe e apprezzò grandemente la poesia
dialettale di Porta. Dal 1830 al 1837 e dal 1842
al 1849 scrisse i Sonetti in romanesco. Fu uomo
d’ordine sempre più marcatamente conservatore, al
punto di rinnegare persino la propria opera
dialettale.
I 2279 sonetti di Belli sono stati pubblicati integralmente solo nel 1952. Nell’Introduzione, scritta
nel 1831, il poeta indicò chiaramente il senso del
proprio lavoro: “Io ho deliberato di lasciare un
monumento di quello che è oggi la plebe di Roma”.
Il poeta non si pone illusioni pedagogiche che
possano far da velo al suo sguardo e soprattutto
non rintraccia nel popolo mitiche innocenze da
esaltare: la plebe romana è il frutto corrotto di un
sovrapporsi plurimillenario di civiltà. Belli osserva
distaccato tutto ciò: non è il suo mondo, è il
mondo in cui si trova; per rappresentarlo egli si
crea uno strumento di grande efficacia: una voce
narrante, che si frappone tra l’autore e l’argomento
della sua opera, che si serve di un dialetto senza
variazioni di registro. Delinea così, sonetto dopo
sonetto, un mondo in cui tutto si ripete rimanendo immobile: è l’inferno romano in cui,
come in quello dantesco, non c’è il divenire. La battuta finale del sonetto è spesso una riduzione a nulla
di quanto si era fatto intravedere. Da questo senso
d’impotenza elevato a sistema nasce l’amara comicità belliana, che si risolve spesso in uno sberleffo verso i potenti. Il mondo dei Sonetti è staticamente ingiusto: neppure dalla morte è possibile
sperare un cambiamento, ma all’improvviso, in alcuni scorci, mostra dentro di sé momenti di profonda delicatezza, di umanità offesa che il poeta
sembra quasi celare per pudore.
SCHEMA RIASSUNTIVO
IL ROMANTICISMO
I temi della cultura romantica sono l’esaltazione
dell’individualismo e della natura del genio;
l’affermazione del continuo divenire della storia; la
supremazia della passione, del sogno e del dramma
personale. Anche la fiaba è un modo per scoprire le
passioni naturali del popolo.
Romanticismo italiano
Giovanni Berchet (Lettera semiseria di Giovanni
Grisostomo al suo figliuolo, 1816) afferma il carattere “popolare” (nel senso di borghese) della poesia
romantica; Silvio Pellico (con Le mie prigioni, 1832)
ottiene un grande successo descrivendo le sue sofferenze di patriota incarcerato dall’Austria.
CARLO PORTA
Simpatizzante del movimento romantico, Carlo Porta
scrive in un duttilissimo dialetto milanese. Le sue
Poesie (1826) sono un esempio altissimo di dolente
satira sociale e di guizzante comicità, riflesse
nell’infinita varietà di registri del dialetto.
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI
Con i suoi 2279 Sonetti intende lasciare un “monumento” alla plebe romana, osservata con occhio distaccato, in un “inferno” in cui tutto si ripete rimanendo immobile. Da questo senso di impotenza
nasce l’amara comicità belliana.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i temi fondamentali del romanticismo?
2. Su quali riviste si svolse il dibattito del romanticismo italiano?
3. Chi intende Berchet con i termini “popolo”,
“parigini”, “ottentotti”?
4. Quali sono gli elementi e i temi essenziali della
poesia di Carlo Porta? 198b Il poeta aderì al
romanticismo?
5. Belli tende a esaltare la plebe romana?
4 ALESSANDRO MANZONI
Alessandro Manzoni è la figura più significativa del nostro romanticismo. La sua opera segna l’ingresso della letteratura italiana nel grande realismo romantico europeo,
simboleggiando la nuova coesione nazionale e risorgimentale. Egli ha sottratto la moderna letteratura italiana
alla sua rigidità classicista e alla sostanziale indifferenza
alla storia: la letteratura deve impegnarsi sul piano morale e sociale e deve svolgere una funzione educativa. I
promessi sposi sono in tal senso un’opera di straordinaria novità, il cui pregio maggiore è quello di essere un
grande romanzo popolare, di ampio progetto narrativo ed
eccezionale risultato linguistico.
La vita e le opere
•
•
•
•
•
•
Gli anni di formazione
Il soggiorno parigino
La conversione religiosa
Le opere poetiche e drammatiche
Le redazioni dei “Promessi sposi”
Saggi linguistici, estetici e storiografici
La madre Giulia, sposata al vecchio conte Pietro,
era figlia dell’illuminista Cesare Beccaria; il padre
naturale fu probabilmente Giovanni Verri, fratello
dei più noti Pietro e Alessandro. Manzoni (nato a
Milano nel 1785) venne messo in collegio a sei
anni a Merate e a Lugano, poi a Milano, al collegio
dei Nobili tenuto dai Barnabiti. Manzoni serbò un
cattivo ricordo di quella scuola rigida e retorica, che
però lo educò ai classici senza impedire il contatto
con le idee nuove: in collegio lesse gli autori moderni (Alfieri, Parini, Monti) e i pensatori francesi
(Voltaire, Rousseau, Helvétius, Condorcet). La
lezione degli esuli napoletani (Cuoco e Lomonaco)
lo aiutò a superare l’astrattezza illuministica e a
maturare un sentimento vivo della storia. Dopo
una breve convivenza con il padre, nel 1805 raggiunse a Parigi la madre e il compagno di lei, il
conte Carlo Imbonati, che però morì improvvisamente prima del suo arrivo. A Parigi frequentò
il salotto intellettuale della vedova Condorcet (del
cui convivente, lo studioso Claude Fauriel, divenne
amico), dove si riunivano gli idéologues, intellettuali libertari, socialmente impegnati, in prevalenza
sensisti ma con aperture spiritualiste, che affinarono in Manzoni il rigore intellettuale e morale.
Nel 1808 sposò, con rito calvinista, Enrichetta
Blondel, figlia di un banchiere d’origine ginevrina,
sua compagna nel graduale processo di conversione che sfociò nel matrimonio cattolico (1810)
dopo il “miracolo di san Rocco”, quando il trepido
Alessandro invocò Dio per ritrovare la moglie perduta nella calca parigina. Nel raccoglimento della
vita milanese, accanto alle letture filosofiche e religiose, seguì con intensa emozione l’evolvere degli
eventi storici e i dibattiti letterari, che dal 1816 assunsero a Milano toni infuocati, simpatizzando per
i romantici contro i classicisti. La conversione religiosa coincise con il distacco dai modi classicheggianti delle prime poesie. Compose, con nuove cadenze ritmiche, i primi Inni sacri, iniziati nel 1812
e pubblicati nel 1815 (nel 1822 vi aggiunse La
Pentecoste). Con il Il conte di Carmagnola (1820)
tentò una tragedia ispirata alle nuove idee poetiche
(soggetto storico, rifiuto delle unità di tempo, luogo
e azione). Con le Osservazioni sulla morale cattolica (1819) contestò le posizioni anticlericali dei
neoghibellini. Tornato a Parigi nel 1819, frequentò
lo storico francese Jacques Thierry, da cui prese
l’esigenza di una storiografia attenta alle masse e
alcune idee sull’origine delle classi sociali accolte
nella tragedia Adelchi (1822). Rientrò nel 1820 a
Milano e condusse una vita appartata e operosa, interrotta da pochi viaggi, vissuta ora con savio umorismo, ora nel tormento di crisi nervose. Nel 1821
scrisse le due odi civili, Marzo 1821 per i moti
liberali (pubblicata nel 1848) e Il cinque maggio per la morte di Napoleone. Fu un periodo di
creatività, in cui sperimentò generi diversi, nella
ricerca febbrile di ciò che poteva meglio accogliere
la vastità dei suoi interessi per meglio comunicarli
a un più largo pubblico.
Approdò al romanzo, scrivendo, fra il 1821 e il
1823, il Fermo e Lucia, ma vi rimise presto mano,
operandone una radicale revisione strutturale e formale, e lo pubblicò a Milano (1825-27) con il
nuovo titolo I promessi sposi. Dopo ulteriori correzioni linguistiche, seguite a un soggiorno
fiorentino nel 1827, il romanzo assunse la veste
definitiva nell’edizione a dispense illustrate che
uscì a Milano nel 1840-42. Scemato il fervore creativo, Manzoni si applicò in prevalenza a problemi
di teoria estetica e linguistica e a studi storiografici
(dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia del 1822, funzionale all’Adelchi, alle ricerche in margine ai Promessi sposi, da
cui si venne separando l’indagine sul processo agli
untori della Colonna infame, perfezionata come
appendice al romanzo nel 1842).
Manzoni tornò sulle questioni estetiche con il discorso Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (steso attorno al 1830 e pubblicato nel 1845), con il dialogo
Dell’invenzione (1850), ispirato alle idee del filosofo e amico Antonio Rosmini, e ancora con le approfondite meditazioni linguistiche che sarebbero
dovute confluire in un volume organico Della lingua italiana, rimasto incompiuto. Quanto pubblicato (la Lettera a Carena del 1846, la relazione al
ministro Dell’unità della lingua e altri scritti del
1868) attesta, sul piano linguistico, il suo impegno
risorgimentale.
• La vita pubblica e gli ultimi anni
La vita di Manzoni si risolse nella sfera privata
e fu segnata di lutti. Per la morte di Enrichetta
(provata da dieci maternità) stese il frammento Il
Natale del 1833, che, con l’incompiuto Ognissanti
(e coi pochissimi versi d’occasione), rappresenta
l’ultima prova poetica dopo la svolta del romanzo.
Gli premorirono sei degli otto figli rimasti e la
seconda moglie, Teresa Stampa (sposata nel 1840).
La fede dello scrittore non ne uscì affievolita e
non venne meno neppure l’interesse per le sorti
dell’Italia, già documentato dal rifiuto di
un’onorificenza austriaca nel 1838 e dalla firma
dell’appello lanciato dai milanesi a Carlo Alberto
nel 1848. Nel 1859 ricevette la visita di Garibaldi.
Nel 1861 come senatore del Regno votò per
Roma capitale, nel 1872 accettò la nomina a cittadino onorario di Roma nonostante l’ostilità del
papa al nuovo Stato italiano. La sua morte,
avvenuta a Milano nel 1873, fu occasione di solenni
onoranze e ispirò la Messa da Requiem di Giuseppe
Verdi.
La produzione poetica
• Le poesie giovanili
• Gli “Inni sacri”
• Le odi civili
Le poesie giovanili precedenti gli Inni sacri furono
rifiutate da Manzoni, che rigettò forme e temi del
neoclassicismo, estranei ai riscoperti valori cristiani. Un’inclinazione seria e pensosa si avverte però
anche nelle rime giovanili, a partire dalle terzine
del Trionfo della libertà (1801), animate da un fanciullesco entusiasmo giacobino. I versi sciolti
dell’Adda (1803), pur dedicati a Monti, celebrano
in realtà Parini, maestro della satira moralistica. Nel
carme In morte di Carlo Imbonati (1805-06), lo
scomparso indica al giovane l’esempio di Parini,
Alfieri e Omero, portatori di una poesia eternizzante non meno che educatrice virtuosa.
La grande svolta si profila con il progetto, rimasto
incompiuto, di scrivere dodici Inni sacri per scan-
dire l’anno liturgico, nella celebrazione del perenne
ritorno della verità. Nei cinque composti (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione, La Pentecoste), Manzoni rinnova insieme
materia e forma: sottrae la sua parola-preghiera
all’usura della letterarietà, volge le spalle alla linea
melodica petrarchesco-tassiana, attiva reminiscenze bibliche e adotta un linguaggio drammatico,
sublime e colloquiale a un tempo. Lo stile “petroso” degli Inni, tutto riprese e riecheggiamenti interni, torna nelle odi civili, quasi a stabilire, a livello del suono e del ritmo, un’equazione fra riscatto
nazionale e palingenesi religiosa. In Marzo 1821, la
sinistra invocazione di un Dio biblico e guerriero è
temperata dal tono pensoso e dalla dedica al poeta
Theodor Körner, caduto per la libertà tedesca. Nel
Cinque maggio, la passione politica è riassorbita
nella meditazione religiosa: di fronte alla morte di
Napoleone, il poeta rinvia ai posteri il giudizio
storico e affida all’imperscrutabile misericordia
divina il giudizio morale.
Le tragedie
• “Il conte di Carmagnola”
• “Adelchi”
Nell’affrontare il genere teatrale, Manzoni sente il
bisogno di confutare le riserve sul genere drammatico avanzate da moralisti religiosi o profani
d’oltralpe; ne difende la funzione educativa e proclama la libertà dalle “regole” classicistiche (posizioni espresse nel 1820, in francese, nella Lettera
a M. Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella
tragedia e nella Prefazione al Carmagnola). I temi
storici prescelti alludono anche alla situazione contemporanea dell’Italia divisa e soggetta (le guerre
fra gli Stati italiani nel Carmagnola, la dominazione straniera nell’Adelchi).
La prima tragedia, Il conte di Carmagnola, è contrassegnata da un pessimismo radicale, che non
contempla prospettive provvidenziali. Il Carmagnola, già condottiero dei Visconti di Milano,
passa al servizio di Venezia; sbaraglia i milanesi
a Maclodio, ma cade in sospetto della Serenissima
per la clemenza usata verso i vinti. Richiamato a
Venezia con l’inganno, è condannato a morte e
l’affronta dopo un travaglio che lo conduce
dall’odio al perdono e alla fede. Se il Conte è il
martire, il vero personaggio tragico è il senatore
Marco, diviso fra l’amicizia per il Carmagnola e
l’obbedienza alla ragion di stato.
L’Adelchi è divisa anch’essa in cinque atti e scritta
in versi, ma più complessa e corale. Vi si rappresentano gli avvenimenti successivi al ripudio da
parte del re dei franchi Carlo Magno della moglie
Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e
sorella di Adelchi. Carlo, chiamato in Italia dal
papa, sorprende l’esercito nemico e lo vince. Si
consumano in rapida progressione il tradimento di
molti duchi longobardi, l’agonia dell’innocente e
infelice Ermengarda, la catastrofe del regno di
Desiderio e la morte sublime di Adelchi. Eroe solitario e puro, Adelchi si batte a oltranza per la
sua stirpe “rea”, ma alle ragioni della politica oppone le leggi della giustizia e della pietà. Adelchi
ed Ermengarda scontano la loro superiore nobiltà
d’animo; entrambi si avvicinano all’ora fatale come
a un desiderato momento di pace, in cui la sventurata sorte terrestre diventa la condizione del
riscatto di fronte al Salvatore.
“I promessi sposi”
La ricerca di un mezzo largamente comunicativo e
adatto a trattare una materia complessa volge Manzoni dal teatro al romanzo, genere rilanciato con
successo dalle narrazioni di argomento storico dello
scozzese Walter Scott.
• La redazione
• “Fermo e Lucia”
• Le redazioni ventisettana e quarantana
Prima di porre mano alla narrazione, Manzoni fece
ricerche scrupolose sulla Lombardia del Seicento,
studiando la storiografia d’epoca (Giuseppe Ripamonti, Tadino), i moderni scritti economici e giuridici (Melchiorre Gioia, Pietro Verri) e attingendo
infine a fonti documentarie, come le raccolte di
gride pubbliche che cita nel romanzo in gustosi pastiches. Compiuto nell’autunno del 1823, il Fermo
e Lucia resta però nel cassetto dello scrittore
insoddisfatto della lingua adottata, eclettico miscuglio di forme letterarie (attinte dal vocabolario
della Crusca) e di modi parlati (Manzoni conversava abitualmente in milanese e in francese). La
scrittura del Fermo abbonda così di lombardismi,
gallicismi, latinismi e arcaismi, apparendo insomma “goffa e affettata”.
Già nel marzo 1824 Manzoni riprende il lavoro, riducendo nella trama le parti più vistosamente romantiche (la fosca storia della Monaca di Monza,
la cupa fine di don Rodrigo), e ritoccando sia la
lingua, ritenuta astratta e artificiosa, a vantaggio
della parlata toscana, sia lo stile, ricondotto a misure classiche e temperato dall’ironia. Neppure la
redazione “ventisettana” (1825-27) dei Promessi
sposi soddisfa pienamente l’autore, che si reca a
Firenze per “sciacquare i panni in Arno”. La
nuova revisione sfocia nella redazione “quarantana” (1840-42), in cui, fra la lingua nazionale ma
“morta” della tradizione scritta (toscano letterario)
e quella popolare ma municipale della conversazione (dialetti), Manzoni trova una geniale mediazione nel fiorentino vivo della borghesia
colta, fornendo così alla nuova Italia la base linguistica, il suo idioma nazional-popolare.
• La tematica
•
•
•
•
Il vero, l’utile e l’interessante
L’invenzione verosimile
La scelta del Seicento come sfondo storico
L’epopea della Provvidenza?
Manzoni sceglie di applicarsi al genere del romanzo obbedendo a radicate esigenze estetiche ed
etiche: l’arte deve avere per oggetto il vero,
l’utile come fine e l’interessante come mezzo.
Già nella poesia Manzoni aveva manifestato una
predilezione per il “vero”, compromesso dagli abbandoni fantastici o dalle evasioni idilliche. Anche
le due tragedie avevano intenti educativi, in parte
vanificati dal carattere elitario dei personaggi e
dello stile, inadatto ai lettori comuni ai quali lo
scrittore intende rivolgersi questa volta. Nel suo romanzo Manzoni decide di raccontare non le storie
dei grandi personaggi, ma quelle oscure delle masse
anonime di cui ricostruisce la vita quotidiana, promuovendo due umili popolani al rango di protagonisti.
Un intreccio “inventato” ma verosimile si staglia
su uno sfondo storico ben tratteggiato (il malgoverno spagnolo, la peste, la guerra) in cui agiscono
personaggi reali (il cardinal Borromeo, la Monaca
di Monza, l’Innominato) o figure emblematiche di
gruppi sociali (bravi prepotenti, preti spaventati,
cappuccini coraggiosi, politici intriganti, folle eccitate): l’amore contrastato fra un artigiano e
un’operaia, ostacolati da un tirannello di provincia,
viene alfine coronato grazie alla “conversione” di
un potente bandito e ad alcuni eventi “provvidenziali”.
La vicenda è costruita su uno schema narrativo
elementare (lo stesso amore contrastato, il superamento degli ostacoli con intervento di danneggiatori e coadiutori, il lieto fine) ed è l’esile filo su
cui si innestano digressioni psicologiche e morali, riflessioni storiche ed esistenziali, espresse
con uno stile che conosce l’arte della descrizione
precisa, del dialogo comico, della notazione ironica, dell’accensione tragica o lirica.
Una profonda convinzione spinge Manzoni a scegliere il Seicento come sfondo storico per il romanzo: quel secolo incarna i suoi bersagli polemici,
il formalismo, l’esibizione scenografica, la sopraffazione, l’erudizione, il farisaismo ipocrita di potenti in cappa o in tonaca, l’ignoranza, che egli
smaschera con lo sguardo lucido e severo della ragione illuministica e della morale cattolica. Il Seicento gli appare come il periodo in cui i valori
dello spirito e dell’intelligenza subiscono i più
gravi oltraggi e fa risaltare le possibilità concesse
all’individuo di scegliere responsabilmente la via
della giustizia e della salvezza.
Spesso il romanzo è stato definito un’epopea della
Provvidenza e criticato per la rassegnata accettazione del male. In realtà, se l’irruzione divina
nel mondo dell’uomo segna nella narrazione il
punto più alto, essa non abolisce dolori e ingiustizie: il suo campo d’azione resta il segreto
dell’anima, dove riesce a rendere più sopportabili i dolori che accompagnano l’esistenza terrena.
I saggi
• Verità storica e invenzione
• La “Storia della colonna infame”
• La riflessione sulla lingua
La difficile conciliazione tra verità storica e invenzione è oggetto del Discorso del romanzo storico,
in cui Manzoni sottolinea l’incoerenza teorica di un
genere letterario che mescoli le due componenti.
Sembra così negare l’assunto su cui poggia il suo
romanzo: in realtà vuole criticare gli eccessi avventurosi cui si abbandonano i romanzi storici coevi.
Riconducendo l’operazione inventiva dello scrittore a idee che gli preesistono e che egli “ritrova”,
di fatto riconcilia il fare storiografico e il fare letterario nella comune dipendenza da una realtà anteriore e divina.
Nel Manzoni storiografo le esigenze metodologiche
del razionalista, la passione di patria e l’adesione
ai principi cristiani s’intrecciano fittamente. Ne è
frutto l’inchiesta-arringa sulla Storia della colonna
infame. Rigore di metodo e senso morale guidano la
sua ricerca: Manzoni dimostra che i giudici furono
consapevoli della loro ingiusta condanna degli untori e contesta l’idea illuministica che attribuiva il
misfatto all’oscurità dei tempi, scaricando sulla società un crimine che sarebbe stato certamente possibile evitare usando ragione e coscienza.
Un analogo senso sociale e nazionale impronta la
riflessione sulla lingua (la lettera a Giacinto Carena
del 1846 e la relazione al ministro Broglio sull’Unità della lingua italiana, la Lettera intorno al libro
“De vulgari eloquio” di Dante Alighieri, 1868, la
Lettera intorno al Vocabolario, 1868). Le coordinate del pensiero linguistico manzoniano sono il ricorso al criterio-guida dell’“uso” (nella scelta di parole e costrutti) e la proposta di un idioma comune a
“tutta quanta l’Italia”, nella ricerca di una via intermedia fra il dialetto e il toscano letterario secondo
la prospettiva messa in atto nei Promessi sposi.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Dopo studi in collegio a Milano, si reca a Parigi
(1805) dove frequenta i salotti intellettuali. Nel 1810
si converte al cattolicesimo e sposa Enrichetta
Blondel, dalla quale avrà dieci figli. Rientrato a Milano, simpatizza per i romantici contro i classicisti.
Vive prevalentemente il resto della vita a Milano e
nella vicina Brusuglio, dedito agli studi. Nel 1840,
morta la moglie, sposa Teresa Stampa. Nel 1861 è
nominato senatore del regno d’Italia e vota per Roma
capitale nonostante l’opposizione papale.
OPERE POETICHE
Gli Inni sacri (1815) e le odi civili, Marzo 1821 e
Il cinque maggio (1821) hanno uno “stile petroso”,
lontano dai modelli petrarcheschi e ricco di riferimenti biblici.
LE TRAGEDIE
Il conte di Carmagnola (1820) è segnata da un pessimismo radicale; l’Adelchi (1822) oppone le ragioni
della giustizia e della pietà a quelle della politica.
“I PROMESSI SPOSI”
La prima redazione del romanzo ha il titolo di Fermo
e Lucia (1821-23); le altre due sono del 1827 e del
1842. Vuole essere un grande romanzo capace di
rivolgersi al popolo, in cui converge tutta la poetica
manzoniana.
LA POETICA
La letteratura deve cercare il “vero” e dunque il
“reale”. Il suo scopo è l’insegnamento offerto a tutte
le classi sociali. Il cattolicesimo è un modo per proporre romanticamente l’idea nazionale e morale di
letteratura. La lingua, in quanto mediazione fra
dialetto e toscano letterario, è la via essenziale di
questa comunicatività nazionale.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono le caratteristiche stilistiche degli
Inni sacri e delle Odi civili?
2. Quale funzione Manzoni attribuisce alle sue
tragedie?
3. Quali oggetto, fine e mezzo deve avere l’arte
per Manzoni?
4. Perché Manzoni scelse per il suo romanzo la
materia storica del Seicento?
5. Perché I promessi sposi sono stati definiti
l’epopea della Provvidenza?
5 GIACOMO LEOPARDI
Giacomo Leopardi è il più grande poeta dell’Ottocento
e indubbiamente il fondatore della moderna poesia italiana. La sua eccezionalità – anche rispetto alla cultura internazionale – si rivela nel fatto che fu poeta moderno
e innovatore, pur definendosi antiromantico e interessato
a una continuità stretta con la tradizione, nel quadro di
un pensiero di drammatico pessimismo cosmico. D’altra
parte, il suo classicismo è molto lontano dalla polverosa
letterarietà di tanti neoclassici italiani. La grandezza di
Leopardi si sintetizza in una semplicissima formula: aver
pensato alla poesia come scommessa dignitosa per capire
l’esistenza e cercare la verità.
I primi anni
• I precoci esordi poetici e filologici
• Gli “anni di studio matto e disperatissimo”
Nacque a Recanati nel 1798 in una famiglia della
nobiltà clericale di provincia: il padre, conte Monaldo, era un erudito bibliofilo di idee reazionarie;
la madre, Adelaide dei marchesi Antici, una donna
dispotica, religiosa fino al fanatismo. Primogenito
di dieci figli (ne sopravvissero cinque), Giacomo
nutrì un affetto profondo per il fratello Carlo e per
la sorella Paolina. Ebbe come istitutori il gesuita
Giuseppe Torres e l’abate Sebastiano Sanchini; ma
fu soprattutto un autodidatta, esploratore febbrile
della ricca biblioteca paterna. Nel 1809 scrisse la
prima poesia, il sonetto La morte di Ettore, cui
seguirono altri componimenti in italiano e in latino,
traduzioni da Orazio, dissertazioni filosofiche e due
tragedie.
Nel luglio del 1812 Giacomo iniziò “sette anni di
studio matto e disperatissimo” che contribuirono
al peggioramento delle sue già precarie condizioni
di salute: imparò da sé il greco e l’ebraico, intraprese lavori filologici di eccezionale impegno,
stese una Storia dell’astronomia (1813) e un Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815),
interessante per le pagine sugli stupori infantili, sui
sogni e sugli incubi notturni, sulla quiete dell’ora
meridiana, sul terrore dei fulmini e delle tempeste.
Dopo la sconfitta di Gioacchino Murat a Tolentino,
scrisse, con spirito antifrancese, Agl’Italiani.
Orazione per la liberazione del Piceno (1815). Non
interrompeva intanto il suo esercizio poetico, componendo fra l’altro, nel 1816, l’Inno a Nettuno (che
finse di tradurre da un originale greco), le due Odae
adespotae (in greco e in latino) e l’idillio funebre
Le rimembranze. Più importanti furono le
traduzioni dei classici: gli Idilli di Mosco e la Batracomiomachia pseudo-omerica nel 1815, il I libro
dell’Odissea e il II dell’Eneide nel 1816, la Titanomachia di Esiodo nel 1817.
La conversione letteraria
• La polemica tra classicisti e romantici
Allo studio appassionato di queste grandi opere
Leopardi fece in seguito risalire la sua “conversione
letteraria”, ossia la scoperta della vocazione poetica
che, rivelatasi tra il 1815 e il 1816, fu in realtà il
risultato di profondi turbamenti interiori che coinvolsero le esperienze letterarie. Da un lato
l’angoscia per l’aggravarsi della malattia, il
timore della morte, il rammarico per una giovinezza
che appassiva già al suo primo fiorire: stati d’animo
espressi in modi tumultuosi, ma personali, nella
cantica Appressamento della morte (1816).
Dall’altro un’ansia di evasione, una volontà fremente di liberarsi dalla prigionia di Recanati. Nel
1816 tentò di inserirsi nella polemica tra classicisti
e romantici con una Lettera (rimasta inedita) in
cui contestava l’esortazione di Madame de Staël
a rinnovare la letteratura italiana attraverso la
traduzione e lo studio degli scrittori stranieri. Nel
1817 iniziò la corrispondenza con Pietro Giordani,
letterato classicista e liberale, che riconobbe per
primo il genio del giovane poeta. Ancora nel 1817
provò l’improvvisa fiammata d’amore per la ventiseienne cugina di Monaldo, Geltrude Cassi Lazzari,
che da Pesaro era venuta in visita a Recanati e che
gli ispirò l’Elegia I (poi intitolata Il primo amore),
l’Elegia II e il bellissimo Diario del primo amore,
dove gli stadi e gli effetti dell’innamoramento sono
analizzati in una prosa rapida, estremamente limpida.
• Lo “Zibaldone”
• Il laboratorio introspettivo e filosofico
Il 1817 fu un anno di svolta. Tra il luglio e l’agosto
fissò le prime annotazioni dello Zibaldone, che
crescerà a dismisura fino alla data 4 dicembre 1832,
raggiungendo la mole di 4526 pagine manoscritte.
Lo Zibaldone è uno sterminato laboratorio in cui
si alternano pensieri filosofici e abbozzi di studi,
pagine di compiuta poesia e fulminei appunti introspettivi, analisi minuziose dei congegni della memoria, dei sensi e dei sentimenti, riflessioni sui rapporti tra individuo e società, dissertazioni filologiche, considerazioni sulle lingue e sulle letterature
antiche e moderne. Sono celebri le indagini minuziose sulla percezione dei suoni e sulla vista di spazi
e oggetti che suggeriscono l’infinito; quelle sulla
noia, sulla malinconia, sul riso, sulla giovinezza e
sull’amore, un materiale che alimenterà la poesia
dei Canti. L’opera fu pubblicata per la prima volta
negli anni 1898-1900, con il titolo Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura; ma dal 1845 si conoscevano i 111 Pensieri, che Leopardi stesso aveva
preparato per la stampa ricavandoli in gran parte
dallo Zibaldone.
La conversione filosofica
•
•
•
•
•
Il solido nulla
Il bisogno delle illusioni
Antitesi tra natura e ragione
Poesia di immaginazione e poesia sentimentale
Limiti del romanticismo
La crisi personale toccò l’apice nel 1819, allorché
alle altre sofferenze si aggiunse una malattia agli
occhi che lo costrinse a rinunciare anche alla
lettura. Nel luglio un tentativo di fuga dalla casa
paterna (per un viaggio a Roma) venne subito
scoperto e sventato da Monaldo. Intanto l’ansia e lo
scetticismo filosofico radicalizzavano la scoperta
del nulla (“Io era spaventato nel trovarmi in mezzo
al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come
soffocare, considerando e sentendo che tutto è
nulla, solido nulla”, Zibaldone). Che la realtà sia
il nulla e che il nulla sia “solido”, sia fatto di materia, abbia un corpo, è il tragico paradosso alla
base del pensiero leopardiano, in cui si generano
a catena altri paradossi: l’enigma che il nulla-materia nasconde in sé provocando dolore è un gigantesco interrogativo pietrificato che la natura dissemina in mille frammenti, coinvolgendo nella sua
inquietante domanda l’esistenza dei mortali. E
dall’arcano “mirabile e spaventoso” racchiuso nel
nulla nasce il bisogno disperato delle “illusioni”,
anch’esse concepite e sentite nella sfera della corporeità, piaceri “vani” ma “solidi”. Nell’orizzonte
del “nulla” Leopardi affrontò i grandi temi che
erano stati al centro del pensiero settecentesco e
che riemergevano, con soluzioni diverse, nel dibattito romantico: in solitaria meditazione, mise a
fuoco una serie di antitesi. La prima antitesi è
quella, risalente a Jean-Jacques Rousseau, tra
natura e ragione: la natura tende alla felicità, la ragione la distrugge; la natura è il regno del “bello”,
delle illusioni, della poesia, mentre la ragione, portatrice del vero, inaridisce il cuore e dissolve i sogni.
Il dualismo poesia-filosofia si tradurrà dunque nel
contrasto fra “poesia di immaginazione” e
“poesia sentimentale”. Per Leopardi la poesia
autentica è soltanto la prima, perché prodotta dalla
fantasia creatrice di miti; ma i moderni, immersi
nell’“arido vero”, non sono capaci che di poesia
sentimentale, una sorta di filosofia. Il riconoscimento dell’inevitabilità di una poesia nutrita di pensiero avvicinava Leopardi ad alcune posizioni dei
romantici, ma con precisi limiti e insanabili dissensi. Nel Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica (iniziato nel 1818) egli accettava
i postulati critici della scuola romantica (il rifiuto
dell’imitazione degli antichi e dell’abuso della mitologia), mentre dei principi costruttivi condivideva
soltanto l’interesse per il “patetico”, interpretando
però questa categoria come una dolorosa necessità,
una rinuncia, senza adeguato compenso, al conforto
della fantasia.
I primi “Canti”
• Le edizioni
Constatato il nulla universale, la poesia di Leopardi nasceva nel segno della precarietà, come
paradosso, scommessa, tentazione: nasceva nel
momento stesso in cui il poeta aveva decretato
la morte della poesia. Dopo il fallimento di alcuni
esperimenti romantici, la vera poesia leopardiana
cominciò e si sviluppò su due registri distinti: le
nove canzoni (1818-22) e i cinque idilli (1819-21),
che costituiscono il primo nucleo di quello che di-
verrà il libro dei Canti, un “libro” che prenderà
forma attraverso pubblicazioni parziali, incrementi,
correzioni assidue del lessico e dello stile, passando
per tre tappe fondamentali: l’edizione Piatti (Firenze, 1831), con 23 poesie; l’edizione Starita (Napoli,
1835) con 39 poesie; l’edizione postuma Le Monnier (Firenze, 1845), con 41 poesie.
• Le canzoni
• Poesia come magistero civile
• Pessimismo radicale e infelicità umana
• Natura crudele matrigna
Delle nove canzoni, le prime cinque sono in parte
ispirate dalla proposta di Giordani di una poesia
come “magistero civile” su modelli classici, ma
anche dall’ansia indeterminata di grandi azioni
che Leopardi manifestò più volte nelle lettere e
nello Zibaldone. All’Italia e Sopra il monumento
di Dante, del 1818, trattano di temi esplicitamente
patriottici, avendo in comune il paragone tra un
passato glorioso e un presente umiliato dalla
schiavitù e dalla viltà. Anche la canzone Ad Angelo
Mai (1820) è inizialmente impostata come
esortazione alla riscossa civile, sennonché la decadenza e l’impotenza dell’oggi si estendono qui a
condizione generale dell’umanità, che ha perso le
illusioni di un felice stato naturale per precipitare
in un’epoca dominata dalla nefasta cognizione del
“vero”, generatrice della noia e del nulla.
Si delinea perciò un pessimismo radicale che si
confermerà nelle Nozze della sorella Paolina
(1821): crollata ogni speranza di intervenire sul
presente, la virtù viene esaltata stoicamente per se
stessa. In A un vincitore nel pallone (1821) si
esaltano, per se stessi, l’agonismo e il rischio,
rimedi unici a un’esistenza svuotata di qualsiasi
valore e significato; la terribile conclusione
(“Nostra vita a che val? solo a spregiarla”) segna il
passaggio alle due grandi allegorie dell’infelicità
umana, Bruto minore (1821) e l’Ultimo canto di
Saffo (1822), dove ormai la natura non è più
madre benigna ma crudele matrigna. Bruto
morente distrugge il mito della virtù e, con il sui-
cidio, si erge titanicamente contro la divinità insultandola. Saffo, “dispregiata amante” perché la
natura le negò la bellezza, si vota anche lei al suicidio, ma la sua protesta, a differenza di quella di
Bruto, ha intonazioni elegiache, intimamente dolenti e appassionate. Funzione di duplice congedo,
dalle “favole antiche” dei pagani e dalla mitologia
biblica, assolvono infine le altre due canzoni del
1822, Alla primavera e l’Inno ai patriarchi.
• Gli idilli
• La storia di un’anima
Gli idilli veri e propri (“idilli, esprimenti,
situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”) sono cinque: L’infinito (1819), Alla luna
(1819), La sera del dì di festa (1820), Il sogno
(1820-21), La vita solitaria (1821). Rispetto alle
canzoni, le “situazioni idilliche” sono tutte concentrate e risolte nel soggetto: sono brani della
“storia di un’anima”, che si svolgono in un de-
terminato spazio e in un preciso momento, messi
sempre in relazione, tramite la memoria, con altri
momenti e con altre “avventure” interiori già sperimentate. Il mutamento è anche nello stile: non
più l’ardua sintassi, il lessico fitto di arcaismi e
latinismi delle canzoni, ma un linguaggio piano,
che accosta sapientemente parole rare a parole
trasparenti e quotidiane. Capolavori assoluti sono
i componimenti brevi, L’infinito e Alla luna, che
condensano, rispettivamente, la sensazione di vertigine davanti a un infinito suggerito per contrasto da
elementi “finiti” e il piacere di una “rimembranza”
sollecitata da un sublime, affettuoso dialogo con la
luna.
Il silenzio poetico
Tra il 1822 e il 1828 la poesia leopardiana tacque,
con due sole eccezioni: la canzone Alla sua donna
(1823) è un addio alla donna ideale irraggiungibile,
simbolo della poesia che fugge; l’epistola Al conte
Carlo Pepoli (1826) è un componimento finissimo,
in tono tra oraziano e pariniano, che imprime nuovo
suggello a una stagione creativa che Leopardi ritiene definitivamente conclusa (nel finale egli dichiara di abbandonare la poesia per gli studi
dell’“acerbo vero”). Furono sei anni tuttavia, questi
del “silenzio”, di esperienze vive che portarono
il poeta lontano dal “natio borgo selvaggio”. Nel
novembre del 1822 andò a Roma, presso lo zio
Carlo Antici, ma la città e il suo ambiente eruditoarcheologico lo delusero profondamente: soltanto
la visita all’umile tomba del Tasso lo commosse
fino alle lacrime. Tornato a Recanati nel 1823, ne
ripartì nel 1825, accettando l’offerta di curare per
l’editore milanese Antonio Fortunato Stella
un’edizione delle opere di Cicerone. Poi fu a Bologna, a Firenze (dove frequentò il Gabinetto
Vieusseux e il gruppo dei liberali toscani) e a Pisa,
che gli offrì il soggiorno più gradito e salutare.
Le “Operette morali”
• I temi
• Filosofia e poesia
Leopardi scrisse quasi tutte le Operette morali tra il
1824 e il 1827. In esse si rintracciano alcuni temi
centrali: quello dell’illusione e della felicità impossibile (per esempio, in Dialogo di un Folletto e di
uno Gnomo); quello della natura e del piacere (Dialogo della Natura e di un’Anima, Dialogo della
Natura e di un Islandese); quello della noia peggiore del dolore (Dialogo di Torquato Tasso e del
suo Genio familiare, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); quello che riguarda,
più in generale, la responsabilità dell’individuo
verso se stesso e verso la società (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Nuove tematiche introducono prose più tarde (1832), come
il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico,
nelle quali affiora una visione più pacata e insieme
più eroica della vita. Le Operette sono a un tempo
un libro di filosofia e di poesia: idee e ragionamenti si trasfigurano quasi sempre in immagini
e allegorie, grazie a una prosa lavoratissima che
rinnova modelli antichi (soprattutto i dialoghi di
Luciano) con “leggerezza apparente”, con soluzioni
originali e vivaci che consentono l’alternanza di
meditazione e ironia, di aperture liriche e serrati
scambi dialettici.
I “grandi idilli”
•
•
•
•
Poesia come pura lirica
I “Canti”, poesia in assoluto
Gli apologhi del borgo
La rimembranza
Durante il soggiorno a Pisa, nel 1828, Leopardi
scrisse alla sorella Paolina parole che annunciavano
la sua rinascita alla poesia: “Dopo due anni, ho
fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente
all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”. I versi
erano Il risorgimento e A Silvia. Seguirono i canti
Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo
la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composti tra
il 1829 e il 1830 a Recanati, dove il poeta era stato
costretto a ritornare nel novembre del 1828, perché gli era stato sospeso l’assegno dello Stella e
perché le sue condizioni di salute erano peggiorate.
Si trattenne poco meno di un anno e mezzo, soffocato da una malinconia che era “oramai poco
men che pazzia”; in quella disperazione nacque la
maggior parte dei cosiddetti “grandi idilli”, la cui
composizione era stata preceduta da un lungo approfondimento teorico della poesia come pura
lirica svincolata dall’imitazione, dalle regole, da
fini pratici. “Canto” è la denominazione che si
afferma in questo periodo, e Canti sarà il titolo
dell’edizione del 1831, sancito in quella del 1835:
un titolo senza precedenti, nella tradizione letteraria
italiana, che cancella ogni indicazione di “genere” e
“sottogenere” per esaltare la poesia “senza nome”,
la poesia in assoluto.
Il risorgimento è una singolare celebrazione della
“rinascita del cuore” composta in strofette metastasiane. Su tutt’altro registro i capolavori successivi: A Silvia, canto alla giovinezza perduta e
non goduta; Le ricordanze, canto che nasce dalla
memoria di un mondo e di un’età popolati di fantasie e illusioni; Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia è rivolto al mistero della natura e
dell’esistenza. Il sabato del villaggio e La quiete
dopo la tempesta formano il dittico degli “apologhi
del borgo” e per situazioni e stile possono essere
avvicinati solo al Passero solitario, in cui rifluisce
la “rimembranza”, tema dominante, nella prospettiva limpida e “mitica” del villaggio e della casa
paterna: il paesaggio e la memoria diventano improvvisamente luoghi e figure da favola, in cui si
condensa una struggente nostalgia di sogni e fantasie della fanciullezza. Nel Canto notturno la meditazione e la liricità si fondono entro più vasti
orizzonti: lo spazio del borgo è sostituito da uno
spazio desertico, ignoto e sconfinato; la voce del
poeta diventa quella di un misterioso “pastore errante” che interroga la luna con una serie di incalzanti domande sul perché della propria esistenza,
sul perché della vita e dell’universo.
LA CANZONE LEOPARDIANA
Il metro nuovo è la “canzone libera”, sottratta agli
schemi della canzone petrarchesca, e quindi con misure varie delle strofe, libera sequenza di endecasillabi
e settenari, liberissima distribuzione delle rime. Tale
flessibilità, che non ignora tuttavia la tradizione classica ma la trasforma, consente agevoli giunture tra
parti liriche, meditative, gnomiche. Anche la lingua
si avvale di vocaboli colti e quotidiani che, accostati,
più intensamente evocano emozioni e riflessioni.
La nuova poetica e gli ultimi canti
• Il sodalizio con Ranieri e il soggiorno a Napoli
• Polemica contro spiritualisti e liberali
•
•
•
•
•
Gli ultimi canti
Il ciclo di Aspasia
Ideologia e canto
“Il tramonto della luna”
“La ginestra”: titanismo e fratellanza umana
Nel 1830, accettato un prestito dagli amici
fiorentini, Leopardi lasciò per sempre Recanati. A
Firenze riallacciò antichi rapporti e altri ne strinse,
fra cui quello con l’esule napoletano Antonio
Ranieri (che diverrà l’inseparabile “sodale” degli
ultimi anni) e quello con l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti, che gli accese una violenta e sfortunata passione. Dal 1833 visse, sempre più malato, a
Napoli, dove morì il 14 giugno 1837.
Tutta l’ultima fase della vita di Leopardi è caratterizzata dal rifiuto del suo passato di sdegnosa o
malinconica solitudine. Nel dissolversi dell’energia
fisica, egli avvertiva un prepotente bisogno di affermare il proprio io, la propria filosofia “disperata ma vera” contro ogni facile visione ottimistica della realtà. Di qui il suo disprezzo per
le filosofie spiritualistiche del tempo e la derisione
dell’ingenuo entusiasmo dei liberali (nella Palinodia al marchese Gino Capponi del 1835, nella
satira I nuovi credenti e nel poemetto Paralipomeni
della Batracomiomachia, dello stesso periodo). Di
qui, soprattutto, gli ultimi canti del cosiddetto
“ciclo di Aspasia” (composti fra il 1832 e il 1835),
ispirati da un amore negato (la passione per Fanny)
eppure interamente vissuto e sofferto con i sensi
e con l’anima; le due canzoni “sepolcrali” (Sopra
un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto
di una bella donna, 1834-35), così ricche di pietas
nella dolente ma ferma meditazione sulla morte.
Il “ciclo di Aspasia” è la storia completa di un
amore, dalla fase “positiva” (Il pensiero dominante,
Consalvo, Amore e Morte) a quella “negativa” di
rivelazione dell’inganno (A se stesso, Aspasia). È
sorretto, per l’intera durata, dal binomio inscindibile di “ideologia e canto”, nel senso che alla rappresentazione della vicenda passionale si associa
costantemente il ragionamento su di essa.
Il tramonto della luna celebra le esequie
dell’“inganno idillico”: il paesaggio lunare viene
ridescritto con le parole tenere di un tempo, ma
solo come “quadro di paragone”, appunto per essere posto in simmetrico contrasto con la “vita mortal” che, a differenza delle “collinette e piagge”,
una volta sopraggiunta la notte (la vecchiaia), non
si colorerà “d’altra aurora”.
La chiusura del “libro” (escludendo Imitazione,
Scherzo e i cinque Frammenti, che costituiscono
una sorta di appendice) è invece affidata alla Ginestra, una poesia di ampia e potente orchestrazione, che non suona affatto “congedo”, al contrario riprende motivi antichi, ora rimeditati, con
formulazioni e cadenze nuove, ideologiche e stilistiche. Domina il tema cosmico, il paesaggio
desertico, vulcanico, con rovine, che spalanca un
devastato spazio terrestre in opposizione al sovrastante spettacolo delle stelle che fiammeggiano
“in un purissimo azzurro” riflettendosi nel mare.
Viene inoltre ripresa la polemica contro il “secol superbo e sciocco” che crede nelle “magnifiche sorti e
progressive”, ignorando la ferocia ineluttabile della
natura distruttrice. Ma è una polemica che perde
qualsiasi punta di animosa asprezza, perché il titanismo leopardiano si sposa ora interamente alla
pietà, risolvendosi in un messaggio di fratellanza
tra gli uomini, accomunati da un medesimo destino di infelicità.
I giudizi su Leopardi
• L’esaltazione come poeta lirico
• I valori musicali della sua scrittura
• La rivalutazione di Leopardi filosofo
Leopardi non fu compreso dai suoi contemporanei, fatte poche eccezioni (P.ietro Giordani, Vincenzo Gioberti, Carlo Tenca), per la sua dissonanza
sia dai classicisti, sia dai romantici. In seguito
venne esaltato (Francesco De Sanctis, Benedetto
Croce) soprattutto come grande poeta lirico, il
“poeta degli idilli”. Nel primo ventennio del Novecento si affermò una predilezione per il Leopardi
prosatore, mentre nel periodo della “poesia pura” e
dell’ermetismo sono stati esplorati, da prospettive e
con metodi diversi, i valori musicali ed evocativi
della sua scrittura poetica (Giuseppe De Robertis
e Giuseppe Ungaretti). Contemporaneamente
venne valorizzata la componente laica e progressista del pensiero di Leopardi. Più recentemente si è insistito su Leopardi filosofo: sul suo
nichilismo, mettendolo in collegamento con le correnti irrazionalistiche e del pensiero “negativo”
dell’Occidente, da Schopenhauer a Nietzsche e a
Benjamin, i quali, tra l’altro, hanno scritto pagine
significative su Leopardi.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Precoce, autodidatta, poeta e filologo, vive prevalentemente nella natia Recanati, afflitto da gravi problemi di salute. Compie brevi soggiorni a Roma, Milano, Firenze, Pisa e Bologna e infine si trasferisce a
Napoli, dove muore.
FILOSOFIA
La realtà è “solido nulla”; il nulla-materia provoca
dolore; la natura è la materializzazione dell’enigma
del nulla. Non c’è alcun posto per filosofie spiritualistiche e ottimistiche.
OPERE IN PROSA
Lo Zibaldone, sterminato laboratorio introspettivo
annotato tra il 1817 e il 1832, e le Operette morali, un
capolavoro di ironia e ricerca filosofica.
OPERE POETICHE
I Canti, pubblicati in due edizioni nel 1831 e 1835,
più una postuma del 1845, che contengono il primo
nucleo delle nove canzoni (tra cui: Ad Angelo Mai;
Nozze della sorella Paolina; A un vincitore nel pallone; Bruto minore; Ultimo canto di Saffo) del
1818-22 e dei cinque piccoli idilli (capolavori assoluti: L’infinito; Alla luna) del 1819-21; i “grandi
idilli” (Il risorgimento; A Silvia; Il passero solitario;
Le ricordanze; La quiete dopo la tempesta; Il sabato
del villaggio; Il canto notturno di un pastore errante
dell’Asia), composti intorno al 1828-29; il cosiddetto
“ciclo di Aspasia” (Il pensiero dominante, Consalvo,
Amore e Morte, A se stesso, Aspasia), composti fra il
1832 e il 1835; infine Il tramonto della luna e il canto
corale della Ginestra.
POETICA
Al centro della poesia è il dolore umano e l’unica risposta possibile: dire la verità a se stessi. La letteratura
è un’esperienza di struggente rammemorazione, polemica con gli ottimisti e alla ricerca di una consolazione filosofica.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale fu la posizione di Leopardi nella polemica classici-romantici?
2. Cosa indica il contrasto fra “poesia di immaginazione” e “poesia sentimentale”?
3. Cosa sono le “illusioni” per Leopardi?
4.
5.
6.
7.
Quali sono i temi delle Operette morali?
Cosa si intende per “idilli”?
Cosa racconta il “ciclo di Aspasia”?
In che senso La ginestra è un canto polemico?
6 LETTERATURA
RISORGIMENTALE
Si può parlare di letteratura risorgimentale solo a partire
dal 1830, quando l’impegno politico assume una centralità e un’urgenza che non erano ancora evidenti nei
decenni precedenti. D’altra parte, il Risorgimento italiano
nasce proprio da una maturazione storico-culturale che
passa per la crisi della Carboneria e delle azioni isolate e
approda a una coscienza politica e culturale nazionale in
senso moderno. Secondo la fortunata formulazione di De
Sanctis sono due i grandi parametri del pensiero politico
risorgimentale: la scuola democratica e quella cattolicoliberale. Sul piano più strettamente artistico, gli esiti più
alti vengono dal romanzo di Nievo e dalla storiografia letteraria di De Sanctis.
La scuola democratica
• Giovanni Ruffini
• Francesco Domenico Guerrazzi
• Luigi Settembrini
La crisi dei moti carbonari e lo sviluppo del liberalismo europeo richiedevano in Italia un impegno
politico nuovo. In un certo senso, quello che mancava era proprio una coscienza politica che partisse
dalla mobilitazione delle forze interne del popolo
italiano. Fu Mazzini il punto di questa nuova
sintesi, ma altre personalità scrissero e si mossero
in questa direzione.
Giovanni Ruffini (1807-1881), un amico di
Mazzini, dopo i primi anni di impegno politico
trasferitosi in Inghilterra, scrisse in inglese i due romanzi Lorenzo Benoni (1853) e Il dottor Antonio
(1855), che ebbero grande successo e contribuirono
a diffondere all’esterno le vicende del Risorgimento
italiano. La narrazione, sempre nostalgica e struggente, è ricca di riferimenti autobiografici.
Esempio di radicalismo democratico fu il fiorentino
Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), il
cui romanticismo è un modello di provocazione e
di cruda volontà polemica. Gli esuberanti romanzi storici La battaglia di Benevento (1827-28) e
L’assedio di Firenze (1836) sono incentrati su personaggi e fatti eroici, un richiamo più al romanzo
“nero” inglese che al modello manzoniano. Pregevoli le sue pagine di memorialistica (Note autobiografiche, 1833, e Memorie, 1848) e lo strano romanzo satirico sulla delusione del Risorgimento, Il
secolo che muore (postumo, 1885).
Il democratico napoletano Luigi Settembrini
(1813-1876) pagò con il carcere l’aver scritto la
Protesta del popolo delle Due Sicilie (1847), aspra
denuncia antiborbonica. Le sue opere migliori sono
le Lezioni di letteratura italiana (1866-72), documento storiografico contro il potere della Chiesa,
insieme a un’autobiografia interessante e sobria,
le Ricordanze della mia vita (incompiute e postume, 1879) con pagine memorabili sui suoi anni
d’infanzia e di carcere.
• Giuseppe Mazzini
• La concezione della letteratura e dell’intellettuale
Nato a Genova nel 1805, fu assiduo lettore dei
classici italiani, carbonaro, e visse quasi sempre
esule all’estero. Morì a Pisa nel 1872. Esempio
altissimo di intellettuale rivoluzionario, con la
fondazione della Giovine Italia (1831) introdusse
un partito laico repubblicano che ancora mancava
alla nostra tradizione. Mazzini credeva in un paese
moderno, indipendente e unito; cercò una libertà
concreta che lasciasse alle spalle l’oscurantismo
controriformistico e gli atavici privilegi di un sistema aristocratico e ingiusto. Se il suo pensiero è
attraversato – e nutrito – da un misticismo moralistico, è solo perché la sua visione politica nasce
dalla necessità di una liberazione integrale, dello
spirito individuale come della vita collettiva. La
stessa esperienza letteraria non è per lui un semplice strumento di comunicazione, bensì un esercizio di religiosità moderna votata al progresso. I
saggi scritti negli anni ’30 – poi raccolti nel 1847
sotto il titolo Scritti letterari di un italiano vivente
– dimostrano un fortissimo interesse per la letteratura europea e per le grandi discussioni romantiche sulla libertà e la novità dei generi letterari. Per Mazzini l’intellettuale ha una funzione
educatrice e di concreta sintesi in favore di quel
principio di “associazione” che è il presupposto dei
grandi ideali repubblicani, come popolo, nazione,
tradizione. Scrivere è lottare; e lottare vuol dire
educarsi, procedere nella complessità della storia,
con tutta la forza spirituale della libertà. Importanti,
anche stilisticamente, i suoi saggi Fede e avvenire
(1835) e Dei doveri dell’uomo (1861).
LA MEMORIALISTICA GARIBALDINA
Protagonista di eccezionali “azioni romantiche”,
autore di romanzetti popolari (Clelia, ovvero il governo del monaco, 1868) e di pagine autobiografiche,
Giuseppe Garibaldi (1807-1882) si impose anche
come modello di una memorialistica definita
“garibaldina”. Fra le opere più significative vanno ricordate le fresche e agili Memorie alla casalinga di
un garibaldino (1866) di Eugenio Checchi; l’ancor
oggi gradevole I Mille di Giuseppe Bandi, pubblicato a puntate e raccolto in un volume postumo nel
1903, in cui sono presenti annotazioni di vita quotidiana, acuti giudizi politici e talora toni ironici.
Ma forse lo scrittore più efficace di questo genere
fu Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), anch’egli
garibaldino come i precedenti, autore di versi e varie
prose; la sua famosa rievocazione Noterelle d’uno
dei Mille dopo vent’anni (1880; nel 1891 l’edizione
definitiva assunse il titolo Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille), scritta in forma di diario, celebra l’impresa di Garibaldi con un tono epico e nostalgico.
• Carlo Cattaneo
•
•
•
•
Carlo Cattaneo
L’utilità sociale
“Il Politecnico”
La visione federalistica
La crisi storica del 1848-49 costituì per certi versi
uno spartiacque culturale. Il nuovo impegno risorgimentale richiese uno spostamento delle ricerche
verso una conoscenza laica e razionale, più ogget-
tiva e più concreta rispetto alle grandi illusioni dei
decenni precedenti.
Figura esemplare di questa nuova esigenza fu il
milanese Carlo Cattaneo (1801-1869), intellettuale di estrazione contadina, ma erede
dell’illuminismo lombardo. Presente nella politica
attiva, partecipò alle Cinque Giornate di Milano,
fu chiamato da Mazzini come ministro della Repubblica Romana e da Garibaldi, durante la liberazione di Napoli. Il suo pensiero aspira a un atteggiamento “positivo” e razionale, secondo una
“identità fondamentale del metodo nelle scienze
fisiche e nelle morali”. All’astrazione, ai principi
fondamentali, oppose un empirismo esercitato da
un’intelligenza rigorosa, che sapesse guardare
all’utilità sociale, come se il progresso trovasse
fondamento sull’equazione di razionalità e democrazia. Nel 1839 fondò “Il Politecnico”, rivista
votata alla divulgazione, allo sviluppo tecnologico
e imprenditoriale, secondo un esempio altissimo di
riformismo. Nel 1844 pubblicò le Notizie naturali e civili su la Lombardia, insuperato saggio di
etnografia moderna e di indagine socio-econom-
ica. Lo stesso anno “Il Politecnico” chiuse e Cattaneo cominciò a scrivere sulla “Rivista europea”,
diretta dal 1945 da Carlo Tenca. Numerose le sue
opere: Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della
successiva guerra (1848), in cui denunciava
l’ambiguità dell’aristocrazia e dei moderati italiani;
Archivio
triennale
delle
cose
d’Italia
dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di
Venezia (1851-55), notevole racconto storico sugli
eventi di quegli anni, da cui emerge limpidamente
un’idea dignitosa e concreta di “libertà” e di risveglio nazionale. Va sottolineato che Cattaneo, portavoce di una politica antisabauda e antiaristocratica,
elaborò il progetto di un’Italia repubblicana e federalista. Nel 1860 raccolse un altro libro di articoli:
Memorie d’economia pubblica. Il tema essenziale
di tutti i suoi scritti è la certezza che l’intelligenza
e il “fare” siano l’unico percorso del progresso di
civilizzazione. Il suo pensiero pertanto fu pragmatico, radicale e privo di compromessi, aperto a
tutte le scienze, non per una generica curiosità ma
proprio per la consapevolezza che lo studio e la
ricerca scientifica e morale siano un unico aspetto
della crescita umana; egli osteggiò, sul problema
della lingua, le soluzioni romantiche e manzoniane
a favore di una lingua chiara e semplice, quella che
lui stesso adottava. Notevole il saggio Sul principio
istorico delle lingue europee (1841).
• Carlo Tenca
Modernamente critico militante, che assunse
l’eredità mazziniana, spogliandola però dello
schematismo spirituale a favore di una maggiore attenzione ai testi come al dibattito europeo contemporaneo, il milanese Carlo Tenca (1816-1883) diresse dal ’45 la “Rivista europea” (1838-1847) e dal
’50 al ’59 un altro organo del riformismo moderato di quegli anni, “Il Crepuscolo”. Staccatosi dalle
posizioni repubblicane, fu poi tra i principali esponenti della destra moderata. In letteratura promosse il “vero”, il reale e rifiutò ogni forma di
sentimentalismo. Oltre a un romanzo storico e a
opere poetiche, notevole il suo saggio Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia (1846).
• Il pensiero rivoluzionario
• Giuseppe Ferrari
• Carlo Pisacane
Grande polemista, indefesso anticlericale alla
ricerca di una laicizzazione del pensiero capace di
rivoluzionare la condizione umana, il milanese Giuseppe Ferrari (1811-1876) ha lasciato una riflessione corposa e sicura, mai appesantita da particolari schematismi. Soprattutto La federazione repubblicana (1851) e la Filosofia della rivoluzione
(1851) sono opere storiche importanti e di grande
respiro.
Il napoletano Carlo Pisacane (1818-1857) fece coincidere pensiero e azione, finendo per morire nella
tragica spedizione di Sapri. Il suo pensiero è
l’esaltazione del coraggio, della passione, degli atti
naturali contro il conformismo sociale. Per lui solo
l’intervento diretto della “plebe” – proprio quella
meridionale, dove è minore la presenza
dell’ipocrisia borghese – poteva consentire un reale
rinnovamento. Nelle sue riflessioni entrano parole come “socialismo”, “propaganda del fatto”,
come se il romanticismo e una coscienza politica
rigorosa e concreta trovassero in lui il primo vero
esempio, e purtroppo il primo martire. La guerra
combattuta in Italia negli anni 1848-49 è del 1851;
i Saggi storico-politico-militari sull’Italia sono
postumi (1858-60), come il bellissimo Testamento
politico.
La scuola cattolico-liberale
Intorno agli anni ’30 e ’40 emerse una cultura cattolica interessata al confronto con la cultura laica
e ai progetti di rinnovamento della società italiana. Le forze più vive chiedevano un riformismo
cattolico che si definì soprattutto intorno agli anni
’40 nel “neoguelfismo”. Non mancarono tuttavia
proposte più radicali, di riforma integrale sia della
Chiesa sia della società.
• Antonio Rosmini
Figura emblematica di uomo di Chiesa (sacerdote, fondatore dell’ordine dei rosminiani) e di filosofo, il roveretano Antonio Rosmini (1797-1855)
risulta la figura più complessa del cattolicesimo
italiano. Egli si oppose con tutte le forze al relativismo contemporaneo (confrontandosi con il
sensismo e il criticismo kantiano), cercando una
rigorosa giustificazione razionale che potesse dimostrare la piena oggettività dell’“essere” divino.
Propose anche una forte “riforma” della Chiesa,
attraverso il sostanziale rifiuto del potere temporale. Libri come Delle cinque piaghe della Chiesa
(1848, ma scritto già tra il ’32 e il ’33), La
costituzione secondo giustizia sociale (1848) o la
Logica (1854) testimoniano del suo notevole impegno culturale.
• Il neoguelfismo e Gioberti
• Il programma del neoguelfismo
Il progetto di riforma cattolica della politica assunse una maggiore concretezza con Vincenzo
Gioberti (1801-1852). Il suo libro Del primato
morale e civile degli italiani (1843), in cui compare
per la prima volta la parola “Risorgimento” nel significato culturale e politico che rimarrà fino a oggi,
diventò il manifesto del neoguelfismo italiano:
l’Italia, scelta dalla Provvidenza come sede del cattolicesimo, doveva assumere la guida dei popoli
per la realizzazione del divino nella storia. Non
solo il clero (votato “gagliardamente” a modernizzarsi), ma soprattutto il papa aveva il compito di
svolgere questo ruolo di guida religiosa e politica.
Dopo l’esperienza del 1848-49 con Pio IX (che deluse le speranze del neoguelfismo italiano), anche
Gioberti cambiò posizione, attenuando il suo radicale nazionalismo. Del Rinnovamento civile
d’Italia (1851) mostra una novità programmatica: il
rinnovamento italiano doveva avere un legame più
stretto con il generale contesto europeo, mentre le
classi popolari dovevano assumere un ruolo più decisivo. Anche la leadership mutava: non più il papato bensì l’“azione egemonica” del Piemonte.
• Il liberalismo piemontese
• Cesare Balbo
• Massimo D’Azeglio
Nell’ambito del liberalismo piemontese, sviluppatosi nella nobiltà legata alla monarchia sabauda,
Cesare Balbo (1789-1853) con Delle speranze
d’Italia (1844) si avvicinò alle posizioni guelfe
giobertiane e auspicò una federazione dei principi
italiani sotto la guida dei Savoia.
Ma l’esponente di maggior rilievo della scuola
moderata piemontese fu Massimo D’Azeglio
(1798-1866), uomo politico e intellettuale legato ai
gruppi romantici lombardi, genero di Alessandro
Manzoni. Di interesse politico sono i suoi scritti
Degli ultimi casi di Romagna (1846) e I lutti di
Lombardia (1848). Più nota e popolare la sua attività di romanziere. Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta (1833) è un notevole esempio di romanzo storico, con forti accenti patriottici, in cui
si prefigura il formarsi di una coscienza nazionale.
Spicca la sua autobiografia I miei ricordi (postumo, 1867), che risulta anche un libro godibile per
lo stile colloquiale, vivace e spesso struggente, dedicato com’è al ritratto della vita e della dignità di un
“gentiluomo risorgimentale”.
Niccolò Tommaseo
Niccolò Tommaseo (1802-1874), figura di rilievo
del cattolicesimo romantico, sentì fortemente la
contraddizione tra i valori della tradizione religiosa e le nuove istanze della modernità.
• La vita e le opere
•
•
•
•
•
Il periodo fiorentino
Gli anni parigini
La repubblica di San Marco
Gli anni della maturità
Il “Dizionario della lingua italiana”
Dalmata, anche se la famiglia era di origine veneta,
studiò a Spalato ed ebbe una ricca educazione
umanistica. A Padova nel 1819 conobbe Antonio
Rosmini e nel 1824, a Milano, Manzoni e Cesare
Cantù. Intervenne nella disputa sulla questione
della lingua con Il Perticari confutato da Dante
(1825). Dal 1827, a Firenze, iniziò un’attivissima
collaborazione con “L’Antologia” di Giovan Pietro
Vieusseux, cominciando a dedicarsi a ricerche di
carattere linguistico: il Dizionario dei sinonimi
(1830) resta un importante contributo alla storia
e alla definizione della lingua nazionale.
Fuggito da Firenze per non cadere nelle mani della
polizia austriaca, si recò a Parigi, dove nel 1834
conobbe Mazzini. Pubblicò, oltre al trattato politico
Opuscoli inediti di fra Girolamo Savonarola
(1835), diverse opere di poesia: Confessioni (1836),
Versi facili per gente difficile (1837) e Memorie poetiche e poesie (1838), che raccoglie in parte e sistematicamente le due opere precedenti. Nell’ambito
della narrativa scrisse i romanzi Il duca d’Atene
(1837) e Il sacco di Lucca (1838). Elaborò un ponderoso Commento alla Divina commedia (1837),
in cui mise in luce le fonti bibliche del poema
dantesco. Nel 1838 fu per alcuni mesi in Corsica,
dove stese il romanzo in parte autobiografico
Fede e bellezza, pubblicato nel 1840 dopo il ritorno
a Venezia in seguito a un’amnistia del governo austriaco. Nel 1848 fu a capo dell’insurrezione veneziana contro l’Austria: arrestato con Daniele Manin,
fu liberato dall’insurrezione popolare e posto a
capo della risorta Repubblica di San Marco. Dopo
la sconfitta (1849) fu costretto all’esilio a Corfù.
Prese posizione anche sulla questione romana, auspicando una rinuncia al potere temporale da parte
del papa. Nel 1854 ottenne l’autorizzazione a
trasferirsi a Torino, ma la sua crescente avversione
alla politica di Cavour lo isolò dall’ambiente
cattolico-liberale torinese; anche per questi motivi
nel 1859 si recò a Firenze, dove si dedicò con passione, nonostante i crescenti disturbi alla vista che
lo resero quasi cieco, alla preparazione e alla pubblicazione di un grande Nuovo dizionario della lingua italiana (1858-79, in collaborazione con Bernardo Bellini), vero monumento al suo costante impegno in ambito linguistico.
• La pratica della contraddizione
• “Fede e bellezza”
Caratteristica del lavoro di Tommaseo è una vibrante contraddizione fra antico e moderno,
sentimento cattolico e generoso slancio
rivoluzionario. Le sue opere sono una miniera di
annotazioni umane e linguistiche. Anche per questo
il suo capolavoro, a parte i dizionari, risulta il
romanzo Fede e bellezza, che narra la storia
d’amore di Giovanni, esule italiano in Francia, per
la bella e sensuale Maria, italiana anch’essa. Entrambi provengono da esperienze segnate dal peccato e anche la loro passione si svolge in parte sotto
il segno negativo della carnalità; sono tuttavia animati da una forte passione religiosa, grazie alla
quale sanno iniziare un cammino di redenzione. La
narrazione, discontinua e frammentaria, è percorsa
da improvvise illuminazioni che a volte tendono
alla ripetizione; i personaggi stentano a realizzarsi,
rimangono nella condizione di chi proclama a gran
voce i propri valori, eppure non riesce a dare una ragione profonda all’esistenza. La caduta sostanziale
delle certezze apre la porta alla modernità.
La satira di Giuseppe Giusti
Giuseppe Giusti (1809-1850), di Monsummano,
esponente di una poesia satirica di lunga tradizione,
seppe fondere nella sua opera l’intento
patriottico-risorgimentale con i toni della letteratura burlesca toscana. Conobbe gli intellettuali
più significativi del suo tempo. Il suo è un esempio
di satira popolare e di ghigno beffardo. Fin dal ’38
componeva i suoi “scherzi” politici (tra gli altri, Lo
stivale, 1836, e Il re Travicello, circa 1843), anche
se la prima raccolta di Versi è del 1844. Dopo un
certa adesione alle idee democratiche, tornò, a seguito della crisi 1848-49, a un liberalismo più moderato, entrando in polemica con Francesco Domenico Guerrazzi. Sugli ultimi anni ’40 scrisse un bel
libro storico-politico, Cronaca dei fatti di Toscana,
che uscì postumo nel 1890. Nei suoi lavori si evidenzia un certo gusto “paesano”, qualcosa di raffermo e di chiuso, che se in qualche misura recupera la tradizione toscana, non sa comunque evitare
un certo grossolano provincialismo. La sua poesia è
fatta di caricature, di amarezza, persino di odio, per
quanto ancora diverta con quel gusto di vigorosa oralità. Fa eccezione la poesia Sant’Ambrogio, forse
la sua più bella, in felice equilibrio tra scherzo e
tono patetico, in cui anche i soldati austriaci vengono visti come vittime della storia e non solo come
oppressori. Apprezzabili i risultati formali (fu ammirato da Carducci).
La poesia patriottica e lirico-patetica
•
•
•
•
Francesco Dall’Ongaro
Goffredo Mameli e Luigi Mercantini
Giovanni Prati
Aleardo Aleardi
Una sorta di romanticismo minore, volto a una continua divulgazione dei miti e dei culti popolari, si
espresse nella forma della poesia patriottica, che
mostra ancora un gusto popolareggiante della parola e del canto.
Il trevisano Francesco Dall’Ongaro (1808-1873)
scrisse fra l’altro Canti popolari (1845-49) e il
popolare dramma storico Il fornaretto di Venezia
(1846). Notevoli sono anche i suoi Stornelli (1849)
e la sua produzione narrativa.
Il genovese Goffredo Mameli (1827-1849)
realizzò in qualche modo il modello mazziniano di
inno popolare (Fratelli d’Italia, 1847, divenuto nel
1946 l’inno della Repubblica Italiana). Luigi Mercantini (1821-1872) con il suo Inno a Garibaldi
(1859) e La spigolatrice di Sapri (1857) seppe recuperare tutta la tenera malinconia nascosta nel
canto popolare.
Le due figure più rappresentative di questo filone
sono Prati e Aleardi.
Il trentino Giovanni Prati (1814-1884) propose
un patetismo languido e molle, non privo di
morbosità, mediante forme espressive disordinate e
comunque conformistiche. Ebbe molto successo la
sua novella in versi Edmenegarda (1841), ma il suo
risultato migliore sono gli ultimi libri Pische (1876)
e Iside (1878), caratterizzati da un edonismo e da
una dissipazione sentimentale che certo interessò il
giovane D’Annunzio.
Il veronese Aleardo Aleardi (1812-1878), patriota
e uomo politico, fu un’esemplare figura di poeta
tardoromantico, sincero e votato alle alte idealità,
religioso eppur critico verso il potere della Chiesa,
profondamente umanitario. Le sue Lettere a Maria
(1846), idillio sentimentale e civile, e i postumi
Canti (1882) ebbero grande successo. Nei suoi versi, nutriti di eccessivo languore e gusto per il pittoresco, si avverte la crisi di un’epoca e del modello
letterario romantico.
LA CRISI DEL ROMANZO STORICO
Negli anni ’50 entra in crisi il modello del romanzo
storico. Il capolavoro di Giuseppe Rovani
(1818-1874) Cento anni, apparso a puntate sulla
“Gazzetta di Milano” dal 1857 al 1864, è il tentativo
di pensare il romanzo come una vera e propria macchina complessa, aperta insieme alla cronaca, alla
ricostruzione storica, al racconto e alla riflessione.
Negli stessi anni prende l’avvio il fortunato genere
della “letteratura campagnola”, promosso da Cesare
Correnti (1815-1888) con l’articolo Della letteratura rusticale (1846 sulla “Rivista europea”): egli si
rivolgeva allo scrittore Giulio Carcano invitandolo a
raccontare la vita dei contadini, sull’esempio francese
di George Sand. Giulio Carcano (1812-1882) scrisse
un romanzo famoso, Angiola Maria (1839), e con la
novella La Nunziata (1852), sulla vita delle operaie
delle filande, tentò una letteratura sobria e documentata. Il genere fu poi seguito dalla scrittrice friulana
Caterina Percoto (1812-1887), che pubblicò Racconti (1858) e alcune novelle in dialetto, e ancora da
Luigia Codemo (1828-1898).
Ippolito Nievo
Il padovano Ippolito Nievo (1831-1861) è il romanziere di maggior rilievo fra Manzoni e Verga
e rappresenta uno degli interpreti più autentici della
cultura italiana negli anni cruciali tra Risorgimento
e avvio dello Stato unitario.
• La vita e le opere minori
Laureato in legge, patriota, mazziniano, visse con
coraggio l’esperienza risorgimentale, partecipando all’impresa dei Mille. Morì durante una
tempesta in mare mentre da Palermo tornava a Napoli. Della sua ricca produzione fanno parte: opere
poetiche (Le lucciole, 1857, e Amori garibaldini,
1860); novelle, nella linea della “letteratura campagnola”, che Nievo avrebbe voluto raccogliere in
un Novelliere campagnolo; scritti politici (Venezia
e la libertà d’Italia, 1860, e il Frammento sulla
rivoluzione nazionale, inedito fino al 1929), nei
quali è evidenziato un laicismo concreto ma aperto;
romanzi quali Il conte pecoraio (1857), sul modello
manzoniano, Angelo di bontà (1856) e soprattutto Il
barone di Nicastro (1860), una specie di romanzo
filosofico in cui Nievo racconta la vana ricerca
della virtù. Sulla stessa linea è anche la Storia filosofica dei secoli futuri (1860), una storia fantastica
dell’umanità dal 1859 fino al 2222.
• Le “Confessioni di un italiano”
• Un romanzo di formazione
Il capolavoro di Nievo sono le Confessioni di un
italiano, romanzo scritto nel 1857-58, ma pubblicato solo postumo (1867), con molte modifiche e
con il titolo redazionale Confessioni di un ottuagenario. Tema del libro è la formazione, la conquista della maturità da parte del giovane Carlino
Altoviti, in un intreccio fra vicende personali e
la storia della conquista dell’unità d’Italia. Pagine bellissime sull’infanzia di Carlino e della cuginetta Pisana sono per Nievo anche la maniera
per raccontare un mondo segreto, velato dalla nostalgia dell’adolescenza. Lo scrittore costruisce
un’identità, lasciando però che il racconto non si
immobilizzi in una tesi programmatica, ma raccolga, spesso quasi inconsapevolmente, quei
paesaggi, quelle sfumature, che sono di una personalità in crescita. Il linguaggio è carico di sensi,
di esperienze diverse, auliche come improvvisamente dialettali (lombarde e venete). L’amarezza e
il disincanto di fondo ne fanno il ritratto migliore di
una generazione di grande slancio politico-morale,
ma anche ormai sempre più cosciente dell’illusione
risorgimentale.
La nascita della storiografia
letteraria: Francesco De Sanctis
Francesco De Sanctis (1817-1883) è il fondatore
della storiografia letteraria italiana. Sostenitore
dello stretto legame fra storia letteraria e storia
civile, egli fu in parte riferimento per Benedetto
Croce e in seguito, attraverso la riflessione di Antonio Gramsci, di critici novecenteschi di impostazione storicistica e marxista.
• La vita e le opere
•
•
•
•
Gli anni giovanili
L’esilio
L’azione politica
L’impegno universitario
Nato in provincia di Avellino, compì gli studi a
Napoli presso uno zio; passò quindi alla scuola
dello studioso purista Basilio Puoti, di cui presto
divenne collaboratore. Nel 1839 aprì una propria
scuola privata di lingua e grammatica, che
mantenne anche dopo la nomina a professore
presso il Real Collegio Militare della Nunziatella
(1841). Frattanto l’orizzonte dei suoi interessi si andava estendendo all’estetica e alla storia: le letture
lo portarono a contatto con le più recenti e importanti correnti letterarie, filosofiche e politiche
d’Europa. Nel 1848, per aver preso parte
all’insurrezione napoletana, fu destituito dalla Nunziatella e accettò un posto di precettore presso un
nobile di Cosenza; nel dicembre 1850 venne arrestato e rimase in carcere fino al 1852.
Lo studio della filosofia di Hegel lo portò ad abbandonare le posizioni giovanili cattolico-spiritualiste a favore d’una concezione laica e democratica.
Liberato ma espulso dal regno di Napoli, De Sanctis andò esule a Torino (1853), dove visse dando
lezioni private e scrivendo articoli per giornali e
riviste; organizzò quindi un corso di conferenze
dantesche che suscitarono notevole interesse e lo
resero noto, tanto che nel 1856 fu chiamato a insegnare letteratura italiana al Politecnico di Zurigo.
Nel 1860 rientrò dalla Svizzera e s’impegnò
nell’azione politica, divenendo deputato e ministro
della Pubblica Istruzione del neonato regno
d’Italia (1861-62). Diresse quindi (1863-65) il quotidiano “L’Italia”, organo dell’Associazione Unitaria Costituzionale, perseguendo l’obiettivo di formare un raggruppamento di “Sinistra giovane”.
Non rieletto deputato dal 1865, De Sanctis si concentrò esclusivamente sugli studi critico-letterari.
Nel 1871 fu chiamato a ricoprire la cattedra di
letteratura comparata presso l’università di Na-
poli, dove tenne quattro corsi su Manzoni (1872),
sulla scuola cattolico-liberale (1872-73), su
Mazzini e la scuola democratica (1873-74), su Leopardi (1875-76). Dopo la caduta della Destra storica
(1876) De Sanctis tornò alla politica attiva e fu
nuovamente ministro dell’Istruzione (1878 e
1879-81). Quindi, seriamente ammalato agli occhi,
si ritirò a Napoli, dove morì.
• La “Storia della letteratura italiana”
• Il problema delle origini
• Dante, Petrarca e Boccaccio
• Machiavelli uomo moderno
Nel suo capolavoro critico, la Storia della letteratura italiana (1870-71), De Sanctis ricostruisce
il grande sfondo storico etico-civile dal quale
sorsero i capolavori della letteratura italiana. Le
linee di tale svolgimento sono il prodotto di variabili storiche diverse, che non escludono stasi, decadenza o regresso. I primi capitoli della Storia trat-
tano il problema delle origini della letteratura italiana che, favorita per un verso dalla presenza
d’importanti centri culturali e di un ceto colto, era
però ostacolata dalla persistente divisione linguistica tra la lingua dotta latina e la molteplicità dei
dialetti. Dante rappresentò in questo quadro il culmine d’un duplice processo di sviluppo, letterario
e filosofico-scientifico: la Divina commedia “è il
mondo universale del medio evo realizzato
nell’arte”. Ma più di lui influì sulle generazioni successive Petrarca, che aprì la via all’umanesimo e
al Rinascimento. Come Petrarca neppure Boccaccio fu, secondo De Sanctis, uomo veramente moderno, poiché non seppe andar oltre la cinica e beffarda rappresentazione del mondo medievale ormai
morto. Nel Quattrocento, Ariosto suggellò con il
suo poema l’evasione nella pura immaginazione
letteraria. Il solo, vero uomo moderno fu, per De
Sanctis, Machiavelli, scopritore della scienza politica e primo sostenitore in Italia dell’idea nazionale.
Così, mentre da Tasso a Marino si prospetta la crisi
di valori dell’Italia, sull’altro versante gli isolati e i
perseguitati (da Giordano Bruno a Sarpi, Giannone
e Vico) additano o preparano la rinascita nazionale,
che si annuncia, pur contraddittoriamente, in Goldoni, Alfieri e Foscolo, per compiersi con Manzoni
e Leopardi, nei quali essa si accompagna a vera
grandezza di creazione letteraria.
• Le altre opere
• I “Saggi critici”
Tra gli altri studi di De Sanctis spicca il Saggio
critico sul Petrarca (1869), mentre fra i lavori inclusi nei Saggi critici (1866) e nei Nuovi saggi
critici (1869) vanno menzionati quelli assai noti
su episodi della Divina commedia, su L’uomo del
Guicciardini, su Schopenhauer e Leopardi e inoltre
Il darwinismo nell’arte e quelli su Émile Zola. Nel
discorso La scienza e la vita (1872) egli prese posizione nei riguardi dell’ormai dilagante positivismo, sostenendo la necessità di non separare la
scienza dalla vita per ricostruire il tessuto morale
dell’individuo e della nazione. Finissimo e viva-
cissimo narratore si rivelò infine nel frammento
autobiografico La giovinezza (1889) e nelle 15
lettere che costituiscono il resoconto Un viaggio
elettorale (1876).
• L’estetica e la critica letterarie
• Creazione spontanea e fantastica
• L’artista immerso nella società
• Realtà e creazione artistica
La concezione estetica di De Sanctis, pur risentendo dell’influsso di Hegel, ha carattere di forte
originalità. L’arte, benché non possa essere considerata avulsa dalla viva storia morale e politica
della nazione di cui è parte, è per lui autonoma,
non destinata a cedere il passo a una sfera superiore
dello spirito, la filosofia. L’opera d’arte non si
può ridurre né a un contenuto di pensiero astratto o di fatti concreti, né alla semplice forma;
essa è creazione spontanea e fantastica
dell’artista, forma che include in sé il contenuto,
entità unica, irripetibile e compiuta. L’artista, però,
non la crea dal nulla, ma solo elaborando un “argomento” dato, il quale impone a sua volta una
“situazione” che genera l’ossatura dell’opera e, indirettamente, il suo stile. Al tempo stesso l’artista
non è un uomo isolato ed estraneo alla società,
ma risente entro il proprio animo delle condizioni e
degli eventi della nazione a cui appartiene, nonché
della sua tradizione artistica. Queste sedimentazioni della realtà esterna mettono in moto la
fantasia dell’artista e la spingono a “rappresentare”, senza peraltro che vi sia una relazione meccanica di causa-effetto tra realtà e creazione .
SCHEMA RIASSUNTIVO
SCUOLA DEMOCRATICA
Scrivere è lottare; significa educare il popolo a una
nuova coscienza nazionale, libera e repubblicana.
Esponenti: Giuseppe Mazzini (1805-1872), patriota e
intellettuale, fonda la Giovine Italia, autore di saggi
(Scritti letterari di un italiano vivente, 1847; Dei
doveri dell’uomo, 1861); i romanzieri Giovanni
Ruffini (1807-1881) e Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873).
Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869) fondò a Milano la rivista
“Il Politecnico” (1839), organo di diffusione del riformismo. Elaborò un progetto repubblicano e federalista dell’Italia. Principali opere: Dell’insurrezione
di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1848),
Memorie di economia pubblica (1860).
Carlo Tenca
Carlo Tenca (1816-1883), critico militante, promosse
il reale e scrisse Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia (1846).
Carlo Pisacane
Carlo Pisacane (1818-1857), esponente del pensiero
rivoluzionario vicino al socialismo, fece coincidere
pensiero e azione. Morì nella spedizione di Sapri.
SCUOLA CATTOLICO-LIBERALE
Si esprime nel cosiddetto “neoguelfismo”, che vedeva il cattolicesimo e la Chiesa come garanti di una
nuova coscienza nazionale. La prospettiva politica
fu prevalentemente moderata. Esponenti: Vincenzo
Gioberti (1801-1852), autore del manifesto del
neoguelfismo Del primato morale e civile degli
italiani (1843); i piemontesi Cesare Balbo
(1789-1853) con Delle speranze d’Italia (1844) e
Massimo D’Azeglio (1798-1866), autore di romanzi
storici (Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta, 1833) e di un’autobiografia (I miei ricordi,
1867). Figura più complessa quella di Antonio Rosmini (1797-1855), che propose una forte riforma
della Chiesa.
NICCOLÒ TOMMASEO
Linguista straordinario e scrittore di forte impianto
religioso-mortale,
Tommaseo
(1802-1874),
padovano, partecipò alla rivolta veneziana del 1848.
Scrisse trattati, romanzi, ma monumenti fondamentali sono il suo Nuovo dizionario della lingua italiana
(1858-79) e il romanzo Fede e bellezza (1840).
GIUSEPPE GIUSTI
Esponente della poesia satirica, Giusti (1809-1850)
compose Versi (1844), scherzi politici e un libro
storico-politico, Cronaca dei fatti di Toscana (1890).
IPPOLITO NIEVO
Patriota garibaldino (1831-1861), morì durante la
spedizione dei Mille. Le Confessioni di un italiano,
scritto nel 1857-58, pubblicato postumo nel 1867, è
il ritratto di una generazione delusa ma anche definitivamente congedata dall’illusione risorgimentale.
FRANCESCO DE SANCTIS
Napoletano (1817-1883), con la sua Storia della letteratura italiana (1870-71) ricostruisce il grande
sfondo storico etico-civile dal quale sono sorti i capolavori della letteratura italiana. La sua opera indica
l’apertura a un nuovo realismo non più indebolito dal
sentimentalismo romantico. L’artista deve immergersi nella società.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale ruolo deve avere per Mazzini la letteratura?
2. Qual è il tema essenziale del pensiero di Cattaneo?
3. Cosa si intende per “neoguelfismo”?
4. Perché per Tommaseo si può parlare di vibrante contraddizione?
5. Qual è il tema delle Confessioni di un italiano?
6. Che cos’è l’opera d’arte per De Sanctis?
7. Chi è l’”uomo moderno” della letteratura italiana per De Sanctis?
7 LA REAZIONE
ANTIROMANTICA
La conclusione del Risorgimento, con l’unificazione del
regno d’Italia (1861), nonostante gli eventi esaltanti a cui
molti letterati avevano preso parte, lasciò emergere un
grave disagio intellettuale, frutto delle molte speranze andate deluse e di un’emarginazione sociale a cui l’artista
sembrava votato. Questo senso di delusione si concretizzò
in una radicale critica al romanticismo attraverso sia il
disimpegno della Scapigliatura, sia il classicismo critico
di Carducci.
La Scapigliatura
•
•
•
•
Che cos’è la Scapigliatura
I temi degli scapigliati
Cletto Arrighi
Ugo Iginio Tarchetti
Il diffuso atteggiamento di insofferenza nei confronti del clima civile e sociale dell’epoca (in politica la gestione moderata del Risorgimento, nell’arte
i toni moralistici e provinciali del romanticismo
italiano) avviò una forte reazione alla cultura romantica da parte del gruppo della Scapigliatura,
operante perlopiù a Milano negli anni ’60. Il termine Scapigliatura, provocatorio e programmatico,
simboleggiava il disordine della vita e
dell’abbigliamento contro l’ordine curato e artificiale imperante. I temi degli scapigliati erano la
lotta al conformismo borghese, dietro a cui vedevano il moderatismo romantico, il suo provincialismo e quindi il tono ormai convenzionale di
una cultura incapace di stare al passo con la
grande letteratura straniera, specie francese. La
Scapigliatura non costituì mai, in effetti, un vero e
proprio gruppo, ma solo un orientamento di rottura.
Il “realismo” europeo fu il pretesto per provocare e
attaccare (persino attraverso un furioso sperimentalismo formale) la sentimentale tradizione retoricoumanistica.
Ne fu araldo il milanese Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906) con il romanzo
La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862), che narra di
un ambiente di giovani artisti milanesi, irrequieti e
ribelli.
Nato nel Monferrato, Ugo Iginio Tarchetti
(1839-1869) dopo gli studi superiori fu ufficiale
di carriera e partecipò alla repressione del brigantaggio nel Meridione, fatto che lo indusse a lasciare la vita militare. A quegli anni risalgono le
prime composizioni, le prose poetiche Canti del
cuore (1865). Suggestionato dalla letteratura fantastica del tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e di Edgar Allan Poe, descrisse casi strani
e bizzarri, pervasi talora da forte gusto per il
macabro. Si ricordano i racconti Le leggende del
castello nero (1867); Amore nell’arte (1869); Storia di una gamba (1869). Della sua produzione
narrativa sono di particolare interesse tre romanzi:
Paolina (1865), storia di una povera fanciulla nella
crudele realtà della città; Una nobile follia. Drammi
della vita militare (1866), violenta denuncia antimilitarista delle ipocrisie sociali; ma soprattutto
Fosca (1869), l’opera più riuscita, che narra
l’inquietante passione di un giovane per una donna
brutta e malata, che, tuttavia, lo lega a sé per fascino
morboso e perverso.
• Carlo Dossi
• L’autobiografismo
• Ironia e paradosso
• I ritratti negativi
Carlo Dossi, pseudonimo di Carlo Aberto Pisani
Dossi (1849-1910) è considerato l’esponente della
Scapigliatura che più di ogni altro tentò di scardinare le tradizionali forme letterarie. Di
famiglia nobile, si avvicinò agli scapigliati senza
condividerne la vita trasgressiva e antiborghese.
Esordì pubblicando il racconto Educazione pretina
(1866); di poco posteriori sono i suoi capolavori, i
romanzi L’Altrieri-nero su bianco (1868) e Vita di
Alberto Pisani scritta da C. D. (1870). Nell’Altrieri sono narrati in prima persona gli episodi più sig-
nificativi dell’infanzia di Guido Etelredi, alter ego
dell’autore, in un’ottica deformante e deformata,
tra il fantastico e il grottesco. L’infanzia è stagione
sognante e felice, in cui troppo presto al sogno
subentra la dura realtà, fatta di costrizione. Il procedimento narrativo ironico evita qualunque coinvolgimento emozionale; il lessico ricchissimo e
vario, mescolato di toscanismi e lombardismi, termini aulici e letterari, parole comuni e gergali, crea
una lingua irregolare, in una sintassi spezzata e anomala. La rievocazione autobiografica continua
nella Vita di Alberto Pisani, dove l’uso della terza
persona distanzia la materia rievocata in una scrittura sempre più ironica e paradossale, che richiama
l’inglese Laurence Sterne: l’opera racconta la vicenda letteraria e sentimentale di un individuo inetto che si rifugia nell’isolamento. Una valutazione
negativa del mondo emerge anche dai racconti
Ritratti umani, dal calamaio di un medico (1873),
vera e propria galleria di ritratti umani “negativi”,
da cui emerge il disamore dello scrittore per
l’umanità. Anche La desinenza in A (1878) è una
serie di ritratti, di donne, in cui l’universo fem-
minile descritto si carica d’un fascino sottile e coinvolgente: la donna è colta ora come essere beatificante, ora come animale perverso e malefico. Altre
prove significative sono: Goccie d’inchiostro
(1880), una raccolta di racconti e bozzetti; Il regno
dei cieli (1873) e La colonia Felice-Utopia lirica
(1874), che delinea un mondo utopico, retto da
leggi “buone”, e proprio per questo paradossale. Il
volume Amori (1887) è una particolarissima autobiografia amorosa, in cui Dossi passa in rassegna le
donne amate, sognate, desiderate, legami reali e immaginari, lievi e spesso evanescenti che hanno segnato la sua vita. Dossi compose anche un testo teatrale in dialetto milanese, Ona famiglia de cilapponi
(1905) e Note azzurre, un diario di appunti pubblicati in parte postumi nel 1912 e integralmente nel
1964. Di Dossi sorprende l’intelligenza, la modernità, il furore espressionistico già novecentesco.
• Emilio Praga e Arrigo Boito
• Emilio Praga
• Arrigo Boito
Il milanese Emilio Praga (1839-1875) iniziò la
sua attività artistica come pittore (scapigliati furono
anche vari pittori dell’epoca) e solo successivamente si volse alla letteratura. Dopo alcuni viaggi
in Europa, di grande importanza per la sua formazione, si legò di profonda amicizia con Arrigo
Boito, con il quale nella Milano degli anni ’60,
partecipò attivamente alla definizione del movimento scapigliato. Fin dalle prime raccolte di versi, Tavolozza (1862) e Penombre (1864, il migliore
della poesia scapigliata), egli prese posizione contro le poetiche romantiche e in particolare contro Manzoni: al sentimentalismo del tardo romanticismo e alle idealità della letteratura risorgimentale contrappose un’adesione al “vero”, assumendo
temi e linguaggio legati alla vita quotidiana, riprodotti nella sua lirica con sfumature di colore. La sua
ribellione lo condusse ad atteggiamenti di forte anticlericalismo. Nel 1867 pubblicò la terza raccolta
di versi Fiabe e leggende, di minor rilievo poetico.
Il musicista e scrittore veneziano Arrigo Boito
(1842-1918) conobbe a Parigi musicisti famosi, tra
i quali Giuseppe Verdi, e dal 1862 frequentò a Milano gli ambienti intellettuali più avanzati. Con il
Libro dei versi (1873) e l’opera musicale Mefistofele (1868), propose la sua scelta scapigliata, di
un grottesco macabro e crudo. A metà degli anni
’70 la sua sperimentazione radicale si fece più
prudente: il Mefistofele (in una nuova redazione del
1875) ottenne grande successo. Rilevante la sua
attività di librettista (soprattutto per Verdi, per cui
scrisse i libretti del Falstaff e dell’Otello), mentre
del suo Nerone pubblicò nel 1901 il libretto ma mai
la partitura.
• La Scapigliatura piemontese
• Giovanni Camerana
• Giovanni Faldella
All’ambiente piemontese appartengono autori della
seconda generazione della Scapigliatura.
Giovanni Camerana (1845-1905), di Casale Monferrato, è poeta quasi protosimbolista, i cui Versi
fatti di evanescenze luminose furono pubblicati
postumi nel 1907.
Il vercellese Giovanni Faldella (1846-1928), fondatore del periodico “Il Velocipede” (1869), attuò
uno sperimentalismo linguistico gustoso, carico di
scatti umoristici e ironici. Fra le sue opere narrative
si ricordano Figurine (1875) e Madonna di fuoco
e Madonna di neve (1888), che riflettono la lacerazione tra mondo rurale e cittadino.
Giosue Carducci
Giosue Carducci è il rappresentante più grande
della nuova poesia italiana sulla fine del secolo.
• La vita
• Gli anni di formazione
• La svolta ideologica
• Il poeta ufficiale
Nato nel 1835 a Valdicastello, presso Lucca, studiò
a Firenze, quindi alla Normale di Pisa (1856), iniziando la carriera di insegnante al Liceo di San Miniato. Nel 1857 perse il fratello Dante e nel 1858
anche il padre (medico condotto di idee mazziniane) e dovette perciò provvedere alla madre e al
fratello minore. Nel 1860 fu chiamato dal ministro
Terenzio Mamiani alla cattedra di eloquenza
(divenuta più tardi di letteratura italiana)
all’università di Bologna, e iniziò un intenso e
scrupoloso lavoro di insegnamento e di ricerca critica e filologica. Assunse posizioni filorepubblicane e giacobine, sfociate nell’Inno a Satana
(1863). Nel 1870 la sua vita familiare fu funestata
dalla morte precoce del figlio Dante, di soli tre anni.
Il volume Poesie (1871) gli diede la piena affermazione.
Negli anni ’80, scontento della politica della Sinistra e preoccupato per il diffondersi delle idee socialiste, si avvicinò sempre più alla monarchia
sabauda, che cominciò a considerare come unica
garante dell’unità d’Italia. In ciò fu influenzato
dalle scelte della massoneria, a cui era affiliato, e
dal fascino personale esercitato su di lui dalla regina Margherita, alla quale dedicò l’ode Alla regina
d’Italia (1878). Aderì alla linea politica di Crispi
e divenne la voce più autorevole dell’Italia umbertina. In varie occasioni pronunciò orazioni ufficiali, molto ammirate, fra le quali: Presso la tomba
di Francesco Petrarca (1874), Per la morte di Giuseppe Garibaldi (1882), Per l’inaugurazione di
un monumento a Virgilio in Pietole (1884). Negli
ultimi anni curò l’edizione definitiva delle proprie
Opere (1889-1905). Lasciò l’insegnamento nel
1904; nel 1906 fu insignito del premio Nobel.
• La produzione poetica
•
•
•
•
•
Gli anni giovanili
Le “Odi barbare”
Memoria storica e memoria personale
Le “Rime nuove”
“Rime e ritmi”
Le prime raccolte segnano un ritorno al classicismo: Juvenilia (1850-60) e Levia gravia
(1861-71) vogliono essere un modello di dignità
non solo letterario da contrapporre al presente.
Anche Giambi ed epodi (edizione definitiva 1882),
attraversati da una vena polemica contro la realtà
politico-sociale contemporanea, richiamano la
poesia satirica e di forte invettiva degli antichi.
L’Inno a Satana del 1863 suscitò scandalo e polemiche, perché esprimeva in una forma poetica
classicheggiante una tematica decisamente giacobina e anticlericale.
L’esaltazione del passato eroico contrassegnò
anche le raccolte della sua maturità poetica, che
coincise con la pubblicazione, nel 1877, delle Odi
barbare (così da lui definite perché composte con
l’intento di riprodurvi tramite gli accenti il metro
classico, per cui barbare, cioè straniere, “sarebbero
sembrate al giudizio dei greci e dei romani”) e delle
Rime nuove (1887). In tali raccolte il tema della
memoria storica si definisce ulteriormente e si arricchisce con la memoria personale del poeta, in
una ricerca stilistica e formale che lo avvicina
ai parnassiani, cultori della bellezza classica da
contrapporre alla mediocrità borghese. La nostalgia dell’eroico in queste raccolte si proietta verso
età
diverse:
dalla
Roma
repubblicana
(Nell’annuale della fondazione di Roma, Alle fonti
del Clitumno, Dinanzi alle Terme di Caracalla)
all’età dei Comuni italiani (Il comune rustico, Il
Parlamento), alla Rivoluzione francese (i sonetti
del Ça ira), al Risorgimento italiano (Scoglio di
Quarto). Queste sono le liriche in cui Carducci assunse chiaramente il ruolo di poeta-vate, di
maestro e cantore nazionale con una funzione educativa e patriottica. Soprattutto nelle Rime nuove
il tema della memoria si orienta verso il mondo
privato del poeta, nel recupero dei momenti più
felici e spensierati dell’infanzia e dell’adolescenza
vissute in Maremma, il luogo dove il poeta ha condotto una vita libera e solare, che si contrappone
al grigiore del presente, alla vita cittadina del “professor Carducci”. Le liriche Idillio maremmano,
Davanti San Guido, Traversando la maremma toscana sono il risultato forse più alto del Carducci
poeta intimo e degli affetti. Al mondo privato, alle
sue tragedie più dolorose, al tema della morte si
richiamano altre liriche di queste raccolte che rappresentano gli esiti migliori di Carducci: Pianto antico e Funere mersit acerbo ne sono gli esempi
più compiuti. Le due poesie si caratterizzano per il
venir meno dell’eroicità precedente, rivelando una
nuova inquietudine del poeta, “percosso” dalla
morte e dal dolore, dalla delusione e dallo sconforto, che, sempre contenuti e misurati, danno il
via anche a una nuova evocazione della natura, ora
più cupa, attraversata da segni di morte. Notevole è
anche l’ultima raccolta, Rime e ritmi (1899).
I POETI “CARDUCCIANI”
Carducci, con il suo ricco laboratorio, offrì un modello poetico molteplice non solo a Pascoli e a
D’Annunzio, ma a una serie di scrittori molto diversi
fra loro, chi alla ricerca di un realismo contenuto, chi
di un classicismo eroico, chi invece di una lezione
classica composta ed equilibrata. Il veronese Vittorio
Betteloni (1840-1910), specie con la raccolta In
primavera (1869), propose una rappresentazione
borghese pacata e semplice, vicina al bozzetto di
famiglia; pubblicò anche un romanzo, La prima lotta
(1896). Il forlivese Olindo Guerrini (1845-1916)
stampò sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti
la fortunata raccolta Postuma (1877), caratterizzata
da un realismo squallido ma anche irriverente e mordace, priva tuttavia della macabra ritualità scapigliata. Col proprio nome pubblicò poi Polemica e Nova
polemica (1878). Una scuola “classicistica carducciana” fu rappresentata dalla letteratura sentimentale
e paesaggistica di Giovanni Marradi (1852 -1922) e
del critico Severino Ferrari (1856-1905).
Più originale il lavoro del vicentino Giacomo Zanella (1820-1888), il cui nitido timbro gli consentì
di ricreare un paesaggismo sereno e raccolto, scevro
dalle opacità enfatiche di tanto carduccianesimo. Per
certi versi, il suo classicismo (soprattutto Astichello,
1884) ha un conio tutto personale.
• Carducci prosatore
• Saggi storico-critici
• Scritti polemici
• Epistolario
Gli scritti in prosa si possono suddividere in tre
gruppi. Anzitutto i saggi storico-critici, frutto del
lavoro di docente universitario: Carducci privilegia
l’analisi del testo, con particolare attenzione alla
sua storia e all’ambito linguistico, retorico e formale. Spiccano Della varia fortuna di Dante
(1866-67), Dello svolgimento della letteratura
nazionale (1868-71), La storia del “Giorno” di Giuseppe Parini (1892); tra le edizioni critiche, da
segnalare i lavori su Poliziano (1863) e sulle Rime
di Petrarca (1899). Il secondo gruppo è costituito
dagli scritti di polemica (letteraria, politica, ideologica), caratterizzati da uno stile violento, con
punte di vistoso autobiografismo: Polemiche
sataniche (1863); Eterno femminino regale (1881),
composto per difendere il suo avvicinamento alla
monarchia. Il terzo gruppo è costituito essenzialmente dall’epistolario pubblicato postumo
(1938-60) in 21 volumi, che offre un’immagine più
intima e sofferta del poeta.
• Il giudizio critico
• Vate d’Italia
Carducci fu personalità poetica di grande rilievo
per le idealità patriottiche e nazionali, che gli
guadagnarono il soprannome di “vate” d’Italia.
Nella sua produzione spiccano anche accenti di
commossa intimità sul piano poetico ed esiti di
indiscussa validità sul piano critico-storiografico.
Dopo il grande successo presso i suoi contemporanei e la valutazione positiva di Benedetto Croce,
che vide nella sua poesia un esempio di “integra
umanità”, la sua opera è stata considerata poco originale, estranea al panorama europeo. La critica più
recente ha individuato nelle sue liriche più intime
la compresenza di due poli tematici, il sentimento
della vita e quello della morte, che conferiscono
alla sua poesia una tensione autentica e sofferta.
SCHEMA RIASSUNTIVO
SCAPIGLIATURA
La Scapigliatura, sorta e sviluppatasi a Milano negli
anni ’70 -’80, più che un vero gruppo fu un orientamento di rottura e di anticonformismo per provocare e attaccare (attraverso un furioso sperimentalismo formale) la polverosa e sentimentale tradizione
retorico-umanistica.
Esponenti
Cletto Arrighi (1830-1906); Ugo Iginio Tarchetti
(1839 -1869); il musicista e scrittore Arrigo Boito
(1842-1918); Emilio Praga (1839-1875), poeta
(Fiabe e leggende, 1867) e narratore (Memorie del
presbiterio, 1877).
Carlo Dossi
Carlo Dossi (1849-1910) è l’esponente più rappresentativo della Scapigliatura, autore di ritratti negativi tra ironia e paradosso (L’Altrieri-nero su bianco,
1868, e Vita di Alberto Pisani scritta da C.D., 1870).
CARDUCCI
Giosue
Carducci
(1835-1907),
attivo
nell’insegnamento universitario e nella vita politica,
vate del regno d’Italia, riuscì a rimettere in gioco sia
le estenuate istanze del nostro migliore classicismo,
sia le nuove necessità realistiche europee. Produzione
giovanile: Juvenilia (1850-60), Levia gravia
(1861-71), Giambi ed epodi (edizione definitiva
1882). Produzione della maturità: Odi barbare (1877)
e Rime nuove (1887); Rime e ritmi (1899). Notevole
la sua sperimentazione metrico-linguistica.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. La Scapigliatura fu un gruppo con un preciso
programma letterario?
2. Quali sono i temi fondamentali dell’opera di
Dossi?
3. C’è un rapporto nella poesia carducciana fra
memoria storica e memoria personale?
4. Quali sono i due poli tematici delle più intime
liriche carducciane?
8 VERISMO
Il verismo è il movimento letterario italiano più interessante della seconda parte del secolo. Sulle premesse filosofiche del positivismo, trae origine dalle teorie del naturalismo francese e dalle condizioni proprie del momento
storico italiano, come la grave crisi delle regioni meridionali, l’esistenza di una consuetudine linguistica e
dialettale di carattere regionale e la mancanza di una consolidata tradizione di narrativa romantica di tipo realistico e di contenuto sociale. Maestro indiscusso del movimento è Giovanni Verga. Una posizione più appartata, ma
più inquieta, è quella di Antonio Fogazzaro.
La poetica verista
•
•
•
•
Letteratura fondata sul vero
Teoria dell’impersonalità
Fotografia della realtà
Struttura del dialetto
Il primo ispiratore e teorico del movimento verista
fu indirettamente De Sanctis, che nei saggi Il principio del realismo (1872) e Studio sopra Émile Zola
(1878) auspicò una letteratura fondata sul vero. Le
teorie di De Sanctis furono riprese e sviluppate da
Capuana, che intese l’opera d’arte come “forma”
vivente, come organismo dotato di una propria vita,
né modificata né condizionata da chi scrive. Il testo
narrativo in cui queste posizioni vengono più
esplicitamente evidenziate è la novella di Verga
L’amante di Gramigna, raccolta in Vita dei campi
(1880), nella cui prefazione l’autore espone la sua
interpretazione della teoria dell’impersonalità
(nell’opera d’arte “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile”). Verga, però, a differenza
di Zola, ritiene che lo scrittore non potrà mai agire
con il rigore dello scienziato, perché “il processo
di creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi
delle passioni umane”: il verismo si propone, coerentemente con le concezioni naturalistiche, di offrire al lettore la fotografia della realtà senza che
l’autore interferisca con essa: il massimo risultato
che uno scrittore possa ottenere è quello dunque di
fare in modo che lo scritto “sembri essersi fatto da
sé”. Stabilito il “frammento di vita” di cui occuparsi, il narratore lascia che gli avvenimenti siano
osservati e giudicati attraverso la scala di valori
propri dell’ambiente preso in esame. Il punto di
vista di chi scrive è soggetto a una “regressione”,
che si riflette non solo nell’area del contenuto, ma
addirittura sulle scelte linguistiche, come nel caso
dei Malavoglia (1881) di Verga, in cui prevalgono
la struttura sintattica del dialetto tipico del mondo
contadino e le forme del discorso indiretto libero,
come se la prosa fosse lo specchio di un intervento
collettivo indeterminato.
IL NATURALISMO
La narrativa europea, già intorno agli anni ’50, aveva
elaborato una letteratura di forte realismo, che aveva
il compito di rappresentare la concretezza drammatica e psicologica del mondo. Nella seconda parte del
secolo, all’interno della concezione positivistica tale
realismo narrativo si irrobustì elaborando un metodo
rigoroso e scientifico di rappresentazione dei fatti,
delle condizioni ambientali e psicologiche che agiscono sui personaggi. Specie in Francia, a partire dagli
anni ’70 si sviluppò la “scuola del naturalismo”
con un programma di studio e di analisi oggettiva,
quindi scevra dagli interventi diretti e “ideologici”
dell’autore, della complessità del reale, soprattutto
in riferimento ai meccanismi sociali, visti anche attraverso le condizioni patologiche sia individuali sia
collettive, come effetto della miseria in cui vivevano
le classi urbane più povere. Capofila della scuola
fu lo scrittore Émile Zola (1840-1902), che usò per
primo il termine “naturalismo”, a cui si affiancarono
i fratelli Jules (1830-1870) ed Edmond Goncourt
(1822-1896) e soprattutto Guy de Maupassant
(1850-1893).
Giovanni Verga
È il massimo esponente del verismo, di cui fu anche
uno dei principali teorici.
• La vita e le opere
•
•
•
•
•
Gli anni di formazione
Il soggiorno milanese
Le novelle e i romanzi
Il ritorno in Sicilia
Il teatro
La famiglia, di sentimenti liberali, apparteneva alla
piccola nobiltà di campagna. Nato a Catania nel
1840, Verga trascorse la giovinezza nella proprietà
di Vizzini, vicino al capoluogo etneo. Nel 1858 si
iscrisse alla facoltà di giurisprudenza; all’arrivo di
Garibaldi (1860) si arruolò nella Guardia Nazionale
e rimase in servizio fino al 1864. In quegli anni
scrisse e pubblicò alcuni romanzi di contenuto
patriottico (I carbonari della montagna, 1861-62;
Sulle lagune, 1863) e collaborò con numerose riviste politiche e letterarie. Nel 1865 compì il primo
viaggio a Firenze, allora capitale d’Italia, restando
affascinato dal mondo intellettuale della città. Vi
tornò più stabilmente nel 1869, dopo aver pubblic-
ato il romanzo Una peccatrice (1866) e averne preparato un secondo, Storia di una capinera (1871).
Dal 1872 si trasferì a Milano. L’incontro più significativo fu quello con il siciliano Capuana, che gli
fece conoscere il naturalismo degli scrittori francesi
Flaubert e Zola. Pubblicato un terzo romanzo, Eva
(1873), Verga continuò una produzione connotata
da due tendenze antitetiche: scrisse un bozzetto di
forte impronta naturalista e di ambientazione siciliana (Nedda, 1874) e contemporaneamente approntò
due romanzi dai toni tardoromantici, con tematiche
proprie del mondo elegante dei salotti aristocratici e
borghesi: Tigre reale (1875) ed Eros (1875). Il suo
interesse si era ormai orientato verso la poetica del
vero, mutuata dagli scrittori francesi: dall’intensa
riflessione teorica e dal recupero nella memoria di
temi siciliani nacquero le raccolte di novelle Vita
dei campi (1880), Novelle rusticane (1883) e il
romanzo I Malavoglia (1881), il primo del ciclo
intitolato I vinti. Queste grandi opere sia per la
novità dell’argomento, accentuata dalla sostanziale
marginalità dell’ambiente rappresentato, sia per
l’originalità dell’impostazione linguistica, molto
distante dalla tradizione manzoniana, non ottennero il successo che avrebbero meritato. Per
questo motivo, oltre che per sopravvenute difficoltà
economiche, lo scrittore non trascurò del tutto la
narrativa di ambiente non siciliano e pubblicò il romanzo Il marito di Elena (1882) e le novelle milanesi Per le vie (1883). Nel 1884 ottenne un grande
successo con la versione teatrale della novella
Cavalleria rusticana, andata in scena a Torino per
interessamento di Giuseppe Giacosa. Ritrovato
l’entusiasmo, egli tornò a dedicarsi alle novelle di
ambiente siciliano (Vagabondaggio, 1887) e soprattutto alla stesura di un romanzo già iniziato verso
il 1883 e mai compiuto, il Mastro-don Gesualdo
(1889), che fu ben accolto dai lettori. Seguirono
altre due raccolte di novelle, I ricordi del capitano
d’Arce (1891) e Don Candeloro e C.i (1894). Nel
frattempo aveva ottenuto un trionfo la versione musicale della Cavalleria rusticana, opera di Mascagni (la prima è del 1890): Verga, di nuovo in ristrettezze economiche, fece causa al compositore e
all’editore Sonzogno, ottenendo (1893) un sostan-
zioso risarcimento, che gli consentì di vivere
agiatamente per il resto dei suoi giorni.
Nel 1893 tornò in Sicilia e si occupò con continuità
soprattutto di teatro, per cui compose tra l’altro i
drammi La lupa (1896), La caccia al lupo (1901),
La caccia alla volpe (1901) e soprattutto Dal tuo
al mio (1903), in cui viene presentata una tematica
sociale di notevole intensità e modernità. Per circa
vent’anni, fino alla morte avvenuta a Catania nel
1922, scomparve dalla ribalta letteraria.
• La teoria dell’impersonalità
• Il fatto nudo e schietto
• “Vita dei campi”
• “Novelle rusticane”
La posizione di Verga nell’ambito delle poetiche
del vero è il metodo dell’“impersonalità”, lasciare
che sia il “fatto nudo e schietto”, e non le
valutazioni dell’autore, il centro della narrazione, come scrive nella premessa alla novella
L’amante di Gramigna. Su questa impostazione
Verga sviluppò in particolare la parte più alta della
sua produzione novellistica. La Vita dei campi è
caratterizzata dalla presenza di indimenticabili
personaggi dominati da una tragica condizione
di violenza, in cui si frantumano i diversi aspetti
della vita: essa diviene brutalità nei rapporti umani
(Rosso Malpelo), crudeltà nella vita sociale (Jeli il
pastore), disperazione nel conflitto dei sentimenti
(Cavalleria rusticana), tragica oppressione delle
pulsioni naturali del sesso e della psiche (La lupa e
L’amante di Gramigna).
Le Novelle rusticane invece prediligono quadri
d’assieme, segnati da un immutabile destino di
sconfitta sia nel confronto con la natura (Malaria),
sia in quello con la storia (Libertà; Cos’è il re).
Dominano la morte e il fattore economico, che
in questo contesto acquista un aspetto particolare,
di mezzo per la sopravvivenza e di idolo del possesso (Pane nero; La roba), assumendo in un caso
e nell’altro un significato più importante della vita
stessa.
• Il ciclo dei vinti
•
•
•
•
La concezione del “ciclo”
Il progetto del “ciclo dei vinti”
“I Malavoglia”, romanzo corale
“Mastro-don Gesualdo”, romanzo dell’uomo solo
Da Zola Verga ricavò, oltre ai principi generali
del romanzo sperimentale, la concezione di origine
darwiniana del “ciclo”, inteso come susseguirsi di
romanzi che, riguardando gli stessi personaggi o i
loro discendenti, permettono di cogliere le costanti
e le modificazioni di comportamento in relazione
al mutare dell’ambiente sociale. Nella prefazione ai
Malavoglia Verga espone la tesi generale e le articolazioni del “ciclo dei vinti”, che egli definisce
“una specie di fantasmagoria della lotta per la vita”.
Secondo il progetto, il ciclo avrebbe dovuto essere
composto da cinque romanzi (I Malavoglia,
Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra,
L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso), attraverso
cui l’autore avrebbe descritto la lotta per
l’affermazione in tutte le classi sociali, dalle più
umili alle più elevate. L’idea base era che i protagonisti pagassero il loro tentativo di modificare
la propria condizione sociale con una sconfitta
irreparabile. Con un corollario: il mutamento, e
non solo della struttura sociale, ma anche dei rapporti interpersonali, risulta impossibile; la delusione che ne deriva è una vera e propria vendetta
della colpa.
I Malavoglia narrano le vicende di una famiglia
di pescatori di Aci Trezza, guidata con polso
fermo da padron ’Ntoni, il nonno, che, sullo sfondo
di un’Italia appena unificata, affronta il drammatico
passaggio dai valori di un mondo arcaico alla sfuggente realtà del presente. Il romanzo si costruisce
attorno al fondamentale concetto dell’“ideale
dell’ostrica”, cioè la necessità per chi appartiene
alla fascia dei deboli di rimanere abbarbicato
ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni
ataviche, per evitare allora che il mondo, il “pesce
vorace”, lo divori. I Malavoglia si fondano sulla
coralità dell’oggetto della narrazione e delle
modalità attraverso cui essa avviene. La voce nar-
rante diventa collettiva, fa largo uso dei proverbi
e dei modi di dire, avvalendosi spesso dello “stile
indiretto libero”, attraverso cui la voce di un personaggio si fonde senza difficoltà né resistenze sintattiche con quella di altri, secondo una totale continuità comunicativa. La scelta linguistica evidenzia lo scontro ideologico campagna-città, civiltà
contadina-civiltà borghese, aggravato dallo scontro
tra le generazioni (la paziente ed epica lotta del vecchio padron ’Ntoni con l’insofferenza e la spregiudicatezza del giovane ’Ntoni).
Il secondo romanzo, Mastro-don Gesualdo, celebra invece il mito della “roba” e al tempo stesso
l’impossibilità di trasformare la ricchezza accumulata in una completa promozione sociale. Mastrodon Gesualdo è il romanzo dell’uomo solo, che
tenta di emergere nonostante le resistenze sorde
o esplicite della società contadina da cui proviene,
che lo rifiuta per il suo modo di vivere così diverso
dalla tradizionale rassegnazione, e di quella nobiliare, che non gli permette di introdursi in un mondo
in cui ha valore la nascita e non l’agire. Un tentativo
troppo grande per non fallire. Così come il protag-
onista è solo nella sua lotta, la lingua della narrazione perde il colore della coralità e assume un
carattere teso, a volte contratto, in cui l’apporto
dialettale assume spesso una valenza gergale e
amara, per esprimere un quadro in cui domina il
cupo pessimismo dell’immobilità.
Il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, avrebbe
dovuto trattare delle vicende della figlia di Mastrodon Gesualdo, ma l’autore non ebbe la forza per
concludere il ciclo dei vinti.
• Il giudizio critico
• Una scrittura nuda e crudele
Verga fece suo il naturalismo; inventò una scrittura nuda e crudele, capace di rappresentare il
destino amaro di uomini falliti. I Malavoglia e
Mastro-don Gesualdo sono i romanzi più belli di
fine secolo. Bruciò in sé l’esperienza positiva del
realismo manzoniano e realizzò un’opera che del
risentimento e della disperazione fece il proprio
suggello filosofico e la più radicale e straordinaria
bellezza. Accostato da Riccardo Bacchelli a Manzoni e Leopardi come il terzo grande scrittore
dell’Ottocento italiano, Verga venne facilmente
contrapposto da Luigi Pirandello a D’Annunzio e al
suo estenuato decadentismo.
La scuola verista
•
•
•
•
•
•
Renato Fucini e Mario Pratesi
Remigio Zena
Edoardo Calandra
Paolo Valera
Vittorio Imbriani
Giuseppe Giacosa
La produzione verista, in quanto produzione specificatamente di scuola, non è stata molto ampia e
quasi sempre ha fatto riferimento a realtà regionali molto diverse. La produzione di “gusto verista”,
cioè di prospettiva realistica e di ambiente re-
gionale, è invece molto ampia e raccoglie una letteratura di grande interesse, capace peraltro di
formare quella tradizione di “realismo moderno”
su cui si svilupperà il realismo novecentesco italiano. Tra gli esponenti più interessanti sono i toscani
Renato Fucini (1843-1921), che nelle sue novelle
fu attento osservatore, senza però intenti sociali,
della miseria dei contadini della Maremma (Le veglie di Neri, 1882; Nella campagna toscana, 1908),
e Mario Pratesi (1842-1921), autore di romanzi di
ambiente senese, alla ricerca di un’“arte casalinga,
semplice, passionata” (L’eredità, 1889; Il mondo
di Dolcetta, 1895). A Nord, il genovese Remigio
Zena (pseudonimo di Gaspare Invrea, 1850-1917)
rappresentò la rovina morale e materiale di tante
donne del popolo (La bocca del lupo, 1890) e il
torinese Edoardo Calandra (1852-1911) riprese
il “romanzo storico” testimoniandone però tutta la
consunzione: soprattutto La bufera (1898) e Juliette
(1909) mostrano intenti psicologici già aperti a un
gusto drammatico primo Novecento.
Paolo Valera (1850-1926), di Como, mosso da
forti interessi democratici, scrisse Alla conquista
del pane (1882) e il bellissimo La folla (1901),
oltre a un ampio romanzo-inchiesta sulla plebe urbana (Il ventre di Milano: fisiologia della capitale
morale, 1888).
Particolare il caso del napoletano Vittorio Imbriani (1840-1886): la sua letteratura è la prova aggressiva di un realismo insieme scapigliato e verista, sempre troppo esuberante per rientrare in un
genere definito, specie con i racconti
Mastr’Impicca (1874), Dio ne scampi dagli
Orsenigo (1876), Per questo Cristo ebbi a farmi
turco (1883).
In relazione alla nascita per il teatro del “dramma
borghese” è da ricordare il lavoro di Giuseppe
Giacosa (1847-1906): il suo Come le foglie (1900)
vuole essere un’apertura alla migliore drammaturgia europea (soprattutto Ibsen).
• Luigi Capuana
Nato in una famiglia di ricchi possidenti terrieri
presso Catania, Luigi Capuana (1839-1915) si
trasferì a Firenze, allora capitale del regno d’Italia,
e fu critico teatrale sul quotidiano “La Nazione”.
Qui conobbe Giovanni Verga e con lui partecipò
alle discussioni intorno alla nuova letteratura.
L’attenzione al naturalismo francese lo indusse ad
analizzare le affinità fra l’artista e lo scienziato
“positivo”, a impegnarsi per una letteratura aderente al “vero”. Con Verga divenne il teorico del
verismo, contribuendo alla sua affermazione: nel
1879, a Milano, pubblicò il manifesto letterario del
verismo, il romanzo Giacinta, seguito dai due volumi di Studi sulla letteratura contemporanea
(1880-82) e Per l’arte (1885). Da allora pubblicò
varie opere di narrativa e saggi: tre libri di novelle,
Le appassionate (1893), Le paesane (1894) e Le
nuove paesane (1898), nelle quali era attento indagatore della psicologia della borghesia di provincia;
due romanzi, Profumo (1894) e Il marchese di Roccaverdina (1901), considerato il suo capolavoro.
• Federico De Roberto
• “I viceré”
Il napoletano Federico De Roberto (1861-1927),
trasferitosi giovanissimo a Catania, entrò in contatto con gli scrittori veristi Capuana e Verga. Furono loro a introdurlo nell’ambiente letterario milanese. Profondamente convinto della necessità di una
letteratura che fosse al tempo stesso documento
storico-sociale e analisi psicologica dei caratteri,
si dedicò a una sorta di anatomia della passione
amorosa con L’amore. Fisiologia. Psicologia. Morale (1895). Si cimentò poi con romanzi di solida
architettura storico-narrativa, come L’illusione
(1891), e soprattutto con il suo capolavoro, I viceré
(1894). Il romanzo, uno dei migliori
dell’Ottocento italiano, è uno spaccato della storia
siciliana negli anni tra il 1855 e il 1882, che lo scrittore analizza con precisi riferimenti, narrando le vicende di una famiglia dell’antica nobiltà catanese,
gli Uzeda. De Roberto risentì fortemente degli studi
sulle razze e volle rappresentare il declino di
un’antica dinastia professando un forte senso
nichilistico della vita. I viceré è una denuncia netta
dell’ottimismo borghese, espressa in una scrittura
ricca di tensione, accurata nei dettagli, decisamente
antilirica, con esiti grotteschi. La sua continuazione, L’imperio (1929, postumo) non ne ripete il buon esito narrativo.
• Emilio De Marchi
• “Demetrio Pianelli”
Il milanese Emilio De Marchi (1851-1901), educato agli ideali risorgimentali, dopo la laurea in
lettere si dedicò all’insegnamento. Partecipò alla
vita politica milanese, come consigliere comunale,
e promosse attività benefiche e culturali.
La sua produzione fu molto varia e sempre tesa
a mettere a fuoco le difficoltà della borghesia
formatasi con l’unità d’Italia. Si affermò in particolare con la narrativa: compose circa sessanta novelle, fra le quali si segnalano le raccolte Storielle
di Natale (1880); Storie d’ogni colore (1885); Racconti (1889); Nuove storie d’ogni colore (1895).
Nel 1887 apparve a puntate il romanzo Il cappello
del prete. Del 1889 è il suo capolavoro Demetrio
Pianelli, che racconta un intreccio di sentimenti
semplici: il senso dell’onore di un povero travet
sullo sfondo di un paesaggio milanese delineato
con forti accenti manzoniani. Seguirono poi, tra
gli altri, Arabella (1892-93) e Giacomo l’idealista
(1897). Tutta la narrativa di De Marchi è improntata
a un moralismo borghese venato di toni patetici;
il bene e il male sono facilmente individuabili, i
valori dominanti sono la bontà, la capacità di sopportazione, la rispettabilità. Anche la soluzione linguistica da lui adottata fu coerente con il suo intento: una lingua media, lontana dalla letterarietà,
aperta agli influssi del parlato dei ceti medi lombardi.
• Matilde Serao
• Matilde Serao
Figlia di un esule italiano e di una greca, Matilde
Serao (1856-1927) si stabilì a Napoli
nell’adolescenza. Con il marito, il giornalista e
scrittore Edoardo Scarfoglio fondò “Il Corriere di
Napoli”, divenuto poi “Il Mattino”. Vicina al verismo, diede un’immagine viva della realtà sociale
napoletana della fine dell’Ottocento, di cui colse il
quadro più efficace nell’inchiesta giornalistica Il
ventre di Napoli (1884) e nel romanzo Il paese di
cuccagna (1891). Il successivo romanzo Suor Giovanna della Croce (1900) tratta il tema della guerra.
• Grazia Deledda
• Grazia Deledda
Nata a Nuoro da una famiglia piccolo-borghese,
Grazia Deledda (1871-1936) dopo la scuola elementare studiò da autodidatta; fu lettrice accanita di
romanzi stranieri (francesi e russi). Dopo il matrimonio si trasferì a Roma. Scrisse una cinquantina
di romanzi, i più significativi dei quali sono: Elias
Portolu (1903); Cenere (1904); L’edera (1906);
Canne al vento (1913); La madre (1920). Quasi
tutta la sua produzione ruota attorno alla sua
terra, la Sardegna, di cui recuperò le antiche tradizioni pastorali e rurali, con un intento che si richiamava più al tardo romanticismo che al contemporaneo verismo. Narrò patetiche vicende
d’amore e di morte, ambientate per lo più nella
famiglia arcaica, con i suoi valori e i suoi tabù, dove
la trasgressione precipita verso la colpa e la conseguente, necessaria, punizione. Notevole fu il successo di pubblico; nel 1926 ottenne il premio Nobel per la letteratura.
• Edmondo De Amicis
• Edmondo De Amicis
• “Cuore”
Nato a Oneglia, Edmondo De Amicis (1846-1908)
frequentò l’Accademia militare di Modena e partecipò alla terza guerra d’indipendenza. Dopo il successo ottenuto con i Bozzetti di vita militare (1868),
abbandonò l’esercito e si dedicò all’attività giornalistica: di rilievo i suoi reportage sulla condizione
degli emigranti raccolti nel volume Sull’Oceano
(1889). Nel 1886, dopo essersi stabilito a Torino,
pubblicò la sua opera più famosa, il romanzo
Cuore, che conobbe un immediato e grande successo. Nel 1891 s’iscrisse al Partito Socialista.
Libro scritto per i ragazzi delle scuole elementari,
Cuore ha la forma di un diario tenuto durante
l’anno scolastico 1881-82 da un allievo di terza elementare. L’intento educativo mira a valorizzare
il rispetto della dignità umana che si afferma nel
lavoro, nell’onestà, nell’obbedienza alle leggi,
nell’amore per la famiglia e per la patria. Celeberrimi i racconti inseriti nel diario: La piccola vedetta
lombarda, Sangue romagnolo, Dagli Appennini
alle Ande. In un’epoca in cui l’analfabetismo era altissimo ed era molto osteggiata la legge che aveva
reso obbligatoria la scuola elementare per tre anni,
Cuore si proponeva di valorizzare l’istruzione e,
contemporaneamente, di trasmettere i valori risorgimentali per edificare un comune terreno civile e
nazionale. Il libro ebbe un’immensa fortuna fino
alla metà del sec. XX. L’ultima produzione di De
Amicis (che aveva aderito al socialismo) fu più at-
tenta alle contraddizioni sociali: Il romanzo di un
maestro (1890) e La maestrina degli operai (1895);
Primo maggio (1980, postumo).
• La produzione dialettale
• Salvatore Di Giacomo
• Cesare Pascarella
Il napoletano Salvatore Di Giacomo (1860-1934),
piuttosto che nel teatro e nella narrativa, offrì con
la poesia in dialetto una prova rilevante di limpidezza musicale, che sa sempre esprimere una ricchezza cromatica, la forte e realistica curiosità per
la vita quotidiana (le poesie, scritte negli anni ’80,
furono raccolte in Poesie, 1907, e poi nell’edizione
completa del 1927).
La produzione dialettale ebbe un protagonista
anche nel romano Cesare Pascarella (1858-1940):
la sua poesia è arguta, divertente, capace di raccontare vivacemente storie e azioni (notevoli Er
fattaccio, 1884; Villa Gloria, 1886; La scoperta
dell’America, 1894).
“LE AVVENTURE DI PINOCCHIO”
Romanzo del tutto eccezionale è l’opera del
fiorentino Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo
Lorenzini, 1826-1890). Autore della fortunata serie di
racconti di Giannettino (1876) e Minuzzolo (1878),
nel 1881 Collodi iniziò a scrivere per la neonata rivista “Il Giornale dei bambini” un romanzo a puntatte,
la storia di un burattino, che, su richiesta dei giovani
lettori entusiasti, venne condotta avanti fino al 1883.
Per concludere il racconto, l’autore fu costretto a trasformare il burattino Pinocchio in un bambino in carne
e ossa. Nello stesso anno, il racconto completo uscì
in volume con il titolo Le avventure di Pinocchio
(1883). Considerato un capolavoro indiscusso della
letteratura infantile, tradotto in centinaia di lingue,
formalmente il libro ripropone, in una lingua semplice e immediata, il tema dell’iniziazione alla vita
di un bambino, della sua graduale scoperta della realtà, negli aspetti positivi e negativi, e anche il motivo
della caduta e del cammino di espiazione fino alla
“redenzione” finale. Temi tradizionali riproposti nel
quadro di invenzioni fantastiche indimenticabili, di
personaggi dotati di straordinaria immediatezza e vivacità, che tolgono ogni pedanteria alla lezione morale comunque ben presente.
Antonio Fogazzaro
•
•
•
•
“Malombra”
“Daniele Cortis”
“Piccolo mondo antico”
“Piccolo mondo moderno”
Il vicentino Antonio Fogazzaro (1842-1911), allievo di Giacomo Zanella, ritrovò all’interno di un
cattolicesimo serio e risorgimentale una concreta
esperienza di crisi, attraverso la quale è facile intravedere alcuni elementi della nuova cultura decadente italiana. Già dagli anni ’70 cercò (con i saggi
raccolti poi in Ascensioni umane,1899) il rapporto
tra la fede cattolica e le nuove tendenze della scienza, affascinato dalle teorie evoluzionistiche di
Darwin. Dopo l’esordio letterario con la novella
in versi Miranda (1874), conseguì il successo con
il romanzo Malombra (1881): la protagonista, la
prima delle inquietanti figure femminili di Fogazzaro, vive con il vecchio zio Cesare in una villa
sul lago di Como e si crede la reincarnazione della
nonna, mentre nell’intellettuale Corrado Silla, attratto solo dal fascino torbido della sensualità, crede
di vedere addirittura la reincarnazione dell’amante
della sua antenata. Il romanzo si conclude tragicamente con la morte dello zio e con l’uccisione di
Corrado da parte della protagonista, che poi si uccide. Malombra mostra una forte novità rispetto
alla produzione narrativa del tempo: il mistero, il
dramma della malattia si fondono in un disperato squilibrio spirituale.
In Daniele Cortis (1885) la vicenda individuale
s’intreccia con quella storica: il contrasto fra i
personaggi diviene contrasto d’idee. Il protagonista
è un deputato cattolico che, di fronte alla corruzione
politica, lotta per una sua ideale “democrazia cristiana”; ma è votato alla sconfitta nella lotta politica
così come nel privato, per cui la passione d’amore
per la cugina Elena si risolve nella lontananza e nel
sacrificio. Nel 1888 uscì Il mistero del poeta appesantito, però, da un denso sentimentalismo.
Del 1895 (ma iniziato già nel ’92) è invece il romanzo di maggior successo, Piccolo mondo antico, ambientato in Valsolda, sulle sponde del lago
di Lugano, dove lo scrittore aveva trascorso parte
dell’adolescenza. La vicenda, che si svolge
nell’attesa dell’unificazione d’Italia, ha come protagonista la coppia costituita dal nobile lombardo
Franco Maironi e dalla borghese Luisa Rigey.
Fogazzaro ritrae la vita quotidiana della piccola
provincia, che egli affresca grazie ai personaggi
minori del romanzo, colti nella loro realtà sociale e
culturale, con i loro pregi e i loro limiti.
In Piccolo mondo moderno (1901), continuazione
del precedente, egli approfondisce quell’intreccio
di sensualità e dramma spirituale che sono la sua
peculiarità tematica. Il Santo (1905) e Leila (1907)
sono le sue ultime prove narrative, che furono og-
getto di severi giudizi da parte della critica, specialmente cattolica (la Chiesa li mise all’Indice), perché ritenute devianti e torbide; riscossero viceversa
un grande successo di pubblico, soprattutto di estrazione piccolo-borghese, che ne apprezzò le vicende sensuali e il tentativo di descrivere il malessere della società italiana dell’inizio del secolo.
Caratteristica la scrittura di Fogazzaro, ancora
legata al naturalismo, ma già aperta alle suggestioni del decadentismo europeo.
SCHEMA RIASSUNTIVO
VERISMO
Il verismo si propone, coerentemente con le concezioni naturalistiche, di offrire al lettore la fotografia
della realtà senza interferenza dell’autore. Ma per il
verismo la letteratura non è una scienza: la narrazione
resta l’esperienza misteriosa dell’inspiegabile destino
umano. Tra gli ambienti veristi prevale soprattutto la
campagna del Meridione.
Luigi Capuana
Luigi Capuana (1839-1915), siciliano, autore dei romanzi Giacinta (1879) e Il marchese di Roccaverdina
(1901).
Federico De Roberto
Federico De Roberto (1861-1927), napoletano: romanzi L’illusione (1891) e il capolavoro I viceré
(1894).
Emilio De Marchi
Emilio De Marchi (1851-1901), milanese: romanzi Il
cappello del prete (1887), Demetrio Pianelli (1889),
Giacomo l’idealista (1897).
Matilde Serao
Matilde Serao (1856 -1927), napoletana: Il ventre di
Napoli (1884), Il paese di cuccagna (1891).
Grazia Deledda
Grazia Deledda (1871-1936), sarda, premio Nobel
(1926): romanzi Elias Portolu (1903), Cenere (1904),
Canne al vento (1913), La madre (1920).
Edmondo De Amicis
Edmondo De Amicis (1846-1908), ligure, autore del
libro per ragazzi Cuore (1886).
GIOVANNI VERGA
Nativo di Catania (1840 -1922), fu protagonista del
verismo italiano. Periodo preverista: Una peccatrice
(1866), Storia di una capinera (1871), Tigre reale
(1875), Eros (1875). Verismo: Vita dei campi (1880),
Novelle rusticane (1883), il ciclo dei vinti con I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889). Ultimo periodo: Dal tuo al mio (1903). Nella novella
L’amante di Gramigna espone la teoria
dell’impersonalità: “il romanzo avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun
punto di contatto col suo autore”.
ANTONIO FOGAZZARO
La letteratura del vicentino Fogazzaro (1842-1911)
è un incontro di sensualità e di ricerca religiosa. Il
mistero e il dramma della malattia si fondono in un
disperato squilibrio spirituale. Romanzi: Malombra
(1881), Daniele Cortis (1885), Piccolo mondo antico
(1895), Piccolo mondo moderno (1901), Il Santo
(1905).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Da quali premesse culturali si è mosso il verismo?
2. Che
cosa
sostiene
la
teoria
dell’“impersonalità”?
3. Che cosa intende Verga per “ciclo”?
4. Quale differenza essenziale distingue I Malavoglia da Mastro-don Gesualdo?
5. Qual è il capolavoro di De Roberto?
6. Fogazzaro anticipa la crisi spirituale decadente?
9 FRA OTTOCENTO E
NOVECENTO: LA
STAGIONE DECADENTE
L’artista decadente afferma la propria orgogliosa differenza chiudendosi in un aristocratico e sofferto rifiuto
della società. Il decadentismo si esercita su temi quali
l’inconscio e il sogno, la memoria e l’infanzia, l’angoscia
e il senso della morte. Ricorrenti sono il gusto per
l’artificio e l’eleganza ricercata contro la volgarità
dell’arte di massa; il fascino dell’Oriente lontano o
l’attrazione per le droghe; il rifiuto della solidarietà sociale, pur nel vagheggiamento d’indistinti ideali umanitari; la sensualità provocante; l’erotismo morboso; il culto
per l’esoterico e il satanico, non di rado accompagnato
da slanci mistico-devozionali e da ritorni alla fede cattolica. Vengono rifiutate le tecniche letterarie fondate sul
valore logico e razionale della parola; se ne cercano altre
nuove, che facciano leva sugli elementi evocativi e allusivi
e quindi sulle suggestioni fono-simboliche del linguaggio. Si dà così spazio a un forte estetismo e a una letteratura simbolista, capace di far interagire tutte le differenze musicali, figurative, poetiche di un segno letter-
ario. In Italia il vero portavoce del nostro decadentismo
fu D’Annunzio, mentre Pascoli fondò, in modo originale e diverso dal contesto europeo, la poesia simbolista italiana.
Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio (1863-1938) è certo uno
dei protagonisti del decadentismo europeo.
Maestro della tecnica letteraria e del virtuosismo,
provò quasi tutti i generi, lavorando intorno a una
scrittura capace di innumerevoli stili e registri.
L’Alcyone resta uno dei libri più belli dell’inizio
secolo. Ma la sua opera, per quanto complessa e
sfuggente, non appare solo come la distillazione di
tutte le possibilità romantiche: è anche il sostrato
di tutte le svariate proposte novecentesche.
D’Annunzio sembra nel bene e nel male il padre
del Novecento.
• Gli esordi e il periodo romano
•
•
•
•
“Primo vere”
“Canto novo”
Le “Novelle della Pescara”
Il superuomo e il vivere inimitabile
Compiuti i primi studi nella città natale di Pescara, nel 1874 fu mandato a Prato, dove rimase fino
al conseguimento della licenza liceale (1881). Il suo
talento trovò una prima espressione nei versi di
Primo vere (1879), ispirati al modello carducciano,
che lo segnalarono all’attenzione della critica.
Iscrittosi alla facoltà di lettere di Roma, non portò
mai a termine gli studi, trovando nei circoli letterari
della capitale e nei giornali cittadini (“La Fanfulla
della Domenica” e la “Cronaca bizantina”)
l’occasione per mettersi in vista. Nel 1882 uscirono
il Canto novo, in cui affermò la propria visione
panica e sensuale della vita, e i bozzetti narrativi
di Terra vergine, ambientati nel natio Abruzzo, in
cui è palese l’influsso di Verga. Il 1886 è l’anno
dei racconti di San Pantaleone, confluiti poi, insieme ad altri, nelle Novelle della Pescara (1902).
Seguì un periodo di crisi e di ripensamento che
lo indusse a confrontarsi e misurarsi con quanto
di meglio e di più affine alla sua sensibilità era
nel decadentismo europeo. Nelle letture di Nietzsche e Wagner, e in particolare nella concezione del
“superuomo”, trovò invece la legittimazione “filosofica” per quel “vivere inimitabile”, sprezzante
di ogni morale comune, che avrebbe caratterizzato
gran parte della sua opera e della sua vita.
IL DECADENTISMO EUROPEO
A Parigi alcuni intellettuali bohémien, dall’esistenza
sregolata e anticonformista, raccolti in cenacoli letterari o attorno a riviste programmatiche, diedero vita
alla corrente artistica del decadentismo, assumendo
in positivo il termine con cui la critica borghese li
definiva spregiativamente: in realtà, essi intendevano
esprimere il loro gusto per gli elementi raffinati ed eleganti delle epoche storiche di decadenza. Padre spirituale di questi decadenti (fra i quali le voci più alte
furono Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé e Arthur Rimbaud) fu Charles Baudelaire. A lui si ispirò la figura del poeta veggente, tutto teso a esplor-
are l’ignoto, che soppiantava l’idea romantica del poeta vate. Dalla precedente scuola del Parnasse
provennero eleganza e preziosità di stile: dall’idea
parnassiana dell’“arte per l’arte” si elaborò infatti la
visione estetica di “vita come arte”. Il fenomeno non
fu solo francese; nell’ultimo decennio del sec. XIX
esso si diffuse in diversi paesi europei, che accolsero
il decadentismo sperimentando forme espressive diverse, dalla lirica sussurrata ed evocativa alla prosa
altisonante e retorica, dalle espressioni esplicite e
crude alle eleganti chiacchiere da salotto (in Inghilterra, J. Ruskin, A.C. Swinburne, D.G. Rossetti. O.
Wilde ; in Germania, R.M. Rilke e H. von Hofmannsthal; in Belgio, M. Maeterlinck; nei paesi
scandinavi il norvegese H. Ibsen e lo svedese J.A.
Strindberg).
• Il successo: i romanzi e la grande poesia
•
•
•
•
Il torbido psicologismo dei romanzi
La morbida cantabilità lirica
L’agone politico
Il teatro
• La grande poesia: le “Laudi” e “Alcyone”
Espressione di tale travaglio furono i romanzi Il
piacere (1889); Giovanni Episcopo (1891);
L’innocente (1892); Il trionfo della morte (1894);
Le vergini delle rocce (1895). In essi la tradizione
ottocentesca viene stemperata in personaggi e atmosfere sovraccarichi di torbido e morboso
psicologismo. Svolto nel frattempo il servizio militare a Roma, nel 1891 fu costretto dai creditori a
trasferirsi a Napoli, dove rimase due anni, scrivendo sul “Mattino” di Edoardo Scarfoglio e Matilde
Serao. Sul fronte lirico, dopo La Chimera (1890) e
le Elegie romane (1892), pubblicò le Odi navali e
il Poema paradisiaco (1893), che segnò una tappa
importante nell’evoluzione del linguaggio poetico
italiano, aperto a una morbida cantabilità, a ritmi e
a suggestioni oniriche.
Nel 1897 si buttò nell’agone politico, risultando
eletto deputato per la Destra; ma non comparve mai
alla Camera, se non per passare, due anni dopo,
con spettacolare disinvoltura sui banchi della Sinis-
tra (“vado verso la vita”). Intanto aveva conosciuto
la grande attrice Eleonora Duse (ritratta più tardi
in maniera impietosa nel romanzo Il fuoco, 1900),
con cui ebbe un lungo sodalizio d’arte e di vita.
Si cimentò infatti nel teatro, genere per il quale, a
partire dal Sogno d’un mattino di primavera (1897),
scrisse numerose opere: La città morta (1898); La
Gioconda (1899); La gloria (1899); Francesca da
Rimini (1902); La figlia di Iorio (1904); La fiaccola
sotto il moggio, (1905); La nave (1908); Fedra
(1909). Il suo capolavoro è La figlia di Iorio, in
cui la lingua si adegua mirabilmente alla sacralità
orgiastica e primitiva della vicenda. Nella quiete
della Capponcina, la villa di Settignano, presso
Firenze, nacquero i primi tre libri di poesia delle
Laudi: Maia (1903), Elettra (1903) e Alcyone
(1904). Soprattutto a quest’ultimo è giustamente affidata la sua fama. L’uomo e la natura appaiono
come trasfigurati in una sembianza eterea, senza
contorni, in cui la parola è una musica avvolta nelle
proprie magiche eufonie e il verso è davvero tutto:
mito, canto, solarità, metafora di acqua, cielo e
terra, oblio segreto, ricordo e presagio, culla e des-
tino di ogni cosa. D’Annunzio scrisse ancora in versi le patriottiche Canzoni delle gesta d’oltremare
(1912), pubblicate sul “Corriere della Sera” durante
la guerra di Libia, e i Canti della guerra latina, usciti sullo stesso giornale tra il 1914 e il 1918, che
andarono a comporre rispettivamente Merope e Asterope, il quarto e quinto libro delle Laudi (gli altri due, previsti dal progetto originario, non vennero mai scritti); ma in queste opere, pur conservando spesso un notevole magistero formale e un
raro mestiere, di rado seppe evitare le secche della
retorica.
• Il periodo francese
Per i debiti accumulati dagli sperperi di un tenore
di vita superiore ai pur cospicui diritti d’autore (nel
1910 aveva intanto pubblicato l’ultimo romanzo,
Forse che sì forse che no), venne il sequestro della
Capponcina, che lo costrinse al “volontario esilio”
in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi come ospite
d’onore della buona società parigina, si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica. Qui scrisse ancora
per il teatro, in una totale identità fra parola e
musica, opere di cesellata maniera (alcune in un
francese antico che suscitò l’ammirazione di
Anatole France): Le martyre de Saint Sébastien
(1911, musicato da Claude Debussy), La Pisanelle
(1912, musicata da Ildebrando Pizzetti), Parisina
(1913, musicata da Pietro Mascagni). Nel 1911
cominciarono ad apparire sul “Corriere della Sera”
le Faville del maglio, che inaugurarono una prosa
di memoria “interiore” e di ripiegamento. L’anno
successivo la morte di Giovanni Pascoli e di
Alphonse Bermond, proprietario della villa di Arcachon in cui abitava, gli ispirarono Contemplazione della morte, che contiene alcune tra le
sue pagine migliori. Scrisse anche il racconto La
Leda senza cigno (1913, pubblicato nel 1916).
• La guerra e gli ultimi anni
•
•
•
•
Il rientro in Italia
L’uomo d’azione
L’avventura di Fiume
Il ritiro a Gardone
Ai primi di maggio del 1915 rientrò in Italia per
schierarsi con gli interventisti, che chiedevano la
partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa contro Germania e Austria. Partecipò alla guerra e con valore: fu protagonista di imprese come la beffa di Buccari e il volo
su Vienna, che divennero leggenda. Per la perdita
dell’occhio destro e la cecità temporanea a cui fu
costretto egli dettò il Notturno (1921), il “comentario delle ténebre” dallo stile levigato e scarnito.
La delusione per la vittoria “mutilata” lo spinse a
guidare l’occupazione di Fiume (settembre 1919)
e ad assumere la Reggenza del Carnaro, provocando l’intervento dell’esercito italiano in quello
che D’Annunzio chiamò “Natale di sangue” del
1920: furono questi avvenimenti l’apogeo e insieme la fine della sua parabola di uomo
d’azione. Nel 1921 si ritirò nei pressi di Gardone,
sul lago di Garda, in una villa che divenne il Vittoriale degli Italiani, un monumento elevato a se
stesso e una dorata prigione, in cui Mussolini lo
confinò ricoprendolo di onori e riconoscimenti (la
nomina a principe di Montenevoso nel 1924;
l’edizione, a spese dello Stato, dell’Opera Omnia,
nel 1926; la presidenza dell’Accademia d’Italia,
1937). Nel Vittoriale attese alle ultime opere: i due
volumi delle Faville del maglio (1924 e 1928), i
frammenti narrativo-memoriali del Libro segreto
(1935), Le dit du sourd et du muet (1936) in
francese antico.
• Il giudizio critico
• La letteratura come discorso infinito
• Un modello espressivo consapevolmente moderno
Il merito maggiore di D’Annunzio è l’idea che la
letteratura possa essere un discorso infinito: la facoltà estrema non solo di riuscire a conquistare
ma anche a raccontare la straordinaria vitalità
dell’esistenza. D’Annunzio sperimentò e provò
ogni possibilità espressiva. Toccò in qualche modo
i limiti come i difetti della tradizione letterarioumanistica, stabilendo quelle “colonne d’Ercole”
che tutti i poeti italiani del Novecento sapranno
tanto più rispettare quanto più si sentiranno difesi
da quegli stessi limiti della parola, ormai definiti
e dunque invalicabili. Ciò che più conta in lui è
il senso altissimo di un’esperienza letteraria che
cercò di essere un modello espressivo assoluto,
consapevolmente moderno, anche grazie alla
tanto disprezzata retorica. Eugenio Montale non
esitò ad affermare che per superare D’Annunzio era
indispensabile “attraversarlo”. In effetti, nonostante
il molto artificio, le troppe vuote sonorità e la diffusa assenza di un solido senso morale, sacrificato
per un’irraggiungibile “favola bella”, ciò che è più
vivo nella sua opera rappresenta un passaggio obbligato per intendere appieno quel che avvenne durante e dopo la sua vita.
Giovanni Pascoli
• La novità della poesia pascoliana
Giovanni Pascoli è forse il poeta, in bilico fra
Ottocento e Novecento, che più radicalmente ha
contribuito allo svecchiamento della lirica italiana. La sua produzione è un vertice del simbolismo
europeo. Riprese Leopardi nel punto più nevralgico: nella ferita e insieme nel mistero dolente della
natura. Con Myricae diede un nuovo senso alchemico e sognante al perché delle cose; con i Poemetti e i Canti di Castelvecchio lasciò che quel mistero si aprisse in una muta bellezza cristallina; con i
Poemi conviviali poi si permise anche di più: di ripercorrere, lungo quegli stessi segreti, la continuità
fra antico e moderno, fra la classicità e la modernità.
• La vita
•
•
•
•
•
•
Le disgrazie familiari
L’impegno politico e il carcere
L’insegnamento
La critica dantesca
Raccolte storiche e civili
La produzione in latino
Nato a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto
di otto figli, trascorse la prima infanzia nella tenuta
dei principi Torlonia, di cui il padre era amministratore. A sette anni entrò, con i fratelli Giacomo
e Luigi, nel collegio degli Scolopi di Urbino, dove
nel 1867 lo colse la notizia dell’assassinio del
padre Ruggero in un agguato. Il drammatico
evento segnò in maniera decisiva la sua vita e la sua
poesia. A quella morte seguirono nel 1868 quella
della madre Caterina, stroncata dal dolore, e, nel
volgere di breve tempo, quelle della sorella Margherita e del fratello Luigi. Con una borsa di studio
si iscrisse all’università di Bologna, dove ebbe
come professore Carducci. Ma dopo il primo anno
disertò le lezioni e prese a frequentare gli ambienti
socialisti. Nel 1875, per aver partecipato a una
manifestazione, venne privato del sussidio economico che gli permetteva di frequentare
l’università; nel 1876 la morte del fratello Giacomo
rese ancor più precaria la situazione della famiglia.
Nel 1878, durante una dimostrazione a favore degli
anarchici, fu arrestato. Uscito di prigione dopo
circa tre mesi anche per l’intervento di Carducci,
riprese gli studi e riuscì a laurearsi a pieni voti
(1882). In quello stesso anno andò insegnare al liceo di Matera, poi a Massa e nel 1887 passò a
Livorno, dove ricostituì il nucleo familiare con le
sorelle Ida e Maria. A Livorno nel 1891 pubblicò
la raccolta Myricae, 22 componimenti poetici che
crebbero fino ai 156 della sesta edizione del 1903.
Nel 1892 si aggiudicò la prima delle tredici
medaglie d’oro vinte al concorso di poesia latina
di Amsterdam. Tre anni più tardi ottenne la cattedra di grammatica latina e greca all’università
di Bologna. Acquistata una piccola proprietà a
Castelvecchio di Barga, vi si trasferì con la sorella
Maria. Nel 1897 uscirono i Poemetti (poi sdoppiati
in Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1907) e
fu trasferito all’università di Messina, dove lavorò
ai tre volumi di critica dantesca: Minerva oscura
(1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902). Nel 1903 pubblicò i Canti di
Castelvecchio e passò a Pisa. Ritiratosi Carducci
dall’insegnamento, gli succedette nella cattedra
di letteratura italiana dell’università di Bologna
(1906). Nel frattempo erano apparsi i Poemi con-
viviali (1904), che inaugurarono la seconda fase
della sua produzione. Uscirono poi le raccolte di argomento storico e civile: Odi e inni (1906); Canzoni di re Enzio (1911); Poemi italici (1911); Poemi
del Risorgimento (1913, postumo). Le prose, edite
nel 1903 con il titolo Miei pensieri di varia umanità, confluirono poi nel volume Pensieri e discorsi
(1907). Morì a Bologna nel 1912. Da ricordare
sono poi i Carmina (1914), che raccolgono la sua
poesia lirica in latino; scritti fra il 1885 e il 1911,
sono divisi in varie sezioni secondo l’argomento.
Notevole, anche se di discontinuo valore, la restante produzione in lingua latina (da citare i poemi
Veianus, 1891; Gladiatores, 1892; Fanum
Apollinis, 1904; Thallusa, 1911).
• “Myricae” e “Canti di Castelvecchio”
•
•
•
•
Il mondo delle piccole cose
Il mistero della morte
La malinconica pace agreste
Una poesia che sfiora il sentimentale ma non vi
cade
• La ricerca linguistica
Fin dall’esordio, quasi senza rendersene conto,
Pascoli scardinò dall’interno la lingua della poesia
italiana, con esiti sorprendenti. Emblematico da
questo punto di vista il sonetto Rio Salto, scritto nel
1877, quando il poeta non aveva ancora compiuto
ventidue anni, e confluito poi in Myricae: Carducci,
che in quello stesso anno pubblicava le Odi barbare ed era il nuovo maestro, appare già alle spalle,
se non per qualche concessione vagamente oleografica che ancora aleggia nelle curve del verso.
Domina nella poesia di Pascoli il mondo delle
piccole cose, che farà scuola al D’Annunzio del
Poema paradisiaco e a tutti i crepuscolari. Una
poesia impressionistica, dunque, per certi effetti
decadente, ma di un decadentismo privo di accenti morbosi o di malsane voluttà d’alcova:
l’eros, o semplicemente l’amore per la donna, non
esiste, se non per timidissime occhiate furtive.
Siamo davvero davanti alla voce di un bambino mai
diventato adulto, fermatosi a quel Dieci agosto in
cui gli uccisero il padre e poi la famiglia. Accanto
al mistero, che avvolge in un tutto l’infinità delle
piccole cose e delle grandi e quasi precipita nel
nulla, la morte, che ne è diretta emanazione, permea di sé la vita. Ma non si tratta della morte romantica, intrisa di ideali fino a diventare addirittura
“bella”: qui la morte è personale, chiusa nell’orto
domestico degli affetti, delle care memorie personali; è la voce dei morti, eco e ricordo di cose lontane, perdute nel breve paradiso dell’infanzia. In
quel paradiso senza luce e senza ombre Pascoli
si rivede bambino, diventa Zvanî, Giovannino, la
voce stessa di sua madre nella morbida cadenza del
dialetto, il richiamo del cuore e della casa avita, del
tempo che fu e non torna, ma che egli si ostina a richiamare.
Pascoli dà il meglio di sé e attinge la perfezione
in queste malinconie venate di pace agreste, di
spighe mature, di brume mattutine o tepidi
crepuscoli che sfanno nell’azzurro nell’ora che
pensa ai suoi cari. Qui, in questa straordinaria
bellezza, l’evocazione non è che una struggente
preghiera della sera. Senza dubbio ci vuol poco
per cadere nei gorghi del facile effetto e del sentimentale, nella lacrima facile. Ma il Pascoli
migliore, “l’ultimo figlio di Virgilio” come lo
definì D’Annunzio (e il titolo Myricae è tratto da un
verso delle Bucoliche che ricorda le “umili tamerici”), non vi cade mai: li sfiora, li vede, ma se
ne tiene lontano. Sono queste la sua forza e la
sua grazia, quel che fa della sua opera un esempio
straordinario di poesia moderna. Gli ultimi versi de
La mia sera (ancora dai Canti di Castelvecchio)
sembrano contenere in essenza il “profumo” di
Pascoli, lo fanno sentire in tutta la sua fragranza;
ogni parola, e persino i punti di sospensione, hanno
un significato o rimandano a un luogo ben preciso
della sua geografia reale e onirica: “là, voci di
tenebra azzurra... / Mi sembrano canti di culla, / che
fanno ch’io torni com’era... / sentivo mia madre...
poi nulla... / sul far della sera”. Pascoli dunque non
si limita a evocare la natura con un richiamo indiretto, ma misteriosamente la nasconde sotto la sua
scrittura poetica, in un gioco sottile di assonanze
e di riverberi onomatopeici (la trascrizione mimetica del suono di una campana o del verso di un
uccello). Tutto questo è il frutto di una sapienza
letteraria che ha pochi confronti. Qui gli affetti si
librano in un sogno notturno, diventano il simbolo di un dolore perenne.
LA POETICA DEL “FANCIULLINO”
Secondo quanto è teorizzato nel famoso saggio Il fanciullino, che Pascoli scrisse per la rivista “Il Marzocco” nel 1897 e in cui espresse i canoni della propria poetica, nella poesia parla una voce “fanciulla”,
una voce che guarda e sente le cose con meraviglia,
cogliendone il mistero in forma diretta e indifesa, per
brevi lampi e raffinati tocchi di colore. Pascoli crede
che la poesia sia regressione, caduta in una condizione quasi “inconscia”, dove è finalmente possibile
trascrivere, piuttosto che rappresentare, i segreti delle
cose. Il “fanciullo” è molto più che una semplice proclamazione di innocenza: è possibile riconoscervi la
radicale adesione della parola all’ombra dei misteri e
del dolore.
• Le raccolte successive
• Il mito classico, poi storico e civile
• Il virtuosismo decadente
Nei Primi poemetti, poi nei Poemi conviviali, e ancor più da Odi e inni in avanti, questa felicità espressiva fatta di inquiete vibrazioni della parola,
questi toni al tempo stesso concreti e indeterminati
vengono meno, si corrompono. Quegli stessi termini tecnici, arcaici e popolari che in Myricae e
nei Canti di Castelvecchio danno sapore alla
sensazione e anzi la svelano, qui, uniti al frequente
ricorso a frasi ed espressioni tratti da altre lingue,
perdono vigore, sfaldandosi nella loro stessa abbondanza. Lo sforzo di rinnovamento porta al mito,
prima classico e poi storico e civile; anche se spesso
la soluzione è generica e superficiale (salvo alcuni
esiti felici nei Poemi conviviali, dove Ulisse, Alessandro, Socrate, Saffo, Esiodo e altri personaggi
della classicità sono rivissuti nella nostalgia
dell’idillio come emblemi di un passato fattosi
sogno). Quanto più il poeta esce da se stesso e dal
suo mondo per cercare altri approdi, tanto più di-
venta decadente: il virtuosismo sostituisce la virtù
espressiva e la lingua si fa linguaggio “speciale”,
ricco di orpelli, bizantino, parnassiano, ma forse
privo di quella bellezza radicale e sapienziale riconoscibile nelle opere maggiori.
• Il giudizio critico
• Poeta di crisi
• L’influenza sul Novecento
Pascoli resta un grandissimo poeta: l’unica risposta
possibile – per certi versi opposta – alla grandezza
di Leopardi. Pascoli mise in atto una rivoluzione
radicale, anche se lieve, sotterranea o, come disse
Giacomo Debenedetti, “inconsapevole”. Poeta di
crisi perché privo di certezze, immise in forme antiche il soffio di una sensibilità già novecentesca,
pervasa dal dubbio e non più in grado di dare risposte assolute. Artista di trapasso (se si vuole di
compromesso), inaugurò e percepì le inquietudini
che erano nell’aria. Grande fu la sua influenza
presso i crepuscolari, giungendo fino a lambire alcuni aspetti dell’ermetismo. La sua sperimentazione, spinta al limite del balbettio e dello sgretolamento metrico e prosodico (onomatopea, uso
del parlato, multilinguismo), ebbe non poca parte
nell’evoluzione di poeti del Novecento come Eugenio Montale, Umberto Saba, Carlo Betocchi,
soprattutto per il modello stilistico, il timbro
dell’espressione, la possibilità stessa del conoscere
poetico.
SCHEMA RIASSUNTIVO
DECADENTISMO
Il decadentismo si sviluppa a partire dagli anni ’80
e con origine a Parigi. In opposizione al positivismo
esalta l’irrazionalità, il mistero, l’estetismo e la prospettiva simbolista.
D’ANNUNZIO
Vita
Gabriele D’Annunzio (1863 -1938) vive sprezzante
di ogni morale comune, buttandosi con lo stesso ardore nella vita privata e pubblica e nella produzione
letteraria. Affronta quasi tutti i generi letterari. Tipico
esponente del decadentismo, ha il grandissimo merito
di sprovincializzare la nostra letteratura.
Opere
Periodo verista: Canto novo (1882), Novelle della
Pescara (1902). Periodo decadente: i romanzi Il piacere (1889), L’innocente (1892), Il trionfo della
morte (1894); in poesia, Poema paradisiaco (1893).
Produzione teatrale: La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908). Il capolavoro poetico: Laudi: Maia (1903), Elettra (1903)
e Alcyone (1904). Ultimo periodo: La Leda senza
cigno (1913), Notturno (1921), Libro segreto (1935).
PASCOLI
Giovanni Pascoli (1855-1912) vive un’infanzia e una
giovinezza turbate da gravi lutti familiari. Dopo anni
di impegno politico, diviene docente universitario.
Opere
Opere poetiche: Myricae (1891); i Poemetti (1897);
i Canti di Castelvecchio (1903); Poemi conviviali
(1904), Odi e inni (1906); Canzoni di re Enzio
(1911); Poemi italici (1911); Poemi del Risorgimento
(1913, postumo). Notevole anche la sua produzione
in latino.
Poetica
Nella poesia parla una voce “fanciulla”, che coglie il
mistero in forma diretta e indifesa, per brevi lampi e
raffinati tocchi di colore. La poesia è la trascrizione
del mistero delle cose. La sua poesia simbolista, la
sperimentazione espressiva riescono a gettare le basi
per la grande esperienza poetica del Novecento.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono le tematiche e gli esiti formali del
decadentismo?
2. Che cosa era per D’Annunzio il “vivere inimitabile”?
3. Come appaiono l’uomo e la natura in Alcyone?
4. Come appare la natura in Pascoli?
5. Qual è la differenza tematica e stilistica fra i
Canti di Castelvecchio e i Poemi conviviali?
6. Cos’è la “poetica del fanciullino”?
IL NOVECENTO
L’inizio del secolo fino alla prima guerra mondiale è
ancora
caratterizzato dall’influsso dei tre grandi poeti
a cavallo tra Ottocento e Novecento: Carducci,
Pascoli
e D’Annunzio. A Carducci e D’Annunzio si ribellano
per via ironico-esistenziale il crepuscolarismo
e il cenacolo della “Voce”, e per quella avanguardistica
il futurismo. Al contrario la sperimentazione pascoliana
viene accolta come modello di stile. Parallelamente
si realizzano le due maggiori esperienze letterarie di
livello
europeo: la drammaturgia di Pirandello e la narrativa
di Svevo. Gli anni ’20, accanto a chiari segni di richiamo
alla tradizione, vedono l’affermarsi di due grandi
personalità: Ungaretti e Montale. L’ermetismo
che contraddistingue il decennio successivo, sembra
concentrare la creatività poetica sulle valenze puramente
espressive della parola, cercando rifugio
dalla realtà storica in una vaga dimensione religiosa
La seconda guerra mondiale costringe a compiere
scelte
decisive e drammatiche e rimette in moto
una concezione della letteratura segnata
dall’impegno
politico-civile, che avrà nel neorealismo il suo momento
culminante. L’esordio di scrittori come Pasolini,
Sciascia
e Calvino si affianca al già sicuro magistero linguistico
e intellettuale di Moravia e Gadda, destinati a
svolgere
un ruolo guida nei decenni successivi. Il sempre
più accentuato contrasto tra cultura e società ispira
la contestazione e l’impegno delle neoavanguardie
degli anni ’60. Nell’ultimo quarto di secolo,
a un progressivo affievolirsi della poesia in lingua,
si contrappone il rifiorire dei poeti dialettali. Nella
prosa
prevale un generale appiattimento sulla cronaca,
alla ricerca di trame narrative di non ampio respiro
vicine
al taglio delle sceneggiature cinematografiche.
1 AL DI LÀ DEL
DECADENTISMO
Il secolo si apre all’insegna della ricerca espressiva e
teorica. In Italia e in Europa dominano le “avanguardie”.
La presenza di Pascoli e D’Annunzio è ancora molto forte.
Le prospettive letterarie del primo decennio possono essere così schematizzate: il crepuscolarismo, che rovescia
il mito romanticodecadente del poeta in favore di una
nuova ironica semplicità; il futurismo, che si propone
come nuovo linguaggio della modernità; il dibattito delle
riviste e l’apertura alla poetica del “frammento”, cioè
l’avvio a una nuova tensione poetico-morale. Dal primo
dopoguerra la letteratura trova una testimonianza assolutamente originale e ormai libera da qualsiasi modello
decadente.
Il crepuscolarismo
• Una poesia intimista che rifiuta la retorica carducciana e l’estetismo dannunziano
Il critico Giuseppe Antonio Borgese parlò per
primo di “crepuscolarismo” in un articolo sul
giornale “La Stampa” del 1910, per definire la collocazione storica di una tendenza letteraria che
costituiva, secondo lui, il tramonto, il crepuscolo
appunto, della grande tradizione poetica italiana
dell’Ottocento e nella quale si riconoscevano principalmente Gozzano, Corazzini, Moretti, Govoni.
Questi poeti non costituirono una scuola o un movimento; furono piuttosto accomunati dal rifiuto polemico della retorica carducciana e del mondo
estetizzante di D’Annunzio e uniti dall’adesione a
una poesia intimista, fatta, come dice Gozzano, di
“buone cose di pessimo gusto”. Maestri prediletti
furono il Pascoli della poetica del “fanciullino” e il
D’Annunzio meno retorico del Poema paradisiaco
(v.p. 255).
• Il mondo poetico crepuscolare
• Il mondo della provincia
• La noia della vita quotidiana e il malessere
• Linguaggio colloquiale
La poesia crepuscolare illustra situazioni ricorrenti,
attinte per lo più dal piccolo mondo della provincia.
Si descrivono gli arredi pretenziosi del “salotto
buono” della piccola borghesia o le stanze di un ospedale. Si lamenta la noia dei pomeriggi domenicali e lo stanco trascinarsi della vita di ogni giorno,
situazioni elette a simboli di un malessere quotidiano che nasce dalla crisi d’ogni certezza. I poeti non credono più ai valori tradizionali, né filosofici, né politici né scientifici, si sentono soli e
incompresi e si chiudono nel proprio disagio, che
conosce lo smarrimento di fronte al reale e il ripiegamento in se stessi, lo sguardo distaccato e
ironico capace di proteggere da ogni coinvolgimento emotivo. In accordo con i temi quotidiani e
dimessi, il crepuscolarismo ricerca un tono basso,
colloquiale, un andamento prosastico e discorsivo.
Il linguaggio si adegua alla semplicità della materia.
• Guido Gozzano
• Salute minata
• Il viaggio in India
• La poetica
Il torinese Guido Gozzano (1883-1916) è forse
il maggiore poeta crepuscolare. Non terminò gli
studi giuridici e frequentò i circoli intellettuali. Del
1907 è la prima raccolta La via del rifugio, che
venne ben accolta. Nello stesso anno l’aggravarsi
della tubercolosi sollecitava subito di recarsi nel
sanatorio di Davos, sulle Alpi svizzere, invece, con
una scelta inopportuna, egli decise di recarsi al
mare, presso Genova. Negli anni successivi, con
alterne speranze e peggioramenti, trascorse lunghi
periodi tra la Riviera ligure e la montagna
piemontese, preparando la seconda raccolta, I colloqui (1911), che ripeté il successo della prima.
La malattia non gli dette tregua; nel 1912 si recò
in India alla ricerca di un’impossibile guarigione.
Rientrò in Italia pochi mesi dopo e scrisse sulla
“Stampa” interessanti resoconti, raccolti poi nel
volume Verso la cuna del mondo (1917, postumo),
mentre distrusse le poesie erotiche scritte durante
il viaggio. Nel 1914 pubblicò alcune parti frammentarie del poemetto Farfalle. Epistole entomologiche, che rimase incompiuto, e raccolse in
volume I tre talismani, sei fiabe scritte per il “Corriere dei piccoli”. Dopo la morte vennero edite La
principessa si sposa (1917); L’altare del passato
(1918); L’ultima traccia (1919). Il carattere principale delle sue poesie è un’ironia sottile e dissacrante espressa con una scelta precisa di contenuti,
stile e lessico. Lirismo e prosaicità convivono in
un equilibrio insolito nella tradizione italiana. Nascono veri e propri personaggi, come Totò Merùmeni, esteta e libertino, l’avvocato nostalgico del
poemetto La signorina Felicita, la Carlotta di
L’amica di nonna Speranza, immersa nella luce
ambigua di un salotto antico pieno di “buone cose
di pessimo gusto”. Se nei Colloqui il registro polemico e quello nostalgico sono dichiaratamente
crepuscolari, nello splendido abbozzo del poema
incompiuto Farfalle, il tono risulta improvvis-
amente elevato e dolente, con accenti che ricordano
l’ultimo Leopardi.
• Sergio Corazzini
Il romano Sergio Corazzini (1886-1907), animatore di un cenacolo letterario, minato dalla tubercolosi, morì giovanissimo. Pubblicò in vita le raccolte di versi: Dolcezze (1904); L’amaro calice e Le
aureole (1905); Piccolo libro inutile, Elegia (una
sola poesia di ottantatré endecasillabi) e Libro per
la sera della domenica (1906). Postume apparvero
le Liriche (1908 e 1922). Esponente tipico del
crepuscolarismo, con forti echi dei simbolisti
francesi e fiamminghi, ha composto versi in cui la
vita diventa attesa quasi incorporea della morte, e la
parola esprime una perenne malinconia, nelle forme
di un sommesso e dolente monologo. La sua è una
produzione esangue ed estenuata.
• Corrado Govoni
• Un procedimento accumulativo e allusivo
Nativo di Tàmara, presso Ferrara, Corrado Govoni
(1884-1965) fu autodidatta. Nel 1903, a meno di
vent’anni, esordì con due raccolte: Le fiale, in stile
dannunziano, e Armonia in grigio et in silentio, di
toni crepuscolari ma anche ironici, seguite da Fuochi d’artificio (1905) e Gli aborti (1907). Si avvicinò quindi alla poetica del futurismo con le raccolte: Poesie elettriche (1911); Rarefazioni (1915);
Inaugurazione della primavera (1915 e 1920).
Dopo alcuni romanzi, tra cui La strada sull’acqua
(1923) e Misirizzi (1930), tornò alla poesia con
componimenti in cui prevalgono un accentuato decorativismo e la ricerca di un ritmo tenue e cantabile:
Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924); Canzoni
a bocca chiusa (1938); Govonigiotto (1941). La
raccolta Aladino (1946) fu scritta in memoria del
figlio ucciso alle Fosse Ardeatine. Le ultime raccolte sono Stradario della primavera (1958) e La
ronda di notte (1966, postumo). La sua opera è
un repertorio ricchissimo d’immagini, ordinate
secondo un procedimento accumulativo e allusivo.
• Guido Gozzano
• Un mondo minimo, mediocre
n Marino MorettiRomagnolo, Marino Moretti
(1885-1979), visse a lungo a Firenze dove frequentò una scuola di recitazione e conobbe Aldo
Palazzeschi, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. Al 1905 risale la prima raccolta di versi Fraternità, seguita da Poesie scritte col lapis (1910),
Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti
(1915). Rifiutò tutti i modelli poetici, se si esclude
l’influenza di Pascoli, contrapponendo alla poesia
dei suoi tempi una senza “remo” né “ali”, senza
verità da trasmettere, secondo i moduli crepuscolari. Ne scaturisce un mondo minimo, grigio e
triste nella sua mediocrità quotidiana, fatto di
cose semplici e comuni, di lessico elementare, di
ricordi dell’infanzia, degli affetti più importanti,
come quello della madre. Si dedicò anche alla narrativa, componendo romanzi che ottennero un discreto successo di pubblico: I puri di cuore (1923) e
La vedova Fioravanti (1941) sono i risultati più significativi della sua vasta produzione. In vecchiaia
tornò alla poesia con ben quattro raccolte: L’ultima
estate (1969); Tre anni e un giorno (1971); Le
poverazze. Diario a due voci (1973); Diario senza
le date (1974).
UN CASO A PARTE: ALFREDO PANZINI
Lo scrittore Alfredo Panzini (1863-1939), allievo di
Carducci, insegnante per molti anni, collaborò a numerose riviste e nel 1929 fu nominato Accademico
d’Italia. I suoi primi romanzi (La lanterna di Diogene, 1907; Il viaggio di un povero letterato, 1919)
non si possono certo definire libri crepuscolari, però
il tono sobrio e medio, qualcosa di provinciale eppure
di quotidiano, fanno pensare a una specie di delicato
classicismo. Di grande successo di pubblico i romanzi Io cerco moglie! (1920) e Il padrone sono me!
(1921), che tuttavia rivelano una generica superficialità narrativa.
Il futurismo
Il futurismo è il movimento d’avanguardia più
importante di inizio secolo. Si basa sul rifiuto di
tutte le forme artistiche tradizionali; cerca un linguaggio adeguato alla nuova civiltà delle macchine e basato sul vitalismo dell’epoca moderna. Il
futurismo coinvolge tutte le forme artistiche dando
origine a veri e propri capolavori nell’ambito delle
arti plastiche e visive. Volle essere soprattutto un
nuovo costume rivoluzionario di vita individuale e
collettiva; per questo si diffuse in vari modi in tutta
Europa e finì per anticipare l’ideologia fascista.
• Caratteri generali
• Le trasformazioni socio-economiche e tecnologiche
• Nuova concezione della cultura
• Il primo “Manifesto del futurismo”
• Ottica antiborghese
• Parole in libertà
• Le posizioni politiche
Alla base del futurismo fu l’intuizione che la cultura del Novecento non avrebbe potuto non tener
conto dei poderosi processi di trasformazione
socio-economica in atto: la rapida industrializzazione, la nuova struttura e la nuova funzione delle
città, il trionfo della velocità, protagonista dei
mezzi di comunicazione (come la radio) e dei mezzi
di trasporto (l’automobile, l’aereo e in generale
quelli mossi dal motore a scoppio), infine la stessa
violenza distruttiva delle nuove armi. Ai futuristi risultò inadeguata la vecchia concezione della cultura
come riflessione e comprensione razionale della realtà; così le contrapposero l’idea di una cultura
incentrata sul bisogno di agire e su un progetto
artistico capace di rappresentare il dinamismo.
L’elaborazione teorica fu affidata ai cosiddetti
“manifesti”. Il primo Manifesto del futurismo fu
pubblicato il 20 febbraio 1909 da Filippo Tommaso
Marinetti, sulle pagine del quotidiano “Le Figaro”
di Parigi e richiamava l’atto di fondazione di un
movimento politico: i futuristi aspiravano a modificare radicalmente la società. Il futurismo, dunque,
si pose in un’ottica dichiaratamente antiborghese: fu contro il perbenismo, ogni forma di
tradizione, il parlamentarismo e la democrazia; sostenne invece la positività assoluta del gesto ribelle
e libertario, dell’eroismo fine a se stesso, del disprezzo dei sentimenti, della guerra come “sola igiene del mondo”. Tra i vari successivi manifesti
che ribadivano e ampliavano l’intento provocatorio
del primo, il più interessante per l’elaborazione culturale e le conseguenze fu il Manifesto tecnico della
letteratura futurista (1912), che propose la distruzione di tutti i nessi sintattici per lasciare le
“parole in libertà” e realizzare l’espressione
dell’“immaginazione senza fili”, fondata su un uso
estremo dell’analogia e dell’onomatopea per
restituire sulla pagina l’effetto bruto e immediato
del rumore. Una “rivoluzione tipografica” doveva
realizzarsi con l’abolizione della punteggiatura e
l’assunzione di una grafica capace di trasmettere
immediatamente la diversa importanza delle parole.
Apparvero anche manifesti tecnici di altre arti quali
la pittura, la musica e l’architettura. Il Manifesto
del teatro futurista sintetico (1915) suggeriva di
sorprendere il pubblico con spettacoli brevissimi
o addirittura inesistenti per provocarne la reazione
anche violenta. Le posizioni del futurismo italiano
in ambito politico trovarono espressione sulla rivista “Lacerba”, furono meno originali e rimasero
legate a forme di nazionalismo. Allo scoppio della
prima guerra mondiale i futuristi si schierarono
decisamente a favore dell’interventismo e parecchi di loro partirono volontari.
• Filippo Tommaso Marinetti
•
•
•
•
L’impegno futurista
L’impegno politico
L’adesione al Partito Fascista
Giudizio critico
Il teorico del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), nacque ad Alessandria d’Egitto,
dove compì gli studi liceali; si laureò poi in lettere
alla Sorbona di Parigi. Scrisse in francese le sue
prime opere: I vecchi marinai (Les vieux marins,
1898); La conquista delle stelle (La conquête des
étoiles, 1902); Distruzione (Destruction, 1904); la
migliore è Il re Baldoria (Le roi Bombance, 1905),
tragedia satirica contro la democrazia. Dopo la
pubblicazione dei primi manifesti futuristi, curò
l’antologia Poeti futuristi (1912). In quegli anni uscirono le sue opere più significative: Mafarka il
futurista (1910) e la raccolta poetica Zang Tumb
Tumb. Adrianopoli, Ottobre 1912 (1914), testi affidati a un’esasperata sperimentazione. Lo scoppio
della prima guerra mondiale accentuò l’impegno
politico di Marinetti che si schierò a favore
dell’intervento, riunendo i suoi discorsi nel volume
Guerra sola igiene del mondo (1915); nel
dopoguerra aderì al Partito Fascista. Esaltato dal regime, nel 1929 fu nominato Accademico d’Italia
e da allora tutto dedicato alla propaganda di governo. Pubblicò numerose opere autobiografiche, tra
cui L’alcova di acciaio (1927); Scatole d’amore in
conserva (1927); La grande Milano tradizionale e
futurista (1969, postumo); Una sensibilità italiana
nata in Egitto (1969, postumo).
Marinetti ebbe un ruolo di rilievo sulla scena
europea per la capacità di organizzare e propagandare le nuove forme espressive; impose il modello dell’avanguardia in antitesi con il gusto estetico del pubblico.
• Ardengo Soffici
• Autobiografismo lirico
Il toscano Ardengo Soffici (1879-1964) fu anche
pittore di rilievo. Visse alcuni anni a Parigi a contatto con artisti e letterati. Tornato a Firenze (1907),
prese parte all’esperienza della rivista “La Voce”
(vedi “La Voce” e la poetica del “frammento”),
e nel 1913 fondò con Giovanni Papini la rivista
“Lacerba”. La raccolta poetica Bif§zf + 10. Simultaneità. Chimismi lirici (1915) è il suo risultato po-
etico più significativo, dominato dall’esaltazione
futurista della modernità e della civiltà tecnologica. Cercò un “autobiografismo lirico” (Ignoto
toscano, 1909, e Autoritratto d’artista italiano nel
quadro del suo tempo, apparso fra il 1951 e il
1955). Notevoli il romanzo Lemmonio Boreo
(1911) e alcuni saggi di critica d’arte. Dopo la
grande guerra visse la riconversione all’ordine e la
restaurazione della tradizione letteraria, in sintonia
con la politica fascista.
• Aldo Palazzeschi
• L’esperienza futurista
• Il passaggio al realismo
• Giudizio critico
Il fiorentino Aldo Palazzeschi (pseudonimo di
Aldo Giurlani, 1885-1974), divenne entusiasta
seguace del futurismo, ma ruppe con Marinetti
perché contrario all’interventismo, vivendo da
allora prima a Parigi, quindi di nuovo in Italia,
appartato dalla cultura ufficiale. È autore del più
bel testo di narrativa futurista, Il codice di Perelà
(1911), e di alcuni testi poetici sperimentali raccolti
nell’Incendiario (1913) e poi ampliati in Poesie
(1925), dove mostra un uso grottesco della parola
dotta, ma completamente svuotata di significato.
Dopo la rottura con il futurismo, espresse una narrativa meno sperimentale e più realistica. Due
imperi...mancati (1920, contro la guerra), le novelle
raccolte nei volumi Il re bello (1921), Il palio dei
buffi (1937), Bestie del ’900 (1951), confluiti alla
fine in Tutte le novelle (1957) e a cui succedette
Il buffo integrale (1966), mostrano un realismo irregolare e ribelle e una rappresentazione del mondo
piccolo-borghese. Elementi più patetici sono
riscontrabili invece nei romanzi La piramide (1926)
e soprattutto nel capolavoro Sorelle Materassi
(1934), I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953).
Le opere della vecchiaia rivelano un nuovo equilibrio fra leggerezza sperimentale e densità poetica
narrativa: importanti i romanzi Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971) e le raccolte poetiche Cuor mio (1968) e Via delle cento
stelle (1972). Palazzeschi, nella sua lunga carriera
letteraria, è stato capace di rinnovarsi, passando
dalle esperienze d’avanguardia del primo Novecento ai fermenti neorealistici del secondo
dopoguerra.
“La Voce” e la poetica del
“frammento”
•
•
•
•
•
Progetto di matrice crociana
Dar “voce” a una cultura onesta
Le inchieste
La trasformazione in rivista letteraria
Il frammento lirico
“La Voce” è una delle principali riviste dei primi
del Novecento: il suo lavoro rappresenta e sintetizza il grande dibattito culturale che allora si
produsse intorno alle riviste letterarie. Le pubblicazioni iniziate a Firenze il 20 dicembre 1908,
proseguite fino al 31 dicembre 1916, furono
dapprima settimanali, poi (dal 1913) quindicinali.
Fu diretta fino al 1914 da Giuseppe Prezzolini,
tranne il breve periodo (aprile-ottobre 1912) in cui
la direzione passò a Giovanni Papini; dal 1914
venne diretta dal critico Giuseppe De Robertis
(1888-1963) di Matera. Il progetto iniziale della
rivista fu di carattere etico-politico, di chiara
matrice crociana: la rivista ebbe il merito di diffondere la filosofia di Benedetto Croce fra le nuove
generazioni di intellettuali. L’intento primario dei
collaboratori fu quello di dare “voce” a interventi
culturali diversi, ma tesi a realizzare una cultura
onesta capace di una moralità superiore. Di qui
il programma di svecchiamento della cultura tradizionale e l’attenzione a tutti i problemi che
travagliavano il paese: nacquero inchieste sulla
questione meridionale, sulla scuola, sulle nuove
filosofie e sulle nuove espressioni artistico-letterarie, con particolare attenzione alle battaglie delle
avanguardie. Tutti i temi furono affrontati con
grande impegno, riscontrabile sia nella seria documentazione sia nella tensione morale che permea
gli articoli della rivista. Sotto la direzione di
Prezzolini la rivista fu espressione di un “idealismo
militante”, più vicino alle posizioni del filosofo
Giovanni Gentile che a quelle di Croce. Nella fase
successiva al 1913, molti intellettuali (tra cui Giovanni Papini e Ardengo Soffici) abbandonarono la
rivista. per dare vita al nuovo periodico “Lacerba”,
anticrociano e futurista.
A partire dal 1914 la rivista, diretta da De Robertis,
si dedicò esclusivamente a questioni letterarie. Particolare attenzione fu rivolta alla questione del
rinnovamento del linguaggio letterario: la rivista si
fece manifesto soprattutto dell’espressionismo,
che condusse i vociani a prediligere forme nuove
d’espressione, quali il frammento lirico e il superamento della tradizionale diversità fra poesia e
prosa quale ricerca autentica e dolorosa di verità
esistenziale. Vi collaborarono molti intellettuali, in
particolare: Scipio Slataper, Giovanni Boine, Piero
Jahier, Riccardo Bacchelli, Umberto Saba, Aldo
Palazzeschi, Renato Serra, Giuseppe Antonio
Borgese, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Corrado Govoni.
• Scipio Slataper
• “Il mio Carso”
Il triestino Scipio Slataper (1888-1915) fu aperto
alle istanze della cultura mitteleuropea e all’assidua
lettura di autori tedeschi e nordici (ne derivò il saggio critico su Ibsen, pubblicato postumo nel 1916).
L’opera più nota è Il mio Carso (1912), una sorta di
lirico romanzo autobiografico attraversato da una
tensione verso la distruzione selvaggia della vita, a
cui tuttavia corrisponde il richiamo verso il mondo
civile, verso una società più giusta e umana. Dopo
aver sostenuto l’intervento in guerra dell’Italia contro l’Austria (Le strade d’invasione dall’Italia
all’Austria, 1915), si arruolò volontario e morì in
combattimento. Pubblicati postumi sono i suoi
Scritti letterari e critici (1920), Scritti politici
(1925) e l’epistolario Alle tre amiche (1958) che
raccoglie le lettere inviate alle tre donne amate.
• Giovanni Boine
• Anarchismo e bisogno di rigore
Il ligure Giovanni Boine (1887-1917) nella sua
breve e irrequieta esistenza, sentì vivissima
l’esigenza di reinterpretare la tradizione cattolica;
collaborò alle riviste “Il Rinnovamento” e “La
Voce”. Attento ai problemi sociali, si mosse fra
un anarchismo individualistico e il bisogno di ordine, di rigore, di valori sicuri ai quali fare riferimento, che ritrovò nella vita e nella disciplina militare, come testimoniò nei Discorsi militari (1914).
Osteggiò il neoidealismo di Croce con recensioni
spesso polemiche e irriverenti (1914-1916) sulla
“Rivista ligure”. Nel romanzo autobiografico Il
peccato (1914) manifesta l’insofferenza verso le
costrizioni sociali, con metodo narrativo intenso e
dall’andamento lirico. Frantumi (1918), ultima sua
opera, è una raccolta di prose liriche e il risultato
migliore della sua scrittura: sono frammenti in
cui si avvale di soluzioni stilistiche vicine
all’espressionismo, in forte rottura con la tradizione.
• Piero Jahier
• Satira della vita borghese
• Esaltazione di un’umanità semplice e tenace
Il genovese Piero Jahier (1884-1966), figlio di un
pastore valdese, rinunciò agli studi teologici per
una crisi religiosa, e s’impiegò alle Ferrovie dello
Stato. Nel 1909 cominciò a collaborare con la rivista “La Voce”, pubblicandovi, con lo pseudonimo
di Gino Bianchi, articoli, recensioni e testi letterari
che testimoniano il suo profondo interesse religioso. Nel 1916 pubblicò Resultanze in merito alla
vita e al carattere di Gino Bianchi, libro di memorie d’infanzia che, con toni di satira anche violenta,
ritrae l’insignificanza della vita e del lavoro
borghese. Ufficiale degli alpini nella prima guerra
mondiale, pubblicò poi la sua opera più nota Con
me e con gli alpini (1919), mista di prosa e versi,
esaltazione di un’umanità semplice e tenace, capace
di sacrifici eroici. Dello stesso anno è Ragazzo, al-
tissimo documento autobiografico che rievoca speranze e turbamenti della sua adolescenza.
• Carlo Michelstaedter
• L’influenza di Leopardi
Il goriziano Carlo Michelstaedter (1887-1910), di
famiglia ebraica, si dedicò a studi di filosofia e di
letteratura. Passato a Firenze collaborò alla “Voce”;
si suicidò giovanissimo. Studioso delle filosofie
pessimistiche e “negative” (Nietzsche e
Schopenauer), nella sua tesi di laurea La persuasione e la rettorica (1913, postumo) mise a fuoco
il problema di fondo della sua riflessione: l’impossibile rapporto fra il pensiero e la comunicazione
nelle diverse organizzazioni sociali. Il saggio è un
atto di accusa contro l’ipocrisia sociale e contro
ogni istituzione culturale: la sua critica non
risparmia le forme tradizionali del sapere, la pedagogia e il nuovo idealismo. Approfondì la sua
meditazione negativa nel saggio Il dialogo della sa-
lute (1912, postumo). Le Poesie (1948, postumo)
risentono dell’influenza di Leopardi. L’Epistolario
(1958, postumo) e la raccolta Scritti scolastici
(1976, postumo) hanno evidenziato i legami esistenti fra il pensiero di Michelstaedter e la cultura
europea del Novecento.
Il frammentismo espressionistico di
Federigo Tozzi
Federigo Tozzi (1883-1920) è uno dei più significativi autori del Novecento, narratore di grande originalità.
• La vita e le opere
• Il podere di Castagneto
• Il trasferimento a Roma
• Le opere
Esasperato dai continui scontri con il padre, che
non accettò mai la sua attività letteraria, Tozzi visse
in miseria i primi anni del secolo tra la natia Siena
e Roma. Nel 1908 ottenne un impiego a Pontedera
presso le ferrovie, ma l’anno successivo, morto il
padre e divenuto erede di una discreta fortuna, si licenziò, sposò Emma Palagi, e si trasferì nel podere
di Castagneto. Per alcuni anni, in relativa tranquillità, collaborò con riviste minori; compose testi poetici (La zampogna verde, 1911; La città della Vergine, 1913) e compilò l’Antologia d’antichi scrittori senesi (Dalle origini a Santa Caterina) (1913).
Passato da un’iniziale simpatia verso il socialismo
a un acceso spiritualismo animato da un cattolicesimo reazionario, fondò con l’amico scrittore Domenico Giuliotti (1877-1956), la rivista “La Torre”
(1913), che si autodefinì l’“organo della reazione
cattolica”. Per la cattiva amministrazione del patrimonio in breve dovette vendere il podere e trasferirsi (1914) con la moglie e il figlio Glauco a Roma,
dove pubblicò i brevissimi racconti di Bestie
(1917), che gli aprirono la strada alla collaborazione con varie riviste. In pochi anni scrisse
le opere più importanti: romanzi, novelle e testi
teatrali, in gran parte già abbozzati precedentemente. Prima della morte, a Roma, pubblicò i romanzi Con gli occhi chiusi (1919) e Tre croci
(1920). Postumi furono pubblicati le novelle
Giovani, L’amore, Ricordi di un impiegato (tutte
nel 1920), Il podere (1921) e l’incompleta Gli egoisti (1923), e il romanzo epistolare Novale (1925),
costituito dalle lettere inviate alla fidanzata.
• Tematiche e stile
• Doloroso autobiografismo
• Confessione dell’incapacità di vivere
• Espressionismo linguistico
L’arte di Tozzi trae origine dalla rappresentazione
di una materia fortemente autobiografica, fatta
di ricordi ancora dolorosi, di fobie, di pulsioni profonde che attraversano il suo animo. Tema del
primo romanzo, Con gli occhi chiusi, forse
l’opera migliore, è l’iniziazione sentimentale ed
erotica di un adolescente, che presenta infiniti punti
di contatto con la vita dell’autore. L’ambiente è
una Siena opprimente, che fa da sfondo anche alla
drammatica storia dei tre fratelli librai protagonisti
inetti, meschini e sventurati di Tre croci; e il podere
di Poggio de’Meli, tanto simile al reale fondo agricolo di Castagneto, che è al centro del terzo romanzo, Il podere, potente e desolata confessione
dell’incapacità di amministrare, di scegliere e
quindi di vivere dell’autore. Tutto questo contenuto
esistenziale (e quello al centro dei Ricordi di un
impiegato o presente in maniera quasi urlata nei
frammenti di Bestie) si trasforma sulla pagina in
una scrittura personalissima che si mantiene nella
struttura dei periodi, nei costrutti verbali, negli aspetti fonetici, vicina all’andamento della lingua
parlata, ma acquista nell’insieme una grande carica espressionistica grazie al taglio con cui l’autore
osserva le cose e avverte in esse il riflesso del
proprio disagio esistenziale.
SCHEMA RIASSUNTIVO
IL CREPUSCOLARISMO
Il mondo poetico crepuscolare si compone di
situazioni ricorrenti, per lo più del piccolo mondo
della provincia. I poeti non credono più ai valori tradizionali, filosofici, politici o scientifici imperanti. Si
sentono soli e incompresi e si chiudono nel proprio
disagio. La lingua è sempre dimessa e prosastica.
Solo in Gozzano dominano un’ironia e autoironia
lancinanti.
Esponenti principali
Esponenti principali furono i poeti Guido Gozzano
(1883-1916), Sergio Corazzini (1886-1907), Marino
Moretti (1885-1979), Corrado Govoni (1884-1965).
IL FUTURISMO
Il futurismo è il movimento d’avanguardia più importante di inizio secolo. Si basa sul rifiuto di tutte
le forme artistiche tradizionali; cerca un linguaggio
sperimentale ed eversivo, adeguato alla moderna
civiltà delle macchine e basato su un atteggiamento
che vuole riprodurre il vitalismo dell’epoca moderna.
L’elaborazione teorica fu affidata ai cosiddetti “manifesti”.
Esponenti principali
Il rappresentante più significativo è Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), che pubblicò il primo
Manifesto del futurismo (1909). Fra gli altri esponenti
di rilievo: Ardengo Soffici (1879-1964) e Aldo
Palazzeschi (1885-1974), il quale tuttavia dopo
un’iniziale adesione al futurismo passa a una narrativa meno sperimentale e più realistica (Le sorelle
Materassi, 1934).
“LA VOCE”
“La Voce” (1908-1916) è una delle principali riviste
dei primi del Novecento. Il suo lavoro rappresenta e
sintetizza il grande dibattito culturale d’inizio secolo.
I vociani vogliono un forte impegno morale ed espressivo. La lingua poetica si apre al cosiddetto
“frammentismo”, cioè a un’espressione capace di
trascrivere direttamente il dramma esistenziale.
Esponenti principali
Il triestino Scipio Slataper (1888-1915, autore del
romanzo Il mio Carso, 1912); il ligure Giovanni
Boine (1887-1917, autore del romanzo autobio-
grafico Il peccato, 1914); il genovese Piero Jahier
(1884-1966, che esaltò la vita di un’umanità semplice
e tenace nel romanzo Con me e con gli alpini, 1919);
il goriziano Carlo Michelstaedter (1887-1910, La
persuasione e la rettorica, 1913).
FEDERIGO TOZZI
L’arte del senese Tozzi (1883-1920) trae origine dalla
rappresentazione di una materia fortemente autobiografica, fatta di ricordi ancora dolorosi, di fobie, di
pulsioni profonde del suo animo. La scrittura rispetta
la struttura dei periodi, gli aspetti fonetici vicini
all’andamento della lingua parlata, e acquista
nell’insieme una grande carica espressionistica. Sue
opere principali sono: Bestie (1917), Con gli occhi
chiusi (1919), Tre croci (1920), Il podere (1921).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali sono i caratteri peculiari del crepuscolarismo?
2. Qual è la caratteristica principale della poesia
gozzaniana?
3. In quale ottica culturale e sociale si pone il futurismo? Con quali nuove tecniche vuole esaltare la modernità?
4. Che cosa rappresentava il “frammento lirico”
per i vociani?
5. Qual è il carattere della scrittura di Tozzi?
2 BENEDETTO CROCE E IL
DIBATTITO CRITICO
Il neoidealismo italiano segna la rinascita del pensiero
hegeliano e la forte opposizione nei confronti del metodo
positivista. Il pensiero di Croce e di Gentile si fece riferimento essenziale sia per lo storicismo sia per il liberalismo italiano. Attorno a questa rinascita filosofica di inizio secolo matura, in modo assai complesso e ricco, il pensiero di scrittori o saggisti come Papini, Prezzolini, Gramsci. La riflessione sulla letteratura, inoltre, anima in varie
direzioni il lavoro critico di autorevoli figure quali Serra,
Borgese, Cecchi e Debenedetti.
Benedetto Croce
Figura centrale del neoidealismo, Benedetto Croce
(1866-1952) è stato il punto di riferimento
dell’estetica della critica letteraria e della storiografia del Novecento italiano.
• La vita
•
•
•
•
•
La ricerca storico-erudita
Il sodalizio con Gentile
L’attività politica
Il “Manifesto” antifascista
Le opere storiche
Nato a Pescasseroli, compì i primi studi a Napoli;
a 17 anni, persi i genitori, venne accolto dallo zio
Silvio Spaventa a Roma, dove s’iscrisse alla facoltà
di giurisprudenza. Rientrato a Napoli nel 1886,
Croce si dedicò alla ricerca storico-erudita, arrivando a una prima sistemazione teorica del rapporto tra storia, definita “rappresentazione del
reale”, e arte, definita “rappresentazione del possibile”, nella “memoria” La storia ridotta sotto il
concetto generale dell’arte (1893). Croce si interessò al marxismo su cui scrisse diversi saggi,
poi raccolti in Materialismo storico ed economia
marxistica (1900). Frattanto si occupava di letteratura, e diede un’esposizione organica della sua
concezione dell’arte nell’Estetica come scienza
dell’espressione (1902). Nel 1903 fondò con il filosofo e pedagogista siciliano Giovanni Gentile
(1875-1944) la rivista “La Critica”, nella quale pubblicò numerosi studi su scrittori italiani della
seconda metà del sec. XIX, raccolti poi sotto il
titolo La letteratura della nuova Italia (6 voll.,
1914-40), nonché vari saggi storici, in parte raccolti
nel volume Storia del Regno di Napoli (1925). Nel
1910 fu nominato senatore e divenne ministro della
Pubblica istruzione nel governo 1920-21. Il sodalizio con Gentile si ruppe quando questi aderì al fascismo, mentre Croce si schierò risolutamente contro il nuovo regime pubblicando il Manifesto degli
antifascisti (1925). Pur astenendosi dalla politica
attiva, Croce rimase costante punto di riferimento
per gli intellettuali avversi alla dittatura e sviluppò
accanto all’attività filosofica e critica un’intensa
produzione storiografica i cui risultati più importanti furono la Storia d’Italia dal 1871 al 1915
(1928), la Storia dell’età barocca in Italia (1929)
e, infine, la Storia d’Europa nel secolo XIX (1932).
Morì a Napoli.
• La concezione filosofica
• La filosofia dello spirito
• Il nesso dei distinti
• Le opere
Riferimento essenziale di Croce è il pensiero
idealista del tedesco Hegel (1770-1831). L’idea
fondamentale della “filosofia dello spirito” di
Croce è che lo spirito (termine con il quale egli
intende la realtà umana nella sua interezza) si articola in quattro forme distinte di attività: due
teoretiche, la conoscenza intuitiva o conoscenza
dell’individuale (che mette capo all’arte) e la conoscenza logica o conoscenza dell’universale (che è
produttrice di concetti); e due pratiche, l’economica
(o volizione del particolare) e l’etica (o volizione
dell’universale). Lo spirito umano non si muove
in senso univoco attraverso queste sue forme, ma
“circola” liberamente per esse, determinandosi
di volta in volta come spirito estetico o logico,
economico o etico. L’opposizione che si manifesta
all’interno d’ogni sfera (bello-brutto, vero-falso,
utile-dannoso, bene-male) si risolve, infatti, per
Croce in un nesso di “distinti”. Ciò vuol dire che
il momento negativo d’una forma di attività è
costituito dall’“interferenza” di un’altra forma in
sé positiva. Così, per esempio, il brutto è
l’interferenza nell’arte del pensiero astratto o
dell’attività pratica, non è cioè la negazione o il
“contrario” della conoscenza intuitiva (l’arte), ma
qualcosa di diverso da essa, un “distinto”. La filosofia dello spirito crociana è esposta in quattro volumi: la già menzionata Estetica, la Logica come
scienza del concetto puro (1909), la Filosofia della
pratica. Economica ed etica (1908) e infine la Teoria e storia della storiografia (1917) nella quale
culmina la propria concezione nella discussa identità di filosofia e storia.
• L’estetica e la critica letteraria
• L’arte è intuizione
• Intuizione ed espressione
• L’opera d’arte è un tutt’uno di forma e contenuto
• Le opere di estetica e di critica letteraria
L’arte è l’attività teoretica dello spirito rivolta
all’individuale: essa è cioè “intuizione”, termine
che non designa un’occulta o misteriosa facoltà
dell’artista, ma la cognizione di questo o
quell’oggetto individuale, reale o immaginario
che sia. Dal momento però che l’intuizione, a differenza della semplice sensazione, non è passiva
ma attiva, essa è insieme espressione. L’immagine
che l’artista riproduce con il suo mezzo specifico è
anzitutto rappresentazione d’un sentimento, e come
tale “liricità”: l’opera d’arte non è cioè semplice
imitazione o riproduzione d’una realtà individuale, bensì del modo in cui l’artista vede o intuisce quella realtà; in essa dunque contenuto e
forma sono tutt’uno. La conseguenza di questa
teoria fu la negazione della rilevanza estetica dei
generi letterari e la riduzione della storia letteraria a una serie di trattazioni separate dei singoli
autori. Quanto alla critica letteraria, essa è per
Croce una ricostruzione del processo creativo
dell’autore fino alla scoperta del nucleo costitutivo
della sua ispirazione e, da ultimo, a un giudizio
che assegni l’opera alla sfera estetica (bello) o la
escluda da essa (brutto). Dopo l’Estetica del 1902
Croce riprese più volte la propria teoria in Problemi
di estetica (1910), nel Breviario di estetica (1912),
nell’Aesthetica in nuce (1928) e infine in La poesia
(1936), dove veniva riconosciuto anche
all’espressione non strettamente lirico-poetica un
suo valore artistico come “letteratura”. Efficaci esempi di critica letteraria sono i suoi saggi su Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), Goethe
(1917) e La poesia di Dante (1921), nonché le tarde
Letture di poeti (1950).
• Il giudizio critico
Il senso della ricerca di Croce dimostra una generale esigenza di serietà morale e di equilibrio formale, con una forte opposizione a tutto ciò che,
nella letteratura, possa apparire decadente e
negativo. Nei confronti della letteratura moderna
e contemporanea fu rigido a favore dei classici, in
conformità alla sua concezione dell’arte come armonica perfezione piuttosto che come ispirazione
irrazionale. Quindi gli furono estranei autori e correnti innovatori e d’avanguardia.
Piero Gobetti
• Liberalismo integrale
• “Il Baretti”
• La fuga a Parigi
Il pensiero del torinese Piero Gobetti (1901-1926)
è la testimonianza di un liberalismo integrale:
l’esaltazione di un bisogno di idealità, di etica, di
dignità letteraria e politica. Attratto dalla filosofia
idealista, fondò la rivista “Energie nuove” (1918).
Collaborò nel 1920 alla rivista di Gramsci
“L’Ordine nuovo”, sulla quale tenne una rubrica di
recensioni teatrali: i suoi interventi furono poi pub-
blicati nel volume La frusta teatrale (1923). Nel
1922 fondò la rivista “Rivoluzione liberale” dalle
cui pagine elaborò una critica agli ideali del Risorgimento e auspicò un patto politico tra borghesia e
proletariato. Significativo per la sua valutazione del
Risorgimento è anche il saggio La filosofia politica di V. Alfieri (1923). Nel 1924 fondò la rivista
letteraria “Il Baretti”, alla quale collaborarono intellettuali come Croce, Montale e Cecchi: era suo
intento aggregare le forze intellettuali italiane per
opporsi al fascismo che si stava consolidando. Nel
1925 dovette interrompere la sua attività in seguito
al venir meno della libertà di stampa. Aggredito e
duramente percosso da squadristi fascisti, fuggì a
Parigi, dove morì poco dopo. La sua produzione
fu raccolta e pubblicata postuma: Opere critiche
(1926); Paradosso dello spirito russo (1926);
Risorgimento senza eroi (1926).
Antonio Gramsci
Fondatore del Partito Comunista, Antonio Gramsci
(1891-1937) propose uno degli sforzi più importanti nel Novecento per definire una nuova coscienza nazionale.
• La vita
• Fondazione di “Ordine nuovo” e del Partito
Comunista
• I lunghi anni di carcere
Allo scoppio della rivoluzione russa Gramsci fu
tra i primi dirigenti socialisti a schierarsi in favore
dei bolscevichi. Dopo la guerra, con Angelo Tasca,
Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, Gramsci
fondò l’“Ordine nuovo”, rivista di dibattito
politico e culturale, a cui collaborarono anche intellettuali di estrazione non marxista, come Gobetti.
Nel 1921 il gruppo di “Ordine Nuovo” uscì dal
Partito socialista e diede vita al Partito Comunista
d’Italia. Nel 1924, eletto deputato, fu tra i dirigenti
dell’opposizione antifascista dopo l’assassinio di
Giacomo Matteotti nel 1926 fu arrestato e condannato a vent’anni di reclusione. In carcere la sua salute peggiorò; ottenne la libertà completa solo pochi giorni prima di morire.
• Le opere e il pensiero
• I “Quaderni del carcere”
• L’intellettuale organico
• Egemonia e coscienza nazionale
Gramsci scrisse molto: la sua riflessione ha messo a
fuoco alcune questioni fondamentali della storia
d’Italia, in particolare quelle relative alla formazione e alla funzione degli intellettuali. Questo
nodo trova largo spazio nei Quaderni del carcere
(1929-34). Queste annotazioni vennero riunite per
temi e pubblicate postume in sei volumi con i titoli
redazionali: Il materialismo e la filosofia di Benedetto Croce; Gli intellettuali e l’organizzazione
della cultura; Il Risorgimento; Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno; Let-
teratura e vita nazionale; Passato e presente
(1948-51). La parte estetica della riflessione gramsciana riguarda prevalentemente il confronto con
Croce, del quale, rifacendosi alla lezione di
Francesco De Sanctis, rifiutava la concezione elitaria della cultura, auspicando l’avvento di un
intellettuale “organico”, cioè partecipe dello sviluppo sociale. La cultura (le idee e la divulgazione)
vive in una realtà dinamicamente politica e ha un
ruolo decisivo per creare l’“egemonia” della classe
operaia e fondare una nuova “coscienza nazionale”.
Documento esemplare di dignitosa sofferenza sono
infine le Lettere dal carcere, pubblicate nel 1947.
Il modernismo di Papini e Prezzolini
Protagonisti di una cultura vivace, esuberante, che
sperimenta e attacca radicalmente qualsiasi
forma di cultura accademica, furono Giovanni
Papini e Giuseppe Prezzolini. Le riviste da loro
fondate o a cui parteciparono attivamente per-
misero la maturazione di una letteratura novecentesca finalmente autonoma dagli stanchi retaggi
della cultura provinciale italiana.
• Giovanni Papini
•
•
•
•
•
“Un uomo finito”
La fondazione di “Lacerba”
La conversione
L’adesione al fascismo
“Le schegge”
Il fiorentino Giovanni Papini (1881-1956) nel
1903 fondò il “Leonardo”, con lo scopo di combattere l’accademismo e l’immobilismo della
cultura ufficiale. Diede la sua prima prova di narratore con i due volumi di racconti metafisici Tragico quotidiano (1906) e Il pilota cieco (1907). Nello
stesso anno pubblicò Il crepuscolo dei filosofi, in
cui attaccava con “briosa strafottenza” alcuni maestri del pensiero contemporaneo, da Kant a Hegel,
da Schopenhauer a Nietzsche. Del 1912 è Un uomo
finito, in cui è racchiusa tutta una tematica di ribellioni e di dissidi, nel quadro di un racconto autobiografico. In quel periodo, Papini scrisse
moltissimo: oltre a saggi sul pragmatismo, i racconti di Parole e sangue (1912) e di L’altra metà
(1912). Nel 1913 fondò con Ardengo Soffici la rivista “Lacerba”, che divenne l’organo del futurismo
italiano. Negli anni dopo la guerra si accostò al cattolicesimo e manifestò clamorosamente la sua conversione con la Storia di Cristo (1921), un libro
di violenta polemica contro il materialismo contemporaneo. Seguirono il Dizionario dell’omo salvatico (1923) in collaborazione con Domenico Giuliotti, i versi di Pane e vino (1926), Sant’Agostino
(1929), le prose di Gog (1931), Dante vivo (1933).
Dal 1935 Papini aderì al fascismo e fu nominato
Accademico d’Italia. Alla fine della seconda guerra
mondiale la fortuna di Papini sembrò definitivamente tramontata; ma nel 1946 con le Lettere di Celestino VI, nel 1949 con la Vita di Michelangiolo
nella vita del suo tempo e poi con Il diavolo (1953)
egli tornò improvvisamente alla ribalta, destando
scalpore e interesse. Forse le pagine migliori di
tutta la sua vastissima produzione furono le
“schegge” apparse sul “Corriere della Sera”, poi
riunite nel volume Le schegge (1971, postumo).
Postumi anche Il giudizio universale (1957), La
seconda nascita (1958), Diario (1962), Rapporto
sugli uomini (1977).
• Giuseppe Prezzolini
•
•
•
•
•
La collaborazione con Papini
La fondazione della “Voce”
Il soggiorno a New York
Organizzatore di cultura
Un intellettuale conservatore
Il perugino Giuseppe Prezzolini (1882-1982),
autodidatta, attento ai più diversi richiami culturali
e ideologici, si avvicinò a Parigi alla filosofia di
Henri Bergson e al pragmatismo. Nel 1903 fondò
con Giovanni Papini la rivista “Il Leonardo”, sulla
quale firmò fino al 1907 articoli di impronta
bergsoniana, venati di irrazionalismo e fortemente
polemici verso il positivismo e il verismo. Nel 1906
pubblicò assieme a Papini il volume La cultura
italiana, in seguito più volte riedito. Al 1908 risale
la sua adesione alla filosofia crociana e la
fondazione della rivista “La Voce”, che diresse
fino al 1914. Interventista allo scoppio della prima
guerra mondiale, fu ufficiale al fronte. Dal 1925 al
1929 lavorò presso un istituto culturale della Società delle Nazioni, e nel 1930 si trasferì a New York
dove insegnò alla Columbia University. Tornato in
Italia, si trasferì a Lugano da dove collaborò con
vari giornali e riviste.
Prezzolini svolse nei primi due decenni del Novecento una importantissima funzione di organizzatore culturale, di divulgatore di idee, passando con disinvoltura attraverso atteggiamenti diversi e contrastanti; la continuità era garantita dalla
sua concezione dell’intellettuale come figura demiurgica, capace di guidare lo sviluppo storico e sociale. Nell’insieme la sua vasta opera è improntata
a evidente conservatorismo. Tra i numerosissimi
scritti si ricordano Repertorio bibliografico della
storia e della critica della letteratura italiana dal
1902 al 1948 (1936-48); America in pantofole
(1950) e America con gli stivali (1954), impressioni
di viaggio legate all’esperienza americana;
L’italiano inutile (1953), autobiografia intellettuale
con una stimolante descrizione dei primi decenni
del Novecento; L’Italia finisce, ecco quel che resta
(1958), Dal mio terrazzo (1960); Dio è un rischio
(1969).
Il dibattito critico: Serra, Borgese,
Cecchi, Debenedetti
• Renato Serra
Il romagnolo Renato Serra (1884-1915), di
Cesena, fu forse il più grande critico letterario di
inizio secolo. Partito da interessi classici (tesi di
laurea sul Petrarca, 1904), si dedicò alla letteratura
contemporanea italiana e straniera (l’inglese Kipling, i francesi Péguy e Rolland), lontano da ogni
preoccupazione di metodo, in realtà geniale pre-
cursore degli studi sui legami tra scrittura e fatti
storici. Tutte le sue Opere uscirono postume
(1919-23), tranne i suoi libri più belli: Le lettere
(1914), un bilancio della letteratura italiana contemporanea, e l’Esame di coscienza di un letterato
(1915), il suo capolavoro pubblicato prima di cadere in battaglia, in cui è riconoscibile l’intensità
impressionistica di una riflessione intorno al senso
dello scrivere e del leggere.
• Giuseppe Antonio Borgese
• Una forte esigenza morale
• I saggi critici
• La narrativa
Il siciliano Giuseppe Antonio Borgese
(1882-1952) manifestò una forte personalità di intellettuale e fu un fine cultore delle letterature
straniere. Partito da una forte esigenza morale,
gettò le basi del canone storiografico novecentesco.
Superato l’iniziale dannunzianesimo (ne sancì il
distacco con il saggio Gabriele D’Annunzio, 1909),
si avvicinò a una concezione dell’arte legata alla
vita nei suoi risvolti psicologici e morali. Interventista acceso, ma deluso dai risultati del conflitto,
propose nel saggio Tempo di edificare (1923)
un’idea di letteratura capace di contribuire a una
nuova umanità. Di qui la valorizzazione dell’opera
di scrittori come Luigi Pirandello e Federigo Tozzi.
Rifiutò di prestare il giuramento al regime fascista
ed emigrò negli Stati Uniti, dove insegnò dal 1931
al 1949. Famoso il suo saggio in inglese sul fascismo Golia, la marcia del fascismo (Goliath, the
march of fascism, 1937), nel quale denunciò la
matrice piccoloborghese del totalitarismo. Di
rilievo gli interventi critici su G. Pascoli e su alcuni
poeti che proprio da lui vennero chiamati
“crepuscolari”. Fra i saggi si ricordano La vita e
il libro (1931); Ottocento europeo (1927); Il senso
della letteratura italiana (1931); Problemi di estetica e storia della critica (1952). Si dedicò anche
alla narrativa: molte le raccolte di novelle, riunite
in Le novelle (1950); numerosi romanzi nei quali
analizza contorte situazioni psicologiche, spicca fra
gli altri Rubè (1921), storia di un intellettuale siciliano piccoloborghese interventista deluso, che nel
dopoguerra si ritrova svuotato di piccoli o grandi
ideali proprio alla vigilia dell’avvento del fascismo.
• Emilio Cecchi
• Anglista
• Spessore umano e psicologia dello scrittore
Il fiorentino Emilio Cecchi (1884-1966) è forse la
mente saggistica più interessante di inizio secolo.
Collaborò tra l’altro a “La Voce”, e fu tra i fondatori
de “La Ronda” (vedi “La Ronda” e il rondismo).
Attento a tutti gli aspetti essenziali della cultura
contemporanea (come il cinema, a cui si accostò
anche come sceneggiatore), fu esperto di letteratura
inglese e americana, studiata durante i soggiorni
negli Stati Uniti (1930 e 1938). I saggi, Scrittori
inglesi e americani (1935) e America amara
(1939), ebbero il merito di far conoscere all’Italia
fascista la società e la cultura americane. La sua at-
tività di critico è testimoniata da molti studi, fra i
quali: L’arte di Rudyard Kipling (1911); La poesia
di Giovanni Pascoli (1912). Pregevoli i saggi di
critica d’arte. Con Natalino Sapegno (1901-1990)
diresse un’importante Storia della letteratura italiana (9 voll., 1965-69). Il suo metodo critico, sorretto da una raffinata cultura, gli fa affrontare la
pagina letteraria con l’intento di cogliervi lo
spessore umano e la psicologia dello scrittore.
Si dedicò anche alla scrittura creativa con brevi
e raffinatissime prose, pubblicate per lo più sulle
terze pagine dei giornali, raccolte poi in Pesci rossi
(1920), L’osteria del cattivo tempo (1927), Qualche
cosa (1931), Corse al trotto (1936).
• Giacomo Debenedetti
•
•
•
•
L’interesse per la letteratura europea
Critica marxista e psicoanalisi
La cronaca interna
Il personaggio narrativo
L’opera critica del biellese Giacomo Debenedetti
(1901-1967) è una straordinaria sintesi di esigenze
realistiche in cui però maturano temi di natura surreale. Formatosi nella Torino di Piero Gobetti,
manifestò subito il suo interesse per gli scrittori
di frontiera, come Umberto Saba e Carlo Michelstaedter, e per la letteratura europea più significativa, in particolare per l’opera del francese Marcel Proust, da lui ritenuto il caposcuola del romanzo
contemporaneo. Superata l’iniziale adesione
all’estetica di Benedetto Croce, si avvicinò alla
critica marxista, mentre s’interessava sempre
più alla psicoanalisi, quale strumento d’indagine
critica. Nelle tre serie di Saggi critici (1929; 1945;
1959), la sua ricerca si svolse in più direzioni: focalizzò l’attenzione sulla “cronaca interna” d’un
autore per istituire continui rapporti fra biografia e poesia, fra letteratura e storia, utilizzando
strumenti
diversi,
dall’analisi
stilistica
all’approccio psicanalitico. Particolare attenzione
rivolse al personaggio narrativo, che considerò
come frutto della storia occidentale. In questa
direzione lesse le opere di Federigo Tozzi, Luigi
Pirandello, Italo Svevo, Proust, James Joyce nei
due saggi di fondamentale importanza: Il
personaggio-uomo (1970) e Il romanzo del Novecento (1971). Nei romanzi Amedeo e altri racconti
(1926), Otto ebrei (1944) e 16 ottobre 1943 (1945),
Debenedetti narrò le drammatiche vicende di ebrei
perseguitati dalle leggi razziali.
SCHEMA RIASSUNTIVO
CROCE
Filosofo fondatore del neoidealismo italiano, storiografo e critico lettarario, Benedetto Croce
(1866-1952) è l’indiscusso riferimento dell’estetica
e della critica letteraria del Novecento italiano. Formulò il concetto di intuizione-espressione, osservando che l’immagine che l’artista riproduce con il
suo mezzo specifico è anzitutto rappresentazione di
un sentimento: l’opera d’arte non è cioè semplice
imitazione o riproduzione d’una realtà individuale,
bensì del modo autonomo in cui l’artista vede o intuisce quella realtà; in essa dunque contenuto e forma
sono tutt’uno.
Giudizio
Convinto assertore di una concezione dell’arte come
armonica perfezione, si oppose ad autori e correnti innovatori e d’avanguardia.
ANTONIO GRAMSCI
Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori del
Partito comunista d’Italia (1921), rifiuta la concezione elitaria della cultura, auspicando l’avvento di
un intellettuale “organico”, cioè partecipe dello sviluppo sociale. Per lui la cultura (le idee e la divulgazione) vive in una realtà dinamicamente politica
e assume dunque un ruolo decisivo per creare una
nuova “egemonia” della classe operaia e fondare una
nuova “coscienza nazionale”. Opere principali
Quaderni del carcere (1929-34).
PAPINI E PREZZOLINI
Papini e Prezzolini, entrambi collaboratori della rivista “La Voce”, sono protagonisti di una cultura vi-
vace, esuberante, spesso contraddittoria, mai vacua,
che sperimenta e attacca radicalmente qualsiasi forma
di cultura accademica.
Di Papini (1882-1956), fondatore della rivista
“Lacerba”, sono da ricordare Il crepuscolo degli dei
(1907), Un uomo finito (1912); La storia di Cristo
(1921), testimonianza della sua clamorosa conversione al cattolicesimo; Le schegge (1971, postumo)
che raccolgono le sue pagine migliori.
Prezzolini (1882-1982), fondatore della rivista “La
Voce” (1908), fu un grande divulgatore di idee e di
cultura. Stimolante descrizione dei primi decenni del
Novecento è la sua autobiografia L’italiano inutile
(1953).
IL DIBATTITO CRITICO
Espresso in varie direzioni dalla riflessione sulla letteratura, ha come principali protagonisti: Renato
Serra (1884-1915), autore soprattutto di Esame di
coscienza di un letterato (1915); Giuseppe Antonio
Borgese (1882-1952) a cui si devono rilevanti saggi
sulla letteratura italiana, sui crepuscolari, sul fascismo (Golia, la marcia del fascismo, 1937, in
inglese), Le novelle (1950), e fra i romanzi, Rubè
(1921); Emilio Cecchi (1884-1966), vociano tra i
fondatori della rivista “La Ronda”, esperto di letteratura inglese e americana, è autore di una Storia
della letteratura italiana (9 voll., 1965-69) e di brevi
e raffinate prose giornalistiche (tra cui Pesci rossi,
1920, Qualche cosa, 1931); Giacomo Debenedetti
(1901-1967), crociano avvicinatosi alla critica
marxista e alla psicoanalisi, è autore di Saggi critici
(1929; 1945; 1959) e dei fondamentali Il
personaggio-uomo (1970) e Il romanzo del Novecento (1971), nei quali focalizzò la sua attenzione
critica sul personaggio narrativo.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è l’idea fondamentale della “filosofia
dello spirito” di Croce?
2. Come precisa Croce il concetto di intuizioneespressione riferito all’arte?
3. Che cosa intende Gramsci quando auspica
l’avvento di un intellettuale “organico”?
4. Quale fu l’apporto di Papini e Prezzolini alla
vita culturale del primo Novecento?
5. In quale modo, all’interno della storiografia
letteraria italiana, si differenziano le esperienze critiche di Serra, Borgese, Cecchi e Debenedetti?
3 LUIGI PIRANDELLO
Luigi Pirandello compie una grande rivoluzione letteraria, specie nel teatro. Partito dal naturalismo, approda a
una tecnica che, a differenza di quella ottocentesca, rinuncia all’unicità della voce narrante. Mostrare la “duplicità” comica e tragica dell’esistenza significa descrivere
l’apparenza, le contraddizioni e le ambiguità tipiche
dell’uomo del Novecento.
La vita e le opere
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Gli anni di formazione
Il soggiorno in Germania
L’esordio narrativo
Le raccolte poetiche
Le difficoltà economiche
I saggi teorici
L’esordio teatrale
Il culmine creativo
L’adesione al fascismo
La compagnia teatrale
Il contrasto col fascismo e il premio Nobel
Luigi Pirandello (1867-1936), nato a Girgenti,
l’odierna Agrigento, fu educato in un clima di impegno politico segnato dalla delusione per
l’insoddisfacente esito morale, civile ed economico
delle vicende risorgimentali. Dopo gli studi liceali
a Palermo, si iscrisse contemporaneamente alle facoltà di legge e di lettere. Scelti gli studi letterari,
si trasferì a Roma, ma nel 1889 si iscrisse
all’università di Bonn, dove nel 1891 si laureò in
filologia romanza. Il soggiorno in Germania lo mise
in contatto con le problematiche della cultura
europea e lo accostò ai narratori romantici tedeschi.
Tornato in Italia nel 1892, si stabilì a Roma e, col
sostegno economico del padre, poté dedicarsi completamente alla letteratura, incoraggiato in ciò
anche da Luigi Capuana. In questi anni stese il romanzo L’esclusa, uscito solo nel 1901, e pubblicò
la prima raccolta di novelle, Amori senza amore
(1894). Nello stesso anno sposò Maria Antonietta
Portulano: fu un’unione difficile fin dall’inizio,
anche per la loro distanza intellettuale. Nel 1895
pubblicò la raccolta di poesie Elegie renane, preceduta qualche anno prima dalle due raccolte Mal
giocondo (1889) e Pasqua di Gea (1891), mentre
andava intensificandosi la sua produzione di novelle. Nel 1897 ebbe un incarico presso la facoltà
di magistero di Roma, passando in ruolo nel 1908.
Nel 1903 un grave dissesto economico, che dissipò
tutti i capitali della famiglia, provocò una gravissima crisi nervosa nella moglie, che da questo momento fu vittima di gravi disturbi mentali. Le difficoltà economiche e le costose cure per la moglie,
costrinsero lo scrittore a intensificare la collaborazione con giornali, in particolar modo il
“Corriere della Sera”, dove cominciò a pubblicare
novelle, e riviste, come la “Nuova Antologia”, su
cui uscì il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), che
ebbe subito un notevole successo. Nel 1908 uscirono due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, il
secondo particolarmente importante per la definizione della poetica pirandelliana, seguiti dai romanzi I vecchi e i giovani (1909, opera giovanile) e
Suo marito (1911). Verso il 1910 stese alcuni atti
unici per il teatro, ma il suo interesse principale
era ancora rivolto alla narrativa e al cinema, per il
quale scrisse soggetti. Nacque così il romanzo Si
gira... (1915), ripubblicato nel 1925 in nuova versione con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Gli anni di guerra, molto duri per Pirandello, furono però anche anni molto fertili: scrisse
infatti i suoi primi importanti testi teatrali, incentrati su situazioni limite, in cui il risvolto grottesco
della vicenda evidenzia l’assurdo sempre presente
nella vita quotidiana. Le opere più significative di
questo periodo sono: Pensaci Giacomino (1916);
Liolà (1916); Così è (se vi pare) (1917); Il berretto
a sonagli (1917); Il piacere dell’onestà (1917); Il
gioco delle parti (1918); L’uomo, la bestia e la virtù
(1919). L’opera di Pirandello ottenne il successo
con Tutto per bene (1920) e soprattutto con Come
prima, meglio di prima (1920). È questo il momento della massima originalità creativa, culminata
con il dramma Sei personaggi in cerca d’autore
(1921), che procurò a Pirandello un successo mondiale. Lavorò al romanzo-saggio Uno, nessuno e
centomila (1925) e stabilì consapevolmente un rapporto tra gli atti unici come L’uomo dal fiore in
bocca (1923) e La giara (1925) e alcune delle proprie novelle, delle quali fu avviata la pubblicazione
con il titolo di Novelle per un anno (1922); la raccolta completa (15 volumi) fu conclusa postuma
nel 1937. Altre opere importanti di quegli anni furono Vestire gli ignudi (1922); La vita che ti diedi
(1923); Ciascuno a suo modo (1924). Nel 1924 si
iscrisse al Partito Fascista, con una decisione che
fece scalpore anche perché venne subito dopo il delitto Matteotti. Nel 1925 inaugurò a Roma, con la
Sagra del signore della nave, il Teatro d’Arte, destinato a essere il suo laboratorio teatrale, ma che fu
costretto a chiudere pochi anni dopo; iniziò allora
un’intensa collaborazione con l’attrice Marta Abba,
che diventò l’interprete principale della sua compagnia. Per lei Pirandello scrisse diversi drammi,
tra cui Diana e la Tuda (1926), composta in tedesco
e rappresentata per la prima volta a Zurigo; L’amica
delle mogli (1927); La nuova colonia (1928); Lazzaro (1929); O di uno o di nessuno (1929); Come
tu mi vuoi (1930); Trovarsi (1932). In Germania
diede la prima di Questa sera si recita a soggetto
(1930), un altro dei suoi capolavori; a Lisbona la
prima assoluta dell’atto unico Sogno (ma forse no)
(1931) e a Buenos Aires quella di Quando si è qual-
cuno (1933). Nel frattempo andarono raffreddandosi in Italia i suoi rapporti con il fascismo, nonostante il governo lo avesse chiamato a far parte
dell’Accademia d’Italia (1929). L’acme di questo
contrasto fu toccato nell’anno in cui ricevette il
premio Nobel (1934), quando il dramma in versi
La favola del figlio cambiato fu duramente contestato da provocatori politici. A queste difficoltà
fa riferimento anche la sua ultima opera, I giganti
della montagna, complessa metafora del difficile
rapporto tra arte e potere, lasciata incompiuta al
momento della morte a Roma, e conclusa dal figlio
Stefano.
Pirandello narratore
•
•
•
•
•
“Il fu Mattia Pascal”
“Novelle per un anno”
Il sentimento del contrario
Il rapporto fra individuo e collettività
Inattendibilità della comunicazione
Fin dall’inizio della sua produzione gli schemi naturalistici assumono contorni paradossali in quanto
viene a mancare il rapporto tra la realtà e la verità. Nel romanzo Il fu Mattia Pascal il protagonista
prima scompare, accettando un suicidio di cui viene
ritenuto erroneamente vittima; poi finge un suicidio; il gioco si conclude con la completa sconfitta
dell’uomo, costretto, dal fluire della vita, a sopravvivere a se stesso. La prosa nervosa e ironica, la
successione di fatti inattesi, ma tutti rigorosamente
concatenati in un contesto in cui pure domina il
caso, fanno di quest’opera uno dei capolavori
europei del Novecento.
L’opera complessivamente più alta della prosa
pirandelliana è costituita dalle Novelle per un
anno, che disegnano un mondo caotico dominato
dal caso e dal male di vivere e danno un efficace
e originale ritratto della società italiana di primo
Novecento.
Pirandello scrisse anche alcuni testi teorici. Il primo
è l’Umorismo, in cui egli definisce la caratteristica
peculiare della sua opera come “il sentimento del
contrario”, cioè la capacità di avvertire la soffer-
enza attraverso il contrasto tra ciò che ciascuno
è e ciò che rappresenta per gli altri. L’ultimo lavoro teorico è Uno, nessuno e centomila, originale
romanzo-saggio in cui la teoria dell’autore viene
esposta organicamente: il tema fondamentale è il
rapporto fra individuo e collettività. Per stabilire tale relazione, l’individuo ha bisogno di darsi
una forma che lo rappresenti stabilmente agli occhi degli altri, fatta di convenzioni, di ruoli familiari e professionali, di doveri e soprattutto dei giudizi e pregiudizi altrui, ai quali la persona cerca
di adattarsi per ottenere una riconoscibilità pubblica
(assumendo, appunto, centomila maschere), fino al
punto di non riconoscersi più. Dal contrasto tra il
divenire della vita e la staticità della forma nasce
dunque l’acuta sofferenza della persona e l’assurda
inattendibilità della comunicazione.
Pirandello drammaturgo
• Teatralizzazione dei rapporti umani
• La novità del teatro pirandelliano
• I personaggi come pura forma
Da questa situazione di sdoppiamento, tra il
fluire della vita e la staticità della maschera, discende una complessiva teatralizzazione dei rapporti umani, in quanto ciascuno è costretto a recitare la parte che il mondo circostante gli impone. Questa problematica è approfondita nella
prima produzione teatrale di Pirandello: esempi
particolarmente significativi sono Così è (se vi
pare) e Il gioco delle parti. Ma la vera novità del
suo teatro consiste nella rottura del realismo scenico e nella creazione del teatro in cui viene rappresentato il dramma dei personaggi, intesi
autonomamente e non più come proiezioni
sceniche delle persone. Mentre le persone, nella
quotidianità, sono costrette ad assumere una forma
e a recitare la parte assegnata loro dalla società,
i personaggi, invece, sono pura forma, vivono
sempre le stesse vicende che loro assegna l’autore
una volta per tutte, in una fissità psicologica fuori
dal tempo. Testo esemplare in questo senso è il
dramma dei Sei personaggi in cerca d’autore, la
cui trama, relativa a una tragica storia di miseria
morale e materiale, è funzionale al vero dramma:
i personaggi, creati dall’autore nella propria mente
(ma da lui rifiutati e quindi non fatti vivere in un
testo) cercano vanamente, attraverso una compagnia di attori, di mettere in scena la loro storia;
scoprono tuttavia che non vi può essere corrispondenza tra la verità e la rappresentazione; riproducono allora i frammenti smarriti di una creazione tragica e sterile.
Il giudizio critico
Con la sua ampia produzione teatrale e narrativa,
Pirandello è una delle voci più significative della
cultura italiana del Novecento e, in assoluto, uno
degli scrittori italiani più noti nel mondo. Interprete della crisi dell’uomo moderno nel rapporto con se stesso e con gli altri, egli ha con-
tribuito sensibilmente alla formazione del romanzo
del Novecento, facendogli superare gli schemi del
verismo. Altrettanto decisivo il suo apporto nel
rinnovamento del teatro tradizionale, come attesta
la sua fortuna, inalterata in tutto il mondo.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Luigi Pirandello (1867-1936), di Agrigento, si laurea
in Germania e, stabilitosi a Roma, insegna alla facoltà
di Magistero dal 1897. Un dissesto economico e le
gravi condizioni mentali della moglie lo costringono
a un’intensa attività di scrittore. Nel 1924 aderisce al
fascismo. Nel 1925 fonda il Teatro d’Arte con una
propria compagnia. Accademico d’Italia nel 1929 e
premio Nobel per la letteratura nel 1934.
NARRATIVA
L’esclusa (1901); Il fu Mattia Pascal (1904); I vecchi
e i giovani (1909); Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925); Uno, nessuno e centomila (1925);
Novelle per un anno (1922; poi postume, nel 1937 per
complessivi 15 volumi).
PRINCIPALI OPERE TEATRALI
Pensaci Giacomino (1916); Liolà (1916); Così è (se
vi pare) (1917); Il berretto a sonagli (1917); Il piacere dell’onestà (1917); Il gioco delle parti (1918);
Sei personaggi in cerca d’autore (1921); Questa sera
si recita a soggetto (1930).
GIUDIZIO CRITICO
Pirandello compie una grande rivoluzione letteraria,
specie nel teatro. Partito dal naturalismo, approda a
una tecnica di sgranamento e di “ironizzazione” narrativa, così da definire un nuovo punto di vista della
scrittura, non più monolitico e ottocentesco bensì policentrico e relativistico. Mostrare la “duplicità” comica e tragica dell’esistenza significa descriverne
l’apparenza: l’uomo romantico si sgretola a favore di
una coscienza profondamente paradossale, come appunto la coscienza dell’uomo del Novecento.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è il tema concettuale del Mattia Pascal?
2. Che cosa intende Pirandello con la nozione di
“sentimento del contrario”?
3. Come concepisce Pirandello il rapporto fra individuo e collettività?
4. Qual è la novità del teatro di Pirandello? Che
cosa cambia nella concezione dei personaggi?
4 ITALO SVEVO
Italo Svevo è uno dei maggiori romanzieri italiani contemporanei; egli ha fatto suo il presupposto essenziale
del Novecento: la letteratura è un’analisi spietata, paradossale e ironica della coscienza moderna. Narrare non
significa più rappresentare il mondo, quanto trascrivere
l’assurda e inquietante casualità delle sue leggi, della
sua possibile insignificanza. Al pari dei migliori scrittori
di inizio Novecento, ha colto la crisi della cultura europea,
l’ansia e l’inspiegabile tragicità della vita quotidiana.
La vita e le opere
•
•
•
•
•
•
L’esordio letterario
Le attività commerciali
L’approccio alla psicoanalisi
L’amicizia con Joyce
Il capolavoro
Il successo
La vita e le opereItalo Svevo (pseudonimo di Aron
Ettore Schmitz, 1861-1928) era figlio di un commerciante ebreo di origine tedesca. Compì gli studi
tecnico-commerciali in Baviera e a Trieste. Nel
1880, dopo essere stato assunto alla Unionbank viennese, iniziò a coltivare gli interessi letterari e
a partecipare attivamente alla vita intellettuale
triestina. Cominciò a scrivere novelle (L’assassinio
di via Belpoggio, 1890) e il romanzo Una vita, pubblicato a proprie spese con lo pseudonimo di Italo
Svevo nel 1892, senza ottenere alcun successo. Nel
1896 sposò Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale. Negli anni successivi stese il secondo romanzo, Senilità (1898), parzialmente autobiografico. Lasciata la banca, nel 1899 entrò come dirigente nell’azienda del suocero. Per circa vent’anni
abbandonò, almeno apparentemente, l’attività letteraria; in realtà continuò a scrivere novelle e
commedie (da ricordare Il marito, 1903), tenne un
diario, si dedicò allo studio del violino e fu attratto
dalla psicoanalisi. Tradusse in italiano, per interesse
personale, l’opuscolo Il sogno di Freud.
L’avvenimento più rilevante anteriore al primo con-
flitto mondiale fu l’amicizia con lo scrittore irlandese James Joyce, residente a Trieste, che gli
diede tra l’altro un giudizio competente sulle sue
prime opere, spingendolo a dedicarsi di nuovo alla
narrativa. A partire dal 1919 scrisse il suo romanzo
più famoso, La coscienza di Zeno (1923). In Italia
l’opera non suscitò attenzione, ma l’entusiastica approvazione di Joyce suscitò il positivo intervento
dei prestigiosi critici francesi V. Larbaud, B.
Crémieux e P.-H. Michel; nel 1925 il giovane Eugenio Montale pubblicò una positiva recensione del
romanzo: fu il successo anche in Italia. Svevo continuò a produrre soprattutto racconti lunghi, tra cui
Vino generoso (1927); Una burla riuscita (1928);
Corto viaggio sentimentale, iniziato nel 1925 e mai
concluso; la Novella del buon vecchio e della bella
fanciulla, per la quale Svevo scrisse due possibili
finali. Compose anche alcune opere teatrali: Con
la penna d’oro e La rigenerazione (pubblicate postume). Iniziò a scrivere un quarto romanzo di ampio
respiro, Il vecchione, di cui stese alcuni lunghi
frammenti e gli abbozzi di qualche capitolo. Nel
marzo 1928 venne festeggiato a Parigi in un
solenne incontro al Pen Club.
L’uomo inetto
• L’uomo inetto
• “Senilità”
• L’eroe negativo, malato
Fin dal primo romanzo, Una vita, Svevo descrive
un particolare individuo borghese, attratto
dall’arte, bloccato da un condizionamento nevrotico che lo rende “inetto” e inadatto a vivere la
concretezza del mondo del commercio e della realtà quotidiana. Nel secondo romanzo lo scrittore
torna ancor più sul tema dell’inettitudine, che fin
dal titolo, Senilità, è termine allusivo della condizione psicologica di chi è incapace “d’arrivare
all’immediata rappresentazione di una cosa reale”,
così come fanno gli altri. Lo splendido ritratto
psicologico del protagonista Emilio Brentani mette
a fuoco le caratteristiche dell’uomo moderno, eroe
negativo, “malato”, continuamente in fuga dal
presente, perduto dietro a desideri illusori e a
modelli astratti.
“La coscienza di Zeno”
• Il riemergere di materiale psichico
• La struttura narrativa centrata su nuclei di interesse
• La scrittura di Svevo
• Il rapporto psicoanalitico
Svevo ebbe sempre una predilezione per Senilità,
tanto ritenerla il suo lavoro migliore, ma è indiscutibile che il terzo romanzo, La coscienza di Zeno,
contiene tali e tanti elementi di novità da farlo considerare un’opera capitale del Novecento. La
prima novità consiste nella materia: non si tratta
né di un’autobiografia, né di ricordi consapevoli,
ma del riemergere di contenuti inconsci riportati
alla luce grazie a una cura psicoanalitica cui si
sottopone il protagonista. La seconda grande novità
consiste nella struttura narrativa dell’opera: le vicende non sono esposte secondo uno schema narrativo scandito da uno sviluppo logico o cronologico, ma riemergono e si riaggregano attorno a
nuclei di interesse che costituiscono l’argomento
e i titoli dei capitoli centrali del romanzo: “Il
fumo”, “La morte di mio padre”, “La storia del
mio matrimonio”, “La moglie e l’amante”, “Storia
di un’associazione commerciale”. I particolari narrativi assumono importanza a seconda del contesto
in cui sono collocati, in quanto è l’interesse psicologico a determinare il recupero della memoria e
l’organizzazione del racconto. Tale impostazione
determina anche il caratteristico andamento della
scrittura di Svevo, in cui tra presente e passato
si sovrappongono le diverse sfumature della coscienza. I capitoli iniziali e quello finale sono dedicati al presente, rappresentato dalla cura psicoanalitica. In essi si svolge un sottile duello tra il protagonista e il medico: il medico cerca di mettere
alle strette il paziente perché non si rifugi nelle
sue menzogne; il paziente, a sua volta, mira a dimostrare l’incapacità della psicoanalisi a guarire
l’individuo, perché la duplicità psicologica non è
una malattia, ma il fondamento stesso della vita
e “la vita attuale è inquinata alle radici”. L’unica
forma di guarigione sarebbe, paradossalmente, una
catastrofe universale che cancellasse la vita umana
dall’universo.
Il giudizio critico
L’opera di Svevo appartiene alla grande stagione
narrativa europea che ha espresso talenti quali
Joyce, Proust, Kafka, Thomas Mann e Musil. Li
accomuna tutti la crisi della ragione nei confronti
degli oscuri e incontrollabili recessi dell’animo
umano. Sotto l’ironia e l’autoironia dei propri personaggi, Svevo nasconde la tragica incapacità,
l’“inettitudine” di vivere il presente come una verità tangibile, lucidamente avvertita.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA VITA
Svevo è lo pseudonimo di Aron Ettore Schmitz
(1861-1928), triestino di origine ebraico-tedesca.
Compie studi tecnico-commerciali e si impiega in
banca passando poi a dirigere l’azienda del suocero.
Svolge contemporaneamente la propria attività di
scrittore, riscuotendo notevole successo soprattutto
internazionale.
OPERE MAGGIORI
Una vita (1892), storia di un uomo “inetto”; Senilità
(1898), storia di un uomo che s’innamora drammaticamente di una donna molto più giovane; La coscienza di Zeno (1923), romanzo autobiografico di una
nevrosi e della sua cura psicoanalitica.
GIUDIZIO CRITICO
Svevo ha fatto suo il presupposto essenziale del
Novecento: la letteratura è un’analisi spietata, paradossale e ironica della coscienza moderna. Narrare
non significa più rappresentare il mondo, quanto trascrivere l’assurda e inquietante casualità delle sue
leggi, come della sua possibile insignificanza. Al pari
dei migliori scrittori di inizio ‘900, egli ha colto la
crisi della cultura europea, l’ansia e l’inspiegabile tragicità della vita quotidiana.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cosa intende Svevo per uomo “inetto”?
2. Quale rapporto esiste nell’opera di Svevo fra
letteratura e psicoanalisi?
3. In che modo la struttura narrativa e il periodo
di Svevo sono innovativi?
5 LA NUOVA POESIA:
SABA E UNGARETTI
L’opera di Saba e Ungaretti è una rivoluzione quasi inconsapevole. Saba cerca la semplicità della parola, la musicalità del verso, un paesaggio reale e quotidiano. In
Ungaretti è più evidente il confronto con la tradizione
francese; la sua poesia coglie l’innocenza e la nuda verità
umana anche nelle circostanze più tragiche. Entrambi i
poeti insieme con Campana, Rebora e Sbarbaro inaugurano la nuova poesia italiana del Novecento.
Umberto Saba
Umberto Saba è pseudonimo del triestino Umberto
Poli (1883-1957), figura straordinaria e solitaria nel
panorama della poesia italiana del Novecento.
• La vita e le opere
• I primi anni
• Gli esordi poetici
• Il tributo di “Solaria”
• Le edizioni del “Canzoniere”
Lasciò gli studi ancora adolescente per lavorare
come commesso. A vent’anni si trasferì per qualche
tempo a Firenze, dove entrò in contatto con i redattori della “Voce”, ai quali propose i propri scritti.
L’esperienza (1907) del servizio militare a Salerno
lo allontanò dall’ambiente estetizzante e lo avvicinò alla realtà quotidiana. Tornato a Trieste, nel
1909 sposò Carolina (Lina) Wölfler, che gli diede
l’unica figlia, Linuccia. Nel 1910 pubblicò a proprie spese la raccolta Poesie nella quale emergono i
versi che celebrano la vita familiare come porto di
pace. Nella successiva Trieste e una donna (1912)
domina invece il contrasto tra la sofferenza per un
amore sfuggente e l’esaltazione della città come
luogo familiare e sicuro. Dopo la prima guerra
mondiale riprese a scrivere e a pubblicare poesie:
Cose leggere e vaganti (1920); L’amorosa spina
(1921), che con le raccolte precedenti confluirono
nella prima edizione del Canzoniere (1921); Preludio e canzonette (1923); Cuor morituro (1926).
Nel 1928 la rivista “Solaria” pubblicò la sua raccolta Preludio e fughe (1928), cui seguirono Parole
(1934) e le brevi prose di Scorciatoie (1936). Le
leggi razziali imposte dal fascismo (1938) lo
costrinsero a cedere formalmente la proprietà della
libreria, e a trasferirsi a Parigi.
Con lo scoppio della guerra trovò rifugio a Firenze,
dove visse nascosto per vari mesi, visitato solo da
Montale. Alla fine del conflitto visse a Milano,
dove preparò e pubblicò le varie edizioni del Canzoniere (1945, 1948, 1951, 1961, postuma). Dopo
le ultime raccolte Ultime cose (1944); Mediterranee (1946); Uccelli. Quasi un racconto (1951), le
bellissime prose Scorciatoie e raccontini (1946),
morì a Gorizia. Postumo uscì il romanzo incompiuto Ernesto (1975).
• I temi del “Canzoniere”
• Tradizione poetica italiana e suggestioni mitteleuropee
• Ricchezza e contradditorietà della vita
• Le “parole buone”
• Innocenza nell’approccio con il mondo
Somma di tutte le raccolte pubblicate nel corso degli anni, il Canzoniere è un’opera compiuta. La
poesia di Saba nasce non da una frattura con il passato, ma da una fusione tra il grande interesse per
la poesia italiana del Settecento e dell’Ottocento
(in particolare per Leopardi) e le suggestioni più
intense della cultura mitteleuropea contemporanea
(Nietzsche e Freud).
Da queste scelte culturali discendono i suoi temi:
protagonista è l’inesausta ricchezza della vita,
con tutte le sue contraddizioni, la gioia e il dolore,
le pulsioni d’amore e di morte. Saba si appropria
dei momenti della vita con un godimento vorace
e istintivo, quasi fanciullesco, sia che si tratti delle
vie della sua città o di un’immagine di donna, di
un sogno o di un ambiente. Tutte queste cose divengono per il poeta “parole buone”, rivolte al
lettore non per disorientarlo nel labirinto del simbolismo, ma per accompagnarlo in un cammino
di amicizia. Ben diverso dall’io decadente o
crepuscolare, che diventava baluardo e difesa dal
mondo, l’io della lirica di Saba è disposto a una
fraterna comunione. Ma proprio per questa sua
“innocenza” nell’approccio con il mondo, a ogni
passo egli incontra il negativo, il senso di sofferenza e di dolore che sta in fondo a ogni manifestazione della vita, anche la più gioiosa.
Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti (1888-1970) è considerato uno
dei maggiori e più influenti poeti italiani del Novecento.
• La vita
• Il soggiorno a Parigi
• La guerra
• La docenza in Brasile
• “Vita di un uomo”
Trascorse ad Alessandria d’Egitto, dov’era nato,
gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza. Nel
1912 si recò a Parigi per completare gli studi alla
Sorbona. Qui fece amicizia con i maggiori protagonisti dell’avanguardia letteraria e artistica
(Apollinaire, Picasso, Jacob, Modigliani e de
Chirico), e conobbe Ardengo Soffici e Aldo
Palazzeschi, che inviarono in Italia alcune sue
poesie, apparse sulla rivista “Lacerba”. Rientrato in
Italia nel 1915, partecipò alla prima guerra mondiale. L’esperienza della trincea sul Carso fu decisiva per la sua vocazione di poeta. Proprio al
fronte, nel 1916, apparvero le ottanta copie della
prima raccolta, Il porto sepolto, confluita nel 1919
in Allegria di naufragi e poi nell’edizione definitiva, L’allegria (1931). Stabilitosi a Roma, si
guadagnò da vivere redigendo rassegne stampa per
il ministero degli esteri e collaborando a giornali e
riviste. Furono anni di ripiegamento interiore, che
lo portarono alla nuova maturità stilistica espressa
nei versi di Sentimento del tempo (1933). Nel 1936
andò a insegnare letteratura italiana all’università di
San Paolo del Brasile. Rientrato in Italia, nel 1942
venne eletto Accademico d’Italia e nominato professore di letteratura italiana all’università di Roma,
incarico che mantenne fino al 1958. Nel 1947 uscì
Il dolore, versi dedicati soprattutto alla guerra e
alla morte del figlio Antonietto. Seguirono La terra
promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952), Il
taccuino del vecchio (1960). Nel 1961 apparvero
le prose Il deserto e dopo, che raccoglie scritti di
viaggio, ricordi e pensieri di varia ispirazione. Nel
1969, alla vigilia della morte, avvenuta a Milano,
tutte le poesie furono riunite in volume, a cui lo
stesso Ungaretti diede il titolo di Vita d’un uomo.
• Le opere
•
•
•
•
Versi brevissimi
Parola-materia, verso libero
Il poeta “uomo di pena”
Metrica frantumata e parola scarnificata
•
•
•
•
Il ritorno all’ordine
Si riaffaccia la tradizione
Le ultime prove poetiche
Stile barocco
Nel 1916, in piena guerra e in un clima letterario saturo di dannunzianesimo e di “canzoni” inneggianti
alle virtù guerriere e alle gesta d’oltremare, i versi di Porto sepolto ebbero un effetto sorprendente.
In effetti quelle poesie, dai versi spesso brevissimi, talvolta composti di una sola parola, stravolgevano la tradizione, portando alle estreme
conseguenze quanto aveva iniziato Pascoli. Nessun libro del Novecento poetico italiano è stato, da
questo punto di vista, altrettanto rivoluzionario.
Nell’Allegria, dopo i ritocchi formali volti a
scolpire ancor più la parola-materia, il verso libero
(ma spesso si tratta di endecasillabi e settenari
spezzati) dilata al massimo la sua forza espressiva. Il poeta, “uomo di pena”, racconta il suo calvario di soldato come in un diario della sofferenza
scandito dal luogo e dal giorno. La solidarietà e la
compassione si elevano sui cumuli di macerie; la
metrica è frantumata, la parola è scarnificata,
ridotta alla sua essenza pura, tanto più significativa
perché sobria, frammento di vita che si staglia sul
bianco della pagina. E proprio questa voluta rarefazione (eredità del simbolismo estremo del
francese Stéphane Mallarmé) conferisce alle immagini il loro scabro e intenso lirismo, mentre il poeta, avvolto in “una corolla di tenebre”, diventa
“un grido unanime… un grumo di sogni”. Nel
dopoguerra, con Sentimento del tempo, che segna
il personale “ritorno all’ordine” di Ungaretti, il
paesaggio sarà la campagna romana, le immagini
si faranno più morbide e sensuali, le forme più
cantabili. La tradizione, prima scardinata, si riaffaccia ora nel confronto con i maestri del passato:
il verso si ricompone, torna a celebrare i fasti delle
misure classiche. Il grido dell’Allegria si fa racconto, la parola si dispiega in cadenze talora auliche.
Nel Dolore, le strazianti parole per il figlio perduto
(“In cielo cerco il tuo felice volto”) accompagnano
i versi su Roma occupata e sui disastri, soprattutto
morali, della guerra (Non gridate più), mentre, consumatasi la stagione delle smanie amorose, si af-
faccia ora quella più opaca dei ricordi. Con La
terra promessa, Un grido e paesaggi, Il taccuino
del vecchio, fino ai versi scritti ancora nel 1969,
siamo alla poesia dell’inverno: accanto agli strumenti linguistici ormai consolidati di uno stile
“barocco”, manieristico (memore del paesaggio
brasiliano) che guarda a Tasso e Leopardi, si accentuano i dubbi e i turbamenti sul destino dell’uomo;
pur nel conforto rappresentato dalla religione, la
vita viene guardata con l’ironico distacco e la
malinconica saggezza di chi ha molto vissuto e
molto sofferto.
Dino Campana
• L’ultimo poeta “maledetto”
• La vita e le opere
Considerato per l’eccentricità della vita l’ultimo
dei poeti “maledetti”, Dino Campana
(1885-1932) ha tentato uno sperimentalismo originalissimo che risente di numerose componenti
culturali, in primo luogo del simbolismo francese.
Nato a Marradi, presso Firenze, studiò chimica a
Bologna e Firenze; già nel 1905 venne ricoverato
per qualche mese nel manicomio di Imola. Vagabondò in seguito per l’Italia e all’estero. Nel 1913
entrò in contatto a Firenze con Ardengo Soffici e
Giovanni Papini. Nel 1914 pubblicò a proprie spese
la sua prima opera, Canti orfici. Nel 1918 fu internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, e lì visse fino alla morte. La maggior parte della
produzione artistica (Inediti, 1942; Taccuino, 1949;
Lettere, 1958; Taccuinetto fiorentino, 1960) fu pubblicata postuma.
• La poetica
• Rifiuto totale della realtà alienante
• Viaggio, metafora poetico-esistenziale
• La parola poetica rivelatrice della realtà inconoscibile
• Il giudizio critico
Se la follia è un modo per comprendere la sua
esistenza, nella poesia essa è il segno letterario
di un’esperienza conoscitiva, che spinge il poeta
al totale rifiuto della realtà alienante, alla ricerca
di una innocenza incontaminata. Ricollegandosi a
Baudelaire, Rimbaud, Poe, Nietzsche, Campana
sviluppa nella sua poesia una volontà anarchica
e distruttiva, che mira anche a sconvolgere i meccanismi della comunicazione borghese e a creare
con la parola poetica lampi improvvisi, “grida”
per “sputarvi in viso”. Suo tema fondamentale
è il “viaggio”, metafora poetico-esistenziale che
spinge il poeta verso terre lontane alla ricerca di una
terra sognata, intuita solo poeticamente. Ricerca,
conoscenza, liberazione che apre agli aspetti più
inquietanti dell’esistenza; la parola poetica si fa
divina perché rivelatrice della realtà più profonda e inconoscibile. Di qui il titolo che richiama
il mitico cantore greco Orfeo e un’antica religione
misterica, per designare questa poesia capace di
penetrare nel mistero, assoluta.
La poesia di Campana occupa un posto a sé e rappresenta un risultato autonomo rispetto alle forme
dell’avanguardia. Il mito del poeta “pazzo” e “vagabondo”, nato dopo l’internamento definitivo in
manicomio, non ha agevolato la comprensione
della sua poesia.
Clemente Rebora
• La formazione laica
• La conversione e i voti
• Il giudizio critico
Di formazione laica, il milanese Clemente Rebora
(1885-1957) attraversò una grave crisi interiore che
lo portò vicino al suicidio; a questa condizione è
legata la scelta della poesia come forma di riflessione e comunicazione. Pubblicò nel 1913 i
Frammenti lirici, dominati da un profondo senso
di inquietudine esistenziale. Lo scoppio del primo
conflitto mondiale acuì il suo disagio. Pubblicò i
Canti anonimi di C. R. (1922) e datosi allo studio
delle letterature orientali e degli scrittori russi,
tradusse la favola buddista Gianardana (1923), Il
cappotto di Gogol (1922), La felicità domestica di
Tolstoj (1930). Nel 1928 si accostò alla fede cattolica, nel 1929 prese i voti e nel 1936 fu ordinato
sacerdote: al momento della sua ordinazione distrusse tutti i suoi scritti e si chiuse nel completo
isolamento, senza tuttavia mai smettere l’attività
poetica, come testimoniano le ultime raccolte di
argomento religioso: Via Crucis (1955); Canti
dell’infermità (1956).
La poesia di Rebora nasce da un espressionismo
martellante, quasi plasmato e lavorato da
un’interrogazione spirituale angosciosa che pare
priva di soluzione. Come nel caso lontano di Jacopone da Todi, anche la sua poesia religiosa appare
un dramma irrisolto, perpetuo e luminosissimo.
Camillo Sbarbaro
• Le prime raccolte
• La natura “desertica” del mondo
• La prosa lirica
• Ordine scabro e levigato
Camillo Sbarbaro (1888-1967) visse sempre nella
nativa Liguria, appartato rispetto al mondo ufficiale
della cultura. Collaboratore della rivista “Lacerba”,
diede la prima prova con Resine (1911), raccolta
densa di reminiscenze pascoliane e crepuscolari in
cui si avverte il tentativo di oggettivare
nell’immagine (il paesaggio arido e scabro della
Liguria), il sentimento dolente e desolante della
solitudine interiore. In Pianissimo (1914), l’opera
poetica più riuscita, negata ogni possibilità di inserirsi nel contesto sociale e proclamata la natura
“desertica” del mondo, il poeta si ripiega amaramente su se stesso. Lo stesso senso di inutilità della
vita, di aridità dell’uomo percorre i versi di Rimanenze (1955) e di Primizie (1958), nei quali però è
avvertibile una sorta di riflessiva saggezza che consente al poeta di ritrovare conforto nella vita e nella
stessa poesia.
Si dedicò anche a lungo alla prosa lirica con brevi
composizioni, frammenti di scarna essenzialità, di
squisita cura formale (Trucioli, 1918; Liquidazione,
1928; Fuochi fatui, 1956; Scampoli, 1960; Gocce,
1963; Quisquilie, 1967).
Il segreto della poesia di Sbarbaro è un ordine
scabro ma anche immobile e levigato, come in un
codice buddista. Egli fu tra i primi poeti del nuovo
secolo a scoprire, con ingenuità poetica, l’assurda
insensatezza dell’esistere.
SCHEMA RIASSUNTIVO
UMBERTO SABA
Nutrita di tradizione poetica italiana e mitteleuropea,
la sua poesia è aperta alla ricchezza e contraddittorietà della vita in una fraterna comunione. Ma per
questa sua semplicità e “innocenza” di approccio con
il mondo, egli incontra il negativo, la sofferenza e
il dolore che stanno in fondo a ogni manifestazione
della vita, anche la più gioiosa. Opera principale:
Canzoniere (1945; 1961, edizione postuma definitiva).
GIUSEPPE UNGARETTI
La poesia è la ricerca della verità umana e il poeta
è “uomo di pena”. Le parole, scavate fino all’osso,
pesano con un enorme dolore e diventano materia.
La solidarietà e la compassione si elevano sui cumuli
di macerie. La metrica è frantumata in versi brevissimi, la parola scarnificata, ridotta alla sua essenza
pura, e tanto più significativa perché sobria, frammento di vita che si staglia sul bianco della pagina.
Negli anni più maturi si riaffaccia la tradizione con
un ritorno all’ordine in una visione di ironica e malinconica saggezza.
Opere
Allegria di naufragi (1919); Sentimento del tempo
(1933); Il dolore (1947); La terra promessa (1950);
Un grido e paesaggi (1952); Il taccuino del vecchio
(1960).
DINO CAMPANA
Considerato per l’eccentricità della vita l’ultimo dei
poeti “maledetti”, ha tentato uno sperimentalismo
originalissimo, che risente di numerose componenti
culturali, in primo luogo del simbolismo francese.
Opera principale: Canti orfici (1914), in cui il viaggio
è metafora poetico-esistenziale.
CLEMENTE REBORA
La sua poesia ha un’altissima ispirazione religiosa; il
dramma esistenziale comunque irrisolto si manifesta
in un fortissimo espressionismo lirico. Opere: Frammenti lirici (1913), Canti dell’infermità (1956).
CAMILLO SBARBARO
Fece della “rinuncia”, della povertà esistenziale il
nucleo della sua poesia, in una scabra e insieme levigata oggettività poetica. Opere principali: Resine
(1911); Pianissimo (1914); prose liriche: Trucioli
(1920); Fuochi fatui (1956), Scampoli (1960).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cosa sono e quale funzione hanno per
Saba le “parole buone”?
2. Come la parola-materia conferisce un intenso
lirismo alla poesia di Ungaretti?
3. Quale metafora esprime il tema del “viaggio”
nella poesia di Campana?
4. A quale altro grande poeta italiano si può avvicinare Rebora e perché?
5. Che cosa esprime la levigata “oggettività” di
Sbarbaro?
6 GLI ANNI VENTI E
TRENTA
Il primo dopoguerra vede da una parte un rilancio della
narrativa (con l’esigenza di un nuovo tipo di romanzo) e
dall’altra un “ritorno all’ordine”, rappresentato soprattutto dalle proposte della rivista romana “La Ronda”.
Negli anni di consolidamento del regime fascista, il ventennio fra le due guerre conosce una produzione narrativa
e poetica di notevole livello. Riappare il romanzo naturalistico a cui corrisponde un espressionismo tutto grottesco
e municipale. Si affacciano sul panorama letterario molte
figure (come Montale, Bontempelli, Debenedetti, Landolfi,
Moravia) che saranno significative anche per la letteratura della seconda parte del secolo.
Enrico Pea
• I primi anni avventurosi
• Le tragedie
• Narrativa autobiografica
Enrico Pea (1881-1958), nato a Seravezza, presso
Lucca, visse un’adolescenza disagiata, svolgendo
diversi mestieri, fra i quali il mozzo, finché si stabilì
ad Alessandria d’Egitto. Qui conobbe il poeta G.
Ungaretti, che curò la pubblicazione della sua
prima opera in versi, Fole (1910). Ritornato in
Italia, Pea si stabilì a Viareggio, dove, fondato il
teatro Politeama, compose le tragedie Giuda
(1918), Prime piogge d’ottobre (1919) e Rosa di
Sion (1920), seguite dalla Passione di Cristo
(1923). Fra i numerosi racconti e romanzi, molti a
sfondo autobiografico, dominati dalla rievocazione
mitico-popolare della terra versiliese e da personaggi che sanno vivere passioni peccaminose e primordiali, spiccano la trilogia Moscardino (1922), Il
volto santo (1924), Il servitore del diavolo (1931), e
i romanzi: Magoometto (1942), Lisetta (1946), Zitina (1949), Peccati in piazza (1956) e Il “ Maggio”
in Versilia, in Lucchesia e in Lunigiana (1954), che
palesa l’amore e l’interesse per la rappresentazione
dei “maggi” toscani. Morì a Forte dei Marmi.
“La Ronda” e il rondismo
• Un nuovo classicismo
• La prosa d’arte
La rivista romana “La Ronda”, pubblicata fra
il 1919 e il 1922, rifiutò l’esperienza
dell’avanguardia. Il suo stesso titolo, alludendo
alla ronda militare, prospettava l’esigenza di ordine
nelle fila del mondo letterario. Venne proposta una
sorta di nuovo classicismo, tutto “italiano”, che si
rifaceva al magistero di Manzoni e Leopardi. I
rondisti (Cardarelli, Baldini, Bacchelli, Cecchi,
Barilli) guardarono alla prosa, e in particolare alle
Operette morali leopardiane, come a un mezzo per
trovare un perfetto equilibrio formale, serio e dignitoso. L’esigenza finiva però per far trascurare la
necessità di una costruzione strettamente romanzesca. Ne derivò quindi una sorta di “frammentismo” luminoso e affascinante, anche se perfettamente opposto a quello drammatico e urlato
della “Voce”, soluzione stilistica elegante, ma per lo
più priva di contenuti originali.
• Vincenzo Cardarelli
• Opere miste di prosa e poesia
• Il riferimento ai modelli della tradizione
• Il tempo, le stagioni, i paesaggi
Vincenzo CardarelliVincenzo Cardarelli è lo pseudonimo di Nazareno Caldarelli, di Tarquinia
(1887-1959), l’esponente di maggior rilievo della
tendenza a una parziale restaurazione dei valori poetici tradizionali. Autodidatta, collaborò alla rivista
“La Voce”, e fu tra i fondatori della “Ronda”. Molte
delle sue opere sono scritte in un misto di poesia e
di prosa; Prologhi (1916); Viaggi nel tempo (1920);
Prologhi Viaggi Favole (1929); Il sole a picco
(1929).
In seguito i versi furono raccolti e pubblicati a parte
in Poesie (1936, 1942, 1948). Quasi estranea al
panorama della lirica europea del Novecento, la
sua poesia si rifà ai modelli della tradizione italiana, in primo luogo a Leopardi: frutto di una cura
meticolosa, essa è caratterizzata da una chiarezza
classica, che Cardarelli contrappose all’ermetismo.
Temi dominanti sono il tempo e le stagioni, non
colte nel loro divenire, ma rappresentate nella loro
assolutezza, fissate perfettamente dalla parola;
dominano i paesaggi caratterizzati da chiare e accurate descrizioni.
Misurate e classicheggianti le prose (Solitario in
Arcadia, 1947; Villa Tarantola, 1948), in cui ricorre
il mito delle origini, di un’Etruria assolata e allusiva; quelle autobiografiche sono pervase spesso
da una profonda malinconia dovuta a un presente
sempre amaro.
• Riccardo Bacchelli
• Equilibrio tra intelligenza e sensualità
• “Il diavolo al Pontelungo”
• “Il mulino del Po”
Il bolognese Riccardo Bacchelli (1891- 1985), di
cui è rilevante l’opera narrativa, fu tra i fondatori
della rivista “La Ronda”. Al classicismo programmatico egli però giunse dopo aver superato una precoce crisi decadente, di cui sono testimonianza i
versi dei Poemi lirici (1914). Il difficile equilibrio
tra intelligenza e sensualità, moralità e fantasia, poli estremi della sua singolare e complessa ispirazione, si può dire già raggiunto nelle due felici
opere Lo sa il tonno del 1923 (deliziosa favola
satirica, dove un pesce spada e una remora aiutano
un giovane tonno a raggiungere una disincantata e
matura saggezza), e Il diavolo al Pontelungo del
1927 (storia degli esperimenti anarchici in Italia e
del loro fallimento, dove una manzoniana ironia si
alterna a momenti d’intensa drammaticità). In altri romanzi, invece, l’equilibrio si spezza per il prevalere di ambizioni intellettualistiche che spingono
lo scrittore a tentare il tema erotico (La città degli
amanti, 1929) o a scandagliare i misteri della psiche
(Oggi, domani e mai, 1932), allontanandolo da quel
contatto con la terra e con la storia in cui vive la sua
migliore ispirazione. La vocazione di Bacchelli
al racconto, all’evocazione storica e illustre, si
realizza compiutamente nella vasta narrazione de
Il mulino del Po (1938-40): il freno della storia e
la lezione di Manzoni temperano l’esuberanza talora barocca dello stile, costringendolo nei limiti
d’un realismo di sapore romantico e d’un epos
popolaresco che abbraccia un secolo intero di storia. Nei successivi romanzi (Il pianto della figlia di
Lais, 1945; Lo sguardo di Gesù, 1948; Non ti chiamerò più padre, 1959; Il coccio di terracotta, 1966)
prevale nello scrittore una virile malinconia, orientata in senso religioso. Al tema dell’amore coniugale, già affrontato in Una passione coniugale
(1930), Bacchelli tornò in Rapporto segreto (1967)
e nell’Afrodite: un romanzo d’amore (1969) di
struggente lirismo.
• Antonio Baldini
• “Michelaccio” e “Rugantino”
Il romano Antonio Baldini (1889-1962), scrittore
e giornalista, elegante estensore di terze pagine,
fu tra i fondatori della rivista “La Ronda”. Dopo
un libro di memorie sulla prima guerra mondiale
(Nostro Purgatorio, 1918), si specializzò nel genere
del ritratto pungente e ironico. Tra i racconti è da
ricordare Michelaccio (1924), personaggio ormai
proverbiale fra caricatura e maschera popolare, che
rappresenta un villano che vive in un suo mondo
fuori dal tempo. Scrisse inoltre le prose romane
Rugantino (1942) e testi nati dalle sue esperienze
di viaggio.
• Bruno Barilli
• Vivace prosa barocca
Oltre che letterato, Bruno Barilli (1880-1952), nato
a Fano, fu compositore e critico musicale. Tra i
fondatori della rivista “La Ronda”, egli mantenne
un denso equilibro fra curiosità espressiva e desiderio di tradizione. Scrisse numerosi saggi di crit-
ica musicale (Delirama, 1924; Il sorcio del violino,
1926; e Il paese del melodramma, 1929), libri di
viaggi (Il sole in trappola. Diario del periplo
dell’Africa, 1931; Parigi, 1933; Il viaggiatore
volante (1946), e la raccolta di frammenti Capricci
di vegliardo (1951). La sua prosa, barocca, vivace
e cromatica, è comunque lontana dal decoro e dalla
compostezza espressiva predicati dalla “Ronda”.
Massimo Bontempelli
Il comasco Massimo Bontempelli (1878-1960)
nella sua opera narrativa propose in chiave elegante
ma ancora conformista un desiderio di apertura alla
modernità.
• La vita e le opere
• Accademico d’Italia
• Arte per la società industriale
• Gli scritti futuristi
• La rivista “Novecento”
Figlio di un ingegnere ferroviario, studiò a Milano e
a Torino; si occupò di editoria e di giornalismo. Nel
1930 venne nominato Accademico d’Italia, proprio
quando cominciava ad avvertire un crescente disagio nei confronti del regime fascista, di cui,
benché fosse iscritto al partito, non condivise mai il
tentativo di controllare la cultura e gli intellettuali.
Il suo percorso letterario è contraddistinto dall’urgenza di creare un’arte destinata alla società industrializzata: Bontempelli recupera così il messaggio delle avanguardie, specie del futurismo, che
aveva richiamato gli artisti a un rapporto stretto
con il mondo della produzione. Futuristi sono il
libro di poesia Il purosangue (1920), i romanzi La
vita intensa (1920) e La vita operosa (1921), dove
le soluzioni narrative risultano però cerebrali e di
maniera. I successivi romanzi La scacchiera davanti allo specchio (1922) ed Eva ultima (1923) superano il futurismo e risentono delle suggestioni
della pittura metafisica (G. de Chirico, C. Carrà,
G. Morandi) e del teatro del grottesco. Gli sforzi
per portare avanti lo sperimentalismo si concretizzarono nella rivista “Novecento” (fondata nel 1926
con il giornalista e scrittore toscano Curzio
Malaparte, che darà il meglio di sé nei crudi romanzi Kaputt, 1944, e La pelle, 1949), bandiera del
modernismo. Il figlio di due madri (1929), Vita e
morte di Adria e dei suoi figli (1934), Gente nel
tempo (1937) sono i romanzi di questo periodo,
contrassegnati da una ricerca ossessiva di valori
simbolici. Si ricordano ancora i lavori teatrali
Nostra Dea (1925), Minnie la candida (1927),
Cenerentola (1942).
• La tematica
• Il realismo magico
La concezione dell’arte sviluppata da Bontempelli
è sintetizzata nella formula “realismo magico”. In
polemica da una parte con il verismo ottocentesco,
dall’altra con la letteratura accademica, Bontem-
pelli sostiene che l’arte deve essere “realistica”,
ovvero legata al mondo, ma anche “magica”,
cioè
deve
rappresentare
“l’irruzione
dell’assurdo nella realtà quotidiana”, scoprendo
“il senso magico nella vita”. Di qui anche la particolare attenzione per il cinema. Il suo sperimentalismo tuttavia mostrò a volte congegni narrativi artificiosi, intrecci esasperati, ricerca eccessiva di sorprese e di cambi di scena.
Corrado Alvaro
Il calabrese Corrado Alvaro (1895-1956) avanza
la proposta di un nuovo realismo narrativo. Nella
narrativa conseguì i risultati più significativi: dalla
raccolta di racconti La siepe e l’orto (1920) al romanzo L’uomo nel labirinto (1922), ai racconti
Gente in Aspromonte (1930), l’opera migliore, alla
trilogia meridionalistica delle Memorie del mondo
sommerso (L’età breve, 1946; Mastrangelina, 1960
e Tutto è accaduto, 1960).
• Le tematiche
• Le plebi contadine del Sud
• Nostalgia per una mitica terra di giustizia
Il realismo, l’attenzione alla realtà degli
emarginati e delle plebi contadine del Sud, sono
i temi narrativi di Alvaro. La vicenda del povero
ragazzo calabrese, protagonista di Gente in Aspromonte si carica di valenze etico-sociali, non disgiunte dalla nostalgia per una terra incantata,
mitica, lontana dalle disuguaglianze e dalla
sopraffazione. Nel romanzo L’uomo è forte, scritto
dopo un suo viaggio in Unione Sovietica, nel quale
lo scrittore non solo analizza l’oppressione delle società totalitarie, ma anche delle grandi città industriali del Nord. Le due vocazioni, meridionalistica
e cosmopolita, sembrano coniugarsi nella trilogia
Memorie del mondo sommerso. Alvaro conclude la
propria vicenda narrativa con il romanzo Belmoro,
incompiuto, dove presenta e sintetizza i suoi temi
più cari.
“Solaria” e i solariani
•
•
•
•
•
Una coscienza letteraria europea e cosmopolita
Giovanni Comisso
Alessandro Bonsanti
Arturo Loria
Pier Antonio Quarantotti Gambini
La rivista “Solaria” nasce a Firenze nel 1926
per iniziativa del giornalista Alberto Carocci. Sua
prospettiva era l’apertura a una coscienza letteraria
europea e cosmopolita, liberata dai condizionamenti
programmatici
o
nazionalistici.
Dall’esperienza della “Ronda” ereditò il culto
dell’eleganza formale e un implicito disimpegno
nei confronti del regime fascista. La rivista
“Solaria” fece conoscere Federigo Tozzi e Italo
Svevo, ma anche Proust, Joyce, T.S. Eliot e Kafka.
La sua ricerca letteraria fu un tentativo di approfondimento civile e politico. Le pubblicazioni vennero sospese nel 1936, dopo alcuni interventi della
censura fascista. Tra i collaboratori figurano Eugenio Montale, Giacomo Debenedetti, Carlo Emilio
Gadda, Riccardo Bacchelli, Elio Vittorini e Giuseppe Ungaretti.
All’interno della nuova aria europea ebbero modo
di maturare scrittori molto diversi fra loro, ma tutti
accomunati da una forte ricerca narrativa.
Il trevigiano Giovanni Comisso (1895-1969), instancabile viaggiatore, curioso e vitalissimo, propose una scrittura di spregiudicata sensualità,
che pure si traduce in un raccontare conversevole,
come nei racconti cronachistici del Settecento. La
sua fama è legata a racconti (Gente di mare, 1929;
Un gatto attraversa la strada, 1954), a diversi libri
di viaggio (L’italiano errante per l’Italia, 1937;
Capricci italiani, 1952) e soprattutto al diario Giorni di guerra (1930), in cui l’evento tragico viene
rivissuto con uno stupore colmo di vitalità.
Il fiorentino Alessandro Bonsanti (1904-1984), richiamandosi a Proust, cercò un procedimento an-
alitico, volto a cogliere il trapasso del tempo attraverso una capillare esplorazione psicologica e
della memoria. Le sue opere più significative sono
Racconto militare (1937), il romanzo ciclico La vipera e il toro (1955) e la tetralogia La buca di San
Colombano (1964-72).
Arturo Loria (1902-1957), di Carpi, si avvalse di
una prosa sempre drammatica e impietosa sulle assurdità quotidiane nei racconti: Il cieco e la bellona
(1928); La scuola di ballo (1932); Settanta favole
(1957) e il romanzo incompiuto Le memorie inutili
di Alfredo Tittamanti (1941).
L’istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini
(1910-1965), amico di Umberto Saba, al quale fu
legato da un forte rapporto intellettuale, svolse una
lunga attività di giornalista. Esordì nella narrativa
con racconti pubblicati su “Solaria” (1931-32) e
confluiti poi nel volume I nostri simili (1939). Di
ambientazione istriana è la trilogia autobiografica
Gli anni ciechi (Le trincee, 1942; Amor militare,
1955; Il cavallo Tripoli, 1956), in cui scandagliò la
propria tormentata adolescenza e la dolorosa iniziazione alla vita adulta. Il romanzo più noto è
L’onda dell’incrociatore (1947), forte vicenda
dominata da un complesso edipico irrisolto, ambientata nel porto di Trieste.
SCHEMA RIASSUNTIVO
ENRICO PEA
Enrico Pea (1881-1958) è autore di versi (Fole,
1910), tragedie, romanzi e racconti (Moscardino,
1922; Il volto santo, 1924), improntati alla rievocazione autobiografica e versiliana.
LA RONDA
La rivista romana “La Ronda”, pubblicata fra il 1919
e il 1922, rifiuta l’esperienza di inizio secolo e propone una sorta di nuovo classicismo, tutto “italiano”,
che si rifà al magistero di Manzoni e Leopardi, privilegiando la prosa d’arte. Fra i rondisti riconosciamo.
I rondisti
Vincenzo Cardarelli (1887-1959), autore di Poesie
(1936, 1942, 1948) di chiarezza classica, sul modello
di Leopardi. Riccardo Bacchelli (1891-1985), autore
dei romanzi storici Il diavolo al Pontelungo (1927),
Il mulino del Po (1938-40), di solido impianto narrativo, fonti di un epos popolaresco. Antonio Baldini
(1889-1962) che dopo una serie di ritratti pungenti
e ironici (Amici allo spiedo, 1918), scrisse i racconti
Michelaccio (1924) e prose romane (Rugantino). Il
critico musicale Bruno Barilli (1880-1952), autore
del saggio Il sorcio del violino (1926) e di frammenti
autobiografici (Capricci di vegliardo, 1951).
MASSIMO BONTEMPELLI
Massimo Bontempelli (1878-1960) fondò con C.
Malaparte la rivista “Novecento” (1926). Opere principali: il romanzo Gente nel tempo (1937) e il lavoro
teatrale Minnie la candida (1927). Sostenne in letteratura il “realismo magico”, cioè l’irruzione
dell’assurdo nella realtà quotidiana per scoprire il
senso magico della vita.
CORRADO ALVARO
Le opere principali del calabrese Corrado Alvaro
(1895-19567) sono i racconti Gente in Aspromonte
(1930), la trilogia Memorie del mondo sommerso
(1946-1960) e il romanzo L’uomo è forte (1938).
“SOLARIA”
La rivista fiorentina “Solaria” (1926-36) propone
l’apertura a una coscienza letteraria europea e cosmopolita, liberata dai condizionamenti programmatici o
nazionalistici.
I solariani
Fra i solariani si distinguono: Giovanni Comisso
(1895-1969), autore di Gente di mare (1929) e Giorni
di guerra (1930); Alessandro Bonsanti (1904-1984)
autore della tetralogia La buca di San Colombano
(1964-1972); Arturo Loria (1902-1957) con i racconti La scuola di ballo (1932); Pier Antonio Quarantotti Gambini (1910-1965), noto per il romanzo
L’onda dell’incrociatore (1947).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che tipo di narrativa ha espresso Enrico Pea?
2. Che cosa propugnava “La Ronda”?
3. Che cosa intende Bontempelli con “realismo
magico”?
4. Quali sono le vocazioni narrative di Alvaro?
5. Quale progetto letterario era alla base
dell’iniziativa di “Solaria”?
7 SURREALISMO E
REALISMO
Il programma del surrealismo francese, promosso intorno agli anni ’20 da André Breton, non entrò
direttamente nella letteratura italiana, che invece mutuò
da questo movimento soprattutto un immaginario fantastico. Il “surrealismo” diffuso nelle opere di Bontempelli,
nell’ultimo Pirandello o nella narrativa di Palazzeschi derivava perlopiù da esperienze autonome e direttamente
futuriste. Solo la narrativa di Savinio, Landolfi, Delfini,
Buzzati e Campanile sembrò mantenere un rapporto più
stretto con le esperienze surrealiste francesi. Sempre intorno agli anni ’30 si affermò anche una nuova forma
di “realismo”: Bilenchi, Silone, Bernari, il primo Moravia
ne furono i rappresentanti.
Surrealismo e dintorni
Nessuno scrittore italiano (compreso il migliore
Delfini) ha mai considerato direttamente i programmi poetici e politici del surrealismo. Si può
piuttosto immaginare un surrealismo più generale,
plasmato dal realismo della nostra tradizione, ma
aperto a quel fantastico fatto anche di leggerezza
e curiosità (certo pure di eredità futurista), tratti
dunque che sono integrati della migliore narrativa
italiana.
• Alberto Savinio
• Gli esordi letterari
• La narrativa e la biografia immaginaria
• Il tema della morte
Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea de Chirico
(1891-1952), nato ad Atene, fu cultore di letteratura
e musica e valente pittore come il fratello Giorgio,
con il quale condivise i rapporti con le avanguardie
del tempo durante i vari soggiorni a Parigi. Esordì
in ambito letterario con Les chants de la mi-mort
(I canti della mezza morte, 1914), a cui seguì il
volume di versi e prose Hermaphrodito (1918),
quasi un romanzo sperimentale in cui italiano e
francese si alternano. Nei romanzi Tragedia
dell’infanzia (1920, pubblicato nel 1937) e Infanzia
di Nivasio Dolcemare (1941), rappresentò
l’infanzia come oppressa dal mondo dei grandi, che
annientano la libertà fantastica del bambino. Narrate uomini la vostra storia (1942), una raccolta di
24 biografie stravaganti e immaginarie di uomini
del passato, e i racconti Casa “La Vita” (1943),
sono incentrati sul tema della morte e attraversati da
una comicità talora sinistra. Le ultime opere Tutta
la vita (1945) e Il signor Dido (1978, postumo), ripropongono l’indagine acuta e sottile sull’infanzia
e sulla morte. L’opera saggistica ha uno stile lieve e
giocoso, che predilige spesso l’aforisma, l’elzeviro,
e toni pungenti; di rilievo la Nuova enciclopedia
(1977, postuma), divertente e provocatoria enciclopedia che unisce voci del sapere tradizionale a voci
dedicate a temi e questioni di scarso rilievo. La
poliedrica opera di Savinio mostra non solo ricchezza di interessi ma anche un’intensità espressiva
capace di sintetizzare leggerezza giocosa e gravità
teorica, narrazione sfolgorante e aforisma.
• Tommaso Landolfi
• Racconti surreali e grotteschi
• I romanzi
Il toscano Tommaso Landolfi (1908-1979) visse a
lungo a Firenze, dove negli anni Trenta si legò al
gruppo dell’ermetismo. Influenzato dalla letteratura
nordica e russa, subì il fascino di autori come Hoffmann, Poe, Dostoevskij, Kafka e del surrealismo.
Esordì con racconti di tono surreale e grottesco
(Dialogo dei massimi sistemi, 1937 e Il mar delle
blatte e altre storie, 1939), in cui si delinea il suo
universo letterario: viaggi fantastici in luoghi inesistenti; figure femminili fulgide e sensuali, desiderate e irraggiungibili; pulsioni erotiche che
esplodono in desideri torbidi. Al primo romanzo,
La pietra lunare (1939), che narra della stregoneria
e del mistero che si celano nella vita di un piccolo
centro di provincia, seguirono i brevi romanzi surreali Le due zitelle (1945) e Racconto d’autunno
(1947), il racconto fantascientifico Cancroregina
(1950), viaggio di un uomo rimasto prigioniero in
un’astronave in orbita intorno alla terra, e Racconti
impossibili (1966). Le ultime opere narrative sono
caratterizzate da un andamento diaristico con il prevalere del monologo (La bière du pécheur, 1953;
Rien va, 1963; Des mois, 1967).
• Antonio Delfini
• Suggestione surrealistica
• Satire e letteratura della memoria
Il modenese Antonio Delfini (1907-1963), trasferitosi a Firenze (1933), frequentò l’ambiente della
rivista “Solaria”. Dalla lezione del surrealismo
francese assimilò una scrittura che rifiutava via via
ogni legame con il realismo nell’alveo della linea
inaugurata da Alberto Savinio. L’esuberante immaginazione dei racconti Il ricordo della Basca (1938)
raggiunge il culmine nel romanzo Il fanalino della
Battimonda (1940), dove viene stravolta anche la
sintassi. La distorsione farsesca della realtà con-
tinua nei racconti La Rosina perduta (1957) e Misa
Bovetti e altre cronache (1960). Raggiunse la notorietà con i Racconti (1963), ma i suoi risultati
migliori sono le ultime prove, dove l’elemento
satirico si combina con una letteratura della memoria, come nel racconto autobiografico Una storia (1956) e nel romanzo incompiuto Il 10 giugno
1918 (1961). Nelle Poesie della fine del mondo
(1961) introdusse la figura dell’intellettuale anarchico e stravagante.
• Dino Buzzati
• Vicende normali in chiave fantastica
• “Il deserto dei Tartari”
• Il giudizio critico
Il bellunese Dino Buzzati (1906-1972) visse quasi
sempre a Milano, svolgendo l’attività di giornalista
e maturando anche la passione per la pittura. Nei
suoi racconti si narrano vicende apparentemente
normali, rilette in chiave fantastica e surreale; la
sua opera, i cui modelli letterari sono rintracciabili
soprattutto in Franz Kafka, Joseph Conrad e Edgar
Allan Poe, comunica l’assurdo e l’angoscia esistenziali. Dopo l’esordio con i racconti lunghi Bàrnabo
delle montagne (1933) e Il segreto del Bosco Vecchio (1935), giunse al successo con il romanzo Il
deserto dei Tartari (1940), storia di un ufficiale che
al confine di un misterioso e inesplorato deserto
consuma la vita nella vana attesa del nemico:
l’ambientazione fantastica, in un luogo e in un
tempo imprecisati, comunica le più quotidiane
forme della frustrazione esistenziale. Seguirono
raccolte di racconti (fra cui spiccano I sette messaggeri, 1942 e La boutique del mistero, 1968); i romanzi Il grande ritratto (1960) e Un amore (1963),
forse il più riuscito, più vicini alla letteratura di
consumo.
Buzzati non può essere definito scrittore surreale in
senso tradizionale, perché non scardina nella pagina
letteraria ogni principio di verosimiglianza, ma ricorre a elementi reali che si caricano di significati simbolici.
• Cesare Zavattini
• Le sceneggiature cinematografiche
L’emiliano Cesare Zavattini (1902-1989), collaboratore di “Solaria”, ottenne un buon successo con la
prima opera Parliamo tanto di me (1931), seguita
da I poveri sono matti (1937) e Io sono il diavolo
(1941). Nel dopoguerra si dedicò alla sceneggiatura
cinematografica firmando molti film del neorealismo, tra cui Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette
(1948). Seguì una serie di opere in prosa, come
Straparole (1967), in cui abbondano originali
creazioni lessicali, e in poesia con versi in dialetto
(Stricarm’ in d’na parola, 1973). La sua prosa
è scintillante, umoristica, surreale, capace di
esprimere rapidamente timbri diversi, dal fiabesco
al drammatico, dal comico al sentimentale.
Il realismo
Il nuovo realismo, che va affermandosi intorno agli
anni ’30, è denudato da qualsiasi valenza “magica”,
come voleva Bontempelli. Con Bilenchi, Silone e
Bernari la realtà è materia scabra e i suoi contenuti
(il mondo dei contadini o degli operai) si fanno
oggetto narrativo da rappresentare senza enfasi alcuna.
• Romano Bilenchi
• La vita come inquieta normalità
Il toscano Romano Bilenchi (1909-1989), di Colle
Val d’Elsa, formatosi nel vivace clima intellettuale
fiorentino, populista e antiborghese fu dapprima
nelle fila del fascismo di sinistra (collaborò alla rivista “Il Bargello”), poi vicino al gruppo di “Solaria”
e ai poeti ermetici. Amico di scrittori come Vittorini
e del pittore Ottone Rosai, documentò tali rapporti
nei suoi libri di memorie. Scrittore dallo stile lineare, quasi a voler sottolineare l’esclusiva attenzione ai problemi esistenziali, fece della vita nella
sua “inquieta normalità” il tema dominante di
racconti e romanzi (Il capofabbrica, 1932; Anna
e Bruno, 1938; Mio cugino Andrea, 1943; Conservatorio di Santa Teresa, 1940 e Il bottone di Stalingrado, 1972). Altro tema della sua produzione
è la perdita dell’ingenua felicità dell’infanzia e
l’incontro dell’adolescente con la violenza degli
uomini.
• Ignazio Silone
• L’impegno politico
• La lotta dei contadini contro i soprusi
• Lingua mutuata dal parlato
Ignazio Silone è lo pseudonimo dell’abruzzese Secondo Tranquilli (1900-1978). Trasferitosi a Roma,
s’impegnò nell’attività politica, partecipando
(1921) alla fondazione del Partito Comunista. Dal
1930 visse esule in Svizzera e si allontanò dal
Partito Comunista in opposizione allo stalinismo.
Rientrò in Italia dopo la fine del conflitto mondiale
e morì a Ginevra.
Al centro del suo primo romanzo Fontamara è la
vita dei contadini, i “cafoni” della Marsica con la
loro lotta senza speranza contro la terra arida e i
soprusi di pochi ricchi e dell’autorità fascista. Nel
romanzo successivo, Pane e vino (1937), anch’esso
pubblicato prima all’estero, si avverte la rottura con
il comunismo: la lotta dei cafoni si allontana
sempre più dalle forme della lotta proletaria, verso
una sorta di socialismo cristiano, più rispettoso
della persona. Anche nelle scelte linguistiche Silone mostra la sua adesione al mondo degli
emarginati, adottando una semplicità lessicale e
sintattica mutuata dal parlato. La prospettiva etica prevale su quella politica e ideologica nel romanzi Una manciata di more (1952), Il segreto di
Luca (1956), L’avventura di un povero cristiano
(1968), romanzo-saggio che ripropone la vicenda
del papa Celestino V. Oltre ad alcuni saggi storico-
politici, è interessante Uscita di sicurezza (1956),
autoritratto psicologico e morale.
• Carlo Bernari
• “Tre operai”
• Fusione di lingua e dialetto
• Narrativa esistenziale ed espressionistica
Carlo Bernari è lo pseudonimo del napoletano
Carlo Bernard (1909-1992). Interessato ai problemi
economici e sociali del Sud, con il romanzo Tre
operai (1934) anticipò l’avvento del neorealismo
(vedi Il Neorealismo), guardando alle classi subalterne di una Napoli non più città solare mediterranea, in una prospettiva ideologica di sinistra. Particolare anche lo stile, che introduce monologhi interiori. La città meridionale campeggia ancora nei
romanzi del dopoguerra (Speranzella, 1949; Vesuvio e pane, 1952), nei quali si fondono lingua e
dialetto. Nelle opere successive (Era l’anno del
sole quieto, 1964; Un foro nel parabrezza, 1971;
Tanto la rivoluzione non scoppierà, 1976; Il giorno
degli assassini, 1980), Bernari superò la dimensione meridionale e si aprì a una narrativa esistenziale ed espressionistica.
SCHEMA RIASSUNTIVO
SURREALISMO
Il surrealismo italiano degli anni ‘30 più che mutuare
i temi poetici e politici di quello francese, si ispirò a
un immaginario fantastico, in parte erede delle esperienze futuriste.
ALBERTO SAVINIO
La poliedrica opera di Alberto Savinio, pseudonimo
di Andrea de Chirico (1891-1952), mostra non solo
una ricchezza di interessi ma anche un’intensità espressiva capace di sintetizzare leggerezza giocosa e
gravità teorica, narrazione sfolgorante e aforisma.
Opere principali: L’Hermaphrodito (1918) in versi e
prose, quasi un romanzo sperimentale in cui italiano
e francese si alternano; i racconti Casa “La Vita”
(1943).
TOMMASO LANDOLFI
Per Tommaso Landolfi (1908-1979), legato
all’ermetismo e influenzato dagli autori nordici e
russi, la letteratura diventa un gioco affascinante e
terribile, in cui la vita “narrata” si deforma in immagini scomposte e irreali. Della sua vasta produzione si
ricordano i racconti surreali e grotteschi Il mar delle
blatte (1939) e il primo romanzo, La pietra lunare
(1939).
ANTONIO DELFINI
In Antonio Delfini (1907-1963) l’esuberante immaginazione sconvolge ogni rapporto con la realtà (racconti Il ricordo della Basca, 1938), e raggiunge il
culmine nel romanzo Il fanalino della Battimonda
(1940), dove viene stravolta anche la sintassi.
DINO BUZZATI
La narrazione di Dino Buzzati (1906-1972) si avvale
dell’ambientazione fantastica, in luogo e tempo imprecisati, per descrivere le più quotidiane forme della
frustrazione esistenziale. Da ricordare i racconti
Bàrnabo delle montagne (1933) e il romanzo Il
deserto dei Tartari (1940).
CESARE ZAVATTINI
In Cesare Zavattini (1902-1989), anche sceneggiatore
di numerosi film del neorealismo, la prosa è scintillante, umoristica, surreale, capace di esprimere rapidamente timbri diversi, dal fiabesco al drammatico,
dal comico al sentimentale. Tra le opere: Parliamo
tanto di me (1931) e Straparole (1967).
ROMANO BILENCHI
Romano Bilenchi (1909-1989), scrittore essenziale,
ha come tema dominante la perdita dell’ingenua felicità dell’infanzia e l’incontro dell’adolescente con
la violenza degli uomini. Opere principali: Anna e
Bruno (1938); Conservatorio di Santa Teresa (1940).
REALISMO
Intorno agli anni ‘30 si afferma un nuovo realismo,
privo di valenza magica. I contenuti sono il mondo
contadino e operaio.
IGNAZIO SILONE
Al centro dell’opera di Ignazio Silone, pseudonimo
dell’abruzzese Secondo Tranquilli (1900-1978), sono
la vita dei contadini, i “cafoni” della Marsica con la
loro lotta senza speranza contro la terra arida e contro
i soprusi dei ricchi (Fontamara, 1933; Pane e vino,
1937) e una prospettiva meno ideologica e più etica
(Il segreto di Luca, 1956; L’avventura di un povero
cristiano, 1968).
CARLO BERNARI
Carlo Bernari, pseudonimo del napoletano Carlo
Bernard (1909-1992), con Tre operai (1934) anticipa
l’avvento del neorealismo in letteratura, rappresentando le classi subalterne napoletane in una prospettiva ideologica di sinistra. La sua scrittura è limpida
e armonica. In Speranzella (1949) e Vesuvio e pane
(1952) fonde lingua e dialetto.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Si può parlare di un vero e proprio surrealismo
italiano?
2. Quali sono i temi principali dell’opera di
Savinio?
3. Che tipo di universo grottesco e surreale delinea Landolfi?
4. Che cosa accolse Delfini della lezione del surrealismo francese?
5. Che cosa comunicano le opere di Buzzati?
6. Che genere di umorismo comunica la prosa di
Zavattini?
7. Quali sono i contenuti del realismo?
8. Quali prospettive ideologiche ed etiche ispirano l’opera di Silone?
8 L'ERMETISMO
Già dalla fine degli anni ’20, e in modo più cospicuo dagli
anni ’30, si sviluppa la corrente poetica dell’ermetismo,
termine usato inizialmente in senso negativo, come sinonimo di oscurità, e divulgato dal critico Francesco Flora nel
volume La poesia ermetica (1936). Si tratta in verità di un’
esperienza letteraria che rinuncia alla semplicità della
comunicazione per riprodurre la complessità segreta e
analogica del rapporto realtà-poesia.
La stagione ermetica
• La parola poetica pura
• Metafore e analogie simboliche e oscure
L’ermetismo si riallaccia al simbolismo francese,
prediligendo Stéphane Mallarmé e Paul Valéry, e
propone una concezione della parola poetica
“pura”, sottratta a ogni suggestione esterna (politica, sociale), alla quale viene affidato il compito di
svelare i frammenti di senso, nascosti nelle pieghe
dell’insignificante vita quotidiana: si allentano così
i legami logici e la poesia si popola di metafore
e di analogie in una trama evocativa, simbolica e
spesso “oscura”. La stagione ermetica, nel senso
più ristretto del termine, risale al confronto-scontro
degli anni ’30 con la corrente crociana. I giovani
(Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi e altri) guardavano come modello della “nuova poesia” a
Ungaretti, il quale può essere ritenuto l’iniziatore
dell’ermetismo. Soprattutto Firenze fu il centro
dell’ermetismo italiano; “Frontespizio” e “Campo
di Marte” le riviste che ne divulgarono idee e testi.
Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo (1901-1968) è uno tra gli
esponenti più significativi dell’ermetismo.
• La vita e le opere
• Le prime raccolte
• Le traduzioni
Nato a Modica, dopo gli studi di ingegneria interrotti, a Roma, attraverso l’amico e cognato Elio
Vittorini entrò in contatto con “Solaria”, che gli
pubblicò la prima raccolta poetica Acque e terre
(1930). Nel 1932 uscì la seconda raccolta, Oboe
sommerso, ma fu Erato e Apollion (1936), che lo
consacrò poeta “ermetico”. Nel 1938 si stabilì a
Milano, si dedicò alla traduzione dei classici (Lirici
greci, 1940), suscitando vasta eco. Nel 1942 apparve Ed è subito sera, senz’altro il suo titolo più
fortunato, comprendente tutte le poesie già edite,
con l’aggiunta delle Nuove poesie (1936-42). Gli
anni della guerra, insieme alle altre traduzioni (da
Catullo, Virgilio, Omero e Sofocle) che uscirono
dal 1945 in poi, dettero una svolta al suo modo di
fare poesia. Una nuova, sofferta umanità, accompagnata da una febbrile tensione etica e stilistica,
anima i versi di Giorno dopo giorno (1947), La vita
non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La
terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966).
Nel 1959 ricevette il Nobel per la letteratura.
Morì a Napoli.
• La poetica
• Poesia, estrema illusione e rifugio
• Nostalgia dei classici
Quasimodo canta l’angoscia dell’uomo di fronte
al mondo contemporaneo. In lui la poesia rappresenta l’estrema illusione, l’ultimo rifugio contro la disgregazione dei valori. Il ritorno ai classici
e alla natia Sicilia, luogo d’elezione di quell’antica
civiltà, è il tentativo di ritrovare la perduta età
dell’oro, l’isola beata non scalfita dalle modernità,
intatta nella luce mediterranea del mito. In tutta
la sua poesia si ritrovano sia la nostalgia di quel
paradiso, sia una condizione di perenne esilio.
Più tardi la guerra e l’impegno politico imporranno
al canto monodico e solitario un’apertura verso la
coralità del dolore: i versi ospiteranno la cronaca,
senza negare il proprio passato lirico, ma adeguandosi alle drammatiche urgenze della storia.
Alfonso Gatto
• Immagini vertiginosamente analogiche
• Surrealismo d’idillio
Il salernitano Alfonso Gatto (1909-1976) fondò
a Firenze con Vasco Pratolini la rivista “Campo
di Marte” (1938). Le prime due raccolte poetiche,
Isola (1932) e Morto ai paesi (1937), hanno un linguaggio fortemente evocativo; poi le “immagini
vertiginosamente analogiche” si aprono a forme più
distese nelle numerose raccolte successive (tra cui
Il capo sulla neve, 1949; La forza degli occhi, 1954;
Osteria flegrea, 1962), caratterizzate da “un surrealismo d’idillio”. Al tema fondamentale
dell’esperienza quotidiana del dolore, si accompagnano quelli della Resistenza e dell’impegno civile.
Vicino agli ermetici: Sinisgalli
• Leonardo Sinisgalli
Leonardo Sinisgalli (1908-1981), lucano, ingegnere elettrotecnico, fondò a Milano la rivista “Civiltà
delle macchine”. Le prime prove poetiche (18
poesie, 1936; Campi elisi, 1939), sollecitate
dall’amico Ungaretti, hanno un orientamento ermetico ed esprimono il ricordo ossessivo
dell’infanzia in Lucania. In seguito la sua lirica
fu più realistica e razionale (La vigna vecchia,
1956; L’età della luna, 1962; Paese lucano, 1962;
Il passero e il lebbroso, 1970; Mosche in bottiglia,
1975). Fra le prose spiccano i racconti lucani Belliboschi (1948).
SCHEMA RIASSUNTIVO
ERMETISMO
È una corrente letteraria degli anni ‘30 che rinuncia
alla semplicità della comunicazione per riprodurre la
complessità analogica del rapporto realtà-poesia.
QUASIMODO
Salvatore Quasimodo (1901-1968) è uno dei poeti ermetici più significativi; fu premio Nobel per la letteratura nel 1950. La poesia rappresenta per lui
l’estrema illusione, l’ultimo rifugio contro la disgregazione dei valori. Il ritorno ai classici è il tentativo di ritrovare la perduta età dell’oro. Tra le opere
spiccano Ed è subito sera (1942), Giorno dopo
giorno (1947), Dare e avere (1966). Notevoli le
traduzioni dei classici (Lirici greci, 1940).
GATTO
La poesia di Alfonso Gatto (1908-1981) presenta un
linguaggio ermetico fortemente evocativo. Da ri-
cordare le raccolte Isola (1932), La forza degli occhi
(1954).
SINISGALLI
Leonardo
Sinisgalli
(1908-1981)
coniuga
l’esperienza ermetica con una lirica più razionale e
realistica, nel ricordo ossessivo della natia Lucania.
Raccolte principali: Campi elisi (1939), L’età della
luna (1962).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cosa intende l’ermetismo con la concezione della parola poetica “pura”?
2. Che cosa rappresenta la poesia per
Quasimodo?
3. La poesia di Gatto esprime anche temi civili?
4. Con quale altra ispirazione poetica si coniuga
l’esperienza ermetica di Sinisgalli?
9 EUGENIO MONTALE
Eugenio Montale è forse il più grande poeta italiano del
Novecento. Fu il poeta della decenza e del rigore. La sua
lirica, lontana da qualsiasi astrazione ideologica, riuscì a
mostrare, nella complessità della sua ricerca espressiva,
il senso di un’autenticità umana che sa resistere a tutto,
a patto di rifiutare qualsiasi enfasi, qualsiasi facile gioco
di vanità. Quasi tutta la poesia contemporanea non ha
saputo prescindere dal suo straordinario e limpido insegnamento.
La vita e le opere
• “Ossi di seppia”
• Il soggiorno fiorentino
• Il trasferimento a Milano
Il genovese Eugenio Montale (1896-1981), compiuti studi irregolari, dopo la prima guerra mondiale
collaborò a varie riviste, entrando in contatto con
l’ambiente culturale ligure (soprattutto Camillo
Sbarbaro). Nel 1922 uscirono i primi versi sulla rivista “Primo tempo” di Torino, città nella quale conobbe Giacomo Debenedetti e Piero Gobetti, che gli
pubblicò Ossi di seppia (1925). Nello stesso anno firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti
e, con il saggio Omaggio a Italo Svevo, avviò la
scoperta del grande scrittore triestino. Trasferitosi a
Firenze nel 1927, assunse nel 1929 la direzione del
Gabinetto Vieusseux, che mantenne fino al 1938,
allorché fu allontanato perché non iscritto al Partito
Fascista. In quel periodo, culminato nella pubblicazione delle Occasioni (1939), scrisse sulle
maggiori riviste e conobbe Drusilla Tanzi, che più
tardi divenne sua moglie. Nel 1945 si iscrisse al
Partito d’Azione. Nel 1948 si trasferì a Milano,
dove da allora visse fino alla morte e fu redattore
del “Corriere della Sera”. Intensa fu in quegli anni
l’attività di traduttore (Eliot, Pound, Kavafis,
Shakespeare, Melville e Steinbeck fra gli altri). Nel
1956 apparvero il terzo grande libro di versi, La
bufera, le prose della Farfalla di Dinard, seguiti
dai saggi di Auto da fé (1966), dalle interviste-con-
fessioni di Nel nostro tempo (1972). Con Satura
(1971) si aprì l’ultima, prolifica stagione poetica,
che comprende anche Diario del ’71 e del ’72
(1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri
versi (1981). Nel 1975 vinse il premio Nobel per
la letteratura.
La poetica
Il messaggio poetico di scabra razionalità, di ostinata resistenza e un destino segnato dalla sconfitta, che Montale ha lanciato nella letteratura italiana, è fondamentalmente affidato a solo quattro
opere.
• “Ossi di seppia”
•
•
•
•
Tradizione lirica in un tessuto lessicale nuovo
Visione negativa dell’esistenza
Il paesaggio ligure
Scintille di conforto
Fin dal suo apparire, nel 1925, la critica vide in
Ossi di seppia il frutto già maturo di una personalità
compiuta. Erano forti i legami metrici e sintattici
con la tradizione lirica (Dante, Leopardi, Pascoli,
D’Annunzio e Gozzano), ma si innestavano in un
tessuto lessicale nuovo, distante dagli esperimenti
delle avanguardie come dalle teorizzazioni sulla cosiddetta poesia pura, e tuttavia ricchissimo di assonanze e onomatopee, di guizzi della parola improvvisi e inconsueti: soprattutto una lingua che
esprimeva in toni composti e meditativi una visione negativa dell’esistenza. La vita è per l’uomo,
inesorabilmente calato in un “lago d’indifferenza”,
un muro “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”;
l’unica speranza, esigua e parziale, è nella contemplazione della natura, che si apre talora in brevi
squarci di luminosa pienezza. E, in effetti, il
paesaggio ligure, così “scabro ed essenziale”, ha
gran parte in queste liriche, con il suo minuzioso
erbario mediterraneo, e Montale ne assorbe gli
umori. L’uomo, prigioniero del proprio cielo senza
sogni, può forse trovare qualche conforto nella
scintilla accesa qua e là, quasi per caso, da og-
getti, simulacri, eventi minimi nei quali esorcizza
la propria sete di felicità.
• “Le occasioni”
• La regola corregge l’emozione
Le occasioni sono forse il libro più compiuto,
quello in cui meglio la regola corregge l’emozione
in un equilibrio perfetto, in un lirismo disteso,
senza accensioni. In esso gli “amuleti” e una salvifica presenza femminile prendono il posto di pomari, ulivi e girasoli. Gli oggetti, analogamente a
quanto accade nella pittura metafisica e nel realismo magico, acquistano, straniati dal loro contesto
naturale, una “realtà” diversa da quella loro consueta.
• “La bufera”
• Un lume di decenza quotidiana
• Rifiuto ad arrendersi
La bufera fissa con sguardo attonito e amaro il
senso di un’immobilità fattasi rovina. Eppure,
anche nel momento in cui “la lotta dei viventi / più
infuria”, balugina un lume di “decenza quotidiana
(la più difficile delle virtù)”, e il libro si conclude
con l’indizio di un nuovo inizio, di vita che risorge
e ricomincia. Ma nulla di consolatorio è in questa
attesa; essa appare piuttosto un ostinato rifiuto ad
arrendersi, il consapevole tentativo di opporsi a
uno scetticismo ineluttabile che, a poco a poco, diventa estrosa facezia, gioco amaro.
• “Satura”
• Tono colloquiale
• Ironia e memoria
• “Quaderno di quattro anni”
La poesia dell’ultima stagione di Montale si apre
con Satura e mostra un tono colloquiale, quasi gergale, mentre il verso cede alla prosa del tempo.
Il poeta guarda il mondo dall’alto dell’esperienza
e affida il suo dire all’ironia anche sarcastica, al
paradosso, all’epigramma. Quel po’ di elegia che
rimane è per la memoria personale, per il colloquio
con la moglie morta. In Quaderno di quattro anni
(1977) la cadenza quasi quotidiana dell’appunto
poetico registra toni di svagato disincanto: siamo
quasi al nulla. Non a caso, il titolo del discorso
che Montale pronunciò per il conferimento del Nobel fu: È ancora possibile la poesia? In un mondo
sempre più votato al progresso, il poeta (e, in generale, l’artista) è un superstite paladino di civiltà.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA POETICA
Il genovese Eugenio Montale (1896-1981), forse il
più grande poeta italiano del Novecento, vince il premio Nobel nel 1975. La sua poesia negò qualsiasi astrazione ideologica, come qualsiasi facile ottimismo.
Prova estrema di dignità umana e di rigore, riuscì a
mostrare, nella complessità della sua ricerca espressiva, il senso di un’autenticità umana che sa resistere
a tutto, a patto di rifiutare qualsiasi enfasi, qualsiasi
facile gioco di vanità.
OPERE PRINCIPALI
Ossi di seppia (1925); Le occasioni (1939); La bufera
(1956); Satura (1971) e Quaderno di quattro anni
(1977).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale parte ha il paesaggio nella poesia di Ossi
di seppia?
2. Che genere di lirismo esprimono le Occasioni?
3. Quale messaggio etico esprime La bufera?
4. Come guarda il mondo il Montale della
Satura?
10 CARLO EMILIO GADDA
Osservatore acuto e lucidamente critico della società italiana, sperimentatore inesauribile delle potenzialità espressive del linguaggio, Gadda risulta una figura tra le
più affascinanti e atipiche del Novecento. I suoi capolavori
restano l’esempio di una letteratura che ha cercato di trascrivere le sofferenze e i paradossi, ma anche le orribili
corruzioni della civiltà moderna.
La vita e le opere
•
•
•
•
•
•
•
•
Gli anni giovanili
La morte del fratello
La professione di ingegnere
L’esordio narrativo
I racconti psicologici e i ricordi di guerra
“La cognizione del dolore”
Il “Pasticciaccio”
L’ultima produzione
La vita e le opereCarlo Emilio Gadda nacque a Milano nel 1893. Fatto prigioniero durante la prima
guerra mondiale e deportato, narrò l’esperienza di
quegli anni nel Giornale di guerra e di prigionia,
pubblicato in parte nel 1955 e integralmente nel
1965. La morte dell’amatissimo fratello Enrico
negli ultimi giorni di guerra segnò profondamente il
suo animo e gli provocò uno stato di nevrosi che lo
tormentò per tutta la vita. Esercitò la professione
di ingegnere elettrotecnico per qualche tempo in
Italia e poi in Argentina. Tornato a Milano (1924)
iniziò a collaborare con il giornale l’“Ambrosiano”
e scrisse il suo primo romanzo, Racconto italiano
di ignoto del Novecento (1924-26), pubblicato solo
nel 1985. Iniziò in questi stessi anni la collaborazione con la rivista “Solaria”, sulla quale
(1927) pubblicò il saggio Apologia manzoniana.
Serie difficoltà economiche lo costrinsero a tornare
alla professione d’ingegnere (1925-1931) anche
all’estero, ma Gadda si concentrò sempre più
sull’attività letteraria: scrisse il saggio filosofico
Meditazione milanese (1928-29) e il romanzo La
meccanica, incompiuti e pubblicati postumi (1970),
e pubblicò il suo primo libro La Madonna dei filosofi (1931), raccolta di racconti di contenuto psicologico, seguito (1934) da una seconda raccolta, Il
castello di Udine, incentrata sui ricordi di guerra.
Nel 1936 ebbe origine il nucleo fondamentale del
suo capolavoro, La cognizione del dolore, un intenso romanzo (1938-41) pubblicato incompleto su
“Letteratura” ed edito nel 1963. Nel 1940 si trasferì
a Firenze ove rimase fino al 1950. Qui riunì i racconti nell’opera L’Adalgisa. Disegni milanesi
(1944) ed entrò in rapporto di amicizia con numerosi scrittori, in particolare con Montale.
L’immediato dopoguerra vide Gadda impegnato
nella stesura di un altro capolavoro, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, del quale pubblicò ampi tratti su “Letteratura” nel 1946 (fu edito
nel 1957). Nel 1950 si stabilì a Roma, dove per
quattro anni lavorò alla RAI. Alla produzione di
nuovi testi (Il primo libro delle favole, 1952 e Novelle del Ducato in fiamme, 1953) affiancò la continua, a volte ossessiva rielaborazione di testi già
scritti o editi (I sogni e la folgore, 1955; i saggi I
viaggi la morte, 1958 e Verso la Certosa, 1961).
Nel 1963 uscì una nuova raccolta I racconti. Accoppiamenti giudiziosi, in cui alcuni dei suoi più
riusciti testi brevi sono accanto a importanti inediti.
L’ultima produzione di Gadda è di tipo saggistico
(I Luigi di Francia, 1964), ma non sono privi del
gusto della narrazione e di audace impasto linguistico Eros e Priapo (1967), implacabile indagine psicoanalitica della struttura retorica del regime fascista e il divertente trattatello dialogico a tre voci
Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel
verso immortale del Foscolo (1967).
“La cognizione del dolore”
•
•
•
•
L’immaginario Maradagàl-Brianza
La trama
Lettura grottesca della realtà quotidiana
Una straordinaria creazione linguistica
Lo stesso Gadda dice che la cognizione consiste nel
“procedimento di graduale avvicinamento di una
nozione”; per questo i nove “tratti” che compongono il romanzo La cognizione del dolore costituiscono altrettante tappe della comprensione delle ragioni del dolore che sottostà al rapporto nevrotico
che lega una madre e un figlio. La vicenda del romanzo è collocata in un immaginario paese sudamericano, il Maradagàl, che presenta impressionanti affinità con la Brianza sia nel paesaggio,
sia nella composizione sociale, nel carattere, nei
comportamenti degli abitanti. Il protagonista,
l’hidalgo decaduto don Gonzalo Pirobutirro
d’Eltino, è rabbioso verso un mondo intriso di volgarità, di opportunismo e di ipocrisia volta ad approfittare della generosità della madre, che egli vorrebbe proteggere dalla sua stessa bontà e che invece
continua a offendere in maniera crudele. Attorno
alla villa ruotano strani figuri. L’ambientazione nel
Maradagàl consente all’autore di realizzare una
lettura grottesca della realtà quotidiana con un
forte effetto di straniamento, che mette in evidenza la verità quanto più viene falsificata la realtà.
Un ruolo straordinario in questa operazione è
svolto dalla creazione linguistica di Gadda: un im-
pasto mutevole di espressioni dialettali lombarde e
meridionali, di termini gergali, di parole tecniche,
di vocaboli spagnoli, di costrutti letterari arcaici e
contemporanei.
“Quer pasticciaccio brutto de via
Merulana”
• La trama
• Assenza di conclusione
• Società dominata dai pregiudizi e dal calcolo
Il romanzo si presenta come un “giallo” incentrato
su due crimini avvenuti in un palazzo di Roma:
il furto dei gioielli della signora Menegazzi e
l’assassinio di Liliana Balducci, una donna ricca,
gentile e triste perché senza figli. Su entrambi indaga il commissario Ciccio Ingravallo. Invece
d’indirizzarsi verso la scoperta dei colpevoli il testo
di Gadda devia continuamente, accentuando le
complicazioni delle indagini, fornendo particolari
forse non utili alla scoperta della verità, individuando moventi possibili ma non provati. La
trama non giunge a una conclusione e proprio in
questo modo emerge dalle pagine del Pasticciaccio
il ritratto di una società in cui i comportamenti
dei singoli e della collettività sono privi di motivazioni reali, risultano dettati da consuetudini,
pregiudizi, calcoli meschini e spesso miopi e ottusi.
Anche il regime politico, il fascismo della fine degli
anni ’20, alla ricerca di una legittimazione perbenista e moralistica, contribuisce a creare un clima
in cui dominano l’ipocrisia e la corruzione del
senso etico del dovere e dello Stato.
SCHEMA RIASSUNTIVO
LA POETICA
L’opera di Carlo Emilio Gadda (1893-1973) resta
l’esempio di una letteratura che ha cercato di trascrivere le sofferenze e i paradossi, ma anche le orribili corruzioni della civiltà moderna. La sua scrittura inventa uno sperimentalismo espressivo sempre
concreto e poetico, comico quanto improvvisamente
fantastico, e dà vita a un impasto linguistico che
fonde lingua nazionale, dialetto, forme gergali e tecniche, costrutti letterari e quotidiani.
OPERE MAGGIORI
La cognizione del dolore (1939-41; poi 1963) è una
lettura terribile quanto grottesca della realtà. Attraverso una lingua deformata viene creato un mondo
rovesciato in cui la mancata corrispondenza tra cose
quotidiane e nomi consueti lacera il velo delle
abitudini tranquillizzanti.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) è
il grande ritratto di una società in cui i comportamenti dei singoli e della collettività sono privi di motivazioni reali, risultano dettati da consuetudini, pregiudizi e calcoli meschini.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. A quale luogo si ispira l’immaginario Maradagàl del romanzo La cognizione del dolore?
2. Che tipo di società rappresenta Gadda nel
Pasticciaccio?
3. Che lettura dà Gadda della realtà quotidiana?
4. Quale ruolo e quale forma ha la lingua di
Gadda?
11 IL NEOREALISMO
Alla fine della guerra, la rinascita politico-economica del
Paese avvia una radicale democratizzazione della cultura:
lo sviluppo dell’editoria popolare, la nuova scolarizzazione, il ruolo del cinema, la vitalità del giornalismo e
della radio sono fattori alla base di una cultura realistica
e popolare (di forte contenuto politico), che avrà dunque
nel “neorealismo” la sua espressione più alta.
I caratteri generali
•
•
•
•
•
•
Le premesse
Influenza americana
Il mito America
L’antifascismo
Denuncia e impegno sociale
I temi
Il termine “neorealismo” era già stato avanzato alla
fine degli anni ’30, per quegli autori (per esempio,
Corrado Alvaro) che si proponevano di riannodare
i fili con la tradizione veristica di Giovanni Verga
e Federigo Tozzi. Alla letteratura dei buoni sentimenti, cara al regime fascista, si contrapponevano
un nuovo modo espressivo e una nuova realtà
sociale, la questione delle plebi rurali del Sud
e del mondo operaio del Nord. Sulla nascita del
neorealismo del dopoguerra forte fu l’influenza
della narrativa americana, che, tradotta da letterati come Vittorini e Pavese, introdusse in un’Italia
fascista e provinciale le opere di Erskine Caldwell,
John Steinbeck, Herman Melville, William Saroyan, facendo sorgere un vero e proprio amore per
l’America, intesa come terra dell’utopia libertaria,
nuova frontiera di emancipazione e indipendenza.
L’esigenza di un atteggiamento critico nei confronti dell’Italia fascista divenne un imperativo
per quegli intellettuali, in gran parte aderenti al
Partito Comunista, che consideravano la letteratura come strumento di denuncia e di impegno
sociale. Sotto il profilo stilistico, tale vocazione
coincise con la scelta di una tecnica narrativa
diretta ed essenziale (non è da trascurare
l’influenza esercitata dal cinema) e di un linguaggio asciutto e concreto vicino al parlato popolare.
Il neorealismo propriamente detto si sviluppò dal
1940 al 1950, prediligendo in letteratura la narrativa dominata dai filoni tematici della guerra,
della Resistenza e della condizione degli
emarginati, un orizzonte comune a molti narratori
del periodo ma che non circoscrive unicamente la
loro ricerca. Sono pochi gli autori che è possibile
inquadrare a pieno titolo nell’ambito del neorealismo letterario, quando per i più importanti la
tendenza neorealista ha rappresentato principalmente un punto di partenza o una parentesi, portando a indirizzi tematici e contenutistici e a risultati
stilistici assai differenti.
Elio Vittorini
• L’impegno e la ricerca
La fiducia nella cultura, unica forza capace di
costruire un mondo più giusto e umano, è alla
base dell’intera attività di Elio Vittorini
(1908-1966). La sua letteratura fu sempre il segno
di un progresso e di una ricerca reale e concreta.
• La vita
• “Il Politecnico”
• “Il Menabò”
Nato a Siracusa, figlio di un ferroviere, dopo le elementari concluse solo i tre anni della scuola tecnica e si formò da autodidatta. Sposò la sorella del
poeta Quasimodo. Nel 1929 iniziò a collaborare
con la rivista “Solaria” e per un decennio visse a
Firenze. Nel 1938 si trasferì a Milano, dove abitò
fino alla morte. Nel 1942 iniziò una stretta collaborazione con il Partito Comunista clandestino. Dopo la Liberazione fondò la rivista “Il
Politecnico” (1945), pubblicata fino al 1947. Entrato in aperto conflitto con il gruppo dirigente
comunista sul tema dell’autonomia della cultura,
uscì dal PCI nel 1951 in seguito a una nota polemica con il segretario del partito Palmiro Togliatti.
A partire dallo stesso anno diresse per Einaudi la
collana “I Gettoni”, dedicata agli scrittori esordienti
(con cui tenne a battesimo autori di rilievo come
Fenoglio, Calvino e Cassola). Nel 1959 fondò insieme a Calvino la rivista “Il Menabò”, avviando
un’intensa stagione di dibattiti sulle avanguardie
letterarie.
• L’organizzatore culturale
• Denuncia del provincialismo
• Diffusione del mito americano
Già a partire dagli anni ’30, con l’articolo giovanile
Scarico di coscienza (1929), Vittorini denunciava
il provincialismo della letteratura italiana e la
necessità di un’apertura alle influenze straniere.
Negli anni successivi tradusse diversi romanzi
americani e nel 1941 con Emilio Cecchi curò
l’antologia Americana, raccolta di narratori statunitensi con cui diffondeva nel chiuso contesto italiano il “mito America”. La stessa fondazione del
“Politecnico” (1945) doveva essere uno strumento
per rinnovare la cultura a diretto contatto con i
problemi della vita quotidiana.
• La narrativa
•
•
•
•
•
•
“Il garofano rosso”
Il tema del viaggio
“Conversazione in Sicilia”
Lo stile
“Uomini e no”, romanzo della Resistenza
Il proletariato simbolo di dignità
L’interesse verso la contemporaneità domina anche
la narrativa, a partire dai racconti giovanili Piccola
borghesia (1931). Il primo romanzo Il garofano
rosso, uscito a puntate su “Solaria” (1933-1936)
e pubblicato in volume solo nel 1948, narra
l’iniziazione alla vita adulta di un liceale che, dopo
un’infatuazione per le idee fasciste, arriva a riconoscere la durezza e la contraddittorietà della realtà.
Tutta la narrativa successiva ruota attorno al tema
del viaggio, che diventa metafora esistenziale del
processo conoscitivo: in esso si contrappongono
sempre due mondi, la Sicilia dell’infanzia e la città,
luogo emblematico del divenire della realtà, in cui
si muove l’uomo maturo. In Conversazione in Sicilia (1941) lo scrittore compie un ritorno figurato
nel cuore delle proprie radici di uomo e del proprio
impegno di intellettuale nell’ambito di scene narrative dal forte sapore simbolico. Lo stile di Vittorini fonde realismo ed ermetismo, abbandonando i moduli naturalisti e spostando il dialogo
e il racconto dal piano dell’azione e del discorso
a quello dell’astrazione lirica del linguaggio, attraverso il ricorso intensivo alla ripetizione ritmica, a
un tono cadenzato, a simmetrie sintattiche che avvicinano la prosa alla poesia. Uomini e no (1945)
è invece il romanzo della Resistenza a Milano, in
sintonia con le istanze della letteratura neorealista,
anche se l’opera è, come la precedente, pervasa da
forti tensioni liriche, sottolineate con intere sezioni
scritte in corsivo. Seguirono i romanzi Il Sempione
strizza l’occhio al Frejus (1947), in cui le vicende
del proletariato milanese divengono simbolo della
dignità della vita popolare; Le donne di Messina
(1948), in cui Vittorini descrive l’approdo in una
comunità fondata su un irrealizzabile comunismo di
beni; l’incompiuto Le città del mondo (1969, postumo), che narra le storie parallele di alcuni personaggi in viaggio in una Sicilia ancora teatro dello
scontro fra sogno e realtà, passato e futuro.
Cesare Pavese
• L’attività editoriale
Narratore nostalgico e insieme concretamente
realista, Cesare Pavese (1908-1950) cercò di conciliare la necessità tutta civile del rispetto umano
con una drammatica coscienza di corruzione, da
cui quasi niente riesce a salvarsi. Visse in maniera
lacerante le contraddizioni, gli eventi tragici e i
dissidi morali dell’epoca, riflettendoli nel percorso
di scrittore – un continuo affinamento stilistico a
partire da un nucleo di temi costanti riguardanti
l’individuo e la società – e in una sofferta parabola
intellettuale e umana. Fondamentale la sua opera
di diffusione in Italia delle esperienze letterarie
europee e americane, nonché di materie culturalmente nuove come gli studi etnografici, antropologici e psicoanalitici che introdusse nel nostro
Paese curando in prima persona una collana per
Einaudi, casa editrice di cui fu un importante collaboratore, e lasciando un marchio indelebile nella
storia della cultura italiana.
• La vita
•
•
•
•
•
•
L’antifascismo
“Lavorare stanca”
Poesia-racconto
Solitudine psicologica
L’impegno politico
Le opere di narrativa
• La tragica fine
• Le ultime poesie
• “Il mestiere di vivere”
Nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe, Pavese
visse quasi sempre a Torino, dove entrò in contatto
con esponenti dell’antifascismo. Laureatosi nel
1932 con una tesi intitolata Interpretazione di Walt
Whitman poeta, intraprese l’attività editoriale e nel
1934 divenne direttore responsabile della rivista
“La Cultura”; ma quando (1935) questa fu soppressa dal regime fascista venne arrestato e
condannato a tre anni di confino. Graziato dopo
un anno, tornò a dedicarsi all’editoria, svolgendo
un intenso lavoro di saggista e traduttore di autori
inglesi e americani (tra gli altri William Faulkner,
John Dos Passos, Gertrude Stein, Daniel Defoe,
Herman Melville, di cui tradusse magistralmente
Moby Dick, e James Joyce) e prendendo parte
all’antologia Americana (1941), curata da Vittorini.
Sua prima opera fu la raccolta di poesie Lavorare
stanca (1936), la cui seconda edizione (1943) com-
prende anche l’importante saggio Il mestiere di poeta. Pavese sperimentava nuove soluzioni stilistiche e metriche – l’adozione, in particolare, di
una struttura e di una cadenza narrativa, con lo
sconfinamento dalle misure tradizionali come
l’endecasillabo nei “versi lunghi” ipermetrici –
coniando un genere da lui definito “poesia-racconto”, che lo collocava in una posizione di notevole originalità all’interno della coeva produzione
nazionale. Nonostante le numerose, intense amicizie, visse gli anni dell’anteguerra e della guerra in
uno stato di solitudine psicologica intensa e dolorosa, anche a causa di una vita sentimentale difficile e tormentata. Nel romanzo Paesi tuoi (1941),
con cui si impose all’attenzione della critica, sono
già presenti tutti i temi della sua produzione più
matura; il suo è un realismo crudo ma impregnato
della dimensione mitico-rituale che l’autore riscontrava nel mondo contadino partendo da studi e suggestioni. Per tutto il periodo della Resistenza, alla
quale non partecipò direttamente, Pavese si rifugiò
presso una sorella nel Monferrato. Qui scrisse i
racconti di Feria d’agosto (1946). Dopo la Lib-
erazione iniziò un periodo di impegno politico nel
Partito Comunista e di grande creatività: scrisse
il romanzo Il compagno (1947), il più vicino al
clima “positivo” del neorealismo; i Dialoghi con
Leucò (1947), in cui riflette tragicamente sul destino umano partendo dalla rivisitazione del mito
classico; i testi di narrativa di Prima che il gallo
canti (1949), Il carcere e La casa in collina, ispirati
rispettivamente all’esperienza del confino e a
quella di rifugiato che non partecipò alla Resistenza; i tre lunghi racconti (Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, uno spaccato di vita dell’alta
borghesia torinese, e l’eponimo) che costituiscono
La bella estate (1949). Il punto più alto della sua
attività, la pubblicazione del romanzo La luna e i
falò (1950), coincise con il culmine della crisi esistenziale che lo spinse a togliersi la vita in una
stanza d’albergo a Torino. Dopo la sua scomparsa
furono pubblicate le poesie di Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi (1951), raccolta di liriche a sfondo
amoroso (ispirate dall’infelice relazione con
l’attrice americana Constance Dowling) nella cui
dolente espressività si scorge tutto il tormento degli
ultimi anni di vita (e la cui forma si distacca dalla
produzione poetica precedente di Pavese, abbracciando una materia più musicale e stilemi più tradizionali); i racconti Notte di festa (1953); il romanzo Fuoco grande (1959), scritto con Bianca
Garufi, e soprattutto l’interessantissimo diario
(1932-1950), edito con il titolo Il mestiere di vivere
(1952, 1990), in cui intreccia alla meditazione letteraria la propria amara riflessione autobiografica.
• I temi
•
•
•
•
•
•
L’infanzia nelle Langhe
La rivelazione mitica dell’adolescenza
Il viaggio doloroso verso la maturazione
Il vizio assurdo
La prosa
“La luna e i falò”
Nella produzione di Pavese viene riproposto costantemente il tema dell’infanzia vissuta nel
paesaggio delle Langhe, dove la campagna aspra,
segnata da fatica e miseria, è però ricca di una
tensione vitale che si manifesta nei necessari opposti della nascita e della morte, con i simboli ricorrenti del sesso e del sangue. L’adolescenza è il
momento in cui l’individuo entra in relazione con
questa vitalità in maniera istintiva, creando un “mito” in cui luoghi e tempo si stringono in maniera insolubile. Da tale “rivelazione mitica” comincia il viaggio doloroso e faticoso dell’uomo verso
la propria maturazione, verso l’impegno, verso la
città, simbolo della capacità organizzatrice della ragione che si oppone alle forze naturali. Tale cammino è vissuto come un dovere non rinviabile,
perché così si realizza l’ostinata volontà di partecipare alla vita collettiva; ma al tempo stesso è
alienante e oppressivo e causa la profonda mortificazione di sé propria dell’età adulta, dominata
dal senso di esclusione dalla vita e di solitudine,
vera prigione da cui è impossibile evadere. Da essa
nasce il “vizio assurdo”, il desiderio di
sopprimersi che ha accompagnato lo scrittore per
tutta la sua vita. La prosa di Pavese si serve di
parole quotidiane, di una sintassi improntata ai
moduli del dialetto e al parlato, che comunicano
al lettore la fatica di passare da una realtà vissuta in
maniera intensa ma ingenua a un più consapevole
bisogno di capire. Fin da Paesi tuoi il verismo letterario è tuttavia trasfigurato dalla continua rete
di allusioni simboliche che l’autore traccia collocando ogni trama nell’orizzonte dell’assoluto, attribuendo a fatti e personaggi un valore emblematico. Alla circolarità dell’immaginario ravvisabile
in tutta l’opera pavesiana, in cui ritornano di continuo temi e situazioni narrative, corrisponde il raccontare per ellissi e immagini brevi e folgoranti
ma controllato da un rigoroso impianto costruttivo, che privilegia il ritmo quale elemento cardine
per l’unità stilistica. In La luna e i falò, il protagonista, tornato nelle Langhe dopo molti anni passati in America, presto si rende conto che solo i
luoghi sono rimasti identici, non le persone e le
situazioni. L’ultimo romanzo rappresenta la compiuta sintesi dell’intero percorso di Pavese: il discorso indiretto e l’indiretto libero prevalgono sul
dialogo che aveva plasmato le opere precedenti,
ma sempre all’insegna di un’originale fusione tra
la prospettiva linguistica del narratore e quella
del personaggio, dove il mimetismo è calibrato da
un’oculata scelta lessicale e sintattica in cui convivono immedesimazione e straniamento. La compostezza della scrittura aspira anzi a una moderna
classicità.
Beppe Fenoglio
Figura appartata rispetto alla società letteraria,
Beppe Fenoglio (1922-1963) visse la scrittura
come un fatto intensamente privato e incentrò la sua
opera su due motivi essenziali, rappresentati ad altissimi livelli stilistici e di severità morale: la vita
contadina delle Langhe e la guerra partigiana.
Di entrambi diede una visione disincantata, lontana
dalla retorica. La sua rappresentazione del mondo
contadino non inseguiva propositi populisti o di denuncia sociale ma piuttosto rivela un’ineluttabile
condizione umana, dominata dalla spietata durezza
e dalla violenza (dati non storici ma assoluti). La
sua descrizione di carattere esistenziale e morale
della Resistenza, ugualmente sfrondata da ogni
tentazione celebrativa o agiografica nonostante
l’autenticità e l’intensità espressiva, risulta la più
originale e anticonformista (la “selvaggia parata”
descritta nel racconto I ventitre giorni della città di
Alba), estranea agli intenti neorealisti e testimone di
un’austera ricerca interiore.
• La vita e le opere
• La guerra e la Resistenza
• Le opere postume
Nato ad Alba, in seguito alla chiamata alle armi
dovette interrompere gli studi universitari (che non
avrebbe più ripreso neppure a guerra finita, preferendo lavorare per una ditta vinicola e dedicarsi alla
scrittura). In seguito all’armistizio del 1943 rientrò
precipitosamente in Piemonte e partecipò alla Resistenza. Dopo la Liberazione cominciò a scrivere
i racconti inseriti nella raccolta I ventitrè giorni
della città di Alba (1952), a cui seguirono il racconto lungo La malora (1954), ambientato nel mondo
contadino delle Langhe, e il romanzo Primavera
di bellezza (1959), ispirato alle esperienze vissute
nell’esercito fino all’8 settembre e alla guerra partigiana (in cui compare il personaggio autobiografico
di Johnny). La morte per un cancro ai polmoni
lo colse precocemente mentre lavorava a numerosi
progetti che videro la luce postumi, come i racconti
della raccolta Un giorno di fuoco (1963); il breve
romanzo Una questione privata (1965); Il partigiano Johnny (1968), il suo incompiuto capolavoro; il
racconto La paga del sabato (1969) e quelli riuniti
in L’affare dell’anima (1978).
LA
MEMORIALISTICA
DELLA
SECONDA GUERRA MONDIALE
La guerra e la Resistenza ispirarono una fiorente letteratura memorialistica. L’esperienza partigiana di Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo che fu anche insegnante di Fenoglio, si riflette in Banditi (1946).
L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò
(1900-1976) contiene lo straordinario ritratto di una
combattente partigiana: l’autrice militò nelle formazioni garibaldine delle Valli di Comacchio dove conobbe l’eroina del suo romanzo. La ritirata
dell’ARMIR nella disastrosa campagna contro
l’URSS del 1941-43 ispirò Mai tardi (1946) di Nuto
Revelli (1919-2004) e Il sergente nella neve (1953) di
Mario Rigoni Stern (1921). Quest’ultimo scrisse i ricordi della terribile traversata nell’inverno del 1944,
mentre era internato in un campo di concentramento
tedesco, ricavandone in seguito un romanzo di grande
efficacia e forza emotiva.
• “Il partigiano Johnny”
•
•
•
•
Scavo ossessivo della parola
La lotta come emblema di vita
Tono epico e realistico
Invenzioni linguistiche
Come testimoniano le varie stesure non definitive
da cui sono state tratte la prima e le successive edizioni del romanzo, pubblicato postumo nel 1968, Il
partigiano Johnny è il suo risultato più tormentato
e complesso. La diversità stilistica di quest’opera
rende estremamente interessante anche il dibattitto
sulla datazione dei manoscritti. Con il frequente
ricorso all’inglese (da alcuni critici ribattezzato
“fenglese”, in ragione della libertà che lo scrittore
adotta con entrambe le lingue), Fenoglio tenta di
conferire all’italiano una nuova identità, perseguita
attraverso uno scavo ossessivo della parola e delle
sue molteplici possibilità. Romanzo di crisi di una
generazione in conflitto con se stessa, il Partigiano Johnny appare il frutto di un’amarezza insondabile, l’esito stilistico di una perplessità profonda.
A Fenoglio non interessa esprimere giudizi sulle
parti in lotta; ciò che gli interessa è la lotta in
quanto tale, come emblema di vita; non solo e
non tanto il bene e il male, ma uno scontro di forze
impietose, che la guerra esalta. Di questa deflagrazione egli diventa al tempo stesso il cronista e
lo storico, plasmando una lingua vivissima, scabra,
che mescola il tono epico (sull’esempio di
Melville) e la sentenza al popolare, il sublime al
gergale, l’estremo realismo delle immagini
all’allegoria. Tantissime infatti sono le forzature,
le invenzioni grammaticali e sintattiche, le espressioni metaforiche, i neologismi che donano alla lingua fenogliana una plasticità, capace di scolpire un
nuovo senso a parole ed espressioni, e un dinamismo inediti, in uno degli esperimenti più audaci di
prosa moderna italiana.
Vasco Pratolini
• La vita popolare fiorentina
• Spaccato della vita sociale italiana
Il fiorentino Vasco Pratolini (1913-1991) è una
delle voci più autentiche del neorealismo per la
capacità di far assurgere a protagonista della sua
narrativa il mondo popolare, di cui condivise
lotte e ideali. Iniziò l’attività di scrittore con opere
dedicate
alla
memoria
dell’infanzia
e
dell’adolescenza (Il tappeto verde, 1941; Via de’
Magazzini, 1942; Le amiche, 1943), ma il primo
romanzo a rappresentare una svolta nella sua narrativa fu Il quartiere (1944), che aveva come soggetto la vita popolare fiorentina. Seguirono
Cronaca familiare (1947) e Cronache di poveri
amanti (1947), ambientato ancora in un quartiere
fiorentino con riferimenti storici alle violenze fasciste degli anni 1925-26. Dopo il romanzo Un eroe
del nostro tempo (1949), storia di un personaggio
“negativo”, un giovane fascista violento e rozzo,
ritornò al mondo fiorentino con il racconto lungo
Le ragazze di San Frediano (1951), e quindi diede
avvio alla trilogia di romanzi Una storia italiana,
uno spaccato della vita sociale italiana dalla fine
dell’Ottocento al secondo dopoguerra. Con il romanzo La costanza della ragione (1963) ritornò
all’originaria ispirazione dell’adolescenza.
Jovine, Rea e Carlo Levi
• Francesco Jovine
• Domenico Rea
• Carlo Levi
Il molisano Francesco Jovine (1902-1950), ispirato dall’impegno politico (partecipò in seguito alla
Resistenza) e umano, pubblicò i romanzi Un uomo
provvisorio (1934) e Signora Ava (1942). Postumo
è il suo capolavoro Le terre del Sacramento, che
descrive le miserevoli condizioni di vita e
l’arretratezza delle plebi meridionali.
Il campano Domenico Rea (1921-1994) fu esponente di un neorealismo crudo, ma anche elegante
e sensuale. Tra i suoi romanzi e racconti: Spaccanapoli (1947); Gesù fate luce (1950); Una vampata di rossore (1959); Il fondaco nudo (1985);
Ninfa Plebea (1992).
Il torinese Carlo Levi (1902-1975), militante antifascista, raccontò l’esperienza del confino nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli (1945), che, a
metà tra il reportage di alto livello e il pamphlet
di denuncia, si inserisce nella tradizione meridionalistica, conferendo al mondo contadino un’aura
epica e un forte valore simbolico. L’indagine sociale ispira anche i saggi e le cronache narrative:
Paura della libertà (1946); L’orologio (1950); Le
parole sono pietre (1955), denuncia delle condizioni di vita delle solfatare siciliane; La doppia notte
dei tigli (1959), che narra di un viaggio nella Germania postnazista; Tutto il miele è finito (1964),
dedicato alle condizioni della Sardegna.
Tobino e Cassola
• Mario Tobino
• La rappresentazione della malattia mentale
• Carlo Cassola
Mario Tobino (1910-1991), di Viareggio, medico,
dopo gli esordi come poeta, pubblicò il racconto
autobiografico Il figlio del farmacista (1942), e suc-
cessivamente il romanzo Bandiera nera (1950), analisi dell’ambiente medico durante il fascismo, e il
racconto-diario Il deserto della Libia (1952). Nel
romanzo più noto, Le libere donne di Magliano
(1953), rappresentò con acume e sensibilità la tragedia di molte pazienti malate di mente, colte nella
solitudine e nell’estraneità a cui condanna la “follia”, strana forse ma autentica “libertà”. La brace
di Biassoli (1956) è dedicato alla memoria della
madre morta. Il clandestino (1962) rievoca un episodio della Resistenza a cui l’autore partecipò. Nelle
opere successive prevale l’analisi psicologica
(Sulla spiaggia e di là dal molo, 1966, ambientato
in Versilia; Una giornata con Dufenne, 1968, rievocazione di un vecchio compagno di scuola; Un
perduto amore, 1979; La ladra, 1984).
Il romano Carlo Cassola (1917-1987) entrò in rapporti con l’ambiente fiorentino di “Letteratura”. Già
la sua primissima produzione di racconti (Alla
periferia e La visita del 1942; Il taglio del bosco,
1954, il suo capolavoro) risente della lezione tematica e stilistica del neorealismo. Cassola guarda
alle realtà più semplici, agli oggetti più normali,
alle vicende più comuni ambientate in Maremma.
Elabora la teoria del “subliminare”: le cose stanno sempre sotto la soglia della coscienza, per
questo dietro il banale quotidiano si può celare
qualcosa di inafferrabile. Tale poetica non muta
sostanzialmente nei romanzi più impegnati Fausto
e Anna (1952) e La ragazza di Bube (1960), in
cui lo scrittore si misura con i temi della Resistenza
e del dopoguerra. Di fronte a una realtà contemporanea sentita sempre più “nemica”, Cassola passa
a una scrittura più intimistica, con un intento fra
il consolatorio e l’evasivo (Un cuore arido, 1961;
Il cacciatore, 1964; Ferrovia locale, 1968). Tra le
ultime opere spiccano: Paura e tristezza (1970),
Monte Mario (1973), Fogli di diario (1974), la raccolta autobiografica L’uomo e il cane (1977) e testi
ispirati all’antimilitarismo.
IL TEATRO DI EDUARDO DE FILIPPO
La vasta produzione del napoletano Eduardo De Filippo (1900-1984), uno degli autori teatrali italiani più
conosciuti nel mondo, ha rappresentato il più significativo contributo allo sviluppo del teatro dialettale
nel Novecento. Vissuto nel mondo teatrale napoletano fin da bambino, lui stesso attore, negli anni ‘30
cominciò a scrivere commedie di tono farsesco, tra le
quali emerge un testo di notevole spessore psicologico: Natale in casa Cupiello (1931). Dopo il 1945 divennero per lui prioritari i temi del degrado morale
prodotto dalla guerra e dall’occupazione militare di
Napoli, metafore di una condizione umana dolente
e immiserita, rappresentata con amara comicità da
figure segnate spesso dalla corruzione e
dall’emarginazione, ma riscattate dalla scintilla della
dignità personale. Nacquero così opere di valore e
di sicuro effetto teatrale: Napoli milionaria (1945);
Questi fantasmi (1946); Filumena Marturano (1946);
Le voci di dentro (1948); De Pretore Vincenzo
(1957); Sabato, domenica e lunedì (1959); Il sindaco
del rione Sanità (1960); Gli esami non finiscono mai
(1973).
La poesia neorealista
• Rocco Scotellaro
Gli esiti letterari del neorealismo non si limitarono
alla narrativa: le stesse tematiche e l’impegno sociale ispirarono anche la poesia. Mentre nei già
affermati Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto i
nuovi contenuti confluivano all’interno di forme
liriche già collaudate, i poeti neorealisti in senso
stretto come Rocco Scotellaro, Franco Matacotta
(1916-1978) e Velso Mucci (1911-1964) cercarono
un’alternativa al linguaggio consolidato della
poesia novecentesca italiana, ispirandosi alle
forme popolari, al dialetto, a un’espressione più immediata e aderente all’impegno politico .
Dai versi del lucano Rocco Scotellaro
(1923-1953), poeta e saggista, traspira il forte impegno civile, ma lo slancio polemico e la denuncia
della condizione di atavica miseria dei contadini
meridionali convivono con un’immedesimazione di
stampo romantico. Scotellaro si dedicò alla politica
(che abbandonò dopo essere stato ingiustamente incarcerato) divenendo nel 1946 il giovanissimo sindaco del suo paese natale, Tricarico, in provincia di
Matera, e partecipando all’occupazione delle terre
insieme ai braccianti. Nell’ambito della sua
produzione letteraria, pubblicata postuma in seguito alla morte prematura, spiccano la raccolta poetica È fatto giorno (1954) e il saggio di inchiesta I
contadini del Sud (1954).
SCHEMA RIASSUNTIVO
NEOREALISMO
I presupposti principali del neorealismo (1940-1950)
sono un realismo più autentico, il “mito
dell’America”, una nuova esigenza di impegno
politico. Filoni tematici sono la guerra, la Resistenza,
la condizione operaia e degli emarginati.
VITTORINI
Alla base dell’attività di Elio Vittorini (1908-1966)
è la fiducia nella cultura come unica forza capace di
costruire un mondo più giusto e umano. La sua narrativa ruota attorno al tema del viaggio, metafora esistenziale del processo conoscitivo. Opere principali:
Il garofano rosso (1948); Conversazione in Sicilia
(1941); Uomini e no (1945).
PAVESE
Cesare Pavese (1908-1950) ha cercato di conciliare
la necessità tutta civile del rispetto umano con una
drammatica coscienza di corruzione, da cui quasi niente riesce a salvarsi. Temi della sua narrativa: le
natie Langhe, la rivelazione mitica dell’adolescenza,
il faticoso e doloroso dovere della vita collettiva, il
desiderio di annientamento (il “vizio assurdo”). Tra
le sue opere: La bella estate (1949); La luna e i falò
(1950); il diario Il mestiere di vivere (1952).
FENOGLIO
Beppe Fenoglio (1922-1963) ha espresso un realismo
eroico e insieme etico, essenzialmente incentrato sui
due motivi della vita contadina delle Langhe e della
guerra. Da ricordare: I ventitré giorni della città di
Alba (1952); Primavera di bellezza (1959) e soprattutto Il partigiano Johnny (1968).
PRATOLINI
Vasco Pratolini (1913-1991) fece protagonista della
sua opera il mondo popolare soprattutto toscano
(Cronaca familiare; Cronache di poveri amanti,
1947).
JOVINE
Francesco Jovine (1902-1950), molisano, non
risparmia le miserevoli condizioni di vita delle plebi
meridionali (Le terre del Sacramento, 1950).
REA
Domenico Rea (1921-1994) propone una suggestiva
crudezza realistica (Spaccanapoli, 1947).
LEVI
Carlo Levi (1902-1975), torinese, unisce tradizione
meridionalistica e indagine sociale nel suo romanzo
Cristo si è fermato a Eboli (1945).
TOBINO
Mario Tobino (1910-1991), medico toscano, ha rappresentato la solitudine ed estraneità della malattia
mentale (Le libere donne di Magliano, 1953).
CASSOLA
Carlo Cassola (1917-1987), romano, guardò alle realtà più semplici della Maremma e ai temi più impegnati della Resistenza e del dopoguerra (Il taglio
del bosco, 1954; Fausto e Anna, 1952; La ragazza di
Bube, 1960).
LA POESIA NEOREALISTA
La poesia neorealista ha il suo principale esponente in
Rocco Scotellaro (1923-1953), mosso dall’impegno
per i probemi del Meridione.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali temi ha privilegiato il neorealismo?
2. Attorno a quali temi ruota la narrativa di Vittorini?
3. Che cosa determina il “vizio assurdo” che ha
accompagnato la vita di Pavese?
4. Quale forza vitale esalta Fenoglio nel romanzo
Il partigiano Johnny? In che cosa consiste invece la sua novità stilistica?
5. In quali forme si esprime la tradizione meridionalistica di Jovine e Carlo Levi?
6. Che cos’è la teoria del “subliminare” elaborata
da Cassola?
12 IL REALISMO CRITICO
Il lavoro di scrittori come Moravia, Sciascia, Brancati,
Piovene, Soldati, Flaiano, Bassani, Primo Levi o Parise
va oltre la nozione pur ampia di “neorealismo” ed è più
opportunamente collocabile in una sorta di “realismo
critico”, categoria narrativa in cui si tende, oltre che a
rappresentare, soprattutto a indagare le forme della realtà. Moravia è lo scrittore dell’analisi perpetua; Brancati
o Piovene, dello smascheramento; per Parise e Sciascia,
pur da presupposti diversi, scrivere significa soprattutto
analizzare una tipologia umana e sociale. Anche Tomasi
di Lampedusa o Primo Levi, così lontani per esperienza e
stile, sembrano avere in comune una forte esigenza critica
e di inchiesta umana. Pasolini infine intende la letteratura
come un modello per capire la realtà.
Alberto Moravia
Alberto Moravia, pseudonimo del romano Alberto
Pincherle (1907-1990), fu un osservatore instancabile e sagace della realtà contemporanea. Fece
propri molti temi della modernità e dell’attualità: il
sesso, l’alienazione, il significato dei rapporti economici. La sua scrittura, sempre aderente al contesto sociale, in genere quello borghese, è un esempio di lucidità e rigore espressivo.
• La vita e le opere
•
•
•
•
•
L’esordio narrativo
I viaggi all’estero come inviato speciale
Il popolo romano nel quadro della guerra
La noia esistenziale
La produzione della maturità
Nato da una famiglia borghese, non compì studi
regolari per i problemi di salute che lo tormentarono durante l’ifanzia e l’adolescenza e si formò
da autodidatta. Pubblicato a proprie spese, il romanzo Gli indifferenti (1929), che narra con una
solida costruzione di stampo naturalista il disfacimento del tessuto umano e morale di una famiglia
romana degli anni ’20, destò straordinario interesse
ma suscitò l’ostilità della cultura fascista. Moravia
cominciò quindi a viaggiare (Londra, Parigi, Stati
Uniti, Cina) come inviato speciale di numerosi
giornali. Pubblicò altre opere di narrativa: il
secondo romanzo Le ambizioni sbagliate (1935); le
raccolte di racconti L’imbroglio (1937) e I sogni
del pigro (1940); la satira La mascherata (1941).
Nel 1941 sposò la scrittrice Elsa Morante (da cui si
sarebbe separato vent’anni dopo). Tornato a Roma
dopo la liberazione della città, iniziò un intenso
periodo creativo: pubblicò, oltre al romanzo breve
Agostino (1944), incentrato sui turbamenti sessuali
e sociali di un adolescente, numerosi romanzi e racconti come La romana (1947); Racconti romani
(1954); La ciociara (1957) e Nuovi racconti romani
(1959), in cui si avvicina alle istanze neorealistiche
esplorando il vitalismo del popolo romano nel
quadro violento e drammatico della guerra. In altre
opere come La disubbidienza (1948), L’amore
coniugale e altri racconti (1949), Il conformista
(1951), Il disprezzo (1954), proseguì invece la
ricerca psicoanalitica intrapresa con Agostino. Con
La noia (1960), facendo propri alcuni moduli del
romanzo
francese
impostato
sul
tema
dell’alienazione, Moravia trovò un nuovo e fertile
terreno d’indagine: il senso di inutilità, di incomunicabilità, il fallimento esistenziale di un artista in
crisi, incapace di un rapporto autentico con la realtà. La sua produzione si arricchì in seguito di
numerosi racconti (L’automa, 1962; Una cosa è
una cosa, 1967; Il paradiso, 1970; Boh, 1976; La
cosa, 1983), romanzi (L’attenzione, 1965, in cui
cerca nuove soluzioni stilistiche che lo avvicinino
alla neoavanguardia; Io e lui, 1971; La vita interiore, 1978; 1934, 1982; L’uomo che guarda, 1985;
Viaggio a Roma, 1989), saggi di notevole interesse
(Un mese in URSS, 1958; Un’idea dell’India, 1962;
La rivoluzione culturale in Cina, 1968; Lettere dal
Sahara, 1981).
• Le tesi ispiratrici
• Due strumenti: psicoanalisi e marxismo
• Sfera sessuale e rapporti borghesi fondati sul denaro
• L’azione prevale sulla riflessione
La vastissima produzione di Moravia rappresenta
e interpreta gli eventi che più profondamente hanno agito sulla società italiana (fascismo, guerra, occupazione e liberazione, rinascita economica, consumismo, contestazioni, terrorismo), servendosi di
due strumenti: la psicoanalisi, per comprendere
il rapporto dell’individuo con se stesso, e il marxismo, per analizzare i rapporti sociali, le dinamiche
legate al possesso. Per Moravia la sfera sessuale è
una forza vitale soltanto se espressione del mondo
popolare, immediato e non condizionato. Nel contesto borghese invece tutti i rapporti si fondano sul
denaro, tutto è mercificato, inserito in un meccanismo di consumo capace di distruggere ogni logica vitale. Nella struttura dei testi narrativi di
Moravia vi è una netta prevalenza dell’azione
sulla riflessione; la vicenda procede attraverso
contrasti psicologici marcati tra i personaggi, solitamente pochi, che si rivelano attraverso i gesti
e i dialoghi. Il linguaggio, chiaro, mantiene costantemente un livello medio, spesso con inflessioni
romanesche. Le sue opere hanno un taglio marcatamente “teatrale” e sono state spesso spunto
per versioni cinematografiche, a cui Moravia stesso
collaborò.
Leonardo Sciascia
• Ricerca di verità
Scrittore di grande impegno civile e politico,
Leonardo Sciascia (1921-1989) propose una narrativa limpida e distaccata, in un sorta di pessimistico, lucido razionalismo che affondava le
sue radici nell’illuminismo settecentesco. I metodi classici dell’indagine, dell’inchiesta poliziesca,
della ricostruzione storica o della denuncia costruiscono le architetture dei suoi libri. Molti suoi romanzi e racconti intrecciano narrativa e saggistica
e chiamano in causa modelli letterari del passato
mentre affrontano in maniera diretta o metaforica
alcuni nodi cruciali della cronaca politica e della
vita civile italiana contemporanee, distinguendosi
per l’indipendenza di giudizio e l’insopprimibile
esigenza di verità e giustizia di cui si fanno portavoce i personaggi protagonisti (il capitano Bellodi
nel Giorno della civetta, l’avvocato Di Blasi del
Consiglio d’Egitto, il professor Laurana di A ciascuno il suo), oltre che per la nitida classicità della
scrittura.
• La vita e le opere
• Le prime opere narrative
• Il giallo, genere letterario per denunciare la mafia
• L’impegno contro la strategia della tensione e il
terrorismo
• Il filone dell’inchiesta storica
• L’attività critica
Nativo di Racalmuto, presso Agrigento, Sciascia
entrò presto in contatto con l’ambiente culturale siciliano. Esordì con raccolte poetiche (Favole della
dittatura, 1950; La Sicilia, il suo cuore, 1952), ma
il suo impegno creativo si rivolse subito alla prosa.
Le parrocchie di Regalpetra (1956) e i racconti
Gli zii di Sicilia (1958) hanno al centro la Sicilia,
con il suo passato di delusioni e promesse tradite
e il suo problematico presente. Inaugurò poi una
nuova stagione scegliendo il giallo come genere letterario e la denuncia della criminalità mafiosa
come argomento principale. Il giorno della civetta (1961) diede allo scrittore successo e un ruolo
di grande rilievo nella battaglia contro la mafia per
un cambiamento radicale delle regole della società
siciliana. Seguirono Il Consiglio d’Egitto (1963),
ambientato nella Palermo di fine Settecento, e A
ciascuno il suo (1966). All’inizio degli anni ’70
l’impegno civile di Sciascia si volse contro la cosiddetta “strategia della tensione” e il terrorismo.
Nacquero così due delle sue opere più interessanti
e controverse, Il contesto (1971) e Todo modo
(1974), indagini poliziesche su oscuri episodi coinvolgenti figure del potere politico. Un momento
di illusione positiva (nonostante la delusione politica) è Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia
(1977), in cui esprime un’aspirazione alla razionalità ripresa dichiaratamente dalla cultura illuminist-
ica. La battaglia civile contro la logica dell’intrigo
e della sopraffazione (sostenuta anche da incarichi
istituzionali) ebbe espressione organica nel filone
dell’inchiesta storica (La morte dell’inquisitore,
1967) e nei racconti-inchiesta Atti relativi alla
morte di Raymond Roussel (1971) su uno scrittore
francese suicida; La scomparsa di Majorana
(1975), sulla misteriosa sparizione del famoso fisico nucleare; L’affaire Moro (1978), sul sequestro
e l’omicidio del presidente democristiano; Dalle
parti degli infedeli (1979), sulla connivenza tra Chiesa e mafia; Il teatro della memoria (1981). Gli
ultimi racconti gialli (Una storia semplice, 1989)
continuavano l’incessante lotta e la denuncia civile,
anche se il tono è più amaro e pessimistico. Notevole anche la sua attività di critico letterario (Pirandello e la Sicilia, 1961).
Vitaliano Brancati
Erede della grande tradizione di Verga e De
Roberto, Vitaliano Brancati (1907-1954) analizzò
la vita della borghesia siciliana durante il fascismo, disegnando un quadro d’ambiente che si
può allargare facilmente all’intera società italiana,
avvalendosi di un’ironia dissacrante e rivelatrice
del disagio sociale dell’epoca.
• La vita e le opere
• I racconti e i romanzi
• Le opere teatrali
Rifiutò molto presto la giovanile adesione al fascismo, documentata nel romanzo breve Singolare
avventura di viaggio (1934), la cui cattiva accoglienza segnò il suo primo distacco dall’ideologia del
regime. Dopo la seconda guerra mondiale si fece
sostenitore di un liberalismo radicale, teso a denunciare l’intolleranza e il dilagante disprezzo per
la cultura. La sua produzione letteraria comprende
racconti (Il vecchio con gli stivali, 1945), romanzi
(L’amico del vincitore, 1932; Gli anni perduti,
1941; Don Giovanni in Sicilia, 1941; Il
bell’Antonio, 1949; l’incompiuto Paolo il caldo,
1955, postumo), opere drammaturgiche (Questo
matrimonio si deve fare, 1938; Le trombe
d’Eustachio, 1942; Raffaele, 1948; La governante,
1952, bloccata dalla censura per lo scabroso tema
dell’omosessualità femminile) e saggistica (I piaceri. Parole all’orecchio, 1946, raccoglie i suoi
scritti giornalistici e di costume).
• I temi
• Manie e distorsioni del maschio siciliano
• “Il bell’Antonio”
• “Paolo il caldo”
La narrativa di Brancati, che ha ispirato anche
opere cinematografiche, e la sua drammaturgia
sono dominate dalle manie e dalle distorsioni del
maschio siciliano, passivo e preda di fantasie
erotiche, vittima dell’ambiente sociale, la piccola
e media borghesia, di cui è il prodotto. I giovani
degli Anni perduti o il protagonista del Don Giovanni in Sicilia vivono inappagati rinviando continuamente la partenza dalla Sicilia e lasciando fallire tutti i progetti. Risvolti cupi e tragici connotano
nel Bell’Antonio la vicenda del giovane siciliano
bellissimo e il dramma dell’impotenza nell’epoca
fascista, che della virilità aveva fatto uno dei valori
primari. In Paolo il caldo è delineato, con intenti
autobiografici, il difficile impatto di un giovane intellettuale siciliano con il mondo della borghesia
romana. Ultimo romanzo, pubblicato incompiuto e
postumo nel 1955, rende ancora più tangibile la disperazione che si avvertiva nel fondo delle opere
precedenti: la sola dimensione possibile per il protagonista del libro è la fuga nel sesso, concepita
come alienazione mentale nei confronti di una società ormai irrimediabilmente perduta.
Piovene, Soldati e Flaiano
•
•
•
•
•
•
•
Guido Piovene
Inquieta problematicità
La menzogna come speranza di salvezza
Mario Soldati
“America primo amore”
Ennio Flaiano
Il teatro
Vicentino, giornalista, Guido Piovene (1907-1974)
soprattutto scandagliò le inquietudini e le ipocrisie
della vita provinciale. Diffidente nei confronti delle
verità e delle certezze precostituite, fu attratto piuttosto dalle “zone pericolose dell’animo” che
non sempre possono e debbono essere chiarite.
Tale inquieta problematicità percorre tutta la sua
narrativa: dai primi racconti, (La vedova allegra,
1931) alle Lettere di una novizia (1941), il romanzo di una monacazione forzata costellata di delitti e torbide passioni. Anche negli altri romanzi
(Pietà contro pietà, 1946; Falsi redentori, 1949;
Furie, 1963; Stelle fredde, 1970) domina il tema
della menzogna come unica possibilità di
salvezza in un mondo scomposto e dissennato dove
il male domina in assoluto. Lo stesso nichilismo
in Stelle fredde assume toni onirici e mistici. Nel
volume di saggi Coda di paglia (1963), rivisitò
la sua contraddittoria adesione al fascismo. Alcuni
libri-reportage condensano la sua esperienza di
giornalista: De America (1953), Madame la France
(1967), L'Europa semilibera (1973).
Il torinese Mario Soldati (1906-1999), giornalista
e scrittore ricco e versatile, propone una narrativa
leggera ma anche smagliante, capace di molteplici
timbri narrativi. Dal periodo intenso e ricco di esperienze (1929-1931) trascorso come insegnante
alla Columbia University di New York, ha ricavato
il romanzo America primo amore (1935), che
rivela il temperamento di scrittore entusiasta della
vita e di facile vena, oltre che la sua autentica passione per la cultura e la civiltà americana. Fra i
volumi di racconti si ricordano: Sàlmace (1929);
A cena col commendatore (1950); I racconti del
maresciallo (1967). Fra i romanzi: La verità sul
caso Motta (1943); Le due città (1964), in cui rivive
il forte attaccamento alle due città della sua vita,
Torino e Roma; La sposa americana (1977). Di
maggior rilievo a partire dagli anni ’30 l’attività
cinematografica come soggettista, sceneggiatore e
regista, che lo ha reso un importante esponente del
cinema italiano.
Ennio Flaiano (1910-1972), nativo di Pescara, fu
una delle figure culturali più vivaci del dopoguerra
e narratore sarcastico e grottesco. La sua prima
e più importante opera narrativa, Tempo d’uccidere
(1947), allegorica rappresentazione della vita vista
come stato d’angoscia, si caratterizza per
l’ambientazione visionaria (una bizzarra avventura
in un’Africa surreale), lo stile aforistico e una vena
ironica, a metà tra l’assurdo e il paradosso, confermata anche dalle opere successive (Una e una
notte, 1959; Le ombre bianche, 1972; La solitudine
del satiro, 1973, postumo; Autobiografia del blu
di Prussia, 1974, postumo). Per il teatro scrisse,
sempre con intento polemico e satirico, La guerra
spiegata ai poveri (1946), La donna nell’armadio
(1958), Un marziano a Roma (1960). Fu inoltre
sceneggiatore di molti film di Federico Fellini
(come La strada, I vitelloni, Le notti di Cabiria,
La dolce vita, Otto e mezzo). Nel 1988 sono usciti,
nell'ambito della pubblicazione delle opere complete, gli Scritti postumi, in cui è raccolta gran parte
delle sue annotazioni di costume e dei suoi originali
aforismi.
Giorgio Bassani
• “Il romanzo di Ferrara”
• Scrittura della memoria
Il ferrarese Giorgio Bassani (1916-2000) pone al
centro della sua opera la storia della propria città e della sua numerosa comunità ebraica, vittima della persecuzione razziale fascista, evocata in
un’atmosfera rarefatta ed elegiaca.
Nato a Bologna, Bassani fu antifascista e partecipò
alla Resistenza, conoscendo il carcere e la perse-
cuzione. Il nucleo essenziale della sua produzione
in prosa, costituito da sei opere, è stato rivisto e
raccolto dallo scrittore nel 1974 sotto il titolo
complessivo Il romanzo di Ferrara e comprende:
le Cinque storie ferraresi (1956), ripubblicate con
il titolo Dentro le mura (1973); Gli occhiali d’oro
(1958); Il giardino dei Finzi Contini (1962); Dietro
la porta (1964); L’airone (1968); L’odore del fieno
(1972). Meno note sono la sua produzione poetica
(In rima e senza, 1982) e le prose saggistiche e
autobiografiche che si trovano in Le parole preparate e altri scritti di letteratura (1966) e Di là dal
cuore (1984).
Quella di Bassani è una scrittura della memoria che,
rievocando vicende comuni sulle quali si scatena
la violenza di una follia collettiva, riesce a ridare
senso al passato. I suoi personaggi, per lo più ebrei,
diventano l’emblema della tragedia esistenziale che
travolge chi vive una lacerante diversità. Così la
giovane enigmatica Micol del Giardino dei Finzi
Contini, considerato il suo capolavoro, è protesa
verso il presente perché presaga del destino di
morte. Il medico ferrarese del romanzo breve Gli
occhiali d’oro è costretto al suicidio per la solitudine e l’emarginazione vissute a causa della sua
omosessualità, condannata dal fascismo. Al centro
del romanzo Dietro la porta è una storia
d’iniziazione alla vita di un giovane liceale che
scopre traumaticamente la sessualità, vissuta come
peccato.
Primo Levi
•
•
•
•
•
La memoria dell’olocausto
“La tregua”
Letteratura e scienza
“La chiave a stella”
Riflessione laica sul male
Il torinese Primo Levi (1919-1987) è un altissimo
esempio di testimonianza umana e poetica. Di origine ebraica, laureato in chimica, dopo una breve
esperienza partigiana venne arrestato e internato
(1944-45) nel campo di sterminio di Auschwitz.
Nel 1947 pubblicò Se questo è un uomo, un’opera
che si distacca per eccezionalità dalla memorialistica coeva. In una prosa classica e misurata (suggellata dall’epigrafe iniziale che dà il titolo al libro
e dalle citazioni dantesche che ritornano in più di
un’occasione), Levi descrive l’orrore dei lager da
lui vissuto in prima persona facendo del tormento
della memoria un imperativo etico a testimoniare un evento che pone in discussione la natura
dell’uomo e a mettere in guardia di fronte alla possibilità di un nuovo olocausto. La forza della testimonianza è nell’estrema lucidità del suo sguardo,
nella fermezza e nell’acume analitico con cui
descrive la disumanizzazione organizzata del
campo di sterminio e i suoi meccanismi (anche
quelli
interiori
di
prigioniero)
oltre
all’insopprimibilie umanità delle vittime, nello stile
pacato e sobrio e nell’obiettività toccante con cui
interroga il lettore. Ideale continuazione del precedente romanzo è La tregua (1963), che narra la liberazione e il lungo viaggio di ritorno in patria attraverso l’Europa (durato dal gennaio fino all’ottobre
del 1945). I suoi racconti (Storie naturali, 1967,
Vizio di forma, 1971) oscillano fra il ricordo della
guerra e l’attenzione alla vita quotidiana, aprendosi
anche all’elemento fantastico. Tornò al romanzo
con due opere profondamente personali che riflettono le sue grandi vocazioni intellettuali, quella
per la letteratura e quella per la scienza: Il sistema
periodico (1975), rievocazione autobiografica degli
anni di formazione di un intellettuale ebreo
piemontese appassionato di scienze naturali, scandita in capitoli che si ispirano agli elementi della
tavola di Mendeleev (strumento basilare per ogni
chimico); e soprattutto La chiave a stella (1978),
uno dei libri più positivi del dopoguerra, animato
dalla fiduciosa consapevolezza del proprio valore
da parte di un operaio specializzato. Seguì Se non
ora, quando? (1982), ricostruzione appassionata di
alcuni episodi della Resistenza che vedono coinvolto un gruppo di partigiani ebrei nella Russia occidentale. Concludono la sua produzione la raccolta
di poesie Ad ora incerta (1984), i saggi L’altrui
mestiere (1985) e l’opera-testamento I sommersi e
i salvati (1986), assai più tormentata rispetto ai lavori precedenti, che ritorna sull’esperienza del la-
ger con una riflessione laica sul male nella storia
e sul comportamento dell’uomo di fronte ad esso,
sulla necessità e sulla difficoltà di mantenere viva
nella società la memoria dell’olocausto.
Tomasi di Lampedusa e Morselli
• Giuseppe Tomasi di Lampedusa
• Guido Morselli
Il nobile palermitano Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (1896-1957), cultore di letteratura
inglese e francese e di studi storici, fu protagonista
negli anni ’50 di un vero “caso” letterario: sconosciuto in vita, divenne molto noto e apprezzato
dopo la morte, quando Giorgio Bassani curò la pubblicazione del suo romanzo Il Gattopardo (1958).
L’opera del principe siciliano, pur destando scalpore per le sue tesi conservatrici, riscosse un grande
successo di pubblico fino a diventare uno dei ro-
manzi più celebri del Novecento italiano. Si tratta
di un romanzo storico ambientato in Sicilia tra la
fine del regno borbonico e l’annessione dell’isola al
regno d’Italia, che ha per protagonista il principe di
Salina, l’ultimo dei “gattopardi”, rappresentati sullo
stemma della famiglia. Giunto al tramonto della
vita, egli si compiace di osservare gli eventi ora
privati, ora pubblici, che si svolgono quasi senza
lasciare tracce profonde nel mondo e negli uomini,
perché “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”. L’opera, che denuncia l’immobilismo
della società siciliana e il trasformismo politico
postrisorgimentale, è permeata da un profondo
senso di morte e di disfacimento: la sua sensibilità
decadente, in controtendenza rispetto al panorama
letterario del suo tempo, la rende un esempio unico.
Il bolognese Guido Morselli (1912-1973) fu autore
d’eccezione, capace di reinventare la storia del passato o di intuirla nel futuro, congiungendo a una
lucida intelligenza un pessimismo sconsolato e
ironico. Solo dopo il suicidio, a Varese, le sue opere
furono pubblicate e apprezzate per la singolare
costruzione degli intrecci, per l’acume con cui sono
affrontati alcuni problemi centrali del XX secolo
e per l’alta qualità stilistica della scrittura. I suoi
lavori letterari (Roma senza papa, 1974, in cui si
immagina il mondo cattolico degli ultimi anni del
Novecento; Contropassato prossimo, 1975, in cui
l’intera storia del secolo viene rivisitata attribuendo
alla prima guerra mondiale una fine diversa da
quella storica; Divertimento 1889, 1975, forse il
suo capolavoro, dove rivive la bélle epoque; Il
comunista, 1976, nel quale narra la crisi di un uomo
politico e di un’intera cultura; Dissipatio H.G.,
1977, diario dell’unico sopravvissuto di una surreale e inspiegabile apocalisse) raccontano in modo
scabro e sottile la corruzione e l’indifferenza della
vita moderna.
NARRATORI MERIDIONALI
In questi anni alcuni scrittori del Sud offrono del
Meridione un’immagine nuova, lontana dalla tipologia tradizionale. Soprattutto il napoletano Michele
Prisco (1920-2003) fa della sua città non più
l’oggetto di una narrazione folcloristica o sociologica, ma il simbolo di una situazione esistenziale insopportabile. Si segnalano i suoi racconti La provincia addormentata (1949); Fuochi a mare (1957) e
i romanzi Gli eredi del vento (1950); La dama di
piazza (1961); Una spirale di nebbia (1966); I cieli
della sera (1970); I giorni della conchiglia (1989).
Raffaele La Capria (1922) trasforma gli elementi
autobiografici nel ritratto di una generazione velleitaria, sullo sfondo di una Napoli lacerata e inerte
(Ferito a morte, 1961; Amore e psiche, 1973;
L’occhio di Napoli, 1996; La mosca nella bottiglia,
1996).
Parise e Berto
•
•
•
•
•
Goffredo Parise
Satira della vita di provincia italiana
I racconti e gli elzeviri
Giuseppe Berto
“Il male oscuro”
Il vicentino Goffredo Parise (1929-1986) fu autore
di sorprendente forza e intensità narrativa: il suo
realismo mostra sempre una concentrazione totale
sulle cose. Collaborò a diversi quotidiani, pubblicandovi resoconti di viaggio raccolti in volumi come
Cara Cina (1966), Due o tre cose sul Vietnam
(1967), Biafra (1968), Guerre politiche (1976),
New York (1997) e L’eleganza è frigida (1982),
quest’ultimo ambientato in Giappone. Esordì come
narratore con il romanzo Il ragazzo morto e le
comete (1951), al quale seguirono opere pervase di
pungente ironia, come La grande vacanza (1953),
che fotografa la vita della provincia italiana con intenti satirici e dissacranti, e Il prete bello (1954),
storia dell’amore impossibile fra un prete e una
giovane donna. Nei seguenti Il fidanzamento
(1956) e Atti impuri (1959), continuò a mettere a
nudo i guasti della provincia bigotta e viziosa. Di
forte attualità sociale fu il romanzo grottesco del
1965, Il padrone, in cui il rapporto che s’intaura
fra il padrone di una grande azienda e un suo dipendente riflette la violenza e la non autenticità
della vita nella società industriale, espressa con sar-
casmo in forma sarcastica e allegorica. Raccolse
quindi molti racconti nel volume Il crematorio di
Vienna (1969) e gli elzeviri di argomento introspettivo in Sillabario n. 1 (1972) e Sillabario n. 2
(1982): un piccolo dizionario affettivo-sentimentale
dei più semplici ed essenziali sentimenti dell’uomo
Parise. Pubblicato postumo nel 1997, il romanzo
L’odore del sangue è un’opera decisamente più cupa.
L’autobiografismo è il carattere della prosa del veneto Giuseppe Berto (1914-1978), che partecipò
alla guerra e fu fatto prigioniero. Nel suo romanzo
di maggior spicco, Il cielo è rosso (1947), domina
il tema della guerra, come anche nei seguenti Le
opere di Dio (1948), Il brigante (1951), e nel
romanzo-diario Guerra in camicia nera (1955),
rievocazione della guerra d’Africa. Con Il male
oscuro (1964) inizia una nuova fase fortemente
autobiografica, introspettiva e psicologica, una
sorta di monologo interiore costruito con la tecnica
del flusso di coscienza. La stessa tecnica venne
utilizzata in La cosa buffa (1966), mentre un impianto più tradizionale caratterizza Anonimo venezi-
ano (1971). Del 1973 è l’ironica Oh, Serafina, favola ecologica che critica aspramente la società industriale. Scrisse anche drammi di ispirazione religiosa (L’uomo e la sua morte, 1964; La passione
secondo noi stessi, 1972).
L’Italia dello sviluppo
socio-economico
•
•
•
•
•
Lucio Mastronardi
Ottiero Ottieri
Luciano Bianciardi
“La vita agra”
Piero Chiara
Alcuni scrittori hanno saputo cogliere i molteplici
aspetti dello sviluppo italiano degli anni ’50 e ’60,
che trasformò il nostro Paese in una moderna
nazione industrializzata ed ebbe un fortissimo impatto sociale, culturale e antropologico, con evidenti ripercussioni sul ruolo degli stessi intellettuali.
Il vigevanese Lucio Mastronardi (1930-1979),
maestro elementare che morì suicida, fu influenzato
dal neorealismo. Il calzolaio di Vigevano (1959),
scritto in una combinazione linguistica italopavese, descrive la realtà di un piccolo centro lombardo alle prese con l’industrializzazione, con un
uso espressionistico del dialetto di influsso gaddiano. Nel successivo Il maestro di Vigevano (1962)
tematiche più esistenziali, quasi pirandelliane, si
fondono con toni e situazioni grottesche della vita
scolastica e dell’ambiente di provincia negli anni
del boom economico, portando in primo piano gli
squilibri prodotti dall’industrializzazione e
l’incapacità del protagonista di adattarsi, per personalità e cultura, al nuovo mondo. Il meridionale
di Vigevano (1964) mette a fuoco le problematiche
dell’immigrazione e conclude il ciclo narrativo, poi
raccolto in Gente di Vigevano (1977), che include
anche i racconti: A casa tua ridono (1971) e
L’assicuratore (1975).
Il romano Ottiero Ottieri (1924-2002) ha partecipato molto attivamente al dibattito su letteratura e
industria ispirandosi anche alla propria esperienza
(lavorò alla Olivetti per un decennio), con alcuni
romanzi, quali Tempi stretti (1957), sull’alienazione operaia in fabbrica, e Donnarumma
all’assalto (1959), lucido esame delle contraddizioni tra le illusioni di un intellettuale dirigente
d’azienda e la realtà amara e ribollente del
Mezzogiorno lambito dall’industrializzazione, raccontate attraverso il diario di uno psicologo incaricato della selezione del personale. Meno interessanti
La linea gotica (1963) e L’impagliatore di sedie
(1964), mentre alcune opere successive in prosa
(L’irrealtà quotidiana, 1966; Il campo di concentrazione, 1972; Diario del seduttore passivo,
1995; Il poema osceno, 1996) e in poesia (Il pensiero perverso, 1971; La corda corta, 1978) indagano il male di vivere (facendo anche ricorso alla
psicoanalisi) e testimoniano di una profonda, dolente sensibilità.
Il grossetano Luciano Bianciardi (1922-1971)
visse con inquietudine un’aspra polemica nei confronti della società. Iniziò l’esperienza letteraria
come traduttore di scrittori stranieri a lui congeniali
per il romantico anarchismo (William Faulkner,
Henry Miller, Thomas Berger, John Barth). Il
pamphlet Il lavoro culturale (1957) è un libro-denuncia sul crollo degli ideali nati dalla Resistenza.
Del 1962 è La vita agra, il romanzo più riuscito,
autobiografico e saturo di amara ironia: il protagonista, un intellettuale anarchico di provincia, si
trasferisce a Milano con l’intenzione di abbattere
“il torracchione di vetro e cemento”, ma viene schiacciato dal mondo dell’industria culturale. Ne esce
un ritratto spassoso e caustico dell’autore stesso
e dell’Italia uscita dal miracolo economico. La
battaglia soda (1964) riflette in pieno il ritorno al
racconto storico dei romanzi “risorgimentali”, in
cui Bianciardi esprime soprattutto la disillusione:
Da Quarto a Torino (1960) e Daghela avanti un
passo (1969).
Il luinese Piero Chiara (1913-1986) è stato uno dei
più prolifici scrittori degli anni ’60 e ’70. Dotato
di un talento narrativo eccezionale, che dosa abilmente intreccio e ritratto psicologico, in una prosa
limpida e precisa, ha quasi sempre narrato storie
di provincia, in bilico tra grottesco e surreale.
Tra le sue opere migliori: Il piatto piange (1962),
L’uovo al cianuro (1969), Viva Migliavacca (1982).
Pier Paolo Pasolini
Vicino alle tematiche del neorealismo, ma anche
radicale sperimentatore, Pier Paolo Pasolini
(1922-1975) intese la letteratura come un modello per capire la realtà fuori da ogni astrazione
intellettualistica. Fu uno dei pochi scrittori del
secolo a interpretare con coraggio e dignità il
dovere civile dell’indignazione, il diritto di una
letteratura votata a comprendere come a rifiutare
corruzione e disumanità.
• La vita
• Regista cinematografico
Nato a Bologna, dopo la laurea (con una tesi sul
Pascoli) ritornò nel materno Friuli, e nel 1945
fondò con alcuni amici l’“Academiuta di lenga furlana”, a sostegno della poesia in dialetto friulano.
Nel 1947 si iscrisse al Partito Comunista e iniziò
a insegnare, ma nel 1949 fu espulso dal partito
e sospeso dall’insegnamento per corruzione di
minorenni. Si trasferì a Roma e nel 1955 fondò
la rivista “Officina”. Negli anni ’60, ormai noto al
grande pubblico, intraprese anche l’attività di regista cinematografico (fra i suoi film: Accattone,
Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini). Negli anni ’70 collaborò a periodici e quotidiani, intervenendo con spregiudicata
incisività sulle principali questioni politiche e culturali, rimpiangendo l’Italia povera e contadina distrutta dai mass media e dal consumismo di massa.
Morì a Roma, assassinato brutalmente in circostanze oscure.
• L’opera letteraria
•
•
•
•
•
•
•
•
Gli esordi
“Ragazzi di vita”
“Una vita violenta”
Le tragedie in versi
Saggi e articoli
La critica alla società
Le liriche in friulano
Le poesie in lingua italiana
I primi due romanzi Atti impuri e Amado mio, pubblicati postumi nel 1982, e l’idillio in prosa Il sogno
di una cosa (1949) sono opere tra il diaristico e
il documentario in cui il giovane Pasolini descrive
i primi amori omosessuali. Il romanzo Ragazzi di
vita (1955) gli procurò un grande successo anche
di critica. La scoperta della gioventù emarginata
delle borgate romane, violenta e scomposta ma vitale, spinge Pasolini verso un populismo in parte
venato di marxismo, in parte sentimentale, in cui
affiora un latente moralismo cattolico. La scrittura
ferma e precisa formicolante di espressioni gergali
e dal calco dialettale lo avvicina al neorealismo,
orientato però verso una dimensione mitizzante e
regressiva in cui l’autore si immedesima con il
mondo del sottoproletariato urbano e la sua spontaneità primordiale. Con Una vita violenta (1959),
che traccia la storia di un ragazzo “predestinato”
alla violenza, incapace di una visione matura della
vita o di qualsiasi coscienza politica e sociale, il mito si arrende alla realtà. Analogamente, tragedie in
versi come Calderón (1973), Affabulazione e Pilade (postume, 1977) perseguono faticosi progetti di
trasposizione mistica di conflitti psichici e tensioni
sociopolitiche. Invece la vocazione “pubblica” di
Pasolini trovò sfogo nell’ampia produzione saggistica e negli interventi giornalistici controcorrente (Passione e ideologia, 1960; Empirismo
eretico, 1972; Scritti corsari, 1975; Le belle bandiere, 1977). Intellettuale scomodo, fiero della propria diversità, polemizzava contro la società italiana
del suo tempo, che bollava come conformista e
clericale,
moralista
e
qualunquista,
e
l’omologazione ai valori piccolo borghesi cui il
neocapitalismo, il processo di industrializzazione,
lo sviluppo economico e il benessere consumistico
avevano sottoposto gli italiani, livellandone ogni
differenza individuale e di classe (la “mutazione
antropologica”). La classe dirigente del Paese (il
“Palazzo”) con le sue trame occulte e i torbidi intrecci affaristici sarebbe stata tra i protagonisti di
Petrolio, opera che nelle intenzioni doveva essere
una sintesi di romanzo, saggio, giornalismo, poesia,
a cui Pasolini lavorava al momento della morte e
i cui frammenti sono stati pubblicati postumi nel
1992.
Le poesie di Pasolini si rifanno alla lirica prenovecentesca, riletta in chiave espressamente antitradizionalista. La raccolta La meglio gioventù (1954,
rifatta nel 1975) con le prime poesie in dialetto friulano è la splendida e mai più raggiunta vetta
della lirica pasoliniana: il recupero filologico del
dialetto è al servizio della nostalgia per la terra e la
lingua materne, momento ideale del suo destino di
uomo. Alla riscoperta del dialetto Pasolini dedicò
saggi e antologie. Nelle poesie in lingua italiana
L’usignolo della chiesa cattolica (1958), il poeta
esprime un sentimento cattolico luttuoso e barocco,
misto a tardi rifacimenti decadenti. I poemetti in
terzine delle Ceneri di Gramsci (1957) rispecchi-
ano l’impatto con Roma, la riflessione sul degrado
della società e, insieme, l’anelito a un mutamento
radicale che passa anche per la forma e il linguaggio. La religione del mio tempo (1961) adotta la
satira e l’epigramma; Poesia in forma di rosa
(1964) argomenta e monologa in una prospettiva
di rifiuto e contestazione ormai troppo declamata.
In Trasumanar e organizzar (1971), da una parte
Pasolini riscrive le poesie giovanili in dialetto,
dall’altra assume toni da poeta civile e sdegnato,
preludendo all’ultima, tragica stagione.
SCHEMA RIASSUNTIVO
REALISMO CRITICO
Categoria narrativa in cui si tende, oltre che a rappresentare, soprattutto a indagare le forme della realtà.
MORAVIA
Alberto Moravia (1907-1990), osservatore instancabile della realtà contemporanea, ha fatto propri
molti temi della modernità (sesso, alienazione, significato dei rapporti economici). La sua scrittura è un
esempio di lucidità e rigore espressivo. Da ricordare:
Gli indifferenti (1929) e La noia (1960).
SCIASCIA
Leonardo Sciascia (1921-1989), scrittore di grande
impegno civile e politico, propone una narrativa
limpida e distaccata, in un sorta di pessimistico, lucido razionalismo, attraverso i metodi classici
dell’indagine, dell’inchiesta poliziesca, della
ricostruzione storica o della denuncia. Da ricordare
tra i suoi romanzi: Il giorno della civetta (1961); Il
consiglio d’Egitto (1963); A ciascuno il suo (1966);
Il contesto (1971); Todo modo (1974),
BRANCATI
Vitaliano Brancati (1907-1954), erede della grande
tradizione siciliana di Verga e De Roberto, analizza
la vita della borghesia siciliana durante il fascismo,
avvalendosi di una comicità e di un’ironia dissac-
rante, rivelatrice del disagio sociale dell’epoca. Da
ricordare: Don Giovanni in Sicilia (1941); Il
bell’Antonio (1949), Paolo il caldo (1955).
PIOVENE
Guido Piovene (1907-1974) scandaglia soprattuttto le
inquietudini e le ipocrisie della vita provinciale. Da
ricordare: Lettere di una novizia (1941).
SOLDATI
Mario Soldati (1906-1999), scrittore ricco e versatile,
è capace di usare molteplici timbri narrativi. Da ricordare: Sàlmace (1929); America primo amore
(1935).
FLAIANO
Ennio Flaiano (1910-1972) è narratore sarcastico e
grottesco. Da ricordare: Tempo di uccidere (1947).
BASSANI
Giorgio Bassani (1916-2000) rievoca vicende della
comunità ebraica di Ferrara, i cui personaggi diventano emblema della tragedia esistenziale di chi
vive una lacerante diversità. Da ricordare: Il giardino
dei Finzi Contini (1962).
LEVI
Primo Levi (1919-1987) racconta con scrittura piana
e distaccata l’orrore del lager nazista dando
un’altissima testimonianza morale e poetica
dell’olocausto. Da ricordare: Se questo è un uomo
(1947), La tregua (1963), La chiave a stella (1978), I
sommersi e i salvati (1986).
TOMASI DI LAMPEDUSA
Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) ha
scritto il romanzo storico Il Gattopardo (1958), che
attraverso le vicende della Sicilia posrtisorgimentale
indaga il “carattere” degli italiani.
MORSELLI
Guido Morselli (1912-1973) ha raccontato, in modo
scabro e sottile, la corruzione e l’indifferenza della
vita moderna. Da ricordare: Divertimento 1889
(1975); Il comunista (1976).
PARISE
Goffredo Parise (1929-1986) propone un realismo
narrativo che è sempre una concentrazione totale
sulle cose. Da ricordare: Il ragazzo morto e le comete
(1951); Il prete bello (1954); Il padrone (1965); Sillabario n. 1 (1972) e Sillabario n. 2 (1982).
BERTO
L’autobiografismo è il carattere della prosa di Giuseppe Berto (1914-1978). Da ricordare: Il cielo è
rosso (1947); Il male oscuro (1964).
SCRITTORI
DELL’ITALIA
DELLO
SVILUPPO SOCIO-ECONOMICO
Il vigevanese Lucio Mastronardi (1930-1979) con
Il calzolaio di Vigevano (1959) e Il maestro di Vigevano (1962); Ottiero Ottieri (1924) con Donnarumma all’assalto (1959); Luciano Bianciardi
(1922-1971) con La vita agra (1962); Piero Chiara
(1913-1986) con Il piatto piange (1962).
PASOLINI
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) interpreta la letteratura come un modello per comprendere la realtà
al di fuori di ogni astrazione intellettualistica e interpretare il dovere civile dell’indignazione. Crede
nella complessità plurilinguistica della tradizione (rifiutando la neoavanguardia), benché si senta un ribelle rinnovatore. Tra i romanzi: Ragazzi di vita
(1955), Una vita violenta (1959). Tra le opere poetiche: La meglio gioventù (1954, 1975), Le ceneri di
Gramsci (1957).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Che cos’è la noia nell’opera di Moravia?
2. Su quali fronti e con quali generi letterari
Sciascia ha attuato il suo impegno civile?
3. Qual è il panorama sociale e umano dell’opera
di Brancati?
4. Quale funzione ha in Bassani la memoria autobiografica?
5. Perché Primo Levi rievoca l’olocausto?
6. Qual è il significato degli eventi narrati nel
Gattopardo?
7. Quale funzione ha il dialetto nella prosa e nella
lirica di Pasolini?
13 LA POESIA
DIALETTALE DEL
NOVECENTO
Finito il realismo popolare della letteratura dialettale ottocentesca, nel Novecento la ricca produzione poetica
in dialetto si mostra aperta ai valori più intimi, capace
di ritrovare nella scelta del vernacolo una più profonda
autenticità umana, con il ricorso a una lingua quasi incorrotta rispetto alla tragica consunzione della lingua poetica
tradizionale.
Delio Tessa
• Espressionismo lirico
• Invenzioni linguistiche vicine alla sperimentazione
futurista
Delio Tessa (1886-1939), erede della grande tradizione della lirica in dialetto milanese, risulta un
esempio altissimo di espressionismo novecentesco. Condusse vita isolata, esercitando la professione di giudice. Pubblicò un solo libro di poesie,
L’è il dì di mort, alegher! (1932): protagonista
della sua poesia è il popolino di Milano, in particolare la gente di malaffare. La scelta del dialetto
utilizza i dati linguistici per deformarli con invenzioni vicine allo sperimentalismo futurista, non
lontano da certe dissonanze di origine pascoliana.
Lo strano componimento Caporetto 1917, sulla tragicità della guerra, vista attraverso gli occhi della
povera gente che impreca per la disfatta, crea una
vera e propria parodia che fa da contraltare alla propaganda ufficiale, con risultato finale tragicomico.
Uscirono postumi: Poesie nuove e ultime (1979) e
Alalà al pellerossa (1979).
Biagio Marin
• La produzione poetica
• I temi
Biagio Marin (1891-1985), nativo di Grado, studiò
filosofia a Vienna e poi a Roma con il filosofo
Giovanni Gentile. A Firenze entrò in contatto con
l’ambiente della “Voce”. Alle prime raccolte, Fiuri
de tapo (1912); La girlanda de gno suore (1922);
Cansone picole (1926), dopo un lungo intervallo,
seguirono quelle che lo resero noto, fra le quali:
I canti de l’isola (1951); Il non tempo del mare
(1965); La vita xe fiama (1970); Ultime refolae
(1975); La vose de la sera (1985). L’adozione del
dialetto gradese, una lingua arcaica e povera, rappresenta la scelta di purezza ed essenzialità delle
origini, che Marin contrappone alle trasformazioni
del mondo contemporaneo. Semplici anche i suoi
temi: il mare, il sole, i profumi, l’umanità.
Giacomo Noventa
• Cattolicesimo e marxismo
• La poesia è preghiera
Giacomo Noventa è lo pseudonimo di Giacomo
Ca’ Zorzi, (1898-1960), originario di Noventa di
Piave. La sua ideologia, un misto di cattolicesimo
e di marxismo, fu animata da un profondo spirito
antiborghese e dal desiderio di partecipare
all’edificazione di una società dominata dalla giustizia. Nel 1936 fondò la rivista “La Riforma letteraria”. Nel 1956 uscì il volume Versi e poesie,
che raccoglie i versi in dialetto veneto destinati
all’ascolto degli amici, quindi in forma di conversazione più che di scrittura. Il volume Versi e
prose di Emilio Sarpi uscì postumo (1963). La sua
poesia è il segno di un’antica civiltà, lontana da
ogni eroismo e da ogni intellettualismo; la poesia
recupera valori e sentimenti considerati morti,
sa cogliere il senso ultimo delle cose; la poesia è
preghiera che non guarda tanto alle parole, quanto
a ciò a cui le parole rimandano.
Trilussa
Trilussa è lo pseudonimo di Carlo Alberto Salustri
(1871-1950), autore di una copiosa produzione di
facili versi in romanesco che gli valse immediato
e vasto consenso. Attento osservatore della vita
borghese, la sua vena si caratterizza per la
descrizione di usi, costumi e atteggiamenti in
chiave bozzettistica, a cui il dialetto aggiunge immediatezza e ironia (Er mago de Bborgo, 1890-91),
oppure per l’argomento favolistico e moraleggiante
(Ommini e bestie, 1914; Lupi e agnelli, 1919).
Pierro, Guerra, Baldini, Loi
•
•
•
•
Albino Pierro
Tonino Guerra
Raffaello Baldini
Franco Loi
Il dialetto resta per alcuni autori un modo per “toccare” letteralmente il senso delle cose, la deformazione e il paradosso della vita: il pessimismo si
equilibra dunque con un fortissimo gusto della dizione e del paesaggio naturale.
Il lucano Albino Pierro (1916-1995) testimonia
un misto di dolore e di segreta disperazione. La
sua poesia (scritta nell’antichissimo dialetto materno di Tursi, presso Matera) può essere realistica,
sentimentale, tragica, persino grottesca: ma insiste
sul puro terrore che si nasconde dentro le cose.
Tra le numerose raccolte vanno ricordate: Metaponto (1966), Nd’u piccicarelle de Turse (Nel precipizio di Tursi, 1967); Eccò a morte? (Perché la
morte?, 1969); Famme dorme (1971); Si po’ nu
iurne (Se poi un giorno, 1983); Un pianto nascosto
(1986).
Il romagnolo di Santarcangelo Tonino Guerra
(1920), autore anche di romanzi in italiano (L’uomo
parallelo, 1969; I guardatori della luna, 1981) e
sceneggiatore di numerosi registi cinematografici
italiani e stranieri, popola i suoi versi di figure
dolorose, spesso emarginate, ma cariche di intensa sensibilità e vitalità (I bu. Poesie romagnole,
1972).
Anch’egli di Santarcangelo di Romagna, Raffaello
Baldini (1924-2005) nelle sue poesie di La nàiva
(1982) e Furistìr (1988) identifica e riproduce lucidamente la grammatica della nevrosi quotidiana.
Il genovese Franco Loi (1930) è vissuto fin da
ragazzo a Milano. I suoi libri (Stròlegh, 1975; Teater, 1978; Liber, 1988; Umber, 1992, L’Angel,
1981-94) sono tenerissimi racconti reali di dolore
e speranza, scritti in un milanese molto lontano dal
dialetto parlato, capace di momenti di grande espressività.
SCHEMA RIASSUNTIVO
POESIA DIALETTALE
Si abbandona il vernacolo come scelta di realismo
popolare: e la poesia in dialetto diventa soprattutto
occasione di autenticità e sincerità umana.
TESSA
Il milanese Delio Tessa (1886-1939) scegliendo il
dialetto utilizza i dati linguistici per deformarli con
invenzioni vicine allo sperimentalismo futurista (L’è
il dì di mort, alegher!, 1932).
MARIN
Biagio Marin (1891-1985) con l’adozione
dell’arcaico dialetto materno di Grado fa una scelta di
purezza ed essenzialità delle origini, da contrapporre
alle trasformazioni del mondo contemporaneo (Cansone picole, 1926; I canti de l’isola, 1951; La vose de
la sera, 1985).
NOVENTA
La poesia del veneto Giacomo Noventa (1898-1960),
che assunse lo pseudonimo del paese d’origine, recupera valori e sentimenti considerati morti, sa cogliere
il senso ultimo delle cose (Versi e poesie, 1956).
TRILUSSA
Pseudonimo del romano Carlo Alberto Salustri
(1871-1950). Osserva la cronaca e la vita borghese
con immediatezza e ironia (Ommini e bestie, 1914;
Lupi e agnelli, 1919).
PIERRO
La poesia del lucano Albino Pierro (1916-1995) può
essere realistica, sentimentale, tragica o grottesca
(Metaponto, 1966).
GUERRA
Il romagnolo Tonino Guerra (1920), anche sceneggiatore cinematografico, popola i suoi versi di figure
dolorose ma vitali (I bu. Poesie romagnole, 1972).
BALDINI
Il romagnolo Raffaello Baldini (1924) descrive lucidamente la nevrosi quotidiana (La nàiva, 1982; Furistìr, 1988).
LOI
Franco Loi (1930), genovese ma milanese
d’adozione, ha scritto tantissimi racconti reali di
dolore e speranza in milanese (Stròlegh, 1975;
L’Angel, 1981-94).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale funzione ha il dialetto per Tessa?
2. Quali temi ispirano Marin?
3. Qual è la prospettiva della poesia di Noventa?
14 LA POESIA DEL
DOPOGUERRA
La poesia del dopoguerra si caratterizza per il superamento dell’ermetismo e la ricerca di un nuovo rapporto
con la realtà e il mondo delle cose. La testimoniano personalità di assoluto rilievo. Betocchi e Penna, in modo
particolare, seguono per vie differenti la linea di un realismo assoluto. Luzi, Bertolucci e Sereni propendono per
un impegno che avrà esiti diversi (il senso storico di
Sereni aprirà a Linea Lombarda); Caproni approda a una
nitidezza espressiva amara e straziante.
Carlo Betocchi
• La realtà come espressione del divino
• Temi della vecchiaia e della morte
Carlo Betocchi (1899-1985) è il rappresentante di
un realismo che trova espressione in una poesia
fatta di cose eppure animata da una continua
tensione all’assoluto. In nome di una profonda religiosità, il poeta torinese ripudia l’esasperato soggettivismo di molta lirica, concentrandosi invece
sulla realtà e sull’esistenza stessa in quanto espressione del divino. Soprattutto nelle prime raccolte
degli anni ’30 e dell’immediato dopoguerra (Realtà
vince il sogno, 1932; Altre poesie, 1939; Notizie di
prosa e poesia, 1947) i temi prediletti sono la realtà rurale della Toscana e i suoi valori semplici
e autentici, a cui corrisponde una ricerca di forme
poetiche altrettanto semplici ed espressive. L’estate
di san Martino (1961) segnò l’inizio di una nuova
fase, legata al tema della vecchiaia, della morte vicina ma accettata cristianamente: nacque così una
lirica più intima, di andamento diaristico. Nella
ricerca della verità ultima, Betocchi è convinto che
unico valore per l’uomo sia quello
dell’appartenere a un ordine universale, sola
salvezza contro la violenza e la mercificazione
della società industriale.
Sandro Penna
• I paesaggi dell’esistenza e l’omosessualità
• Il particolare, spunto di rivelazione esistenziale
La poesia del perugino Sandro Penna (1906-1977)
si richiama soprattutto alla lezione di Saba (suo
amico, del quale è considerato il principale discendente) e, in parte, all’ermetismo. La sua produzione
può essere analizzata come un grande ciclo dominato da temi come l’amore omosessuale e i paesaggi
dell’esistenza. Nel suo verso, concreto e sempre
espresso con misura classica, colpa e innocenza
si alternano in un precario equilibrio, non senza
riflettere una segreta inquietudine. Esordì con le
Poesie (1939), cui seguirono molte altre raccolte,
fra le quali Appunti (1950), Una strana gioia di
vivere (1956), L’ombra e la luce (1975), Stranezze
(1976). Predilesse il componimento breve
(l’epigramma o minuscoli abbozzi narrativi), in cui
la concisa descrizione di un particolare (il mare,
una piazza, lo scompartimento di un treno), di un
gesto, di un’impressione, di un’immagine, di un
attimo che si trasforma in istante fuori dal
tempo, diventa illuminazione, spunto per una
“rivelazione” esistenziale. Nel suo linguaggio di
estremo nitore ed essenzialità l’aulico si fonde naturalmente con il quotidiano, in un andamento molto
musicale.
Attilio Bertolucci
• Realismo pastoso e tenero
• La famiglia, la campagna emiliana, la città
• Il valore della memoria
Originario di San Lazzaro Parmense, Attilio Bertolucci (1911-2000) è il maestro di un realismo
pastoso e tenero, aperto a un paesaggio quotidiano
familiare, in cui riverbera un senso classico della
vita. Le raccolte giovanili (Sirio, 1929; Fuochi di
novembre, 1934) delineano poesie brevi staccatesi
dal linguaggio dell’ermetismo per abbracciare un
sentimento della natura che estende la propria influenza anche sulle opere successive: il poemetto
La capanna indiana (1951), la raccolta di liriche
Viaggio d’inverno (1971), dove si registra una più
sofferta frattura dello stile, La lucertola di Casarola
(1997) e La camera da letto, lungo poema narrativo
pubblicato in due parti nel 1984 e nel 1988, ruotano
attorno ai motivi ricorrenti della famiglia, della
campagna emiliana, della città, con toni ora
drammatici ma in genere fluidi e distesi. Domina
il mondo agreste, salvaguardia della continuità
dell’esistenza nel ripetersi degli eventi naturali.
Costante è la ricerca di un rifugio, “la capanna”,
che difende e protegge. Il trasferimento a Roma
e l’impatto con la vita cittadina hanno introdotto
nella sua poesia la convinzione che il mondo idillico della campagna è destinato a essere distrutto
dalla storia e dalla civiltà; unica salvezza è allora
la memoria, che fa riaffiorare il passato felice. Nei
poemi Bertolucci predilige un racconto in versi lineare e armonico, il quale scaturisce da un registro e
da un linguaggio piano che si fondono con un ritmo
regolare, sintomo di quella assoluta naturalezza che
unifica la sua visione del mondo con la sua idea poetica.
IL CASO DI PADRE TUROLDO
Il frate servita David Maria Turoldo (1916-1992),
friulano, rappresenta un caso unico nel panorama
della poesia italiana del dopoguerra. Partecipò alla
Resistenza e fu a lungo predicatore nel Duomo di
Milano; si impegnò nella linea di rinnovamento della
Chiesa secondo lo spirito del Concilio Vaticano II.
La sua produzione poetica dal 1948 al 1988 è stata
raccolta in O sensi miei (1990): essa è incentrata sulla
lotta con l’”angelo del Nulla”, sulla testimonianza
della Parola, con un linguaggio pienamente novecentesco e insieme ricco di riferimenti biblici. Importanti
sono anche i suoi Canti ultimi (1991).
Mario Luzi
• La stagione ermetica
• Il duro confronto con la storia
• Dispersione e disorientamento dell’io
Originario di Sesto Fiorentino, Mario Luzi
(1914-2005) parte da una forte esperienza cattolica nutrita dalla lezione spirituale della migliore
poesia simbolista francese. Primaria in lui è la
vocazione all’assoluto, non quello consolatorio
delle certezze, ma quello bruciante della ricerca.
Negli anni ’30-’40 fu uno dei protagonisti della stagione ermetica (v. a p. 311) fiorentina (La barca,
1935); seguirono poi le raccolte Avvento notturno
(1940), Un brindisi (1946) e Quaderno gotico
(1946). Ma il momento centrale della sua
produzione coincide con Primizie del deserto
(1952), Onore del vero (1957) e Dal fondo delle
campagne (1965), che risentono di una maturazione esistenziale a confronto con la storia,
in un gioco severo in cui l’essere e l’esistere si
fronteggiano duramente. Queste opere si aprono a
nuove soluzioni di tono più discorsivo e colloquiale
ma sempre permeato di tensione lirica e morale.
Una svolta avviene con Nel magma (1963); Su fondamenti invisibili (1971); Al fuoco della controversia (1978); Per il battesimo dei nostri frammenti
(1985); Frammenti e incisi di un canto salutare
(1990), opere nelle quali il “magma” della realtà
sembra tradursi in forme meno alte, tese a registrare, anche mediante l’uso frequente del dialogo, la dispersione e il disorientamento dell’io,
la sua fragilità conoscitiva. I versi stessi diventano
più contratti e l’andamento difficoltoso e spezzato
di fronte alla cruda immagine del reale. Luzi ha
scritto inoltre numerosi saggi critici, pagine autobiografiche e testi teatrali in versi (Il libro di Ipazia,
1978; Rosales, 1984).
Vittorio Sereni
• La poesia come coscienza storica
• Influenza dell’ermetismo e dei crepuscolari
• L’esperienza del prigioniero
• La società consumistica
Il lombardo Vittorio Sereni (1913-1983), di Luino,
rappresenta lo sfaldamento dei presupposti ermetici
in favore di una più radicale presa di coscienza
della storia e dei suoi orrori: la poesia diviene allora l’esperienza nitida e straziante di una crisi
che non è solo individuale ma storica. Essa non
è solamente il risultato di una ricerca esclusiva ma
lo specchio di una condizione di intellettuale più
ampia che non riguarda solo l’esercizio della
poesia. Nel volume d’esordio Frontiera (1941) risentì dell’influenza ermetica, condividendone la fiducia nella funzione rivelatrice della parola poetica,
anche se si accostò a temi semplici e dimessi che
richiamano la lezione dei crepuscolari: campeggiano nella raccolta l’immagine del “lago” che evoca
calma e serenità, anche se il “vento” presto investirà quell’idillico paesaggio lacustre, e la presenza
del “confine” (la città natale del poeta è vicina alla
frontiera svizzera) che assume un significato metaforico. In Diario d’Algeria (1947) dominano i temi
della guerra e della prigionia (Sereni fu internato in
Algeria e in Marocco), che il poeta affronta mediando tra l’esperienza reale e vissuta e una prospettiva simbolica di cui è specchio la sofferta condizione esistenziale del prigioniero “morto alla guerra
e alla pace”. Nella terza raccolta, Gli strumenti
umani (1965), la società del dopoguerra, capitalista
e consumistica, segno del male di vivere, lo vede
ora estraneo, ora in preda a un disperato furore.
In questa degradazione solo l’amore e l’amicizia
possono rappresentare un approdo momentaneo,
mentre anche la parola si fa più dura e il ritmo diseguale, come accade soprattutto nella raccolta Un
posto di vacanza (1965) poi inclusa, insieme ad altri versi, in Stella variabile (1981): qui il poeta,
con un radicale pessimismo, mette in discussione
persino il ruolo stesso della poesia, la stella a cui
non ci si può affidare, che si invoca ma senza che
possa garantire alcuna salvezza, in uno stile che, coerentemente con la sua meditazione, si fa sempre
più prosastico.
LINEA LOMBARDA
Così definì Luciano Anceschi, in un’antologia del
1952, una corrente che raggruppa vari poeti, nati fra il
’20 e il ’22, affascinati dalla lezione di Sereni, e tutti
legati ai rapporti tra poesia e realtà (attenzione agli
oggetti, concretezza, oggettività, senso critico, forte
tensione morale e ironia).
Il ticinese Giorgio Orelli (1921) propone un tono
quasi epigrammatico e insieme elegantissimo (L’ora
del tempo, 1962; Sinopie, 1977); il milanese Nelo
Risi (1920), invece, una poesia civile, di forte impegno politico (Polso teso, 1956; Pensieri elementari, 1961; Dentro la sostanza, 1965; Mutazioni,
1991).
Il milanese Luciano Erba (1922-2010) è un moralista, eroicamente avvinghiato a una ricerca poetica
di dignità umana (Il male minore, 1960; Il nastro di
Moebius, 1980; Il tranviere metafisico, 1987).
Nel siciliano Bartolo Cattafi (1922-1979), vissuto a
lungo a Milano, la concretezza delle cose si fa occasione per una moralistica violenza lirica di stampo
quasi espressionista (Le mosche del meriggio, 1958;
L’osso, l’anima, 1964; L’allodola ottobrina, 1979).
Giorgio Caproni
• La maturità poetica
• La reinvenzione del passato
• Le ultime raccolte
Il livornese Giorgio Caproni (1912-1991) mette
in musica uno scetticismo senza soluzione: la sua
poesia è capace di una nitidezza espressiva amara
e straziante, nella tradizione di Leopardi. Esordì
con le raccolte Come un’allegoria (1936), Ballo
a Fontanigorda (1938) e Finzioni (1941), che ricordano soprattutto Saba sia per la tematica della
“fresca vita”, sia per la lontananza dalle soluzioni
stilistiche dell’ermetismo, cui si avvicina invece
nella successiva Cronistoria (1943), in cui sono
inclusi anche i Sonetti dell’anniversario. Con Le
stanze della funicolare (1952) e Il passaggio di
Enea (1956), matura un canto d’amore per un’Italia
distrutta dalla guerra, ma attiva e laboriosa. Nella
raccolta Il seme del piangere (1959) campeggiano
l’ombra della madre e la reinvenzione, non solo il
ricordo, del passato. La metafora del viaggio continua nell’accezione di “viaggio finale” nel
Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965), la
sua opera forse più celebre, in cui il poeta si accomiata dalla vita sociale per volgersi a figure ai
margini della vita, e nel Muro della terra (1975),
in cui il muro (una citazione dantesca) diviene il
limite simbolico della condizione umana che il poeta non può varcare. Nelle ultime raccolte, Il franco
cacciatore (1982), Il conte di Kevenhuller (1986),
Res amissa (1991), risolte in forme espressamente
musicali, il poeta-cacciatore è alla ricerca di Dio,
dell’infanzia, del passato, una ricerca dove
“l’inseguito diventa inseguitore”, il cacciatore cacciato, senza speranza per niente e per nessuno.
La poesia di Caproni si distingue per la sonorità
originale, dove la ripresa di forme metriche classiche (stanze, sonetti, ballate) e di versi tradizionali
(l’endecasillabo) si alterna a forzature e dissonanze
sempre più evidenti nelle ultime opere.
SCHEMA RIASSUNTIVO
BETOCCHI
Carlo Betocchi (1899-1985) è il rappresentante di
un realismo in cui la poesia è fatta di cose eppure
è una continua tensione all’assoluto. Raccolte principali: Realtà vince il sogno (1932), L’estate di san
Martino (1961).
PENNA
La poesia di Sandro Penna (1906-1977) è semplice
ma in questo assoluta; il suo verso è reale e concreto
ma sempre straziante e perfetto: colpa e innocenza
sembrano trovare un sorprendente e poetico equilibrio.
BERTOLUCCI
Attilio Bertolucci (1911-2000) è il maestro di un realismo pastoso e tenero, aperto a un paesaggio quotidiano quanto familiare, in cui riverbera un senso
classico della vita (Fuochi di novembre, 1934; La
capanna indiana, 1951; La camera da letto, 1984).
LUZI
Mario Luzi (1914-2005) parte da una forte esperienza
cattolica, nutrita della migliore poesia simbolista
francese. Resta primaria in lui la vocazione
all’assoluto (Primizie del deserto, 1952; Nel magma,
1963; Al fuoco delle controversie, 1978).
SERENI
Vittorio Sereni (1913-1983), di Luino, rappresenta lo
sfaldamento dei presupposti ermetici in favore di una
più radicale presa di coscienza della storia e dei suoi
orrori (Diario d’Algeria, 1947; Gli strumenti umani,
1965; Stella variabile, 1981).
CAPRONI
La poesia di Giorgio Caproni (1912-1991), espressione di uno scetticismo senza soluzione, è capace
di una nitidezza amara e straziante (Il passaggio di
Enea, 1956; Il seme del piangere, 1959; Il franco cacciatore, 1982).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è il valore dell’uomo per Betocchi?
2. Qual è il ruolo del particolare per Penna?
3. Quali sono i motivi ricorrenti della poesia di
Bertolucci?
4. Quale obiettivo ha la drammatica ricerca di
Mario Luzi?
5. Perché la poesia di Sereni si pone come coscienza storica?
6. Che cosa cerca il poeta-cacciatore Caproni?
15 SPERIMENTALISMO E
NEOAVANGUARDIA
Intorno alla fine degli anni ’50 il neorealismo andava
esaurendosi: i valori e gli equilibri socio-politici usciti
dalla Resistenza si erano trasformati; lo sviluppo industriale, la crisi della Sinistra dopo la destalinizzazione
richiedevano una cultura capace di sperimentare nuove
forme sia di rappresentazione, sia di critica e di confronto
con la realtà storica. Si apre la stagione dello “sperimentalismo” e con gli anni ’60 si affermano le istanze culturali della “neoavanguardia”.
Le riviste
• “Officina”
• “Il Menabò”
• “Il Verri”
“Officina”, pubblicata a Bologna (1955-58), ebbe
come redattori il calabrese Francesco Leonetti
(1924), Pier Paolo Pasolini, il bolognese Roberto
Roversi (1923) e, tra gli altri, Franco Fortini. Il
programma della rivista, pur critica verso le esperienze del neorealismo come d’altronde verso la
letteratura novecentesca, era recuperare un concreto realismo che sperimentasse la molteplicità
delle forme linguistiche, che rispecchiasse la cultura moderna senza tuttavia rompere il rapporto con
la tradizione (soprattutto ottocentesca) e mantenendo una prospettiva storica che animasse la
ricerca.
La torinese “Il Menabò” (1959-67) fu una rivista
meno programmatica, anche se capace di intensa
aggregazione e riflessione letteraria. Ebbe come
principali animatori Elio Vittorini e Italo Calvino.
Promosse un famoso dibattito su “letteratura e
industria” (1961); affrontò problemi di sociologia
e di storia della cultura; progettò anche una rivista
internazionale. Fu dunque un momento di grande
ricerca e di profonda sprovincializzazione della cultura italiana.
“Il Verri” venne fondata a Milano (1956) e diretta
dal
critico
milanese
Luciano
Anceschi
(1911-1995). Accantonate le istanze realistiche o
storicistiche in favore di un approccio fenomenologico e di un’ampia apertura culturale nei confronti del panorama contemporaneo, si distinse per
l’impegno profuso nel sostegno alle proposte di
rinnovamento letterario. Promosse la pubblicazione dell’antologia dei Novissimi (1961), che
raccoglieva la poesia delle neoavanguardie, e contribuì alla fondazione del Gruppo ’63 e alla
realizzazione delle sue attività.
La neoavanguardia e il Gruppo ’63
• La neoavanguardia
• L’antologia dei “Novissimi”
La neoavanguardia affermava l’inadeguatezza
e la crisi dell’ultimo neorealismo e con esse la
necessità di dare vita a una cultura veramente
moderna. Il punto di riferimento ideale fu l’operato
delle avanguardie storiche (futurismo, surrealismo,
dadaismo), sia per la spinta da esse esercitata nel
primo Novecento, sia per la nuova concezione di
rapporto dinamico e coinvolgente con il pubblico.
Altri impulsi li diedero le coeve avanguardie pittoriche e figurative, scrittori come Gadda, la filosofia marxista e discipline come la semiotica e la
psicoanalisi. Sul piano internazionale la neoavanguardia si ricollegava alle esperienze francesi del
gruppo “Tel quel” e del “Nouveau roman” e a
quelle americane della poesia underground. La
prima edizione dell’antologia I Novissimi. Poesie
per gli anni ’60 (1961) comprendeva testi poetici
di Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani (1924-2007),
Elio Pagliarani, Antonio Porta e Edoardo Sanguineti. Seguì la fondazione (1963), durante un
convegno a Palermo, del Gruppo ’63, con cui la
neoavanguardia allargò il suo campo d’interesse e
di intervento, coinvolgendo numerosi giovani poeti, scrittori e critici, come Adriano Spatola, Giulia
Niccolai, Tomaso Kemeny, Cesare Ruffato, Umberto Eco e Sebastiano Vassalli. Obiettivo del
gruppo fu il rifiuto della tradizione poetico-letter-
aria degli anni ’50: identificando ideologia e linguaggio, esso attribuiva alla sperimentazione linguistica una funzione sovvertitrice della razionalità borghese, attraverso scelte formali che
puntavano sul gioco provocatorio, sulla parodia
e sullo straniamento, in contestazione del linguaggio letterario tradizionale.
CARMELO BENE
Il salentino Carmelo Bene (1937-2002) è stato una
delle personalità più originali del teatro italiano, con
il suo provocatorio amore per la sperimentazione.
Dopo il debutto nel 1959 come protagonista del Caligola di Albert Camus, diventa il regista di se stesso
e inizia a compiere un’opera di manipolazione integrale dei testi drammatici classici, soprattutto Manzoni
e Shakespeare. Nel 1965 pubblica il romanzo Nostra
Signora dei Turchi, da cui tre anni dopo avrebbe tratto
un singolare film. Tra gli allestimenti da ricordare:
La cena delle beffe (1974) e Amleto (1975). Nel 1980
rappresenta Manfred, poema sinfonico con musiche
di Schumann che raccoglie un grande successo di
pubblico e di critica. Seguono Lectura Dantis (1981),
Pinocchio (1981), Hommelette for Hamlet (1987),
Lorenzaccio (1988). Negli ultimi anni, in particolare,
il suo lavoro sulla voce spinge la dimensione
dell’attore verso confini prima mai raggiunti: memorabili le sue letture di Majakovskij, di Leopardi, dei
Canti orfici di Dino Campana, oltre all’Hamlet suite
messa in scena nel 1994, dove al testo di Laforgue
aggiunge musiche proprie con effetti di straziante lirismo.
Giovanni Testori
• I racconti e le commedie sui “segreti di Milano”
• La tensione religiosa e la conversione al cattolicesimo
Il milanese Giovanni Testori (1923-1993)
frantumò l’eredità neorealista con il timbro di
una violenza linguistica prossima all’urlo es-
pressionistico. La sua modernità è paradossale e
sembra, infatti, che voglia mimare la ricchezza e
l’assurdità di una lingua barocca sconosciuta.
Esordì con il racconto Il dio di Roserio (1954),
confluito successivamente nella raccolta Il ponte
della Ghisolfa (1958), con cui inaugurò una serie
di opere, che costituiscono i “segreti di Milano”,
e di cui fanno parte i racconti La Gilda di Mac
Mahon (1959), le commedie La Maria Brasca
(1960) e L’Arialda (1960), il romanzo Il fabbricone
(1961). L’amore per il teatro come forma di comunicazione diretta e più immediata della narrativa lo
indusse a un’interessante sperimentazione drammatica, culminata nella trilogia – Ambleto (1972),
Macbetto (1974), Edipus (1977) – in cui rivisitò
i tre capolavori tragici del passato ambientandoli nel mondo contemporaneo. Negli anni ’80 altri significativi risultati della sua sperimentazione
teatrale furono il Post-amlet (1983) e “I promessi
sposi alla prova”. Azione teatrale in due giornate
(1984). Nelle successive opere di narrativa, attraversate dal profondo senso della morte, dalla
corruzione della modernità, dalla carnalità dir-
ompente, domina la tensione religiosa, che culmina nelle opere come Passio Letitiae et Felicitatis
(1975) e In exitu (1988), premessa all’adesione
convinta al cattolicesimo, cui lo scrittore si convertì pubblicamente, per sottolineare il totale rifiuto
del mondo contemporaneo.
Il romanzo sperimentale
• Stefano D’Arrigo
• Antonio Pizzuto
• Luigi Meneghello
Il siciliano Stefano D’Arrigo (1919-1992) si è distinto per lo sperimentalismo espressivo quasi
mitico, comunque fantastico. Dopo l’esordio poetico con Codice siciliano (1957), per quindici anni
si è dedicato alla stesura del romanzo Horcynus
Orca (1975), vero caso letterario nel panorama del
Novecento. La vicenda narra il ritorno in Sicilia
di un marinaio italiano dopo l’8 settembre 1943,
nei “mari dello scill’e cariddi”, sui quali incombe
la presenza dell’orca, l’animale marino omicida: si
tratta di un viaggio fantastico e simbolico, che assume l’andamento di epopea moderna, in un linguaggio che mescola espressioni dialettali con altre
di raffinata tradizione culturale. Fantastico e ironico
anche l’altro romanzo, Cima delle nobildonne
(1985).
Il palermitano Antonio Pizzuto (1893-1976) partì
da posizioni teoriche, come addirittura la rigida
“negazione del processo narrativo”. L’opera che
ne deriva è spesso intellettualistica, quasi epigrafica. Dopo le prime prove ancora legate a un
certo neorealismo (Sul ponte di Avignone, 1938; Signorina Rosina, 1954; Si riparano bambole, 1960),
il suo sperimentalismo esplose nel romanzo
Ravenna (1962), il cui stile fortemente ellittico fa
leva sulla paratassi, sulle frasi nominali e su uno
scardinamento dei procedimenti classici della scrittura, che diventa esperienza “in atto”. Le sue idee
sul romanzo sono puntualizzate nel saggio Vedutine
circa la narrativa (1972), in cui si distingue il “narrare” dal “raccontare” e si sostiene un andamento
espressivo condotto utilizzando verbi all’infinito
per sottolineare l’astoricità del fatto narrato. Fra le
opere più recenti: Il triciclo (1962); La bicicletta
(1966); Pagelle I (1973); Pagelle II (1975); Giunte
e virgole (1975).
Il vicentino Luigi Meneghello (1922-2007), con
un linguaggio ironico e leggero, in cui si fondono
apporti della memoria individuale e collettiva sedimentata nel dialetto e la lingua generica della società industriale, priva di radici, ha costruito romanzi di notevole acume psicologico e antropologico:
Libera nos a malo (1963); I piccoli maestri (1964
e 1986); Pomo pero (1974); Fiori italiani (1976);
Bau-sète (1988); Il dispatrio (1994).
L’avanguardia poetica
•
•
•
•
Edoardo Sanguineti
Elio Pagliarani
Nanni Balestrini
Antonio Porta
Il genovese Edoardo Sanguineti (1930-2010),
l’esponente più rappresentativo dell’avanguardia
poetica, ha testimoniato con la sua produzione la
dissoluzione del linguaggio quotidiano, come
segno dell’incapacità di comunicare propria della
società dei consumi, sconvolgendo e portando
all’estremo la lezioni di poeti del Novecento come
Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound. Tale operazione nelle prime raccolte è realizzata dapprima
attraverso un accumulo non razionale di parole e
immagini (Laborintus, 1956; Erotopaegnia, 1960;
Triperuno, 1964), poi attraverso l’assunzione di un
andamento più discorsivo ma in un registro satirico
e grottesco (Postkarten, 1978; Per musica, 1993), e
quindi di uno diaristico con cui sottoporre a distorsione ironica pensieri ed eventi quotidiani (Stracciafoglio, 1980; Scartabello, 1981). Con il suo radicalismo, Sanguineti punta a destrutturare il significato convenzionale delle parole e della sintassi,
a decostruire le strutture metriche della poesia
e la punteggiatura stessa del discorso, a creare
cortocircuiti di senso su più piani (che vanno dalla
citazione colta inserita con intenti demistificatori a
quella più colloquiale alla semplice interiezione).
Notevoli la sua attività di critico, con studi su
Dante, Moravia, Gozzano, e saggi come Ideologia
e linguaggio (1965); i libretti di “antiopera” scritti
per la musica di Luciano Berio; curò inoltre
l’antologia Poesia del Novecento (1969) in cui rifletteva i suoi orientamenti come critico e autore.
Il romagnolo Elio Pagliarani (1927) ha esordito
con Cronache e altre poesie (1954) e Inventario
privato (1959) prima di pubblicare sul “Menabò”
La ragazza Carla. Il poemetto è un racconto lirico
che traduce in lingua poetica la coscienza della
nuova alienazione urbana: la protagonista è infatti
una giovane impiegata di una ditta commerciale
milanese. Ne nasce un montaggio-collage di voci,
immagini, toni, registri (ora espressionistici, ora
veristici) e generi (la “lettera-recitativo”), con il
verso che si restringe e si allunga (“a fisarmonica”
secondo l’espressione di Alfredo Giuliani), si
spezza e si scompone a seconda delle esigenze narrative. Pagliarani adotterà una tecnica simile in
opere successive (tra queste: Lezione di fisica,
1964; Esercizi platonici, 1985; La bella ad-
dormentata nel bosco, 1987; Epigrammi, 1988; La
ballata di Rudi, 1995).
Il milanese Nanni Balestrini (1935) si è fatto sostenitore di un avanguardismo estremo che si
esprime in un linguaggio nuovo e rivoluzionario,
fatto di collage linguistici e accumulo dei materiali
più disparati, con l’utilizzo di tecniche elettroniche
(come l’elaborazione al computer di frammenti
ricavati da giornali). La sua raccolta poetica più
riuscita è Le ballate della signorina Richmond
(1977).
Antonio Porta, pseudonimo del milanese Leo
Paolazzi (1935-1989), è approdato a risultati di
notevole intensità poetica nell’indagine condotta in
termini spesso surreali del rapporto tra vita e morte.
Le sue raccolte più significative sono: Cara (1969);
Metropolis (1971); Passi passaggi (1980); Invasioni (1984); Il giardiniere contro il becchino
(1988).
L’avanguardia narrativa
• Giorgio Manganelli
• Alberto Arbasino
• “Fratelli d’Italia”
Di sperimentazioni stilistiche, analoghe a quelle dei
poeti, si sono avvalsi anche scrittori
dell’avanguardia.
Il milanese Giorgio Manganelli (1922-1990), tra i
fondatori del Gruppo ’63 e collaboratore di giornali
e riviste, tentò una narrazione gustosa, monologante, sonora, la cui struttura sintattica e stilistica, volutamente elaborata e inusuale, ricrea
una dimensione surreale. Tra le opere: Hilarotragoedia (1964), monologo narrativo che ne rivelò
tutta l’originalità; Nuovo commento (1969); Agli
dei ulteriori (1972); Centuria (1979); Laboriose inezie (1986).
Alberto Arbasino (1930), di Voghera, è esempio
di notevole versatilità espressiva. L’attenzione a
cinema, teatro e arti visive, ai modelli del costume
nazionale e internazionale, vuole superare i limiti
della comunicazione tradizionale. Nei romanzi e
racconti predilige la combinazione di generi e stili
diversi, per stravolgere e distorcere dall’interno le
regole letterarie. Un forte plurilinguismo caratterizza sia i racconti di L’anonimo lombardo (1959),
sia i suoi romanzi, fra i quali spiccano per arditezza:
Fratelli d’Italia (1963); La bella di Lodi (1972); Il
principe costante (1972); Specchio delle mie brame
(1974). Il libro più significativo è senza dubbio
Fratelli d’Italia (riscritto nel 1995), un’opera ricchissima anche solo nelle dimensioni. Narra
l’iniziazione alla realtà sociale di un gruppo di
giovani alle prese con il caos e le contraddizioni
dell’Italia del benessere. Tra le raccolte di saggi, si
ricordano Parigi o cara (1960) e Fantasmi italiani
(1977).
Fortini e Ceronetti
• Franco Fortini
• Poesia di impegno politico e morale
• I saggi
• Guido Ceronetti
Franco Fortini è lo pseudonimo del fiorentino
Franco Lattes (1917-1994). Partito da un’esigenza
reale e moralista, cercò la perfezione formale quasi
come un’autopunizione; nascose infine la sua vena
lirica e dolente sotto il peso di un’esplicita ideologia marxista. La sua poesia si caratterizza per
il forte impegno politico e morale e utilizza un
linguaggio con andamento logico e realistico, ma
non privo di forti immagini simboliche: dominano
quelle del “gelo”, della “neve”, del “sasso”, immagini che significano le costrizioni a cui è sottoposto l’uomo; la “rondine” e la “rosa” sono invece i simboli contraddittori e ricorrenti dell’anelito
alla libertà. Foglio di via (1946), Poesia ed errore
(1959), Una volta per sempre (1963), Paesaggio
con serpente (1984), Composita solvantur (1994)
sono le raccolte poetiche più significative. Ha lasciato una vasta produzione saggistica (Dieci in-
verni, 1957; Verifica dei poteri, 1965; Questioni di
frontiera, 1977; Nuovi saggi italiani, 1987) indirizzata a un rinnovamento culturale profondo e
rigoroso.
Guido Ceronetti (1927) si è fin dall’inizio distinto
per la critica impietosa alla società di massa. Sensibile traduttore di testi biblici (Il cantico dei cantici,
1975) e di autori classici (Marziale, Catullo), ha
trovato nella forma del saggio e dell’aforisma la
sua espressione migliore, facendo spesso uso di toni
fintamente apocalittici: Un viaggio in Italia
1981-1983 (1983), Il silenzio del corpo (1979), Lo
scrittore inesistente (1999), La carta è stanca. Una
scelta (2000), Nuovi Ultimi Esasperati Deliri Disarmati (2001). Molto interessante anche la raccolta
di poesie La distanza. Poesie ’46-’96 (1996). Ha
fondato un teatro di marionette per il quale scrive
testi.
SCHEMA RIASSUNTIVO
NEOAVANGUARDIA
La neoavanguardia (antologia dei Novissimi:
Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Nanni Balestrini
e il Gruppo ’63) affermava l’inadeguatezza e la crisi
dell’ultimo neorealismo. Suo punto di riferimento
ideale sono le avanguardie storiche, sia per lo stimolo
esercitato nel primo Novecento sia per la nuova concezione di rapporto dinamico e coinvolgente con il
pubblico. Il Gruppo ’63, fondato a Palermo nel 1963,
affida alla sperimentazione linguistica una funzione
sovvertitrice della razionalità borghese.
TESTORI
Il milanese Giovanni Testori (1923-1993) frantuma
l’eredità neorealista con il timbro di una violenza linguistica creatrice di una modernità paradossale. Da
ricordare: Il ponte della Ghisolfa (1958) e le
commedie La Maria Brasca (1960) e L’Arialda
(1960).
D’ARRIGO
D’impronta mitica e fantastica è lo sperimentalismo
espressivo del siciliano Stefano D’Arrigo
(1919-1992). Da ricordare: Horcynus Orca (1975).
PIZZUTO
Antonio Pizzuto (1893-1976) parte da posizioni
teoriche, come addirittura la “negazione del processo
narrativo” (Signorina Rosina, 1954; Si riparano bambole, 1960).
MENEGHELLO
Luigi Meneghello (1922-2007) usa un linguaggio
ironico e leggero, con apporti della memoria individuale e collettiva sedimentata nel dialetto (Libera
nos a malo, 1963).
POETI DELLA NEOAVANGUARDIA
Tra i poeti della nuova avanguardia spiccano le figure
di Edoardo Sanguineti (1930-2010), Nanni Balestrini
(1935), Antonio Porta (1935-1989), Elio Pagliarani
(1927).
MANGANELLI
Giorgio Manganelli (1922-1990) tentò una narrazione gustosa, monologante, sonora e insieme
complessa, con una forte predisposizione surreale
(Hilarotragoedia, 1964; Laboriose inezie, 1986).
ARBASINO
Alberto Arbasino (1930), con la sua attenzione a
cinema, teatro e arti visive, ai modelli del costume
nazionale e internazionale, indica una ragione cosmopolita che vuole superare i limiti della comunicazione
tradizionale. Da ricordare i romanzi Fratelli d’Italia
(1963); La bella di Lodi (1972).
FORTINI
Franco Fortini (1917-1994) è una figura complessa.
Partito da un’esigenza reale e moralista, cercò la perfezione formale come un’autopunizione; nascose la
sua vena lirica e dolente sotto il peso di
un’inattaccabile ideologia marxista (Foglio di via,
1946; Paesaggio con serpente, 1984; Composita
solvantur, 1994).
CERONETTI
Guido Ceronetti (1927), critico impietoso della società di massa e sensibile traduttore di testi biblici e
classici, trova la sua cifra d’espressione nel saggio.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quale fu il rapporto della neoavanguardia con
le avanguardie storiche?
2. Perché Testori predilesse il teatro?
3. Come Arbasino vuole superare i limiti della
comunicazione tradizionale?
4. Da quale esigenza parte Fortini?
16 ELSA MORANTE E LE
NARRATRICI
Le scrittici italiane del secondo Novecento testimoniano
una letteratura mai astratta e intellettualistica. La loro
ricerca si nutre di realismo, anche se procede per prospettive fantastiche e autobiografiche. La preziosità della
pagina, presente in tutte le narratrici, non ha niente di
polveroso: risulta un ulteriore motivo di lenta e penetrante
sonorità letteraria. Figura di grande rilievo, in questo
quadro, è senza dubbio Elsa Morante.
Elsa Morante
• Il carattere
Elsa Morante (1912-1985) è scrittrice di grande
fascino, sempre attenta alle necessità dell’intreccio e
alla caratterizzazione psicologica, una figura di assoluto spicco nella letteratura del Novecento. La
sua narrativa, di timbro realistico e pur immersa in
un leggero e sfolgorante “bisogno di meraviglioso”,
in qualcosa di antico e di mitico, è un’esperienza
unica a cui la scrittrice ha votato l’intera esistenza,
dedicandosi a poche ponderate opere sul modello
del grande romanzo naturalista ottocentesco proiettato sovente in una dimensione nuova e fantastica.
• La vita e le opere
•
•
•
•
Gli esordi
Il successo
“La storia”
Amarezza e angoscia
Nata a Roma, non completò gli studi universitari.
Pubblicò i primi racconti (1937-1938) sulla rivista
“Il Meridiano di Roma”. Nel 1941 si sposò con
Alberto Moravia e pubblicò la prima raccolta di
racconti, Il gioco segreto, seguito da Le bellissime
avventure di Catarì dalla trecciolina (1942), libro
di fiabe scritte negli anni ginnasiali. Nel 1944 iniziò
a scrivere il primo romanzo, Menzogna e sortilegio, storia drammatica di una famiglia del Sud e del
complicato rapporto tra madre e figlia; pubblicato
nel 1948, il libro vinse il premio Viareggio, consacrando la fama dell’autrice. Nel 1957 il secondo
romanzo, L’isola di Arturo, che le valse il premio
Strega, era incentrato sulla difficile esistenza di un
ragazzo, orfano della madre, affascinato da un
padre misterioso e inafferrabile e dalla giovane
matrigna. Pubblicò successivamente la raccolta di
poesie Alibi (1958) e quella di racconti Lo scialle
andaluso (1963). L’opera più significativa di questo
periodo è la raccolta di poesie, con qualche prosa,
Il mondo salvato dai ragazzini (1968), inno
all’utopia di un mondo governato dalla bellezza e
dalla vitalità della vita infantile. Questa ispirazione
fa anche da sfondo al romanzo più noto e discusso,
La storia (1974), dove si narra la storia miserevole
di una maestra elementare calabrese che vive a
Roma con il figlio Nino e un altro figlio, Useppe,
avuto da un soldato tedesco. Le vicende tragiche e
quasi epiche di questi piccoli personaggi costituiscono una sorta di controcanto rispetto alla storia
dei grandi fatti, dal 1941 al 1947, e ne denunciano
la falsità sul piano umano. L’ultimo romanzo, Aracoeli (1982), mostra il segno dell’amarezza e
dell’angoscia che la scrittrice sentì sempre più profondamente negli anni ’70, specialmente dopo la
morte dell’amico Pasolini. Il libro narra la vicenda
di un omosessuale di mezza età alla spasmodica
ricerca nel ricordo della figura della madre. Ma i
frammenti di vita evocati sono sempre più impastati
dal senso luttuoso della fine e della distruzione.
Autobiografia e preziosità narrativa
•
•
•
•
•
•
•
•
Fausta Cialente
Anna Banti
Natalia Ginzburg
Lalla Romano
Impianto neorealistico
Anna Maria Ortese
Alba De Céspedes
Gianna Manzini
La cagliaritana Fausta Cialente (1898-1995)
mostra una fortissima prospettiva autobiografica.
La lunga permanenza ad Alessandria d’Egitto ha
influenzato la sua scrittura; i primi romanzi Cortile
a Cleopatra (1953), in cui descrive la folla araboebraica di un sobborgo di Alessandria, e Ballata levantina (1961) hanno il carattere di cronache orientali. Nei romanzi successivi invece i temi si ispirano alla storia italiana (Un inverno freddissimo,
1966)
e
alle
problematiche
esistenziali
(l’autobiografico Le quattro ragazze Wieselberger,
1976, Interno con figure, 1976).
Anna Banti è lo pseudonimo della fiorentina Lucia
Lopresti Longhi (1895-1985). Sensibile alla questione femminile, prediligeva una pagina coloristica
ed elegantemente lavorata. Si misurò soprattutto
con il romanzo storico, dando prova di una scrittura concreta e brillante. La vicenda storica diviene
vicenda esistenziale: la condizione della donna, lo
stato di emarginazione e inferiorità in una società
maschilista, è contemporaneamente segno di
solitudine e disagio che i suoi personaggi affrontano tuttavia con coraggio. Degno di rilievo
per tematica e soluzioni narrative è il romanzo
Artemisia (1947).
Natalia Ginzburg (1916-1991), nata a Palermo,
privilegiò il tema dei rapporti familiari e della
memoria dell’infanzia, offrendo una scrittura
sicura e chiara. Fu autrice di alcune commedie (Ti
ho sposato per allegria, 1966 e Paese di mare,
1972), ma si occupò prevalentemente di narrativa.
Antifascista (come suo marito Leone, ucciso in carcere dai fascisti nel 1944), nel primo romanzo La
strada che va in città (1942), influenzato dal neorealismo, s’impegnò a testimoniare il senso della
tradizione borghese e familiare, attraverso un linguaggio piano e pacato che rifiuta toni accesi e
polemiche. Tra le altre opere: Le voci della sera
(1961); Lessico famigliare (1963), che ebbe grande
successo di critica e di pubblico; Caro Michele
(1973); La famiglia Manzoni (1985).
La piemontese Lalla Romano (1906-2001), dopo
l’esordio con le poesie Fiore (1941), si è a lungo
dedicata
alla
narrativa
autobiografica
scandagliando con lucida serenità le pieghe della
sua esistenza borghese, estranea alla società delle
lettere. Le metamorfosi (1951) raccolgono una serie
di sogni, letti come segni della sua esistenza. Con i
romanzi Maria (1953) e Tetto murato (1957) ha affrontato una narrativa d’impianto neorealistico. Ha
ottenuto la notorietà con i romanzi La penombra che abbiamo attraversato (1964) e Le parole
tra noi leggere (1969), nei quali si passa dalla rievocazione dell’infanzia all’analisi del rapporto tra
madre e figlio. Fra gli altri romanzi (L’ospite, 1973;
La villeggiante, 1975; Lettura di immagini, 1975)
spicca Una giovinezza inventata (1979), autobiografia che rivisita la giovinezza trascorsa fra studi,
amori e difficoltà legate alla condizione femminile.
Di impianto autobiografico sono anche le opere
successive: Inseparabile (1981), che tratta del suo
rapporto con il nipotino; Nei mari estremi (1987),
in cui rievoca la malattia e la morte del marito.
La romana Anna Maria Ortese (1914-1998) è una
scrittrice complessa, dichiaratamente portata a una
narrativa densa e raccolta, contemporaneamente realistica e fantastica. Partita da un intenso
realismo magico (Angelici furori, 1937), accettò nel
dopoguerra una prosa neorealistica, fin quasi a
sfiorare la dimensione del saggio, soprattutto nei
racconti-inchiesta. I suoi libri migliori sono:
L’infanta sepolta (1950); Il mare non bagna Napoli
(1953); Silenzio a Milano (1958); L’iguana (1965);
Poveri e semplici (1967); Il cardillo addolorato
(1992); Alonso e i visionari (1996).
Dopo avere esordito alla fine degli anni ’30 con
Nessuno torna indietro (1938), la scrittrice e poetessa (nonché giornalista e sceneggiatrice) Alba
De Céspedes (1911-1997), di origine cubana (il
padre fu un celebre diplomatico e uomo politico), si
è distinta per l’approfondita riflessione sulla condizione della donna nei romanzi Dalla parte di lei
(1949) e Quaderno proibito (1952), con tematiche
che anticipavano il femminismo. Il rimorso (1962)
è una critica nei confronti della classe intellettuale
dell’epoca.
Per originalità si segnala anche la produzione letteraria di Gianna Manzini (1896-1974), caratterizzata da uno stile prezioso e lirico: tra le sue opere,
Lettera all’editore (1945), Il valtzer del diavolo
(1953), Ritratto in piedi (1971).
SCHEMA RIASSUNTIVO
MORANTE
La narrativa di Elsa Morante (1912-1985), di timbro
realistico, è immersa in un leggero e sfolgorante
“bisogno di meraviglioso”, in qualcosa di antico e di
mitico. Da ricordare: Menzogna e sortilegio (1948);
L’isola di Arturo (1957); La storia (1974).
NARRATRICI DAL
AUTOBIOGRAFICO
FORTE
TONO
Fausta Cialente (1898-1995): Cortile a Cleopatra
(1953). Anna Banti (1895-1985): Artemisia (1947).
Natalia Ginzburg (1916-1991): Lessico famigliare
(1963). Lalla Romano (1906): La penombra che abbiamo attraversato (1964), Le parole tra noi leggere
(1969). Alba De Céspedes (1911-1997) riflette sulla
condizione della donna anticipando il femminismo
mentre Gianna Manzini (1896-1974) si distingue per
lo stile prezioso e lirico.
ORTESE
La narrativa di Anna Maria Ortese (1914-1998) è
contemporaneamente realistica e fantastica (Il mare
non bagna Napoli, 1953; L’iguana, 1965; Il cardillo
addolorato, 1992).
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Qual è il carattere della narrativa di Elsa Morante?
2. Come il filone autobiografico si differenzia in
scrittrici quali Cialente, Banti, Ginzburg e Romano?
3. Quali tratti salienti distinguono l’opera di
Anna Maria Ortese
4. Quali temi predilige Alba De Céspedes?
17 ITALO CALVINO
Calvino è esempio di raffinato laboratorio di temi tradizionali e moderni. Il motivo dell’infanzia, la prospettiva
comica e fiabesca, la narrazione agile e sempre esuberante, elementi tipici della novellistica italiana, si incontrano con le esigenze teoriche della migliore cultura internazionale. La sua ricerca si sviluppa a tappe, dal neorealismo all’astrazione, ma è sempre fedele a una letteratura intesa come sogno e conoscenza.
La vita
• La guerra e la Resistenza
• L’esordio narrativo
• Il soggiorno parigino
Nato a Cuba da genitori italiani, Italo Calvino
(1923-1985) visse a Sanremo dal 1925. Trascorse
l’infanzia e l’adolescenza in una famiglia amante
della scienza e dei valori laici (“io ero l’unico let-
terato, la pecora nera”). Interrotti gli studi durante
la guerra, partecipò alla Resistenza nelle brigate
comuniste Garibaldi, un’esperienza che ne
avrebbe formato il pensiero e lo spirito (“una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla
stessa propria fierezza guerriera”). Dopo la Liberazione si laureò a Torino, dove entrò in rapporto
con Vittorini e Pavese e con la casa editrice Einaudi. Nel 1947 pubblicò il romanzo breve Il sentiero dei nidi di ragno. Gli anni ’50 lo videro impegnato nella professione editoriale e contemporaneamente in una vasta produzione narrativa, che
culminò nella trilogia I nostri antenati (1952-59)
e nella monumentale raccolta delle Fiabe italiane
(1956); continuava intanto a svolgere l’attività di
giornalista.
Attento al dibattito politico e sociale, collaborò a
varie riviste. Tra il 1959 e il 1967 diresse con Vittorini “Il Menabò” su cui pubblicò alcuni importanti saggi (La sfida al labirinto, 1962). Dopo essersi sposato e aver vissuto tre anni a Roma, nel 1967
si trasferì a Parigi, dove intrecciò stretti rap-
porti con la cultura francese (in particolare con lo
strutturalismo); risalgono a questo periodo Le cosmicomiche (1965), Ti con zero (1967) e Le città invisibili (1972). Dopo la pubblicazione del romanzo
Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) si
trasferì a Roma (1980) e raccolse una serie di interventi sul dibattito letterario (Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società). Nel 1984 pubblicò la
raccolta di prose Collezione di sabbia. Atteso negli
Stati Uniti per alcune conferenze all’università di
Harvard (Lezioni americane, 1988, postumo), morì
senza poterle tenere.
Neorealismo, comico e fiabesco
•
•
•
•
La lezione del neorealismo
“I nostri antenati”
Il fiabesco e il comico
La trilogia industriale
Nella prima prova narrativa di rilievo, Il sentiero
dei nidi di ragno, Calvino si mostra sensibile alla
lezione del neorealismo. Frutto dell’esperienza
maturata durante la lotta partigiana, di cui fornisce
uno spaccato estraneo a qualsiasi intento celebrativo, il romanzo, ambientato a Sanremo e sulle
montagne dell’entroterra ligure, è un’iniziazione
alla vita, proprio come quella di Pinocchio (che
Pin, il ragazzo protagonista, richiama nel nome),
per arrivare “alla spiegazione di tutte le cose del
mondo”, in un andamento narrativo dove al realismo s’intrecciano già il fiabesco, il meraviglioso.
Con i romanzi brevi Il visconte dimezzato (1952),
Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente
(1959), raccolti nel volume I nostri antenati
(1960), e con i racconti di Marcovaldo ovvero le
stagioni in città (1963), la narrativa di Calvino
approda ai suoi risultati più originali: il fiabesco
e il comico. La trilogia si ricollega al mondo dei
cavalieri del Rinascimento per creare un tipo di
fiaba capace di affrontare i più scottanti temi della
realtà, con intenti etici e pedagogici (e modalità che
possono ricordare gli apologhi e i racconti filosofici
della letteratura illuminista). Il visconte Medardo,
diviso in due da una palla di cannone, è allegoria
del doppio: bene e male, speranza e realtà (il contesto storico era il mondo diviso in due dalla Guerra
Fredda); il barone Cosimo Piovasco di Rondò, che
vive in cima agli alberi, è allegoria di un uomo che
tenta di conoscere il mondo dall’alto, rimanendo estraneo alle convenzioni e alle regole; il cavaliere
Agilulfo, senza corpo, pura razionalità, suicida, è
simbolo del fallimento di chi cerca di misurarsi con
il mondo solo con la ragione. I racconti che hanno per protagonisti il manovale Marcovaldo e la
sua famiglia si ispirano a fonti popolari (i giornali
per ragazzi e il cinema comico) e propongono un
singolare sguardo rovesciato sulla modernità: ne è
sintomatico il rapporto surreale che i personaggi
instaurano con gli oggetti e il paesaggio urbano.
L’impegno a un’analisi più diretta della società e
del ruolo dell’intellettuale connota i romanzi della
“trilogia industriale”: La formica argentina (1952),
La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di
smog (1958), a cui seguì La giornata di uno
scrutatore (1963), che racconta la crisi di un in-
tellettuale marxista (Calvino nel dopoguerra militò
nel Partito Comunista, ma lo abbandonò nel 1957);
il romanzo è una sorta di congedo dall’impegno
neorealistico, a cui subentrerà la necessità di trovare nuovi indirizzi teorici per continuare a misurarsi con la realtà del proprio tempo.
Dalle “Cosmicomiche” a “Palomar”
•
•
•
•
•
Suggestioni dalla scienza e dalla fantascienza
Divertito pessimismo
Tecnica combinatoria
“Se una notte d’inverno un viaggiatore”
“Palomar”
Negli anni ’60, durante i soggiorni parigini,
Calvino approfondi e coltivò i propri interessi
scientifici, filosofici e antropologici. Si appassionò in particolare allo strutturalismo, seguì le
lezioni di Roland Barthes, iniziò a occuparsi di semiotica e di narratologia. Partecipò ancora attiva-
mente al dibattito culturale, con gli interventi che
pubblicò in seguito nella raccolta di saggi Una
pietra sopra (1980), ma soprattuttò andò in cerca
di nuove forme del narrare: i racconti delle Cosmicomiche (1965), seguiti da Ti con zero (1967),
utilizzano le prospettive offerte dalla scienza
(fisica, biologia, astronomia) e le suggestioni derivanti dalla fantascienza per costruire narrazioni
piene di sorprese e di scambi imprevedibili, con un
richiamo alle comiche cinematografiche. Il divertito pessimismo di Calvino tocca qui il suo apice:
benché ambientate su mondi di fantasia, queste
storie sono figure della vita della civiltà contemporanea, apocalittica e impossibile. Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973) e
Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) sono
le ultime prove di rilievo, in cui Calvino utilizza
la combinatoria narrativa, una tecnica che permette al racconto di divenire oggetto di se stesso,
virtuosismo che coinvolge il lettore in un gioco di
scatole cinesi. Il castello dei destini incrociati e Le
città invisibili utilizzano l’astrazione (nel primo i
tarocchi, nel secondo una sequenza di città imma-
ginarie che Marco Polo descrive all’imperatore Qubilai Khan) per restituire un’immagine simbolica
del mondo contemporeaneo e misurarsi con le strutture archetipiche del narrare. Se una notte d’inverno
un viaggiatore è un vero e proprio romanzo teorico
(o metaromanzo, che porta in primo piano il
tema della costruzione del testo), un racconto
autoriflessivo sull’esperienza e sul piacere della
lettura. Il protagonista è il lettore – a cui il narratore
si rivolge direttamente – che inizia, senza terminarli, ben dieci romanzi, ognuno diverso dagli altri.
Tutte queste tracce formano una rete di linee discorsive che si allacciano e si accavallano, in un
gioco combinatorio di possibilità che costituisce
in sostanza l’opera stessa. Questa operazione
squisitamente strutturalista, in cui è evidente
l’influenza della semiotica, anticipa le pratiche
postmoderne. In Palomar, una serie di prose autobiografiche raccolte nel 1983, Calvino continua a
osservare il mondo nei suoi fatti minimi, ma essenziali. Postumi sono apparsi: Sotto il sole giaguaro
(1986), tre racconti sui sensi dell’odorato, del gusto
e della vista; la raccolta di scritti Sulla fiaba (1988);
Perché leggere i classici (1991).
SCHEMA RIASSUNTIVO
LE TEMATICHE
Italo Calvino (1923-1985) è un esempio di grande
mediazione culturale tra la tradizione e il moderno.
Il motivo dell’infanzia, la prospettiva comica e
fiabesca, la narrazione agile e sempre esuberante, elementi tipici della novellistica italiana, si incontrano
con le esigenze teoriche della migliore cultura internazionale.
LE OPERE
Al periodo neorealista appartiene il romanzo breve Il
sentiero dei nidi di ragno (1947), la prima prova narrativa di rilievo.
Al periodo comico-fiabesco i romanzi brevi Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957),
Il cavaliere inesistente (1959).
Tra realtà e fiaba è la cosiddetta “trilogia industriale”:
La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958), a cui segue
La giornata di uno scrutatore (1963), dove Calvino
s’impegna in un’analisi più diretta della società e del
ruolo dell’intellettuale.
Nelle opere dalle Cosmicomiche (1965) a Palomar
(1983) Calvino utilizza una tecnica narrativa che permette al racconto di divenire oggetto di se stesso,
coinvolgendo il lettore in una sorta di gioco di scatole
cinesi.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali allegorie sostiene il genere “comico e
fiabesco” di Calvino?
2. Quali sono gli argomenti della trilogia I nostri
antenati?
3. Quali interessi segnano il passaggio alle Cosmicomiche?
4. Quali novità contiene Se una notte d’inverno
un viaggiatore?
18 GLI ULTIMI
QUARANT'ANNI
Gli anni ’70 sono portatori di una ricerca sperimentale
ormai astratta e sterile (influenzata dallo strutturalismo);
gli anni ’80 vedono l’inizio di quella deriva edonistica che
corrisponde al cosiddetto “postmoderno”, dimensione che
in qualche misura sembra dominare anche il decennio degli anni ’90, in cui la mancanza di legami fra letteratura
e società favorisce una dispersione caotica e l’attenzione
solo ai fatti minimi. Fondamentale per le sorti della letteratura è il nuovo peso assunto dai mass media e dalle
richieste del mercato editoriale.
Andrea Zanzotto
• L’itinerario lirico
• Ricerca sulla parola-linguaggio-comunicazione
Originario di Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto
(1921) è tra le figure poetiche più importanti della
seconda parte del secolo. La sua opera è un tentativo di mascheramento della nevrosi individuale e
collettiva attraverso l’esercizio di una lingua magmatica e suggestiva che sa, comunque, custodire
la presenza forte di un io poetico. Alla prima raccolta Dietro il paesaggio (1951), seguì una ricca
produzione poetica: Elegia e altri versi (1954);
Vocativo (1957); IX Ecloghe (1962); La Beltà
(1968); il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal
(1969) e la trilogia costituita dalle raccolte Il Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma
(1986). Il suo itinerario lirico tende a rinvenire nella
parola poetica una possibilità di comunicazione da
parte di chi, come il poeta, si sente “eccentrico”
nel deserto dell’esistenza, attratto dalla vita e contemporaneamente respinto dall’ostilità del reale.
Con le IX Ecloghe il poeta si avvicina al mondo
pastorale alla ricerca di un mondo naturale perfetto,
idillico, arricchendolo di segni e linguaggi della
modernità e della cultura di massa. Nel magma
linguistico, che esplora nelle raccolte successive,
spicca l’adozione del dialetto (Filò, 1976; Mistieròi, 1979), segno di un rapporto autentico con la
terra trevigiana d’origine. La ricerca sulla parolalinguaggio-comunicazione continua anche nella trilogia più matura, dove riappaiono forme metriche
tradizionali, come il sonetto, che danno ordine e
forma al caos dei segni indistinti. In Fosfeni continua la discesa nei meandri della psiche, dei linguaggi, nella ricerca di una parola assoluta, che
è l’unico scampo all’annullamento della comunicazione attuata dalla società dei mass media.
La poesia
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Giovanni Giudici
Amelia Rosselli
Giovanni Raboni
Tiziano Rossi
Alda Merini
Vivian Lamarque
Patrizia Valduga
Maurizio Cucchi
Milo De Angelis
Valerio Magrelli
• Giuseppe Conte
Il ligure Giovanni Giudici (1924-2011) ha rivitalizzato un elemento tipicamente novecentesco,
l’ironia e la teatralizzazione dell’io: l’effetto è
quello di una leggerezza spietata e sagace. La rappresentazione di vicende personali sullo sfondo
della società industriale, con i toni e le cadenze di
un crepuscolarismo a tratti scanzonato, è il tema di
La vita in versi (1965); Autobiologia (1969); O Beatrice (1972); Il male dei creditori (1977). Nelle
successive Il ristorante dei morti (1981) e il Lume
dei tuoi misteri (1984), lo stile si asciuga e il tono
diventa più meditativo. Nelle sperimentazioni di
Salutz (1986) il linguaggio s’impreziosisce e si fa
ricercato. Seguono la raccolta Fortezza (1990) e le
riflessioni in prosa Andare in Cina a piedi (1992).
La poesia di Amelia Rosselli (1930-1996) è corposa e al tempo stesso mentale, capace di coagulare
in una esattezza espressiva un “formicolio di ritmi”
e suoni. Tra le sue raccolte: Variazioni belliche
(1964); Serie ospedaliera (1969); Documento
(1976); Impromptu (1981); La libellula (1985).
Il milanese Giovanni Raboni (1932-2004) con le
prime raccolte (Le case della Vetra, 1966; Cadenza
d’inganno, 1975) si inserisce nel solco della Linea
Lombarda per la costante tensione morale e civile,
per la personalissima inquietudine religiosa, per
l’ambientazione meneghina. Con le raccolte successive (Nel grave sogno, 1982; Ogni terzo pensiero, 1993; A tanto caro sangue, 1988), la sua
poesia si è arricchita, e l’etichetta di poeta “lombardo” appare riduttiva.
Sul filone di Linea Lombarda è anche il milanese
Tiziano Rossi (1935), che da La talpa imperfetta
(1968) a Miele e no (1988) e Il movimento
dell’adagio (1993) mira a rivelare lo strenuo eroismo che si cela nelle pieghe del banale e del quotidiano, e si interroga laicamente sulle nostre ragioni per restare al mondo.
Autrice di rara sensibilità, Alda Merini
(1931-2009) ha sofferto a lungo di una malattia
nervosa che l'ha costretta a lunghi periodi di
ricovero in case di cura. Nelle sue poesie si fon-
dono elementi autobiografici, momenti di
ricerca religiosa, richiami spiccatamente
amorosi. Tra le raccolte di liriche: La presenza di
Orfeo (1953), Nozze romane (1955), La Terra Santa
e altre poesie (1984), Vuoto d'amore (1991), Superba è la notte (2000). Tra le prose, assai significative
sono L'altra verità. Diario di una diversa (1986),
Il tormento delle figure (1990), Ballate non pagate
(1995).
Vivian Lamarque (1946) ha dato vita a una poetica degli opposti, esprimendo una giocosità dolorosa, una crudeltà gentile, e un grande poeta come
Sereni parlò a questo proposito di “rovesciamenti
come coltellate”. Ha pubblicato, tra gli altri: Teresino (1981); Poesie dando del lei (1989); Una
quieta polvere (1996). Traduttrice (Prévert, La Fontaine, Baudelaire), ha scritto molti libri per
bambini: Il libro delle ninne-nanne (1989); La bambina che mangiava i lupi (1992); Cioccolatina, la
bambina che mangiava sempre (1998); Unik, storia
di un figlio unico (1999).
La poesia di Patrizia Valduga (1953), rigidamente
incanalata entro le maglie del linguaggio tradiz-
ionale, in particolare della quartina petrarchesca,
attualizza i temi dell'eros, dello smarrimento interiore, del dolore e della prostrazione: Medicamenta (1982); Donna di dolori (1991); Requiem
(1994); Cento quartine e altre storie d'amore
(1997).
Maurizio Cucchi (1945), erede della Linea Lombarda, ha esordito nel 1976 con Il disperso, canto
lacerato dell'alienazione metropolitana e piccolo
borghese. Sono seguiti la raccolta Le meraviglie
dell'acqua (1980), Glenn (1982), poemetto dedicato al rapporto tra padre e figlio (poi ripreso
dall’Ultimo viaggio di Glenn, 1999), Donna del
gioco (1987). Un registro lirico-misterico caratterizza i versi della raccolta Poesia della fonte (1993),
nella quale emerge una matrice scapigliata ma
anche la necessità di un ritorno alle radici espresso
in forme meno frammentate.
Milo De Angelis (1951) con Somiglianze (1976)
ha contribuito a definire la nuova poesia degli anni
’70. Il suo, pur evitando ogni ridondanza, è uno
stile difficile, che elide i nessi logici consueti, in
linea con uno sguardo lucido e tragico
sull’esistenza. Dopo Terra del viso (1985) e
Distante un padre (1989) ha pubblicato Autobiografia sommaria (1998), l'antologia Dove eravamo
già stati (2001) e Tema dell'addio (2005), in cui
dolorosamente rivive la malattia e la morte della
moglie.
La poesia di Valerio Magrelli (1957), docente e
grande conoscitore di letteratura francese, è nitida
e razionale, modulata sul ritmo del pensiero spiato nel suo coagularsi intorno al gesto e
all'immagine, attenta alla metrica e all'aspetto figurale delle parole oltre che alla loro precisione
spesso scientifica. Alle raccolte Ora serrata retinae
(1980) e Nature e venature (1987) sono seguiti gli
insoliti Esercizi di tiptologia (1992), il cui titolo allude all'uso dei carcerati di comunicare mediante
colpi sul muro, simbolo del difficile compito del
poeta, e Didascalie per la lettura di un giornale
(1999), in cui i singoli componimenti si ispirano
alle sezioni e ai comparti di un quotidiano.
Giuseppe Conte (1945), saggista, poeta e romanziere, si è imposto all'attenzione di un vasto pubblico con le liriche L’oceano e il ragazzo (1983),
di sognante e commossa solarità rispetto a Le stagioni (1988) e al Dialogo del poeta e del messaggero (1992), nel quale affronta con angoscia il tema
della morte e dell’infinito, insieme a quelli a lui
cari della natura e del mito. Nel 1995 ha pubblicato un Manuale di poesia nel quale offre consigli,
anche pratici, agli aspiranti poeti.
IL CONCETTO DI POSTMODERNO
“Postmoderno” è termine a cui sono stati attribuiti
significati parzialmente differenti, secondo l’ambito
cui è stato riferito. Comunque negli ultimi trent’anni
ha indicato espressioni culturali che sentono di aver
perso i riferimenti ideali su cui si è fondato il concetto
di modernità. In ambito letterario il fenomeno riguarda soprattutto il romanzo e trae spunto dalla
ricerca del filosofo francese Jean-François Lyotard,
autore che nel saggio La condizione postmoderna
(1979) indica nella fine delle ideologie e delle filosofie “forti”, cioè capaci di una visione globale, la
caratteristica culturale degli ultimi decenni del
secolo, in cui il sapere è dominato da strumenti come
la televisione e l’informatica. Tutto ciò determina la
fine delle “grandi narrazioni” dominate dalla soggettività dell’autore, mentre si dà spazio a scelte stilistiche e di contenuto che privilegiano la confusione
dei ruoli tra autore e personaggi. Tra gli autori italiani
che più si sono avvicinati al “postmoderno” possono
figurare l’ultimo Calvino, specialmente con il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979),
e il piemontese Umberto Eco con i romanzi Il nome
della rosa (1980), Il pendolo di Foucault (1988) e
L’isola del giorno prima (1994).
La narrativa
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Paolo Volponi
Luigi Malerba
Giuseppe Pontiggia
Alberto Bevilacqua
Vincenzo Consolo
Gesualdo Bufalino
Umberto Eco
Sebastiano Vassalli
Antonio Tabucchi
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Pier Vittorio Tondelli
Dacia Maraini
Fruttero & Lucentini
Susanna Tamaro
Andrea Camilleri
Oriana Fallaci
Tiziano Terzani
Stefano Benni
Andrea De Carlo
Daniele Del Giudice
Aldo Busi
Alessandro Baricco
La narrativa dei giovani
Enrico Brizzi
Il genere pulp
Niccolò Ammaniti
Altri “cannibali”
Carlo Lucarelli
Margaret Mazzantini
Sandro Veronesi
Andrea Vitali
Alessandro Piperno
Paolo Giordano
Roberto Saviano
Paolo Volponi (1924-1994), di Urbino, è lo scrittore che meglio ha percepito il senso contraddittorio e impellente della società industriale. La
sua opera è la sanzione di una nuda razionalità,
capace però di vivere drammaticamente i presagi dell’utopia. Il confronto con il mondo industriale trova espressione nel romanzo Memoriale
(1961), in cui, attraverso la vicenda di un operaio
nevrotico, Volponi scopre la carica eversiva che
la “diversità” della follia racchiude nella massificazione tipica del neocapitalismo. Nel successivo
La macchina mondiale (1965), attraverso la lucida
utopia di un contadino che vagheggia un nuovo
sistema tecnologico per riorganizzare il mondo,
l’autore esprime la sua fiducia nella capacità di liberazione dell’uomo. Emarginati sono anche i protagonisti di Corporale (1974) e Il sipario ducale
(1975). Del 1978 è un romanzo di fantascienza,
Il pianeta irritabile, ambientato in un futuro posttecnologico, mentre Il lanciatore di giavellotto
(1981) torna a temi più intimistici. Le mosche del
capitale (1989) è un’allegoria fantastica e grottesca
del fallimento dell’ideale democratico sul terreno
industriale; del 1991 è La strada per Roma, sulla
separazione dall’adolescenza e dalla cittadina natale.
In Luigi Malerba, pseudonimo dell’emiliano Luigi
Bonardi (1927-2008), anche sceneggiatore e regista
cinematografico, la letteratura, per quanto finta,
diventa un modo per scardinare le ossessioni del
mondo. Malerba ha iniziato la sua attività
nell’ambito della linea sperimentalista del Gruppo
’63 con La scoperta dell’alfabeto (1963), Il serpente (1966) e Salto mortale (1968). Le opere successive, in cui la struttura narrativa è più tradizionale, ribadiscono l’interesse per l’invenzione linguistica e il gusto per la satira (Le rose imperiali,
1975; Diario di un sognatore, 1981; Il pianeta
azzurro, 1986; Le galline pensierose, 1994; Le
maschere, 1994).
Giuseppe Pontiggia (1934-2003), di Como, è
autore di romanzi di notevole fattura narrativa e
caratterizzati da un’accorta ricerca linguistica, che
suggestionano per il realismo molto ricco e fantasioso. Dopo il suo primo romanzo, La morte in
banca (1959), i suoi titoli più noti sono: L’arte
della fuga (1968), in cui è particolarmente forte
la tendenza sperimentalista; Il giocatore invisibile
(1978); Il raggio d’ombra (1983); La grande sera
(1989).
Alberto Bevilacqua (1934), di Parma, ha come
qualità migliori il garbo e l’intelligenza
dell’indagine psicologica. I suoi romanzi sono
sempre la verifica di un sentimento o di un carattere umano. Il meglio della sua vasta produzione
narrativa (La califfa, 1964; Questa specie d’amore,
1966; L’occhio del gatto, 1968; Una città in amore,
1970) ha al centro la città di Parma, popolare e sanguigna, che fa da sfondo alle lotte operaie, ai moti
sindacali e all’azione antifascista. Fra le opere successive: Il curioso delle donne (1983); La donna
delle meraviglie (1984); I sensi incantati (1991).
Vincenzo Consolo (1933), nativo di Sant’Agata di
Militello, è un maestro degli elementi più tipici
della letteratura siciliana: grottesco; lingua sovraccarica e densa; violenza eccessiva e folgorante
dell’espressione, in una materia sempre sensuale
e barocca. Esordì con il romanzo breve La ferita
dell’aprile (1963), in una prosa di memoria e sper-
imentale. Richiamandosi a Sciascia per la lucida
razionalità e a Gadda per la lezione del plurilinguismo, ha conseguito un risultato apprezzabile con
il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976),
che, in una lingua insieme colta e popolare,
ricostruisce alcuni eventi della Sicilia del 1860,
segni del fallimento risorgimentale e del perseverare nella storia della violenza e della sopraffazione.
Il romanzo successivo, Retablo (1987), articola su
più piani narrativi una vicenda ambientata nel
Settecento in una Sicilia barocca, in cui si ritrovano
i tratti della società contemporanea, disgregata e
frantumata. Sugli stessi temi vertono i racconti Le
pietre di Pantalica (1988) e gli ultimi romanzi Nottetempo, casa per casa (1992) e L’olivo e
l’olivastra (1994).
Più contenuto e semplificato il lavoro di Gesualdo
Bufalino (1920-1996), di Comiso. Solo in tarda
età si è rivelato scrittore con il romanzo Diceria
dell’untore (1981), che ha per tema un amore sbocciato in un sanatorio su uno scenario di morte, fra
angosce, desideri e sensi di colpa, in una scomposizione dei tempi narrativi che richiama Proust. La
letteratura e la memoria vi appaiono come l’unica
salvezza nei confronti della realtà. Su questa stessa
linea sono anche Museo d’ombre (1982); Argo il
cieco ovvero i sogni della memoria (1984); L’uomo
invaso (1986); Le menzogne della notte (premio
Strega 1988).
Diverso il discorso per Umberto Eco (1932), saggista – già teorico della neoavanguardia – che solo
in età matura si è dedicato al romanzo facendovi
convergere i molteplici interessi di filosofo,
storico, semiologo e studioso dei mass media. Il
bestseller Il nome della rosa (1980) lo ha reso
uno degli scrittori italiani più letti nel mondo. Un
pregio dell’opera è l’estrema fruibilità che “rompe
la barriera tra arte e piacevolezza” e tra il divertissement erudito e la comunicazione di massa. A
un secondo livello, “ironia, gioco metalinguistico,
enunciazione al quadrato” (scrive l’autore nelle
Postile al “Nome della rosa”) si prestano perfettamente alla definizione di letteratura postmoderna, le cui caratteristiche principali
traspaiono con una certa evidenza: l’intreccio tra
generi (giallo e romanzo storico) e forme letter-
arie (romanzo e saggio), la rivisitazione del passato, l’intertestualità (i continui rimandi ad altra
letteratura attraverso le citazioni e l’imitazione stilistica). Il gioco risulta più complicato e scoperto nei
successivi romanzi Il pendolo di Foucault (1988),
L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000),
La misteriosa fiamma della regina Loana (2004);
in quest’ultimo si fondono la ricerca della memoria
storica e di quella individuale. Ampia, versatile e di
notevole spessore la produzione saggistica di Eco:
Opera aperta (1962), Apocalittici e integrati
(1964), La definizione dell’arte (1968), Trattato di
semiotica generale (1975), Semiotica e filosofia del
linguaggio (1984) sono solo alcuni dei numerosi
titoli.
Sebastiano Vassalli (1941), genovese, mostra una
robusta narrativa, con forte gusto polemico-satirico.
Ha esordito nell’ambito del Gruppo ’63 con alcuni
testi sperimentali di taglio satirico nei confronti dei
luoghi comuni del linguaggio ufficiale. Ha pubblicato poi i romanzi L’arrivo della lozione (1976);
Abitare il vento (1980); Mareblu (1982); La notte
della cometa (1984), romanzo-biografia di Dino
Campana; L’oro del mondo (1985), sul passato
prossimo dell’Italia appena uscita dalla guerra e
alla vigilia del boom economico; Sangue e suolo
(1985), un’inchiesta sulla difficile convivenza di
popolazioni italiane e tedesche in Alto Adige. Negli
anni ’90 la sua ricerca si è volta al passato con
romanzi “neostorici” tra cui La chimera (1990)
e Marco e Mattio (1992), per i quali ha abbandonato le sperimentazioni linguistiche in favore di
un realismo che si ispira a modelli ottocenteschi. I
protagonisti dei due romanzi, nei quali l’autore fa
emergere tutto il proprio amaro pessimismo, sono
vittime innocenti del pregiudizio sociale.
Il pisano Antonio Tabucchi (1943) ama atmosfere
sfuggenti e dense di significati simbolici. Ha pubblicato, prediligendo il romanzo breve, numerosi
testi narrativi, dal realismo semplice ma suggestivo
(Piazza d’Italia, 1975; Il gioco del rovescio, 1981;
Notturno indiano, 1984; Piccoli equivoci senza importanza, 1985; L’angelo nero, 1991; Requiem,
1991). Con Sostiene Pereira (1994) ha colto un
buon successo anche internazionale, ritornando
all’impegno che aveva contraddistinto Piazza
d’Italia. Il romanzo, ambientato a Lisbona negli
anni ’30, riflette l’amore per la cultura portoghese
(in particolare per Fernando Pessoa, a cui Tabucchi
ha dedicato traduzioni e saggi), testimoniato pure
dal successivo La testa perduta di Damasceno
Monteiro (1997).
Pier Vittorio Tondelli (1955-1991), emiliano,
soprattutto dopo la morte prematura è diventato il
simbolo della generazione legata ai movimenti
giovanili degli anni ’70, distinguendosi come uno
degli autori più importanti del successivo decennio.
La sua opera d’esordio, Altri libertini (1980),
scuote il panorama letterario italiano. I sei racconti
da cui è composta portano sulla pagina il flusso
di coscienza della gioventù contemporanea, di cui
sottolineano i comportamenti anarchici, disgregati,
sostenuti da un materialismo ingenuo e privo di
spessore e da un vitalismo vorticoso quanto distruttivo. Oltre al contenuto (che farà subire al libro un
processo per oscenità), la novità è lo stile aggressivo, trascrizione letteraria del gergo giovanile.
Tra le opere successive Pao, pao (1982) racconta
di un gruppo di ragazzi in servizio di leva, mentre
Rimini (1986) compone in un unico quadro-collage
l’ambiente cinico dei “rampanti” anni ’80, attraverso un montaggio dei frammenti di vicende di
personaggi diversi che ne sottolinea la solitudine
all’interno della massa. Camere separate (1989) è
la storia sofferta di un amore omosessuale. Un
week-end postmoderno. Cronache degli anni Ottanta (1990) raccoglie scritti di vario genere, testimoni del rapporto problematico dello scrittore con
la sua epoca.
Dacia Maraini (1936) si è affermata con L'età del
malessere (1963) e i successivi Memorie di una
ladra (1972), Donne in guerra (1975) e Storia di
Piera (1980), incentrati su difficili realtà di donne
come La lunga vita di Marianna Ucria (1990),
vertice della sua produzione: romanzo storico ambientato nella Palermo del primo Settecento, racconta la vita di una nobile sordomuta nella chiusa
società siciliana dell’epoca. Tra le opere successive,
Bagheria (1993) di taglio autobiografico, Voci
(1994), la raccolta di racconti Buio (1999) e il romanzo Colomba (2004). Ha pubblicato inoltre raccolte di poesia (Crudeltà all'aria aperta, 1996; Di-
menticato di dimenticare, 1982), numerosi testi
teatrali (Camille, 1995) e saggi sul femminismo.
La sigla Fruttero & Lucentini ha contraddistinto
le opere degli scrittori Carlo Fruttero (1926) e
Franco Lucentini (1920-2002). Traduttori, narratori, saggisti, consulenti editoriali, hanno diretto
per lungo tempo la collana di fantascienza Urania.
Insieme hanno firmato commedie (La cosa in sé,
1982), prose satiriche (La prevalenza del cretino,
1985). Scrittori colti e curiosi, hanno conseguito un
grande successo di pubblico proponendo un genere
di romanzo giallo di ampio respiro con La donna
della domenica (1972) e A che punto è la notte
(1979). Nel 1989 hanno pubblicato La verità sul
caso D., completamento di un romanzo incompiuto
di Dickens, e nel 1995 un altro esempio di sperimentazione letteraria: La morte di Cicerone.
Susanna Tamaro (1957), dopo aver pubblicato le
opere La testa tra le nuvole (1989) e Per voce sola
(1991), ha ottenuto un enorme successo con il romanzo Va' dove ti porta il cuore (1994), racconto
familiare e soprattutto ritratto di una donna appassionata. Sono seguiti Anima Mundi (1997), il libro-
intervista Il respiro quieto (1996) e la raccolta di
racconti Rispondimi (2001), più incentrati sul senso
di una ricerca interiore e spirituale. Ha scritto anche
parecchie opere per bambini, tra cui Cuore di ciccia (1992), Papirofobia (2000), Il cerchio magico
(1994).
Andrea Camilleri (1927), sceneggiatore e regista
teatrale e televisivo, ha intrapreso la carriera letteraria nel 1978 con Il corso delle cose, cui sono
seguite opere di solidissimo successo. Nella sua
produzione spiccano romanzi e racconti di ambientazione siciliana (Un filo di fumo, 1980; La concessione del telefono, 1998; Il re di Girgenti, 2001)
e, soprattutto, la serie poliziesca incentrata sulla
sanguigna figura del commissario Salvo Montalbano. I numerosi romanzi (tra cui: La forma
dell’acqua, 1994; Il cane di terracotta, 1996; La
gita a Tindari, 2000; L’odore della notte, 2001; La
pazienza del ragno, 2004) e le raccolte di racconti
(Un mese con Montalbano, 1998; Gli arancini di
Montalbano, 1999; Il medaglione, 2005) che hanno per protagonista il commissario sono costruiti
facendo uso di una lingua fittizia, un impasto di
italiano e dialetto siciliano. La stessa commistione
linguistica tra lingua nazionale e dialetti (non solo
il siciliano), che avvicina volentieri lo stile letterario al linguaggio parlato, anima i romanzi storici
come Il birraio di Preston (1995), ispirato a fatti
realmente
accaduti
ma
ambientato
nell’immaginaria città siciliana di Vigata, cara allo
scrittore (è sfondo di numerose sue opere). Tanto
la passione civile quanto la disincantata ironia di
Camilleri si inseriscono nel solco della tradizione
letteraria siciliana incarnata da Sciascia e Pirandello, ispirazioni quasi complementari, come dimostrano da un lato il racconto storico La strage dimenticata (1984), vicino alle inchieste del romanziere, e dall’altro la Biografia del figlio cambiato
(2000) dedicata invece al grande drammaturgo.
La giornalista e scrittrice fiorentina Oriana Fallaci
(1929-2006) si affermò a partire dagli anni ’60 con
reportage e opere letterarie di grande fama. Niente e così sia (1969) è il racconto diretto in
forma di diario della sua esperienza di reporter
in Vietnam. Lettera a un bambino mai nato (1975),
tragico monologo di una donna in attesa di un
figlio, si misurava con il tema della maternità e
della libertà della donna nel pieno del dibattito sociale sull’interruzione di gravidanza che avrebbe
portato alla legge del 1978. Un uomo (1979) racconta la vita del compagno della Fallaci, Alekos
Panagulis, militante politico greco che condusse la
resistenza alla dittatura dei Colonelli e morì in un
misterioso incidente (probabilmente doloso). La
scelta di scrivere in seconda persona rivolgendosi
idealmente allo stesso Alekos (come faceva la protagonista di Lettera a un bambino mai nato nei confronti del figlio) trasforma il romanzo-verità in
un appassionato monologo in cui l’autrice
esprime tutto il proprio dolore e la propria indignazione civile. Insciallah (1990) è un romanzo
di attualità ambientato a Beirut nel 1983, all’interno
del contingente italiano che agì da forza di pace
durante la guerra civile in Libano. Opera controversa ma ancora di grande successo il pamphlet
La rabbia e l’orgoglio (2001), scritto all’indomani
degli attentati terroristici dell’11 settembre a New
York, scatena dibattiti e polemiche per la dura presa
di posizione nei confronti del mondo musulmano, a
cui la scrittrice avrebbe fatto seguito con La forza
della ragione (2004).
Alla Fallaci rispondeva con le sue Lettere contro la
guerra (2001) il suo concittadino Tiziano Terzani
(1926-2004), giornalista e fotografo, apprezzato
autore di reportage fin dagli anni ’70. Pelle di
leopardo. Diario vietnamita di un corrispondente
di guerra 1972-1973 (1973), sugli anni conclusivi
della guerra in Vietnam, è il primo di numerosi
resoconti di viaggio e approfondimenti dedicati
soprattutto al continente asiatico (La porta proibita, 1984; In Asia, 1994; Un indovino mi disse,
1995; Un altro giro di giostra, 2004, segnato dal
dramma personale della malattia) in cui Terzani
descrive le proprie esperienze e riflette su problemi
di attualità (Buonanotte signor Lenin, 1992, racconta la dissoluzione dell’Unione Sovietica). Il testamento spirituale dello scrittore fiorentino è contenuto nel lungo dialogo-diario realizzato insieme
al figlio Folco, intitolato La fine è il mio inizio
(2006).
Giornalista, nonché autore teatrale e televisivo, Stefano Benni (1947) si rivela scrittore umoristico di
ottima verve e di notevole fortuna con la raccolta di
prose Bar Sport (1976), che consacra alla migliore
letteratura comica l’anedottica da bar e la sua squinternata antropologia. Abile nel trarre dalla caricatura del quotidiano lo spunto per narrazioni
surreali, Benni si dedica inizialmente a scritti di
satira politica e di costume (Non siamo stato noi,
1978; Il Benni furioso, 1979). Con Terra! (1983),
sfruttando il genere della fantascienza umoristica,
la sua vena più sanguigna e corrosiva trova espressione nel romanzo. Su questa linea lo scrittore bolognese sviluppa la sua satira nella narrativa, con
i successivi Comici, spaventati guerrieri (1986),
Baol (1990), La compagnia dei Celestini (1992),
Elianto (1996), Achille piè veloce (2003), Margherita dolcevita (2005), opere che non mancano di
fondere comicità e lirismo, grottesco e tragedia,
fiaba e racconto morale, in una stravolta parodia dell’attualità di tono fantastico o addirittura
apocalittico – è il caso di Spiriti (2000), sorta di
novello Dottor Stranamore.
Tra i nomi nuovi della narrativa degli anni ’80,
Andrea De Carlo (1952) dimostra con i primi due
romanzi, Treno di panna (1981) e Uccelli da gabbia
e da voliera (1982), di possedere una tecnica originale di taglio prettamente visivo, sembrando
quasi “voler sostituire la penna all’obbiettivo fotografico” (come ebbe a scrivere Italo Calvino nella
quarta di copertina del suo esordio). De Carlo passa
alla critica sociale più diretta con Macno (1984), attacco al potere della televisione (che si immagina
possa diventare veicolo di una dittatura). Il romanziere milanese si afferma ulteriormente con Due
di due (1989), romanzo di formazione dalla scrittura più introspettiva e dilatata (diversa dalle prime
soluzioni). Nonostante il centro del racconto sia
l’amicizia tra Mario (il narratore) e Guido, nata sui
banchi del ginnasio, l’opera assume una prospettiva e un respiro più ampi: De Carlo traccia la parabola della propria generazione, partita dagli ideali
del ’68 e arrivata alla disillusione degli anni ’80. Il
disagio è espresso in maniera lampante, pur individuando una nuova utopia in un’esistenza privata
al di fuori delle regole della società. Le opere successive, meno originali, si legano a tematiche sociali (Uto, 1995; Mare delle verità, 2006) o esplor-
ano i rapporti di coppia (Durante, 2006; Lei e lui,
2010).
Tendenza oggettiva e attenzione per il dettaglio
contrassegnano i romanzi di Daniele Del Giudice
(1949) come Lo stadio di Wimbledon (1983) e Atlante occidentale (1985). Nella prima opera, il
ritmo lento e l’atmosfera sospesa accompagnano
l’inchiesta su un intellettuale che sembra prefigurare un nuovo rapporto tra letteratura e vita.
Aldo Busi (1948) imbastisce narrazioni provocatorie e dal taglio assai originale, armate di una
prosa turgida e ingegnosa. I primi romanzi Seminario sulla gioventù (1984, più volte riveduto negli
anni successivi) e Vita standard di un venditore
provvisorio di collant (1985) sono le prove di una
debordante personalità di scrittura (da cui traspare
quella dell’autore). Lo stile è frutto di un’attenta
ricerca e di un lessico ricchissimo in cui convergono e si scontrano tutti i possibili registri, dal più
scurrile al più aulico ed elegante. Casanova di se
stessi (2000) è forse il suo lavoro più radicale. Busi
è anche autore di un ciclo di saggi detti “Manuali
per una perfetta umanità”, che comprende tra l’altro
Manuale del perfetto Gentilomo (1992), Manuale
della perfetta Gentildonna (1994), Nudo di madre.
Manuale del perfetto scrittore (1997). Ma c’è un altro aspetto per cui va ricordato, ed è la sua scaltrezza nel promuovere l’immagine di intellettuale
eccentrico e trasgressivo. Colto, consapevole dei
propri mezzi e incline a un certo narcisismo anche
nell’abilità di prosatore, lo scrittore bresciano ha dimostrato di sapersi destreggiare nel mondo dei
mass media: la partecipazione ai programmi televisivi più disparati (inclusi i famigerati reality
show) e l’assunzione di pose o atteggiamenti
sensazionalistici servono ad alimentare, non senza
una certa ironia, il mito di se stesso.
Alessandro Baricco (1958) si segnala tra gli autori
saliti alla ribalta negli anni ’90. Fin dall’opera
prima Castelli di rabbia (1991), che si presenta
scandita in modo inusuale da una prosa particolarissima, sincopata, la sua narrativa si distingue
per una particolare sperimentazione letteraria
(sempre nell’orizzonte della scrittura ben fatta e
lontana da ipotesi di avanguardia). Il succesivo romanzo Oceano Mare (1993) si segnala ancora per
l’atmosfera incantata – tra fiaba, racconto filosofico, suspense e avventura – e il ritmo estremamente calibrato della narrazione, con una scrittura piena di ripetizioni fonetico-simboliche e
dall’esibita musicalità. I personaggi del primo
Baricco vivono immancabilmente in una dimensione esotica, straniata, quasi monodimensionale;
sembrano pure creazioni per l’esercizio stilistico
dell’autore. Non fa eccezione il monologo teatrale
Novecento, concepito per l’attore Eugenio Allegri
e il regista Gabriele Vacis: è la storia di un leggendario pianista, il quale vive su un piroscafo che
collega Europa e America, non è mai sceso sulla
terraferma e suona una musica mai sentita prima.
Il risultato è “un testo in bilico tra una vera messa
in scena e un racconto da leggere ad alta voce”.
Il lungo racconto Seta (1996) tocca un vertice di
minimalismo e astrazione quasi a evocare la
finezza impalpabile del tessuto. Gli scenari esotici e
ottocenteschi lasciano quindi spazio alla città postmoderna di City (1999) e a una galleria di figure eccentriche. Saggista e critico musicale oltre che romanziere, Baricco ha realizzato altri progetti teat-
rali e programmi televisivi; ha promosso la propria
opera anche attraverso una scuola di scrittura (la
Holden) da lui fondata a Torino. L’operazione letteraria più curiosa è Omero, Iliade(2004), in cui si
è misurato nientemeno che con una riscrittura in
prosa del poema omerico.
I giovani scrittori negli anni ‘90 sono inquadrati
all’interno di una precisa tendenza, che assume
anche i contorni di un trend del mercato editoriale.
La narrativa delle nuove generazioni ne rispecchia i linguaggi e gli stili di vita “alternativi”,
prendendo in prestito spunti della contemporanea
cultura di massa assai più che dalla tradizione novecentesca.
Precursore sotto questo punto di vista è stato Pier
Vittorio Tondelli, decisivo anche nel ruolo di
scopritore e promotore di talenti con la serie “Under
25” di sua ideazione; è lui che tiene a batterismo
autori come Silvia Ballestra (1969), venuta alla
ribalta all’inzio del decennio con Il compleanno
dell’Iguana (1991) e La guerra degli Antò (1992),
dove racconta le vicende tragicomiche di un gruppo
di punk di provincia.
A Tondelli deve molto Enrico Brizzi (1974), il cui
Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994) è il
romanzo giovanile più noto degli anni ’90: una
“storia d’amore e di rock parrocchiale” che ha per
protagonista un adolescente. Lo slang letterario creato da Brizzi mischia gergo giovanile, citazioni da
romanzi come Il giovane Holden (Salinger) o Arancia meccanica (Burgess) e un immaginario a base
di film, musica rock e fumetti. Le prove successive sono più ambiziose (il secondo romanzo Bastogne, 1996, è ambientato negli anni ’80 ma si avvicina alla narrativa pulp; Elogio di Oscar Firmian
e del suo impeccabile stile, 1999) ma non sempre
ben focalizzate (Tre ragazzi immaginari, 1998); La
nostra guerra (2009) e L’inattesa piega degli eventi
mescolano la storia del XX secolo alla fantasia.
Mentre Tutti giù per terra (1993) di Giuseppe
Culicchia (1965), con un protagonista di poco più
maturo, orientato a un più ironico realismo con
punte di critica sociale, si inserisce felicemente in
un simile filone, la nascita di collane o iniziative
editoriali espressamente dedicate a scrittori emergenti facilita la diffusione della nuova letteratura.
Un altro fenomeno peculiare della narrativa degli
anni ‘90 è il genere pulp (in riferimento al film del
1994 del regista americano Quentin Tarantino, Pulp
Fiction) o dei “giovani cannibali”. Il tutto nasce nel
1996 con la raccolta Gioventù cannibale pubblicata
da Einaudi, definita dal suo curatore “la prima antologia italiana dell’orrore estremo”. Tra gli autori dei
dieci racconti si sarebbero distinti soprattutto Niccolò Ammaniti, Aldo Nove e Andrea G. Pinketts.
La letteratura pulp rielabora i moduli del noir e
del thriller puntando sulla violenza e sul sangue,
rappresentandoli tuttavia in chiave soprattutto
grottesca.
Mentre il filone si è presto esaurito, gli scrittori
più rappresentativi se ne sono altrettanto presto affrancati per inaugurare percorsi originali. È il caso
di Niccolò Ammaniti (1966), le cui opere di culto
Branchie (1994) – delirante e improbabile avventura di un ragazzo romano amante dei pesci e malato terminale di cancro in un’India neopsichedelica
– e Fango (1996), raccolta di racconti che bene rappresenta lo zapping letterario tra orrore e commedia, si situano ai vertici della produzione dei can-
nibali. Lo stile basico, l’indubbio senso del ritmo
che pulsa anche visivamente nella pagina e la
fantasia nera dello scrittore romano troveranno
una via più matura e forte nei romanzi successivi:
Ti prendo e ti porto via (1999); Io non ho paura
(2001), in cui entra nel mondo dei bambini alle
prese con la scoperta del male; Come Dio comanda
(2006), dove dimostra di padroneggiare al meglio la
varietà dei suoi registri. Che la festa cominci (2009)
ritorna con sfumature satiriche a certe tonalità alcaline degli esordi. Io e te (2010) è un racconto più
scarno e intimo.
Al gruppo dei “cannibali” la critica aggregava scrittori come Aldo Nove (pseudonimo di Antonio
Centanin, 1967), conosciuto grazie ai racconti di
Woobinda (1995), passato ad altri toni con Amore
mio infinito (2000) per dedicarsi anche a temi sociali come il precariato (Mi chiamo Roberta, ho 40
anni, guadagno 250 euro al mese, 2006); Tiziano
Scarpa (1963), che ha mostrato una tendenza verso
la sperimentazione formale e l'artificio linguistico
in Occhi sulla graticola (1996) e Amore® (1998),
in seguito contenuta raggiungendo comunque risul-
tati di rilievo con Stabat Mater (2009); Isabella
Santacroce (1966) con la sua trilogia (Fluo, 1995;
Destroy, 1997; Luminal, 1999), basata su esperienze estreme e una narrazione dissolta; Andrea G.
Pinketts (1961), insolito autore noir i cui virtuosismi verbali hanno un risvolto prettamente ludico
(Il conto dell’ultima cena, 1998; Il dente del pregiudizio, 2000; L’ultimo dei neuroni, 2005).
Il giallo, il poliziesco e i generi affini conquistano
posizioni importanti anche nel dibattito letterario
oltre che sul mercato. Accanto al già citato Camilleri, spicca la figura di Carlo Lucarelli (1960),
abile
nel
fondere
poliziesco,
thriller
all’americana e noir aggiornando la tradizione
italiana alle esperienze più in voga nel mondo
anglosassone. Attento agli intrecci tra narrativa e
realtà sociale, lo scrittore nato a Parma crea diversi
personaggi fissi a cui dedica piccole serie: il commissario De Luca, l’ispettore Coliandro, l’ispettrice
Grazia Negro. Il suo romanzo più conosciuto è Almost Blue (1997), che ha per protagonista la Negro:
Lucarelli costruisce una suspense mozzafiato alternando il suo punto di vista di narratore esterno a
vere e proprie "soggettive" dei personaggi, con un
procedimento quasi cinematografico. Lucarelli ha
pubblicato inoltre romanzi storici e ha condotto per
la RAI il programma televisivo Blu Notte - Misteri
d’Italia, basato su inchieste di cronaca realizzate
con un taglio da fiction (raccolte anche nei volumi
Misteri d’Italia - I casi di Blu Notte, 2002, e Nuovi
misteri d’Italia, 2004). Al giallo sono arrivati anche
scrittori dal percorso particolare, come Giorgio
Faletti (1950), comico televisivo e autore di canzoni salito agli onori delle cronache con il thriller
Io uccido (2002), successo internazionale a cui ha
fatto seguire numerosi altri romanzi, e Giancarlo
De Cataldo (1956), magistrato che in Romanzo
criminale (2002) ha ricostruito le note vicende della
banda della Magliana.
Negli ultimi anni diversi romanzieri, non inquadrabili in generi o correnti, hanno saputo coniugare
la qualità al successo di pubblico. Possiamo citare
Margaret Mazzantini (1961) per Non ti muovere
(2001), drammatica confessione di un padre a una
figlia in coma, Sandro Veronesi (1959), autore dei
fortunati La forza del passato (2000) e Caos calmo
(2005), e Andrea Vitali (1956), che ha reso la sua
Bellano, sulle rive del lago di Como, lo scenario
di romanzi come La signorina Tecla Manzi (2004),
La figlia del podestà (2005) e La modista (2008),
in cui descrive con realismo e cura il microcosmo
di provincia degli anni del fascismo e del secondo
dopoguerra, reinventando letterariamente la commedia all’italiana.
I primi anni del XXI secolo non hanno visto nascere
grandi fenomeni o movimenti quanto singoli autori,
talvolta responsabili di opere prime di successo:
valgano da esempio Con le peggiori intenzioni
(2006) di Alessandro Piperno (1972), saga familiare ambientata nell'alta borghesia ebraica romana
condita con discreta ironia, o il fortunato La
solitudine dei numeri primi (2008) di Paolo Giordano (1982); ma soprattutto Gomorra (2006) di
Roberto Saviano (1979), romanzo-documentario
che descrive il sistema camorristico e il suo intreccio di connivenze e affari incastrando diverse
prospettive (scrittura narrativa, saggio, cronaca, denuncia). L’opera è diventata un caso non solo letterario ma con riflessi politici e sociali, che hanno
coinvolto lo stesso giovane cronista campano, diventato un uomo-simbolo della lotta alla criminalità
organizzata.
IL TEATRO GIULLARESCO DI DARIO
FO
Dario Fo (1926), di Leggiuno, presso Varese, esordì
anche come attore con spettacoli di varietà satirici (Il
dito nell’occhio, 1953; Sani da legare, 1954). Tra il
1956 e il 1967 mise in scena con la moglie Franca
Rame le Farse, opere dal ritmo bizzarro e dalle trame
inverosimili che denunciavano i paradossi della società e della politica italiana (Isabella tre caravelle e
un cacciaballe, 1963; La signora è da buttare, 1967).
Le successive numerose commedie (Mistero buffo,
1969; Morte accidentale di un anarchico, 1971; Ci
ragiono e canto, 1972; Non si paga, non si paga,
1974; Il papa e la strega, 1989; Johan Padan a la
discoverta de le Americhe, 1991) accentuano la satira
sociale e politica, riferendosi direttamente a episodi
della cronaca. Definitosi “giullare del popolo”,
“comico dell’arte itinerante”, Fo si riallaccia alla
tradizione della commedia dell’arte per ricreare uno
spettacolo aperto, capace di coinvolgere il pubblico,
grazie a una comicità che si avvale di impasti
dialettali e invenzioni linguistiche, interpretati con
forza istrionica e con una mimica irrefrenabile. Ha
vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1997.
SCHEMA RIASSUNTIVO
ZANZOTTO
Andrea Zanzotto (1921) è forse una delle figure poetiche più importanti della seconda parte del secolo.
La sua opera è un tentativo di mascheramento della
nevrosi individuale e collettiva attraverso l’esercizio
di una lingua magmatica e suggestiva (Dietro il
paesaggio, 1951; IX Ecloghe, 1962; Fosfeni, 1983).
GIUDICI
Giovanni Giudici (1924-2011) è riuscito a rivitalizzare l’ironia e la teatralizzazione dell’io, con leggerezza
spietata e sagace e un verso sempre lucido ed esatto
(La vita in versi, 1965; Salutz, 1986; Fortezza, 1990).
VOLPONI
Paolo Volponi (1924-1994) è lo scrittore che meglio
ha percepito il senso contraddittorio e impellente
della società industriale (Memoriale, 1961; La macchina mondiale, 1965; Il sipario ducale, 1975).
MALERBA
Luigi Malerba (1927-2008) gioca la carta comica e
assurda dello smascheramento: la letteratura, per
quanto finta, diventa un modo per scardinare le ossessioni del mondo (Il serpente, 1966; Il pianeta
azzurro, 1986).
PONTIGGIA
Giuseppe Pontiggia (1934-2003) sviluppa un’accorta
ricerca linguistica: le sue storie suggestionano per il
realismo molto ricco e fantasioso (La morte in banca,
1959; Il giocatore invisibile, 1978; La grande sera,
1989).
ECO
Umberto Eco (1932), semiologo e studioso dei media, con Il nome della rosa (1980) rende fruibile al
grande pubblico un nuovo genere di romanzo, colto,
di marcato carattere postmoderno.
TONDELLI
Pier Vittorio Tondelli (1956-1991) in Altri libertini
(1980) racconta i giovani di fine anni ‘70 citandone il
linguaggio con piglio trasgressivo.
FALLACI
Giornalista e scrittrice, Oriana Fallaci (1929-2006) si
afferma con opere di grande successo (Niente e così
sia, 1969; Lettera a un bambino mai nato, 1975; Un
uomo, 1979; Insciallah, 1990).
BARICCO
Alessandro Baricco (1958) si segnala tra gli autori
saliti alla ribalta negli anni ‘90 con la sua prosa originale e dal tono quasi poetico (Castelli di rabbia,
1991; Oceano Mare, 1993; Seta, 1996).
AMMANITI
Niccolò Ammaniti (1966) emerge dalla generazione
dei “giovani cannibali”. Dopo l’esordio pulp Branchie (1994), i successivi Ti prendo e ti porto via (1999),
Io non ho paura (2001) e Come Dio comanda (2006)
segnano la sua maturità come autore.
DOMANDE DI
VERIFICA
1. Quali spunti letterari trae Volponi dal confronto con la realtà industriale?
2. Che cosa definisce Il nome della rosa di Eco
un tipico romanzo postmoderno?
3. In quali elementi si denota l’originalità del linguaggio di Baricco?
4. Da quale fenomeno letterario prende le mosse
la narrativa di Ammaniti?
GLOSSARIO DI
RETORICA, STILISTICA E
METRICA
Accento, particolare intensità assunta dalla voce
per dare risalto a una determinata sillaba nella parola.
Alessandrino, verso d’origine francese di dodici
sillabe.
Allegoria, figura retorica per cui il significato
letterale di un termine, o di una espressione, rimanda a un significato più ampio e nascosto.
Allitterazione, ripetizione di una stessa sillaba, o
di più gruppi di sillabe, in due o più parole di uno
stesso verso o frase, allo scopo di creare particolari effetti.
Allusione, figura retorica in cui si nomina una
cosa per richiamarne un’altra.
Anacreontica, nella poesia italiana, componimento leggero e di argomento per lo più amor-
oso, tipico dell’Arcadia. Deriva il proprio nome
da componimenti simili, di epoca greco-romana, attribuiti ad Anacreonte.
Anafora, figura retorica che permette di enfatizzare una o più parole ripetendole all’inizio
di versi o enunciati.
Anticlimax, progressione di termini o di concetti secondo una gradazione decrescente (si
veda climax).
Antitesi, figura retorica per cui si accostano parole o espressioni aventi significati contrari, perché dal loro contrasto risalti meglio ciò che si
vuol dire.
Antonomasia, figura retorica per cui si usa un
nome proprio al posto di uno comune, o
viceversa.
Arsi, nella metrica greca il tempo debole del
piede; in quella latina, il tempo forte su cui cade
l’accento. Nella metrica moderna, l’accento ritmico (si veda tesi).
Assonanza, forma di rima imperfetta, basata
sulla consonanza delle vocali finali, ma non
delle consonanti.
Ballata, antico componimento strofico con
ritornello di carattere popolare, destinato in origine al canto e alla danza. Nella letteratura romantica assume carattere epico-leggendario.
Cantare, poemetto in versi, di origine popolare
in voga in epoca rinascimentale ed eseguito da
cantori girovaghi con o senza accompagnamento musicale.
Cantica, componimento poetico medievale, di
carattere narrativo o religioso, diviso in canti.
Canti carnascialeschi, canti che accompagnavano le mascherate di carnevale nella Firenze
del Rinascimento.
Cantico, componimento in versi di tono solenne
e contenuto religioso.
Cantilena, componimento poetico popolare su
un tema musicale semplice, con struttura metrica varia.
Canto, 1) Componimento lirico, specialmente
di tono alto. 2) Ciascuna delle parti che compongono un poema o una cantica.
Canzone, antico componimento lirico italiano
con più strofe composte di endecasillabi e
settenari rimati, privo di ritornello. La canzone
libera o leopardiana è la trasformazione della
canzone tradizionale, attraverso l’inserimento di
versi sciolti, fino alla completa libertà della strofa e all’esclusione della rima.
Canzone di gesta, si veda chanson de geste.
Canzonetta, componimento poetico popolare
di argomento amoroso, in versi ottonari o
settenari, diffuso tra il sec. XIII e il XVIII.
Carme, componimento poetico, originariamente di carattere rituale o solenne, in seguito
di genere più vario. Può essere anche cantato o
recitato.
Centone, componimento poetico composto con
versi o parti di versi di un autore famoso, adattati ad altri significati.
Cesura, pausa ritmica di un verso che, nella
metrica classica, cade alla fine di una parola, ma
sempre all’interno di un piede, e divide il verso
in due emistichi. Nella metrica moderna cade
in diverse sedi, secondo il senso e il ritmo del
verso.
Chanson de geste, poema epico medievale
francese, i cui versi, inizialmente ottosillabici e
assonanti, in seguito dodecasillabici e generalmente rimati, celebravano gesta eroiche.
Climax, figura retorica che consiste nel disporre
i termini di un discorso graduandoli con sempre
maggior forza (si veda anticlimax).
Contrasto, antico componimento poetico in cui
si svolge una disputa scherzosa tra amanti.
Decasillabo, verso di dieci sillabe, con accenti
ritmici sulla terza, la sesta e la nona sillaba.
Distico, strofa di due versi. Il distico elegiaco è
il distico per eccellenza della metrica greco-latina, formato dalla successione di un esametro e
di un pentametro.
Ditirambo, nella lirica greca, canto corale in
onore di Dioniso. Nelle letterature moderne,
componimento giocoso sul tema dell’ebbrezza e
della festosità conviviale.
Dodecasillabo, verso di dodici sillabe, con accenti ritmici sulla seconda, la quinta, l’ottava e
l’undicesima sillaba.
Ecloga (o egloga), originariamente nelle letterature classiche, componimento poetico, di contenuto pastorale, spesso in forma dialogica.
Elegia, componimento lirico di carattere
nostalgico-sentimentale.
Emistichio, la metà di un verso prima della cesura, o da questa fino alla fine del verso.
Endecasillabo, verso di undici sillabe.
Epica, genere poetico che narra di fatti eroici,
storici o leggendari, relativi a un personaggio o
a un popolo.
Epigramma, breve componimento poetico di
origine greca, di argomento vario e, spesso, di
tono mordace.
Epistola, componimento letterario, generalmente in versi, in forma di lettera. Ha argomento vario.
Epopea, vasta composizione narrativa poetica,
che celebra le gesta straordinarie, spesso leggendarie, compiute da eroi che impersonano il
carattere nazionale di un popolo.
Eufemismo, attenuazione di un significato considerato troppo aspro, volgare ecc., mediante espressioni più generiche o indirette.
Favola, breve racconto in versi o in prosa della
tradizione antica, con funzione morale e didascalica, i cui personaggi sono animali o esseri
inanimati.
Fiaba, narrazione fantastica, di origine
popolare, in cui predominano l’elemento magico (streghe, orchi, fate) e il fine ricreativo e poetico.
Frottola, componimento poetico popolare,
scherzoso e di oscuro significato, infarcito in
modo casuale di proverbi, indovinelli, detti.
Giambo, 1) piede della metrica classica formato
da una sillaba breve e da una lunga. 2) Per
estensione, componimento poetico di carattere
satirico e aggressivo in metro giambico.
Giustiniana, canzonetta amorosa di tono
popolare, ma dalla lingua colta ed elegante.
Gliommero, composizione poetica popolare in
dialetto napoletano, in forma di monologo e solitamente recitata, intessuta di proverbi, fatti di
cronaca ecc.
Idillio, originariamente nelle letterature classiche, breve componimento lirico d’argomento
pastorale, in cui si idealizza la vita campestre.
Inno, nell’antica Grecia, componimento poetico
solenne, dedicato a una divinità o a un eroe,
cantato in coro e accompagnato dalla musica.
Nell’età cristiana, canto corale d’argomento religioso eseguito dai fedeli durante le cerimonie.
In epoca moderna, componimento lirico di argomento religioso, patriottico ecc.
Iperbole, figura retorica che consiste nell’usare
un’espressione esagerata rispetto alla realtà.
Lai, componimento medievale narrativo o
lirico. Originario della Bretagna, era accompagnato dalla mandola o dall’arpa.
Lamento, componimento medievale, di origine
popolare, per lo più in versi, nel quale si esprime
il dolore per un fatto doloroso, specialmente per
la scomparsa di una persona cara.
Lauda, componimento poetico medievale di argomento religioso.
Lirica, nell’età classica, poesia con
l’accompagnamento della lira. Nell’età moderna poesia che esprime in modo soggettivo i
sentimenti più personali del poeta.
Litote, figura retorica per cui viene formulato
un concetto mediante la negazione del suo contrario.
Madrigale, breve composizione poetica in endecasillabi, di origine popolare e d’argomento
campestre o amoroso.
Melodramma, componimento teatrale di carattere drammatico, generalmente in versi, musicato e cantato.
Metafora, figura retorica per cui un vocabolo
o un’espressione vengono usati per intendere
un concetto diverso da quello che di solito
esprimono, ma con il quale hanno un rapporto di
analogia. A differenza della similitudine, i termini fra i quali si coglie la somiglianza sono
posti in relazione di identità.
Metonimia, figura retorica che consiste nel
sostituire una parola con un’altra avente con la
prima qualche tipo di relazione: causa-effetto,
concreto-astratto, contenente-contenuto, autoreopera ecc.
Metrica, insieme degli elementi (accenti, misure, rime ecc.) che presiedono alla composizione dei versi e alle loro varie combinazioni
(strofe), in relazione a un contesto storico-letterario. Nella metrica quantitativa (per es. la metrica classica) il verso è definito dal succedersi di
sillabe brevi e lunghe mentre nella metrica ritmica (per es. quella italiana) il criterio fondamentale è dato dal numero delle sillabe (versi ottonari, endecasillabi ecc.) e dalla loro accentazione.
Il diverso modo di organizzazione dei versi dà
luogo differenti tipi di componimenti poetici
(canzoni, ballate, sonetti ecc.) e alle loro differenti parti ritmiche (terzine, ottave ecc.).
Metro, nella poesia greco-latina indica l’unità
di misura di un verso; nella poesia moderna indica la struttura di un verso o di una strofa.
Monodia, canto a una sola voce, con o senza accompagnamento musicale.
Non-sense, genere letterario di origine inglese,
in cui gusto dell’assurdo e del paradosso, fuori
da regole logiche, producono un effetto umoristico e stravagante.
Novella, breve narrazione in prosa, più raramente in versi, di un fatto inventato, ma verosimile.
Ode, componimento poetico della letteratura
classica moderna di metro e di contenuto vari;
nell’antichità greca era cantato con accompagnamento musicale.
Onomatopea, riproduzione mediante parole di
un suono naturale.
Oratoria, genere letterario della prosa, sviluppatosi nell’antica Grecia e basato sull’arte della
parola. Produce discorsi destinati a persuadere
un pubblico su vari temi.
Ossimoro, figura retorica per cui si accosta a un
termine un altro termine che ha significato opposto.
Ottava, strofa della metrica italiana, di origine
medievale, costituita da otto endecasillabi, di
cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a
rima baciata.
Ottonario, verso di otto sillabe.
Pamphlet, breve componimento in prosa, di derivazione francese, particolarmente in voga nel
‘700, con contenuti fortemente polemici o violentemente satirici.
Parodia, componimento consistente nella contraffazione comica o satirica di un’opera letteraria conosciuta.
Pasquinata, componimento satirico generalmente anonimo, in latino o in volgare, di contenuto antipapale: fiori a Roma fra il sec. XVI e
il XIX.
Pastiche, opera letteraria in cui l’autore imita lo
stile di un altro autore, o fonde organicamente in
uno stile personale linguaggi diversi.
Pastorella, componimento lirico di origine
provenzale, in forma di dialogo tra un cavaliere
e una pastorella.
Poema, componimento poetico narrativo
solenne e di vasto respiro. Generalmente ripartito in canti o libri, definito, secondo la materia trattata, poema epico, cavalleresco, storico,
didascalico ecc.
Poema cavalleresco, poema che canta le imprese dei cavalieri medievali.
Poema eroicomico, genere letterario in cui un
argomento eroico, tragico è trattato in modo
comico.
Polisemia, capacità da parte di un testo letterario di avere più significati, e di ammettere,
quindi, diversi livelli di lettura (più comunemente si parla di “ambiguità”).
Prosa d’arte (o prosa poetica), genere letterario cui appartengono componimenti prosastici
particolarmente curati stilisticamente e mossi da
intima liricità.
Prosodia, complesso delle regole riguardanti
l’accentazione e la quantità delle vocali e delle
sillabe, come fondamento della metrica classica.
Quantità, lunghezza o durata relativa di una sillaba nella pronuncia; è l’elemento che regola il
ritmo nella metrica greco-romana e nel canto
liturgico.
Quartina, nella metrica italiana, strofa di quattro versi di rima varia.
Quinario, nella metrica italiana, verso formato
da cinque sillabe, con accento ritmico sulla
quarta.
Racconto, narrazione in prosa di contenuto
fantastico o realistico, di minore estensione
rispetto al romanzo.
Rapsodia, componimento epico recitato in pubblico.
Retorica, nella cultura greca è l’arte del discorso e il suo scopo consiste nel persuadere un
uditorio (si veda anche p. 850). A partire dalla
trattazione aristotelica e fino al suo inserimento,
in epoca medievale, nel gruppo delle arti liberali
del trivio, la retorica si compone di 5 parti: l’inventio (che riguarda gli argomenti del discorso),
la dispositio (che si occupa del loro ordinamento), l’elocutio (che tratta le questioni stilistiche), l’actio (che detta le norme della gestualità dell’oratore), la memoria (che insegna a ri-
cordare il discorso). Con il passare dei secoli, e
soprattutto in epoca romantica, l’interesse per la
retorica si riduce alla sola elocutio, vale a dire ai
problemi di poetica letteraria.
Rima, identità di suono, fra due o più parole,
delle sillabe finali a partire dall’ultima vocale
accentata. Viene disposta tra versi successivi di
un componimento poetico secondo schemi
prestabiliti. “Rima baciata” è quella che si ha fra
due versi consecutivi, “rima alternata” fra due
versi che rimano alternativamente.
Ripresa, ritornello, in alcune forme della poesia
italiana.
Rispetto, breve componimento poetico di origine popolare, costituito da una quartina a rime
alternate e da una ripresa.
Ritmo, nella metrica greco-latina, disposizione
di sillabe lunghe e brevi di un verso, regolata
secondo schemi particolari; nella poesia moderna, ordinata successione di sillabe toniche e
atone.
Romanzo, nell’antica Grecia, opera narrativa in
prosa dall’intreccio ingegnoso, ricco di avventure e colpi scena. Nel medioevo, componimento popolare in versi, in una lingua romanza,
che narrava imprese cavalleresche. Nelle letterature moderne, genere letterario in prosa, di
notevole ampiezza, che narra, in prima o in terza
persona, le vicende reali o immaginarie di uno o
più personaggi in relazione fra loro.
Satira, componimento letterario, originariamente tipico dell’antica Roma, dapprima in
prosa e versi e poi solo in versi. Esprime giudizi
di tipo moralistico-polemico sui vizi della società contemporanea.
Selva, 1) componimento poetico in endecasillabi e settenari. 2) Raccolta di poesie di soggetto
vario. 3) Raccolta di saggi, brani letterari, annotazioni ecc.
Senario, verso di sei sillabe.
Sequenza, canto della liturgia medievale, in
versi o in prosa ritmata.
Sestina, 1) strofa di sei versi, generalmente endecasillabi o tutti a rima alternata o con i primi
quattro a rima alternata e gli ultimi due a rima
baciata. 2) Forma particolare di canzone, composta da sei stanze con sei endecasillabi non
rimati, in cui le parole finali della prima strofa
sono ripetute alla fine di tutte le strofe.
Settenario, verso composto di sette sillabe, con
l’accento sulla sesta sillaba.
Similitudine, figura retorica che istituisce un
confronto tra due immagini che normalmente
appartengono a contesti diversi.
Sineddoche, estensione o riduzione del significato comune di un termine (si designa la parte
per il tutto, il singolare per il plurale, o
viceversa).
Sirventese, componimento in versi di origine
provenzale, di contenuti polemici, politici o
anche amorosi.
Sonetto, componimento poetico di origine italiana, composto di due quartine e di due terzine,
per lo più endecasillabi.
Stanza, nella metrica italiana, ciascuna delle
strofe di una canzone o di una ballata.
Stilistica, arte e disciplina che attengono allo
stile, definibile come l’insieme delle caratteristiche linguistiche significative di un testo in
rapporto alla lingua comune, a quella letteraria
e al suo uso individuale. Nel corso della storia,
è stata a lungo una disciplina prescrittiva, intesa
a fornire allo scrittore precetti e modelli di bello
scrivere. Negli ultimi decenni, con i recenti sviluppi della linguistica, il significato di stilistica
si è evoluto in quello di metodo critico e descrittivo che tende a considerare lo stile come una
deviazione dalla norma da parte del singolo
scrittore. Si distinguono una stilistica descrittiva, una interpretativa, più vicina alla critica
letteraria, e una storica, che delinea la storia di
determinate forme espressive.
Stornello, breve componimento lirico di origine
popolare e toscana, di argomento amoroso o
satirico, composto generalmente da un quinario
e due endecasillabi di cui il secondo rima con il
quinario.
Strambotto, forma lirica di origine popolare, su
temi amorosi o satirici, formato da sei o otto endecasillabi a rima alternata.
Strofe (o strofa), gruppo di due o più versi disposti secondo un determinato schema metrico (i
versi possono avere varia lunghezza ed essere, o
no, collegati dalla rima). Prende denominazioni
varie secondo il numero dei versi che la compongono (terzina, sestina ecc.).
Tenzone, componimento poetico di origine
provenzale, strutturato come un dialogo a strofe
o versi alterni fra due autori in disputa fra loro
su argomenti amorosi, politici o morali.
Terzina, strofa di tre endecasillabi, di cui generalmente il primo rima con il terzo e il secondo
con il primo della strofa successiva.
Tesi, nella metrica greca, il tempo forte del
piede, cioè quello sul quale cade l’accento; in
quella latina e moderna, il tempo debole (si veda
arsi).
Topos, luogo comune o stereotipo a cui attingono sia il discorso comune sia quello letterario.
Trionfo, componimento della poesia italiana
delle origini, di tono elevato. Nel ‘400, tipo di
canto carnascialesco fiorentino, di tono salace.
Thank you for evaluating ePub to PDF Converter.
That is a trial version. Get full version in http://www.epubto-pdf.com/?pdf_out