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6-12-2011
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Africa
Kenya-Nigeria
Movimenti di terrore
P
oco prima della fine, Gheddafi aveva, tra
le altre cose, agitato la minaccia di un sicuro dilagare del terrorismo di matrice
islamica in tutto il continente africano. Certamente tale minaccia aveva una sua ben fondata radice, visto che ormai da anni si parla
dell’esistenza di Al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) che ha giustificato operazioni
militari d’ampia portata, sostenute anche dall’amministrazione statunitense. Comunque,
con la caduta del regime libico un enorme
quantitativo di armi sono risultate facilmente
disponibili e, in parte, hanno già preso la via di
alcuni paesi sub-sahariani.
Per valutare fino a che punto si è articolata Al Qaeda in Africa si è riunito ad Algeri il
16 e il 17 novembre il Forum globale contro il
terrorismo, mettendo a tema l’aggiornamento
sui recenti movimenti di AQMI che da tempo
è affiliata con gli shabaab della Somalia e oggi
anche con il gruppo Boko Haram (letteralmente: «l’educazione occidentale è peccato»)
che ha la sua base in Nigeria. In questi due
stati, infatti, sono stati segnalati violenti scontri riconducibili ad Al Qaeda, anche se le dinamiche sono piuttosto differenti.
La scusa del Kenya
Nel caso del Kenya, la minaccia del terrorismo, che da tempo colpisce il paese con attentati e rapimenti di stranieri a scopo
d’estorsione, è stata dichiarata dal governo
non più tollerabile dopo che il 12 ottobre due
volontarie di Medici senza frontiere sono
state rapite a Dadaab (Kenya settentrionale)
nel campo di Ido, laddove vi è la più grande
struttura di accoglienza al mondo per rifugiati:
lì vivono infatti 400.000 somali, fuggiti dal
proprio paese a motivo dell’instabilità e della
forte carestia che sta colpendo tutto il Corno
d’Africa. Il 16, 4.000 militari kenyoti hanno varcato il confine e intrapreso un’azione militare
contro gli shabaab, d’accordo con il governo
ad interim somalo che vanamente tenta di arginarli da anni.
Ma è difficile pensare che un’azione a cui
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hanno partecipato unità navali francesi e velivoli senza pilota statunitensi e che è arrivata
a controllare dopo la metà di novembre il
porto di Kisimayo sia semplicemente una risposta più robusta all’ennesimo rapimento
per creare – secondo la versione ufficiale –
una zona cuscinetto al confine tra i due paesi.
Per gli osservatori, l’azione militare ha più
il segno da un lato del recupero – anche grazie ai finanziamenti statunitensi «contro il terrorismo» (secondo Foreign Affairs 11 milioni di
dollari nel 2011) – di un ruolo egemonico regionale (il Kenya ha tra l’altro minacciato sanzioni diplomatiche contro l’Eritrea che appoggia gli shabaab), dall’altro della creazione
di un vasto consenso pre-elettorale visto che
a gennaio vi saranno in Kenya le elezioni generali.
Gli shabaab hanno risposto con diversi
attentati: contro un bar-discoteca di Nairobi il
23 ottobre (23 feriti); contro 4 funzionari governativi, uccisi a Mandera il 27; contro una
base del governo ad interim a Mogadiscio il
29; contro una Chiesa pentecostale a Garissa
il 5 novembre (2 morti e alcuni feriti). Altri
morti (5) sono stati poi provocati dal fuoco
amico che si è rivolto contro un campo rifugiati a Jilib.
Al momento l’operazione è in corso ed è
ancora presto per farne un bilancio.
Le divisioni della Nigeria
Ben più sanguinoso è il bilancio degli attentati compiuti dal gruppo Boko Haram nel
Nord della Nigeria, aggravato anche dagli
scontri – avvenuti tra le popolazioni cristiane
e musulmane degli stati della regione centrale,
il Plateau.
Boko Haram è un movimento di matrice
islamica fondato nel 2002 da tale Mohammad
Yusuf, un salafita dello stato del Borno. Scopo
dichiarato del movimento è l’imposizione
della sharia in tutti gli stati del Nord; in realtà,
specialmente dal 2009, quando è stato ucciso Yusuf, esso ha preso una piega marcatamente antioccidentale e anti-sistema, col-
pendo anche le forze dell’ordine, prescindendo dall’appartenenza religiosa. Gli ultimi
violenti attacchi, che hanno fatto pensare a
un’alleanza con l’AQMI, pare siano stati appoggiati anche da politici locali e da gruppi criminali che modificano con rapidità le proprie
alleanze in contesti in cui le strutture statuali
sono deboli e attaccabili per via anche della
corruzione.
Boko Haram ha avuto il suo momento di
notorietà internazionale con l’attentato compiuto contro la sede delle Nazioni Unite della
capitale federale Abuja, che ha provocato 26
morti.
La tesi diffusa tra gli osservatori che il movimento operi una mera strumentalizzazione
politica della religione è fatta propria anche
dai vescovi cattolici locali, in favore dei quali
si è unita anche la voce del papa che all’Angelus del 6 novembre ha chiesto di «porre fine
a ogni violenza che non risolve i problemi» e
che semina «odio e divisione anche fra i credenti». Secondo mons. Doeme, vescovo di
Maiduguri (capitale del Borno, nel Nord-est),
uno dei teatri degli attacchi terroristici ripetutisi anche ai primi di novembre (oltre che a
giugno e luglio scorsi) e che ha portato a un
centinaio le vittime in questo stato dall’inizio
dell’anno, «la religione è un argomento molto
delicato in Nigeria ed è molto facile scatenare
nuove tensioni».
Moschee e chiese sono state poi prese di
mira nella città di Damaturu (capitale dello
stato di Yobe), dove un kamikaze si è fatto
esplodere in concomitanza con la preghiera
del venerdì, causando la morte di 65 persone.
Nello stato di Kaduna due donne sono state
uccise mentre pregavano in chiesa e 11 persone sono state ferite.
La violenza è infine riesplosa nello stato
del Plateau, nel centro del paese – stato non
nuovo a scontri tra gruppi cristiani e gruppi
musulmani di etnie diverse (cf. Regno-att.
6,2010,172) –, dove lo scorso 24 novembre 20
persone sono morte, mentre due chiese, una
scuola coranica e altri edifici sono stati dati
alle fiamme.
Vi è il rischio che si faccia largo l’ipotesi
che per pacificare il paese sia necessario dividerlo tra Nord e Sud. Ma questo non farà che
moltiplicare i problemi, perché – come ha dichiarato l’arcivescovo di Jos, mons. Kaigama a
Fides «vi sono musulmani e cristiani sia nel
Nord sia nel Sud. La soluzione quindi non è
dividere il paese, ma trovare il modo di vivere
insieme in pace e di andare alla radice dei problemi: economici, sociali e di disoccupazione
giovanile, che spingono molti giovani nella
braccia di leader politici fanatici. Se riusciremo
a risolvere questi problemi, potremo vivere in
armonia gli uni accanto agli altri».
M.E. G.