sodalizio siculo savonese

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sodalizio siculo savonese
2016 numero 1 – Gennaio -Febbraio
Email: [email protected]
Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Buon 2016 a tutti -
Fra i buoni propositi…..
Quanto più bella sei,vecchia Savona,
Dal dì che a Roma desti Pertinace
La cieca Dea giammai non abbandona
Gente come la tua forte e tenace.
Intorno a te perennemente tuona
Alto il fragor delle arti della pace
E sull’onda del tuo porto risuona
Dei baldi marinai il grido audace.
Madre di Grandi in terra e in mar ti vanti,
Dei due Papi e Pancaldo ognor favella
Il mondo e di Chiabrera e de’ suoi canti.
Il 12 gennaio scorso il nostro socio e amico
Manlio Cammarata ha compiuto in buona
salute 95 anni , a riprova che essere Soci del
“Pirandello” fa bene. Auguri.
Col tuo poeta alla Benigna Stella
Ancora alzan la prece i naviganti
“In mare irato in subita procella”
L. Graffagni
Inviateci dall’amico Giuse Cervetto che collabora
nella segnalazione di prezioso materiale , ecco tratto
- dal Numero Unico "SAVONA e SPEZIA di notte"
del 15.09.1907 un Sonetto dedicato a Savona e
- dalla rivista "CINEMA-quindicinale di divulgazione
cinematografica" del 10.09.1936 – (XIV)
Immagini di Luigi Pirandello e di Angelo Musco, sul
set di “Pensaci Giacomino”
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Altamura ha anche un ricco museo di tradizioni
popolari. Poi prosecuzione per Gravina: imponente
castello federiciano sulla collina che domina
l'abitato e ammirevole cattedrale Gravina fa onore
al suo nome anche con una vasta rete di vie
sotterranee, in gran parte visitabile.
Domenica a Metaponto; qui la Magna Grecia
domina museo e siti archeologici meritano una
visita accurata. Sulla via del ritorno visita a
Bernalda: bello il paese e imponente come sempre
il castello che domina la pianura sottostante.
Passiamo anche da Montescaglioso attratti dalle
grande Abbazia di S. Michele una guida molto
preparata ce ne racconta la storia - veramente
affascinante - fra fondazione distruzioni e
ricostruzioni.
Il 4 gennaio, passiamo da Massafra: una grande
gravina disseminata di grotte e di chiese; un castello
in restauro, una imponente cattedrale medioevale,
guide competenti e appassionate.
Infine Gioia del Colle: in pieno centro oltre alle
(ormai) solite belle chiese, uno straordinario
castello normanno- svevo dallo stile diverso da tutti
gli altri (due grandi torri a parallelepipedo con
bugnature scure arrotondate) e un imponente corpo
centrale.
Nel suo interno sale splendide anche se spoglie e un
museo archeologico alimentato esclusivamente da
un sito soprastante la città.
Come sempre la mia caccia ai centri del Sud
scarsamente reclamizzati, ma di grande attrattive,
ha dato buon esito.
Peraltro si stanno moltiplicando iniziative di
giovani locali per la valorizzazione del territorio
che, battendosi spesso anche contro l'inattività della
burocrazia e della politica restaurano e gestiscono
siti trascurati da secoli.
Un discorso a parte merita la gastronomia
apulolucana (non ci sono grandi differenze fra le
due regioni nelle zone confinanti).
Quasi tutti i ristoranti hanno un orto proprio e la
cucina è fatta prevalentemente da verdure: ci sono
serie di antipasti che valgono un pasto intero:
legumi, purè di fave e cicoria, tortini di patate e
funghi, peperoncini "cruschi" sformati verdi di tutti
i tipi, le famose cime di rapa, e via coltivando.
Eccellenti anche i primi (sempre pasta fatta in casa)
e i secondi di carne (il pesce sulle coste).
Il tutto armonizzato dall'ottimo rosso primitivo di
Manduria (buonissimo anche quello servito sfuso),
e prezzi sempre modici.
Ancora una volta il Sud ci ha rivelato le sue
attrattive nascoste.
DIARIO DI VIAGGIO
di ENZO MOTTA
Decisione all'ultimo minuto:
A Capodanno si va a Matera; la notte festa quale
anteprima dell'anno 2019, in cui la città sarà
capitale europea della cultura, e poi in giro per
castelli, musei e monumenti di cui la regione è
ricchissima.
Grazie alla dedizione di Vilma Pennino, nota agente
di viaggi e già assessore al Turismo, di Savona,
troviamo fortunatamente voli, alberghi e auto.
Il 30 dicembre volo Genova-Bari; il 31 siamo a
Matera che si sta facendo bella, ma già ora è
estremamente interessante e godibile; visita al Sasso
Barisiano e al Duomo (purtroppo chiuso) sosta per
la cena e poi in piazza (e dintorni) per seguire la
diretta RAI di capodanno sulla scena e sui
teleschermi disposti strategicamente.
Il 1° gennaio (tardi) visita del centro città ricco di
chiese (magnifica la chiesa di S. Giovanni Battista,
romanico puro all'esterno e all'interno) e di bei
palazzi; nel maestoso Palazzo Lanfranchi il grande
quadro dedicato a Matera e a Rocco Scotellaro da
Carlo Levi, e mostre di arte medioevale e
ottocentesca; in un ex convento restaurato il
ricchissimo e ben ordinato Museo Archeologico (le
testimonianze della Magna Grecia sono copiose in
tutte le città e i paesi della Basilicata e della Puglia).
La sera presepe vivente nel Sasso Caveoso:
una indimenticabile suggestione.
Il 2 gennaio escursione ad Altamura con l'unica
cattedrale fatta costruire personalmente da Federico
II (la Puglia fu la sua terra d'elezione, come la
Sicilia era stata quella della sua formazione) la
cattedrale molto bella all'esterno, è stata
pesantemente rimaneggiata al suo interno. Rimane
comunque bellissima.
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Il riflettore sarà robotico e fruibile “in remoto”, in
pratica studenti, ricercatori e scienziati da qualsiasi
luogo del pianeta potranno collegarsi on line e
accedere al centro operativo di controllo per
effettuare ricerche astronomiche, osservazioni di
pianeti extrasolari.
La scelta di Isnello come punto di osservazione
ideale risale agli inizi degli anni ’70, quando gli
astronomi italiani indicarono Piano Battaglia come
il luogo migliore per osservare il cielo e ospitare il
telescopio nazionale.
Dopo 40 anni, la stazione planetaria e’ diventata
realtà: il Pam sorge, infatti, sulla sommità di Monte
Mufara, che con i suoi 1.865 metri d’altezza e’ il
sito osservativo astronomico piu’ alto d’Italia, nel
parco delle Madonie.
“Il progetto del Parco astronomico di Isnello e’ un
gioiello dell’umanità: il suo telescopio sarà capace
di osservare uno spazio di cielo dieci volte il
diametro della luna piena e di esaminare 50 miliardi
di galassie” ha detto il premio Nobel George
Fitzgerald Smoot, le cui ricerche hanno permesso di
comprendere la struttura dell’universo.
Per il sindaco di Isnello Giuseppe Mogavero, che
ogni anno riunisce sulle Madonie i maggiori
astronomi ed astrofisici internazionali, il Pam
permetterà un’immersione a 360 gradi nel mondo
dell’astronomia a curiosi, studenti, scienziati ed
appassionati che potranno seguire sul campo il
lavoro degli studiosi”.
In Sicilia nasce il Parco astronomico più
innovativo d’Europa: sarà una stazione
planetaria.
Sara’ inaugurato ad Isnello, nel palermitano, in
primavera il Parco astronomico delle Madonie
(Pam), che vanta il primato di essere la piu’
innovativa stazione astronomica d’Europa.
A presentarlo a Palermo e’ stato il premio Nobel per
la Fisica George Fitzgerald Smoot, l’astrofisico e
cosmologo statunitense che e’ stato il primo a
fornire una prova della correttezza della teoria del
Big Bang.
Il Pam e’ stato realizzato con un finanziamento di
15 milioni di euro (di cui 7,5 a carico del Cipe); e’
dotato di una stazione osservativa per la ricerca, un
grande planetario digitale con 75 posti, una terrazza
osservativa con 12 strumenti di osservazione, un
radiotelescopio con parabola di 2,3 metri, un
laboratorio astronomico all’aperto con orologi solari
di vario tipo, un mappamondo monumentale con
supporto ed asse di rotazione, un planisfero,
laboratori didattici e un museo multimediale.
La stazione di ricerca ospiterà un telescopio dotato
di uno spettro visivo pari a dieci volte il diametro
della luna quando e’ piena.
500 catanese
simil carretto
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famiglia: per adesso è un'azienda a conduzione
familiare".
Da quanto tempo c’è?
"Siamo aperti al pubblico dal 15 dicembre 2013.
Ma ho iniziato nel 2012
Hai avuto aiuti pubblici? Chi lavora a questo
progetto?
"Non ho ricevuto nulla né da enti pubblici che
statali, né progetti europei né a fondo perduto.
Abbiamo fatto tutto con le nostre forze: cosa che, se
da un lato ci rende orgogliosi, dall'altro ci porta a
lavorare spesso con una certa lentezza. Ovviamente
siamo seguiti da commercialisti, legali e agronomi".
Che cosa produce un allevamento del genere?
"Un allevamento del genere produce latte, che viene
venduto come latte fresco crudo o come prodotti
derivati. Infatti l'azienda ha tre linee di produzione,
una lattiero casearia, una dolciaria e una cosmetica.
Tre laboratori artigianali già collaborano per la linea
dolciaria, che produce biscotti e cioccolato. Poi c'è
quella cosmetica che ha prodotti per il bagno e per
la cura della persona. Inoltre in azienda facciamo
attività didattica per bambini ed adulti".
Insomma, un bel da fare. Dici che questo tuo
percorso era scritto nel destino…perché?
"Diciamo che sono una persona molto determinata e
testarda, quando voglio una cosa la ottengo.
Era scritto nel destino perché Fragalà, il mio
cognome, deriva dall'arabo.
Apparteniamo alla seconda dominazione araba in
Sicilia, e significa Gioia di Allah. Dunque il
rapporto con i dromedari era scritto nel mio Dna".
Hai investito soldi? Quanti?
“Tanti".
E’ la tua attività principale? Ti permette di
guadagnare?
"Sta divenendo la mia attività principale, perché
richiede molto tempo. Per adesso tante uscite e
poche entrate: speriamo bene nel futuro.
Ovviamente è una cosa che sapevamo, abbiamo
iniziato da poco, stiamo lanciando un prodotto
nuovo, adesso aspettiamo la risposta del mercato".
Mettersi in proprio in Italia si può?
"L''Italia è un bel paese, potrebbe dare tanto, ma in
questo momento sta vivendo non solo una crisi
economica e politica, ma una vera e propria crisi di
identità.
Più volte ho pensato di fuggire, scappare oltre i
confini, magari verso una meta fatta di certezze, ma
poi ripenso a quello che lascio a quello che qui ho, e
che fuori dall'Italia non avrei più.
Allora ho deciso di mettermi in gioco, scommettere
qui, soprattutto nella mia Sicilia.
Speriamo di non essere deluso".
"Contro la
crisi allevo
dromedari"
Una favola
araba in terra
sicula
Lui si chiama Santo Fragalà: classe 1988,
catanese, medico veterinario laureato con 110 e
lode che ha deciso di aprire un'azienda agricola tutta
sua.
Il primo in Italia e secondo allevamento di
dromedari in Europa è a Trecastagni, in provincia di
Catania. La fattoria "Gjmàla", di contrada Ronzini,
produce già cosmetici e dolciumi a base di latte di
dromedario per adesso importato nella sua versione
in polvere dall'Olanda, ma il latte fresco viene
prodotto proprio dagli animali - due femmine e un
maschio - che costituiscono il primo nucleo della
fattoria etnea.
Come ti è venuta l’idea di un allevamento di
dromedari in Sicilia?
"Durante il dottorato, facendo una ricerca sui
fosfolipidi nel latte di diverse specie, mi capitò di
leggere un articolo sulle qualità del latte di
dromedario. Fu quella la scintilla che ha scatenato
in me la voglia di proseguire nella ricerca e di
realizzare l'idea di aprire un allevamento qui in
Italia. Inoltre mi occupo di animali esotici, dunque
la possibilità di lavorare ogni giorni con i dromedari
mi ha reso felice!"
Quanti animali hai? Li curi tu?
"Per adesso abbiamo tre esemplari, un maschio e
due femmine. Carmen, Jamila e Mustafà sono i tre
mammiferi di provenienza europea (due animali
sono italiani e uno olandese).Una femmina riesce a
produrre sino a 20 litri di latte al giorno, dunque in
una fase di startup, ho deciso di iniziare con una
produzione minima allo scopo di evitare l'invenduto
non sfruttando esageratamente gli animali.
"Ogni femmina produce dai quattro ai venti litri di
latte al giorno, in media sono sette.
Il Camelusdromedarius produce più latte dell'asina,
l'animale con il quale compete sul mercato per la
produzione di latte alternativo a quello vaccino spiega Fragalà - Il suo latte è adatto per gli
intolleranti perché povero di caseina, ottimo per i
bimbi, cinque volte più ricco in calcio e tre volte più
ricco in vitamina B di quello vaccino.
Utilissimo anche per i malati nefropatici in dialisi e
persino per i malati terminali con difficoltà di
deglutizione".Se la richiesta del mercato aumenterà
sono già pronto a prendere altri animali. I paddock e
le strutture sono già pronte. Li curo io e la mia
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L’ANGOLO DELLA POESIA
ASSOLUZIONI URBI ET ORBI
(dialugu)
Durante la programmazione natalizia, Rai5
(complimenti alla rete) ha presentato lo spettacolo
teatrale “Napoli legge Napoli”, con un grande
Toni Servillo che ha recitato fra gli altri, i seguenti
splendidi versi:
- Iu nun capisciu, cumpari Mircioni,
pirchì lu Papa, di lu Vaticanu,
affaccia e duna l’assoluzioni
all’orbi e no a li Surdi...è un fattu stranu !
A mia ‘un pari una giusta azioni,
puru lu Surdu è un bonu cristanu,
e merita rispettu, attinzioni,
e un trattamentu nobili ed umanu.
- Mai cumpari, facitivi scienti:
l’Orbu ‘un ci viri, ma teni la ‘ntisa
e l’assoluzioni si la prendi!
Lu Surdu, inveci, puru ch’è prisenti,
d’una assoluzioni nun cumprisa
chi nn’havi a fari siddu nun la senti??
Nfnunno
Vulesse cammenà pe’ sottoterra
striscianno cumm’ ‘a vverme int’ ‘o turreno
zucanno ‘o grasso ca scenness’ ‘a coppa
e me facesse chiatto tunno e forte.
Pò scennesse cchiú sotto
e me mpizzasse sotto
sempe cchiú sotto sotto nfunno
fino a quanno truvasse l’ummetore
ca me dicesse: sotto ce sta ll’acqua.
AdS
E quanno ce arrivasse dint’ a ll’acqua
me ce menasse ‘a rinto cumm’a pesce,
cumm’a pesce cecato e me magnasse
‘e pisce piccerille ca truvasse senza manco ‘e verè.
Po’ che facesse?
5 gennaio 2016
Rinasce Peppino Impastato,
dopo avere compiuto centomila passi
nelle nostre coscienze fragili e terremotate.
Rimane, tornando al mondo, nella traiettoria di luce
in cui l'hanno tenuto tante buone persone,
nutrite dall'ansia della giustizia e dall'orrore per il
disonore. E si ritrova contento di trovarsi ancora
dove aveva messo piede in terra nel 1948,
perché quel suolo, sempre sull'orlo dell'abisso,
è sempre più scaldato dal sole e dall'amore
di tanti uomini buoni che camminano sulle orme
dei suoi passi, seguendo le onde delle sue parole.
Roppo me menasse sempe cchiú sotto
anzin’ ca sentesse ‘a puzz’ ‘e zurfo
e finalmente ‘o ffuoco!
Me ce menasse ‘arinto e me sperdesse
vulanno e zumpettianno ncopp’ ‘e ffiamme
e ce campasse, gnorsí,
cumm’a diavule!
Eduardo
Versi, suoni,che diventano canto e che solo grandi autori
e grandi interpreti fanno giungere al cuore.
Angelo Guarnieri
ANNU NOVU
La storia si ripeti... gran discursi
abbrazzi e vasi ccu chistu e ccu chidda,
poi passanu li jorna e s’arrifridda
lu beddu slanciu e riturnamu URSI.
E ‘ncuminciamu arreri!... una faidda
e torna l’astiu di li jorna scursi,
l’armamenti farannu li so’ cursi,
minazzi, ‘nzurti e la guerra fridda!!
E l’atomica spara in Orienti,
l’America rispunni lesta lesta,
e radiu-attività a li quattru venti.
Si li popoli ‘un scippanu la testa
a quattru criminali dilinquenti
lu munnu è sempri navi in gran timpesta.
5 gennaio 1948 - 9 maggio 1978
AdS
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Devoto solo alla Tua bellezza, ora m’accorgo che
troppa grazia
occorre per suffragare i miei sogni, rosa fresca e
aulentissima,
baciata dalla rugiada del pianto.
Mi resta la solitudine dell’acqua ch’è solitudine di
morte,
quella dell’isola che visita solo se stessa
nell’infinità della sua corte.
ELEGIA SICILIANA
In un fiotto di dolore, una lacrima m’è sfuggita dal
volto
ed è caduta in mare come tormento di speranza
lontana
L’onda peregrina senza mai sostare, la donerà alla
Sicilia,
posandola dolcemente sulla sua marina che bacia la
terra
con il seme dell’eterno sorriso.
Accoglietela uomini della mia regione avita
fino a quando tutto se ne andrà e non sappiamo
chi verrà a vivere la nostra verità qui nella misera
contrada del creato.
Le stagioni prendono il posto d’altre stagioni nel
tempo che mai più sarà come inquieta tenerezza che
turbina e non appare,
e l’infelicità ha già usurato il mio animo d’uomo,
rimasto un’ identità di pietra come una ceramica a
lustro, di Liguria.
Alimento che ancora mi conforta e subito non
scompare
è il ricordo dell’Etna che si fa luce con il suo fuoco,
cantato da chi il volgare ha reso lingua dei dotti,
tra i confidenti delle umane signorie.
Il palpito amato della poesia allora torna a
prendermi
e si ridesta viva la memoria d’antiche brame
che mi gettano di slancio dove regna la malia
suggestiva del mito di Arione tra ombre di voluttà
e raffinate ebrietà.
Il tempo m’assedia come l’onda che s’infiltra
tra i tuoi bastioni rocciosi ed io vorrei rivederti isola
bella
in una sinfonia di silenzi per ascoltare il palpito del
mio cuore
alle più alte frequenze dell’amore che giungono dal
cielo.
Tutto si stempera nel nulla in un’armonia fugace
ma l’Ave Maria ancora mi ammanterà di fede
devotissima sotto il fulgido diadema del duomo di
Messina.
Così ogni mio cruccio d’uomo sarà irretito da una
dolce sorte e la verità sovrana che libera da quel
mondo ch’è niente porterà la mia anima dubbiosa
ad una vita nuova, giammai corrosa dalle lacrime
come riverbero di luce per le mie rughe e della
morte come approdo all’isola celeste.
Mi resta l’anelito dell’isola celeste d’ellenica
memoria
dal fertile suolo,ingemmato di buganvillee, per
primo amato dai Sicani.
Paradiso in terra, fecondato dal profumo delle
zagare,
è stato cantato dai coloni d’Alceste
come fornace sempre infuocata dall’amore per la
vita, pur trascinata dal fato gravoso del dolore.
Così t’ho conosciuta e risorgi ogni giorno
fatalmente bella
nel mio amore lontano che sempre anela nutrirsi
alla cornucopia
dei tuoi sapori, fecondi della civiltà del nostro mare.
Non potrà dissolversi nel silenzio la Tua fiera
tempra d’Anteo.
Come la bellezza d’Antinoo, la Magna Curia di
Federico II
non perirà così come il tempio normanno
che ha sposato con l’oro fino il credo mussulmano.
I Tuoi germogli dell’italica parola
continueranno a fecondare civiltà, fedeli al suo
desco regale,
il cui ricordo mi rende lieto, come il senno di
giustizia d’antico lume,
donato dalla terra liberata alla nostra Costituzione.
Tu resti nel mio cuore come leggenda senza fine
che pare vera
mentre tutto passa e rinnega l’effige d’ogni piacere,
desiderato invano.
Etna gennaio 2016
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Continua la pubblicazione del libro dell’amico
Umberto Gugliotta:
DETTI E PROVERBI
Sapiri
quattru coccia di littra.
Saccu vacanti nun po’ stari a l’additta.
S’avissi lu culu comu la vucca,
cacassi vucciddati.
S’avissi pignateddu, ogliu e sali mi facissi lu pani
cottu…e s’avissi lu pani.
S’avissi….. e si fussi……mureru poviri.
Saggizza e donna cchiù ci ‘nnè,
cchiù ni abbisogna.
Sant’Antoni gran friddura,San Lorenzu gran
calura;l’unu e l’autru picca dura.
Sapi ‘cchiassà lu pazzu ‘ncasa sò…..ca lu
‘saggiu’ ‘ncasa d’atru.……
S’arripara dunni chiovi.
Sceccu e maritu accattilu puddithru.
Sciatara e materedda e funnu di quadaredda.
Sciroccu chiaru e tramuntana scura, mettiti a
mari senza paura.
Sciumi chi grida passalu sicuru….scantati di
chiddu chi dormi.
Scrivicci…’carni di porcu’.
Scrusciu di carta assà e cubata nenti..
Secunnu pagaziu, serviziu.
Sedi, sedi cà bedda vintura ti veni.
Sempri tri vutti ci fà la vigna.
Senza dannu miu Diu.
Servu d’atru si fa,cu ccì dici lu sigretu chi sà.
Si arrivu a capud’annu campu natr’annu.
Si cchiù vecchiu di la Bibbia.
Si c’è ogliu a la lampa, lu malatu campa.
Si la furtuna ‘nnì vulissi aiutari, avissi a moriri
vostru maritu e mè muglieri.
Si lu ‘mmernu nun ‘mmirnìa, si l’estati nun
estatìa,nun và a versu la massaria.
Si ‘mpiduglia.
Si ‘mpristari fussi un beni, s’impristassiru anchi
li muglieri.
Si fici lu ‘cucchiareddu’.
Si hà la ‘prostata’ mettiti lu cori mpaci…cu li
fimmini nun sì cchiù capaci.
Si junceru gasparu, minzioni e panzamodda.
Si mi vidi, tì jucavu, si nun mi vidi
t’arrubbavu.
Si nuddu ‘mmiscatu cù nenti.
Si nun ccì fussi lu viddanu, nun purria campari
lu galantomu.
Si nun fussi pi lu nostru ‘ntentu, nun si dicissi lu
patrinostru a un santu.
Si nun si vidi lu miraculu, nun si cridi a
lu Santu.
Si si metti a tramuntana….attacca a chioviri
pi ‘na simana.
IL ROSARIO DEL VESCOVO
CAPITOLO 2
Donna Gerardina Tornabene d’Altomare scendeva
dal piano nobile verso l’imponente
androne,
quando udì la campana dell’orologio della vicina
Cattedrale di San Giovanni Battista sonare la mezza
delle ore sette pomeridiane; allora s’arrestò sul
quarto dei
ventisei gradini di cui si componeva il
monumentale scalone e, sorridendo, si congratulò
con sé stessa per avere -come le piaceva dire“l’orologio in testa”: la decisione pronosticata “scenderò alle diciannove e trenta in punto”- aveva
avuto, ancora una volta, giusto riscontro.
Questo pensiero la accompagnò per i restanti
ventidue gradini che, come d’abitudine, percorse a
testa alta e con naturale flemma; il brusio, che fino
ad allora era salito dal piano terra, d’un tratto
tacque. Segno, questo, che agli invitati era giunto il
cadenzato echeggiare dei passi della padrona di
casa.
Il sole, ormai al tramonto, con i suoi ultimi guizzi
sfuggiti alle incerte trasparenze dei vetri, inondava
di rosso le pareti dell’atrio, mentre i cristalli di sei
lampadari collocati ai lati della gradinata, sopra il
marmo
delle
balaustre,
li
rimandavano
moltiplicandone lo splendore.
Non a caso donna Gerardina aveva scelto quell’ora
per mostrarsi; era quella -e lei lo sapeva bene- l’ora
in cui la luce metteva in risalto, al meglio, la
magnificenza del palazzo e dello straordinario
parco che lo circondava.
Proprio quando gli estremi bagliori frugavano, ad
uno ad uno, alberi, cespugli, arbusti, fiori, tutte
piante le cui progenitrici erano state acquistate, nel
corso di secoli, in ogni parte del mondo, e nel
momento in cui le statue di tufo antico, sparse qua e
là sull’erba accuratamente rasata, sembravano
prendere
vita,
l’architettura
del
palazzo,
esponendosi alla dolce aria dell’incipiente estate,
accoglieva su ogni cosa, l’intonaco, le finestre, le
porte, gli archi, i chiostri, i legni dei bersò sulle
terrazze, i balconi, i tetti, un fulgore languido che le
rendeva, agli occhi, quasi evanescenti.
Distante dal palazzo almeno cinquecento metri,
quasi sul confine della tenuta, vicino al prezioso
cancello che interrompeva il muro di cinta, vi era la
dependance che ospitava parte del personale di
servizio, quello meno qualificato; la restante parte
alloggiava nel sottotetto ed in alcune stanze del
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piano terreno attigue alle cucine; ciò tuttavia non
escludeva che, all’occorrenza, i servitori
svolgessero
mansioni
diverse
da
quelle
normalmente assegnate: così gli stallieri potevano
divenire cocchieri, i servitori di sala lavapiatti, i
giardinieri contadini e così via.
Appena discosti dagli alloggi della servitù, erano
stati edificati i magazzini, le stalle per i cavalli, le
rimesse delle carrozze e i ricoveri per gli arnesi da
giardinaggio.
Vi era anche una cappella, anzi una piccola chiesa,
alla quale era possibile accedere, percorrendo un
passaggio sotterraneo, direttamente dall’edificio
padronale dal quale essa distava una ventina di
passi; la costruzione, ricavata utilizzando quel che
restava di un’antica abitazione, probabile prima
dimora della famiglia d’Altomare, eretta nel primo
periodo del regno normanno-svevo, ne testimoniava
l’antico lignaggio. L’aspetto definitivo del palazzo,
quello ancora visibile agli inizi del XX secolo, era
stato assunto allorché, distrutto o, quanto meno,
gravemente lesionato durante gli eventi sismici del
1693, fu riaccomodato. Per secoli, il magnifico
edificio, attorno al quale era nata e cresciuta la città,
era stato il luogo in cui regnanti, nobili, autorità
civili e religiose, avevano trovato, ciascuno secondo
necessità e circostanze, ospitalità, rifugio, ristoro;
l’apertura del cancello, se necessaria, non era negata
neppure a coloro che, bisognosi, chiedevano di
sostare per rifocillarsi e riposare.
Quel che si raccontava sulle origini della casata, e
quel che gli stessi appartenenti ad essa amavano
narrare, null’altro era se non leggenda. In effetti,
comunque, sul muro esterno dell’iniziale residenza,
fu rinvenuto durante i lavori di trasformazione in
luogo di culto, coperto da intonaci e rampicanti,
l’antico stemma -uno scudo in pietra- , che,
riprodotto ed esposto ovunque nei secoli successivi,
raffigurava, in varie tonalità d’azzurro e blu,
un’ampia distesa di mare sovrastata dal cielo,
perforato nel centro da una stella d’oro zecchino a
sette punte, simbolo di gloriosa nobiltà; in basso,
appena sopra la punta dello scudo, un cartiglio con
la scritta “E maris fragore siderum silentium”.
Lo stemma, dunque, ben si accordava con le
antiche narrazioni che ravvisavano nell’appellativo
d’Altomare il significato di un capostipite venuto da
lontano, probabilmente dai territori del medio
oriente, percorsi alla ventura con l’impegno
guerriero di liberatore della Terrasanta; là, voleva la
tradizione, il Crociato era giunto dalle terre, ancor
più lontane, del nord Europa; ne faceva fede il
significato del nome che portava, Gustavo, che nella
lingua svedese ha il significato di “scettro del Re”.
Gustavo non tornò nella sua patria; il suo errare
senza meta fra terre e mari, lo portò ad approdare
casualmente in uno dei tanti porti naturali della
Sicilia sud-orientale, dove, ormai stanco e
disincantato, decise di stabilirsi, dando così inizio
alla sua stirpe.
Intorno agli anni 1870/1875, incaricati alcuni ben
remunerati studiosi d’araldica, ai d’Altomare fu
possibile non solo delineare l’albero genealogico
ma anche ricostruire, a partire dai primi anni del
1600, gran parte della loro storia nobiliare, vera e
provata, popolata soprattutto da prelati e navigatori;
molti di loro, effigiati in ricche tele dipinte con rara
perizia, si affacciavano con sussiego dalle pareti
della pinacoteca, e non solo.
La famiglia d’Altomare, che per ragioni inesplicate
persino dagli esperti gentilizi, aveva acquisito,
intorno alla metà del XVIII secolo, anche il
cognome Tornabene, era sempre stata, nel corso dei
secoli, una delle casate più facoltose di tutta la
Sicilia; le uniche complicazioni economiche della
sua storia le conobbe, com’era naturale che fosse,
con l’avvento del Regno d’Italia, complicazioni del
resto superate, parecchi decenni dopo, grazie alla
dote di donna Gerardina, di cui il defunto marito era
stato ottimo amministratore.
Quando donna Gerardina giunse al piano terra, nel
grande atrio, voltò decisa alla sua sinistra,
dirigendosi verso il salotto d’attesa, già rischiarato
dai lumi a petrolio, dai ricchi candelabri e da una
gran quantità di candele fissate sui lampadari e sulle
appliques; tre servitori stavano immobili a discreta
distanza dagli ospiti. Sui tavolini addobbati bottiglie
di ogni possibile bevanda, bicchieri e piatti di ogni
forma e dimensione, scatole di cristallo ed argento
con sigari e sigarette, dolci e salatini, frutta, e molte
altre cose ancora, riempivano ogni spazio possibile.
Donna Gerardina passò fra i parenti del defunto
Principe, tutti in piedi, senza pronunciare parola, e
si avvicinò al cognato Ignazio, Vescovo di
Fontìspano,
l’unico
rimasto
seduto
su
un’accogliente poltrona; si fermò a circa un metro e
disse:
- Monsignore, siete il benvenuto nella casa dei
vostri avi.
Rimase ferma, in attesa, per un paio di minuti, fino
a che il Prelato, in silenzio, le tese la mano,
adornata da tre anelli, da baciare.
La cognata avanzò quanto necessario e si inchinò;
poi, avendogli sollevato lievemente la mano con la
propria, ne sfiorò con le labbra il dorso; infine,
indietreggiata di quattro o cinque passi, rivolse la
sua attenzione agli altri ospiti.
I rapporti fra donna Gerardina, i tre cognati e le due
cognate, anche se non particolarmente intensi erano
sempre stati buoni; ciò, d’altronde, era stato quanto
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di meglio la vedova potesse ottenere, nel rispetto
del proprio orgoglio, dai congiunti del defunto
marito che, comunque, raramente perdevano
l’occasione di sottolinearne l’origine borghese.
Solo per i due nipoti, un maschio ed una femmina,
la padrona di casa nutriva una tenera ricambiata
benevolenza, la stessa che avrebbe avuto per i
propri figli, se mai il desiderio di metterne al mondo
fosse stato appagato.
Il defunto Gioacchino Tornabene Principe
d’Altomare, primogenito, aveva avuto, quindi due
sorelle delle quali una, donna Palmina, rimasta
nubile, gli era premorta, e tre fratelli; anche uno di
questi, uno scapolo gaudente chiamato Fofò,
diminutivo di Alfonso, gli era premorto.
Donna Carolina, l’unica sorella ancora in vita, era
presente con la quasi diciassettenne figlia Sofia, ma
senza il marito don Gaetano Ajello, impegnato per
affari nel Nord Italia.
I fratelli superstiti, Monsignor Ignazio, il Vescovo,
e don Giovanni, detto Vannino, professore di
humanae litterae, avevano accettato di buon grado
l’invito, forse non tanto per sincero cordoglio,
quanto per l’opportunità, che ne veniva, di poter
costatare con i propri occhi, ad un anno di distanza,
se e come la cognata Gerardina riuscisse a gestire
l’immenso patrimonio di famiglia, senza l’aiuto di
chicchessia.
Con don Vannino non era venuta la moglie, la
baronessa Angelica Arangio, a causa di dissapori,
insorti molti anni prima, fra lei e alcuni congiunti
del marito. Era invece intervenuto il figlio Errico,
vulgo Ricuzzu, un giovinetto di qualche mese più
piccolo della cugina Sofia.
I primi ad essere salutati furono i nipoti, Sofia e
Ricuzzu: li abbracciò e baciò con forza, quasi con
violenza, tenendoli stretti ai suoi fianchi e
guardandoli con gli occhi pieni di lacrime; rivolse
poi ai loro genitori poche parole di circostanza,
sedette e fece cenno agli altri di fare altrettanto: i
due nipoti li volle vicino a sé, sul divano.
Rimase in silenzio qualche minuto, ascoltando i vari
rumori che giungevano dai punti più reconditi del
palazzo e attribuendo ad essi un significato noto
solo a lei; erano suoni rassicuranti perché le
dicevano che ogni cosa procedeva secondo gli
ordini impartiti. Senza darlo a vedere annusò anche
l’aria per verificare che le essenze, insieme
all’odore della cera delle candele e del petrolio dei
lumi, vi si fossero diffuse. Infine, rivolta ai
servitori, fece loro cenno di allontanarsi.
Prima di parlare, rivolse uno sguardo attento agli
ospiti.
- Vi ringrazio per aver accettato la mia ospitalità.
Come sapete incaricai Tanu, due settimane fa, di
pigliare il calesse e di venire da voi a Fontereale,
per portarvi il mio invito per stasera. Tanu partì la
mattina presto e tornò a pomeriggio inoltrato,
digiuno, stanco e tutto bianco di polvere: “nun
avia manciatu nenti, pi paura ca ci veniva notte,
mischinu!”
E questo per causa vostra! Io vi devo fare un
rimprovero, un rimprovero vi devo fare. Tanu mi
ha detto che la strada è terribile, che è stato un
miracolo se il cavallo non si è azzoppato e se non
si sono spaccate le balestre del cabriolet. Io, certo
sono un po’ d’anni che non ci passo, me la ricordo
buona, tenuta bene. Perché non ci avete fatto mai
nessuna sistemazione? Cosa ci vuole a mandare
qualche manovale a aggiustarla? Tanu impiegò
quasi una giornata per fare, fra andata e ritorno,
venti …venticinque chilometri, oltre, naturalmente,
al tempo perduto nell’attesa di essere ricevuto da
ognuno di voi.
Vi pare giusto? Mi chiedo come avete fatto voi ad
arrivare, con le vostre carrozze così pesanti, senza
che succedesse qualche disastro.
- In verità qualcosa successe: si ruppe una ruota
alla vettura di Carolina tant’è vero che, con Sofia,
dovette approfittare di quella di Ignazio che
viaggiava da solo. Là ci restò Mimmo, il suo
sovrintendente, per l’occasione cocchiere, a vedere
cosa poteva fare…certo che se non ci capita
qualcuno a dare una mano, non gli resta che
passare la notte accucciato nella carrozza, oppure
tornarsene a piedi a Fontereale o venire qua, che
tanto è la stessa distanza. Comunque la carrozza
può restare dov’è, anche incustodita, ché nessuno
“s’a futti”.A meno che donna Gerardina non ci
voglia mandare qualcuno a farci l’incontro.
Così disse
don Vannino, per una volta
tralasciando il suo lessico forbito e continuando a
ridacchiare nonostante la disapprovazione che si
atteggiava sul viso della cognata che subito
rimbrottò:
- E vi sta bene, vi sta! Ora ci penserete che le cose
non si possono lasciare andare alla malora!
Dopo aver pronunciato queste parole la padrona
di casa tacque stizzita.
Don Vannino divenne serio e si schiarì la voce:
- Questo lo può fare Voscenza, “ca avi i piccioli!”
E pure mio fratello Monsignore, con le spettanti
rendite del vescovato e senza contare i lasciti. Un
onorato professore come me, anche se Tornabene
d’Altomare, certe spese non le può fare e non ci
sono speranze che le cose cambino in meglio: le
giornate passano e portano solo problemi. Crescere
un figlio che tra poco andrà all’Università…non
mi ci fate pensare. Per fortuna che un po’ di terra
ce l’ho ancora e così il mangiare non ci manca. A
9
me la sorte non mi ha sorriso…si vede che sorride a
una sola persona per ciascuna famiglia e nella
famiglia d’Altomare toccò a Gioacchino, che
incontrò Vossignoria…
- Siete monotono, don Vannino. Vi conosco
non so da quanti anni, ma di sicuro tanti e tutti
pieni di lamenti. Insomma fate quel che
volete…se
la
volete
aggiustare,
aggiustatela…per me non cambia niente…al
vostro paese…a Fontereale…ci sono venuta
tanto poco…vuol dire che d’ora in poi non ci
verrò affatto. Ricuzzu e Sofia si stanno facendo
grandi; fra un anno, un anno e mezzo,
potranno venire a farmi visita anche senza di
voi.Io, intanto, per la tranquillità di Carolina,
qualcuno ce lo mando a portare l’occorrente
per aggiustare la carrozza…principalmente i
lumi, visto che tra poco annotta.
Ciò detto, donna Gerardina si raccolse in sé,
mentre lentamente sul suo viso assorto compariva
un’espressione di dolcezza che, nei tanti anni
trascorsi al palazzo, ben poche persone avevano
avuto l’occasione di vedere.
Don Gioacchino lo aveva notato subito,
quando la conobbe, quel distendersi
improvviso della pelle che conferiva al suo
volto una levigatezza pari a quello di un ritratto
di Madonna. Fu probabilmente quel particolare
che rivelò al futuro marito quanta tenerezza
celava il suo piglio risoluto. E fu con questo
atteggiamento che riprese a parlare:
- Domani, sette giugno millenovecentoventitré,
sarà trascorso un anno dal giorno della morte
di mio marito, di vostro fratello. Non è il primo
lutto che, da quando sono entrata sposa in
questa dimora, ha colpito la famiglia
d’Altomare alla quale appartengo ormai da
tanto tempo. Nel giro di pochi anni ci hanno
lasciato vostra sorella Palmina, poi vostro
fratello Fofò e infine, l’anno passato, il
primogenito Gioacchino, mio adorato sposo.
Troppe volte i lutti ci hanno costretto a
chiudere imposte e porte delle nostre case.
Troppe volte.
Ho pensato di riunirvi per ricordare mio
marito, insieme a Palmina e Fofò, recitando un
rosario che possa essere di conforto alle loro
anime; Monsignore Ignazio ci guiderà nel dire
le preghiere, sempre che lo voglia. L’invito che
Tanu portò vi ha già dato notizia dello scopo
di questa riunione. Al termine del rosario
ceneremo tutti insieme come abbiamo fatto
tante volte, in passato.
Mi pare che ora possiamo salire…ah,
no…dimenticavo,…non ancora.
Il tempo di sospirare prima di riprendere a
parlare rivolta al cognato vescovo:
Monsignore, nella terrazza sulla quale si apre
la sala dove ci riuniremo per la cena, ci sono
almeno due dozzine di persone che vi stanno
aspettando fin dal primo pomeriggio, per avere
udienza. Non so come sia uscita la notizia
della vostra venuta…e sì che mi ero tanto
raccomandata con la servitù…per riceverli
tutti occorre tempo, lo so…
Sospirò ancora e continuò:
Il rosario lo diremo chissà quando…e la cena
poi…è meglio non pensarci…visto che
andremo a tavola ancora più tardi del previsto,
che era già tardi; vi consiglio di mangiare
ancora qualcosa…io intanto farò in modo di
ritardare la preparazione dei piatti, sennò va
a finire che mangeremo roba scotta.
segue…..
In ricordo di un amico
Taranta
10
olio su tela 2012
G.P.Parini
una flotta che toccava i porti di New York, Boston,
Londra, Liverpool, Marsiglia e Genova.
In pochi anni la ditta si trasformò in una holding,
che spaziava dal commercio all’attività finanziaria,
dal tonno (quasi inutile ricordare a questo proposito
l’altro intreccio -relativo alle Egadi- di cui abbiamo
già avuto occasione di parlare in un precedente
articolo, con i genovesi Pallavicini e i savonesi
Brignone) al vino (Marsala, ovviamente, per la
commercializzazione del quale i Florio puntarono
prevalentemente sul mercato nazionale, posto che
Ingham controllava già il mercato americano e
Woodhouse quello nordeuropeo; con i successivi
investimenti per modernizzare la produzione,
tuttavia, Ignazio sottrarrà quote di mercato anche ai
concorrenti britannici) e allo zolfo, dove invece il
rapporto della famiglia con Ingham è di
collaborazione, così come nei trasporti marittimi:
nel 1840 Vincenzo fonda, insieme all’inglese,
cogliendo tra i primi la necessità di superare la
navigazione a vela, la Società dei Battelli a Vapore
Siciliani, che sopravvivrà fino al 1936, data di
incorporazione nella Tirrenia.
Da ricordare, infine, nel 1841, l’acquisizione della
fonderia Oretea, destinata ad operare in sinergia
con le attività armatoriali della famiglia (si noti
anche in questa scelta il parallelismo con quanto
avveniva a Genova, dove l’orientamento di
Rubattino per la meccanica, in un’ottica
inizialmente prevalente di supporto al navale,
determinò lo sviluppo dell’Ansaldo) .
A queste iniziative seguì anche la costituzione della
Società in Accomandita Piroscafi Postali, che in
convenzione con il Governo nazionale gestì il
servizio verso Genova, Napoli e Malta.
Nel 1877 la flotta Florio contava già 41 navi.
Nel 1880 iniziò anche il trasporto verso il Nord
America, lungo una delle principali rotte
dell’emigrazione, fortissima in quegli anni. Seguì,
nel 1881, la fusione con l’unica concorrente
confrontabile: la Rubattino, nella Navigazione
Generale Italiana.
Il percorso di Raffaele Rubattino inizia invece con
la gestione della corriera postale tra Genova e
Milano, in società con i parenti Gavino e Rebizzo,
cui si aggiungerà, nel ’41, la vettura di trasporto
pubblico ciitadino tra Sampierdarena e Borgo Pila
(Bisagno).
Intanto, nel 1837, era nata, con gli stessi soci, la
Compagnia Lombarda di Assicurazione Marittima,
che l’anno dopo, modificata la ragione sociale in
“De Lucchi, Rubattino & C.” cambierà anche
l’oggetto, mirando esclusivamente all’armamento.
L’aprirsi
del
Regno
di
Sardegna
al
liberoscambismo, con la riduzione del dazi doganali
In tema di rapporti fra Sicilia e Liguria
Dalla penna dell’amico
PierGuido Quartero
Florio e Rubattino:
La nascita della Navigazione Generale Italia
Volendo parlare dei più significativi rapporti
determinatisi tra Siciliani e Liguri, è inevitabile
toccare il tema dell’importante connubio marittimo
celebratosi nel 1881 tra Ignazio Florio e Raffaele
Rubattino, che diede luogo alla nascita della N.G.I.,
la compagnia di Navigazione Generale Italiana.
A questo importante accordo, sia i Siciliani che il
Genovese arrivano dopo una lunga storia che ha
visto entrambi impegnati in diversi campi
dell’economia, ma sempre con una comune
propensione per il rischio, l’innovazione e
l’ampliamento degli orizzonti.
Se si deve individuare la differenza tra gli uni e
l’altro, questa va cercata semmai nella grandiosa e
ben nota signorilità dei Florio, che li pose tra i primi
attori della Belle Epoque (inevitabile, a questo
punto, citare la Targa Florio, istituita nel 1906, ma
anche, sotto un profilo culturale anziché sportivo, la
fondazione, nel 1900, dell’Ora di Palermo), a fronte
della quale si deve riscontrare invece un più preciso
impegno politico del Rubattino, coinvolto
fortemente nelle lotte per l’unificazione del Paese (e
qui in consonanza con altri siciliani famosi di cui
abbiamo già parlato e che anche oggi torneranno in
ballo per argomenti che vedremo dopo: gli
Orlando).
Vediamo ora come si sviluppò il percorso delle
due parti, prima di raggiungere il momento della
fusione.
La storia dei Florio ebbe inizio a metà del ‘600 con
Tommaso, in Calabria, a Melicuccà e poi a
Bagnara.
Essendo seguiti a questo il figlio Domenico e il
nipote Vincenzo, l’ascesa della famiglia cominciò
con Paolo e Ignazio, figli di Vincenzo.
Infatti, tra il 1800 e il 1801 Paolo, chiamato anche il
fratello Ignazio, si stabilì a Palermo, avviando un
florido commercio di spezie e merci rare.
Successivamente Vincenzo, figlio di Paolo,
approfittando dell’arricchimento della famiglia,
acquistò quote del Brick-Schooner Santa Rosalia,
iniziando commerci con il Maghreb e poi
acquistando altre imbarcazioni, fino a disporre di
11
verso l’Inghilterra,
oltre alle dimensioni
drammatiche della emigrazione verso il sud e il
nordamerica,
favoriva
una
ripresa
della
navigazione,
e
peraltro
richiedeva
un
ammodernamento del naviglio.
In questi anni, infatti, Genova aveva una flotta
poderosa, sia per la navigazione mediterranea che
per quella atlantica, ma con natanti esclusivamente
di legno e a vela.
Tre sole compagnie, nel mediterraneo, possedevano
piroscafi: tre ne aveva la flotta napoletana, tre
quella di Marsiglia e due quella toscana.
Le prime navi a vapore di Rubattino furono il
Virgilio e il Dante, cui seguirono Castore e Polluce.
Nel 1846, la Compagnia, modificato ulteriormente
il nome in “Società dei Vapori Sardi della Ditta
Raffaele Rubattino”, acquisirà il Lombardo.
Tra il ’52 e il ’53 si sviluppa l’idea di una
Compagnia Transatlantica (con linee per il nord e il
Sudamerica) e di una Compagnia Orientale (verso
Alessandria e Costantinopoli).
Gli stessi anni vedono il nostro impegnato nella
costituzione dell’Ansaldo.
Negli anni ’50 lo sviluppo delle ferrovie, la
realizzazione in corso dei trafori alpini, il taglio
dell’istmo di Suez, la prospettiva di un grande stato
unitario italiano, spingono alla visione ottimistica di
Genova come crocevia nei traffici tra oriente e
occidente.
Tuttavia occorre un ammodernamento delle flotte:
nel ’62, Marsiglia da sola dispone di navi a vapore
per un tonnellaggio che è pari a dieci volte quello di
tutte le compagnie della penisola.
Con la crescita, anche da noi, della navigazione a
vapore, cresce anche Rubattino, che si è ripreso dal
fallimento dell’esperienza transatlantica anche
grazie all’intervento di Garibaldi.
Questi infatti, nel corso della spedizione dei Mille,
in qualità di dittatore, gli riconosce un congruo
indennizzo per la sottrazione del Cagliari
(sequestrato da Pisacane) e per quella del Piemonte
e del Lombardo.
Vale la pena di ricordare qui, a proposito di intrecci
tra liguri e siciliani, il ruolo avuto da Giuseppe
Orlando, fratello del Luigi cui abbiamo dedicato un
altro pezzo.
Questi, che alla partenza da Quarto era imbarcato
sul Lombardo come capitano di macchina, una volta
giunto a Marsala, ebbe l’ordine di rimanere a bordo,
per difendere i due piroscafi da eventuali attacchi
nemici.
Vedendo sopraggiungere i borbonici, impedì che
questi si impossessassero delle navi, affondandole.
E non si è detto tutto, di questo personaggio, che
ritroveremo più oltre.
Ulteriori sviluppi dell’attività di Rubattino
riguardano, prima, l’acquisizione del servizio
postale tra Genova, Sardegna e Arcipelago toscano,
con estensioni a Marsiglia e Tunisi, e poi l’acquisto,
con la collaborazione di Giuseppe Sapeto, savonese
di Carcare, della baia di Assab, Mar Rosso,
battendo ogni concorrenza internazionale, all’atto
dell’apertura del canale di Suez.
Questa operazione, finalizzata all’acquisto di una
base lungo la nuova linea diretta a Bombay (e
successivamente portata fino a Singapore),
innescherà la successiva avventura coloniale
italiana nel Corno d’Africa.
Nel 1880 diviene evidente l’opportunità di operare
una fusione delle due società di navigazione più
importanti del paese.
Lo stesso Francesco Crispi ne è convinto e con lui
collabora quel Giuseppe Orlando già citato in
precedenza, il quale funge da intermediario tra
Ignazio Florio e Raffaele Rubattino (che nel
frattempo, nel ’77, è stato eletto deputato). Il 18
marzo 1881 i due sottoscrivono il compromesso di
fusione, che prevede la nascita di un nuovo
soggetto: la Navigazione Generale Italiana, società
riunite Florio & Rubattino, cui i siciliani
contribuiscono con 32.000 tonnellate di naviglio
contro 30.000 dei genovesi.
La sede è prevista in Roma, con due direzioni
operative, una a Palermo e una a Genova.
Il progetto viene approvato dalla Camera il 5 luglio
1881 e, sette giorni dopo, segue l’approvazione del
Senato.
Raffaele Rubattino morirà di febbri malariche
neanche quattro mesi dopo.
Ignazio Florio, anche lui entrato in Parlamento, ma
come Senatore, nel 1883, vivrà fino al 1891.
La Navigazione Generale Italiana, nel 1832, darà
vita, con Lloyd Sabaudo e con Cosulich Società
Triestina di Navigazione, alla società Italia Flotte
Riunite.
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Ognuno di loro rappresenta un paese e cerca di
promuovere le sue istanze e i suoi interessi sullo
scacchiere internazionale.
Discutono di sicurezza informatica, di potenza
nucleare, ma anche del conflitto siriano,
dell’affermazione del gruppo Stato islamico, del
ruolo della diplomazia globale, propongono
mozioni, prendono la parola, votano risoluzioni.
Fuori delle aule climatizzate e oltre le mura del
campus di 450mila metri quadrati della New York
University, inaugurato nel maggio del 2014 dopo
quattro anni di lavori, si stende il deserto.
La zona di Saadiyat Island, dove sorge il campus, si
trova lungo la costa appena fuori Abu Dhabi.
In lontananza si scorgono i profili dei grattacieli che
arrivano fino al lungomare della città e intorno ai
ventuno edifici che compongono il campus è pieno
di cantieri, gru, camion che trasportano materiali.
Il governo ci tiene molto a rispettare la scadenza del
2020 fissata nell’ambito di un progetto da quasi 25
miliardi di euro per trasformare questo lembo di
deserto in un complesso commerciale, residenziale
e ricreativo dove dovrebbero essere costruite anche
le sedi dei musei del Louvre e il Guggenheim.
Per ora la strada che arriva al campus finisce contro
un muro e torna indietro.
L’inaugurazione in pompa magna dell’università,
cui ha partecipato anche l’ex presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton, e l’iscrizione per l’anno
accademico 2015-2016 di oltre novecento studenti
di più di cento paesi del mondo hanno cercato di
mettere a tacere le polemiche scoppiate dopo le
inchieste del New York Times e del Guardian sulle
dure condizioni di vita degli operai impiegati nella
costruzione del campus.
Ragazze di Abu Dhabi con il capo coperto siedono
accanto alle loro coetanee di Catania in minigonna,
perché, come sostiene Morgan Whitfield,
insegnante di storia e geografia alla Cranleigh
school di Abu Dhabi, “i ragazzi nel profondo sono
tutti uguali, ci sono più analogie che differenze”.
Durante il laboratorio formativo i ragazzi si
confrontano e acquisiscono quelle soft skill, come
la capacità di parlare in pubblico, di lavorare in
gruppo e di esprimersi in una lingua straniera, che
troppo spesso restano fuori di programmi scolastici.
È una generazione molto pratica, che vuole la
concretezza, e che purtroppo è anche cinica.
Ma soprattutto “imparano il rispetto per gli altri, il
rispetto per le culture diverse dalla propria”, spiega
Claudio Corbino, presidente dell’associazione
Diplomatici e fondatore nel 2011 del progetto
Change the world, che a marzo porterà per il quinto
anno di seguito circa duemila ragazzi al palazzo di
vetro delle Nazioni Unite a New York.
Una iniziativa nata a Catania
*L’associazione Diplomatici è una scuola di formazione
costituita da personalità della cultura italiana e
internazionale, da studenti e docenti, universitari e delle
scuole, e da giovani professionisti. Sin dal 2000
organizza, a New York, Roma e Dubai, laboratori
formativi incentrati sul funzionamento dell’ONU e di
altri organismi governativi complessi, cui prendono
parte migliaia di studenti provenienti da oltre 80 diversi
paesi che agiscono in qualità di delegati degli Stati
Membri riproducendo il meccanismo e le dinamiche di
funzionamento delle principali Commissioni delle
Nazioni Unite.
Le iniziative dell’associazione sono oggi sostenute da
prestigiose istituzioni nazionali e internazionali tra le
quali il Ministero degli Affari Esteri, la Camera dei
Deputati, la Missione Permanente Italiana presso le
Nazioni Unite.
Attraverso tali percorsi formativi, incentrati sul metodo
del “learning by doing,” e legati all’orientamento e alle
carriere internazionali, e a sostegno della “young
occupability”.
Bianca ha 13 anni e frequenta il liceo scientifico
Leone XIII di Milano. Da grande vuole fare la
pediatra.
Rahzadie ha 15 anni, è nata in Australia da genitori
colombiani. Frequenta la Cranleigh school di Abu
Dhabi e vuole diventare una giornalista esperta di
questioni umanitarie.
Anche Felix è un australiano trapiantato ad Abu
Dhabi con la famiglia. Ha 13 anni e gli occhialetti
tondi lo fanno somigliare a Harry Potter. Da grande
vuole fare il diplomatico ed entrare in politica, ma
vuole anche diventare giocatore di cricket e di
basket.
Oggi è molto impegnato a delineare la strategia
diplomatica che il Venezuela deve tenere al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Un compito molto complesso perché, come spiega
lui con serietà, “il paese si trova in una situazione
critica e deve cercare di restare il più possibile
neutrale”. Bianca, Rahzadie e Felix fanno parte dei
180 giovani tra i 14 e i 26 anni di varie nazionalità
che a novembre hanno partecipato al progetto
Change the world model United Nations,
organizzato dall’associazione italiana Diplomatici
in collaborazione con la New York University di
Abu Dhabi.
Due giorni in cui i ragazzi riproducono il
funzionamento degli organi delle Nazioni Unite.
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“Per questo motivo Change the world è utile al
livello educativo, è importante per sollecitare degli
interessi che poi sono coltivati in futuro. Consente
ai ragazzi di ampliare i loro orizzonti e di
abbracciare il mondo intero”, spiega Novelli.
Nell’aula del consiglio di sicurezza si sta discutendo
dell’intervento delle Nazioni Unite in Siria
“Ciò che è diverso attrae e qui c’è una grande sete
di conoscenza”, commenta Salvatore, che ha
vent’anni, studia giurisprudenza a Catanzaro e
insieme al suo collega Giuseppe, di 19 anni, fa parte
della commissione di peacebuilding.
“È bello poter parlare con ragazzi che vengono da
paesi diversi e farmi spiegare come vivono, qual è
la loro religione e la loro cultura”.
Diplomatici vuole sostenere la formazione di una nuova
classe dirigente ispirata ai valori del rispetto, della
tolleranza reciproci e dell’impegno sociale per uno
sviluppo sostenibile del pianeta.
Un progetto “nato per sbaglio”, come dice Corbino
che nel 2000 era uno studente di giurisprudenza
all’università di Catania e per caso ha partecipato a
New York a un Model United Nation, una
conferenza in cui sono simulate le assemblee
dell’Onu.
“Una volta arrivato lì mi sono accorto che era un
mondo fantastico, un vero laboratorio delle
scienze umane”.
Così, rientrato in Italia, Corbino ha deciso di creare
un’associazione in grado di far precedere la
partecipazione all’evento di New York da una
formazione che unisse i contenuti alle capacità
relazionali.
Dopo dieci anni è nato il progetto Change the
world, attraverso il quale l’associazione ha
cominciato a organizzare un proprio evento a New
York e, negli anni successivi, anche a Bruxelles, a
Roma, ad Abu Dhabi e a Barcellona. Abbracciare il
mondo intero
Negli anni hanno partecipato migliaia di ragazzi da
tutto il mondo.
Il contatto con loro porta Corbino a definirli “una
generazione di ragazzi con le palle”.
Si tratta di una generazione “totalmente post
ideologica, non gliene frega niente di aderire a una
verità precostituita.
È una generazione molto pratica, che vuole la
concretezza, e che purtroppo è anche cinica, perché
mancano i grandi ideali di riferimento, ma la colpa
è nostra che non siamo più capaci di
trasmetterglieli”, prosegue Corbino.
Nell’aula del consiglio di sicurezza si sta discutendo
dell’intervento delle Nazioni Unite in Siria.
I delegati prendono la parola a favore e contro
l’intervento, presentano emendamenti e li votano.
Felix ascolta concentrato le opinioni degli altri ma
alla fine si oppone alla risoluzione perché, spiega
“non risolverebbe i problemi e si tornerebbe al
punto di partenza”.
Emma, statunitense di 14 anni che da grande vuole
fare la chef, invece è favorevole e il paese che
rappresenta, la Spagna, sta cercando di creare un
summit promuovere il dialogo tra paesi con
posizioni divergenti.
Alla fine la risoluzione passa. Gabriele, 18 anni di
Catania e rappresentante della Malesia, è molto
soddisfatto.
Ha vinto la diplomazia.
E i ragazzi escono dall’aula parlottando tra loro, i
fogli degli appunti appallottolati in mano, lo
zainetto in spalla.
VESPA SICILIANA
Anche Marina Novelli, preside del liceo scientifico
Vitruvio Pollione di Avezzano, che ha
accompagnato nove studenti ad Abu Dhabi, pensa
che il cambiamento dei ragazzi ponga una sfida
continua alla scuola, che a volte non è in grado di
rispondere in modo adeguato.
14
Da una mera indicazione di punto di partenza e
punto di arrivo si passò man mano,
nell'immaginario collettivo, ad una indicazione
metaforica di un Nord, sede della civiltà e
dell'opulenza, e di un lontano Sud da esplorare,
studiare e, se possibile, civilizzare. Dalla seconda
metà dell'Ottocento ad oggi, Canicattì è diventata,
suo malgrado, toponimo di una località forse
inesistente o, se reale, collocata oltre le colonne
d'Ercole, misteriosa ed irraggiungibile. Un luogo
della fantasia ove "spedire" metaforicamente le
persone meno gradite o meritevoli di punizioni.
Per citare solo un esempio, in un film-rivista del
1950, Renato Rascel confidava amorevolmente alla
compagna Tina De Mola, in uno spassoso duetto:
"Ti amo tanto, mia cara, ci sposeremo a Canicattì",
sottintendendo in verità che quel matrimonio non si
sarebbe mai celebrato per l'inesistenza del luogo.
Famosa la battuta di un giornalista:
L'onorevole Canicattì disse al collega Dentice:
"Beato tu che sei una bestia sola".
CANICATTI', una cittadina di trentacinquemila
abitanti, e' spesso oggetto di battute ironiche sulla
stampa, alla radio, in TV e al cinema, ma pochi
sanno che tutto ciò deriva non solo dal nome
certamente originale, ma soprattutto da un fatto
storico legato allo sviluppo della rete ferroviaria
nazionale.
Il 24 settembre 1876 fu inaugurata, fra le prime in
Italia, la tratta ferroviaria Caltanissetta-Canicattì.
Perché il suo tracciato rispondesse meglio alle
esigenze dello sviluppo economico della città, era
stato a suo tempo interessato Antonio Starrabba
marchese di Rudini' che era stato eletto per la prima
volta deputato proprio nel Collegio di questa
cittadina dell'Agrigentino.
Di Rudinì aveva lasciato subito la Germania, ove si
trovava per motivi di famiglia, e si era recato a
Firenze e Roma per perorare la causa.
Nel 1877 Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici
decideva di collegare Canicattì anche alla stazione
ferroviaria di Aragona-Caldare.
Canicattì diveniva così uno degli snodi ferroviari
più importanti della Sicilia.
Il 3 novembre 1880 fu inaugurata la tratta Aragona
Caldare-Canicattì Madonna dell'Aiuto.
La stazione ferroviaria di Canicattì fu infatti
realizzata nei pressi di quella chiesetta campestre,
lontana dal centro qualche chilometro e il fatto
determinò la reazione della cittadinanza.
Per protesta alla cerimonia di inaugurazione la
Giunta Municipale, in attuazione di un deliberato
del Consiglio Comunale, decise di non partecipare.
Alla cerimonia nessuno dei canicattinesi presenziò,
anzi ironicamente fu mandato Masi Latona, lo
scemo del paese.
Solo nel 1880 sarebbe stata realizzata l'attuale
stazione ferroviaria, all'interno della città'.
Canicattì usciva così dal secolare isolamento e
rappresentava, nella rete ferroviaria nazionale, il
punto di arrivo, un vero avamposto nel profondo
Sud. Sulle carrozze ferroviarie si leggevano questi
cartelli: Torino-Canicattì, Milano-Canicattì ,
Venezia-Canicattì, Roma-Canicattì.
GAETANO AUGELLO
Ma la bella cittadina siciliana è anche famosa per un
brutto episodio di storia recente: La strage di
Canicattì (conosciuta anche come "macello di
Canicattì") fu un crimine di guerra accaduto a
Canicattì.Dopo la presa della città da parte delle
truppe americane durante l'invasione della Sicilia Il
14 luglio 1943, circa otto civili Siciliani inermi
furono uccisi dalle truppe statunitensi a Canicattì.
La città di Canicattì si era già arresa quando le
truppe USA entrarono, a seguito di pesanti
bombardamenti tedeschi durante il loro ritiro.
Al loro arrivo, le truppe statunitensi ricevettero un
rapporto che diceva che i civili stavano
saccheggiando una fabbrica bombardata, la
Saponeria Narbone-Garilli, riempiendo secchi con i
prodotti della fabbrica: cibo e sapone liquido.
Verso le ore 18 il tenente colonnello Herbert
McCaffrey, il governatore militare di Canicattì, e
alcuni agenti della polizia militare arrivarono in
fabbrica.
McCaffrey sparò sulla folla dopo che la stessa era
riuscita a disperdersi e che gli stessi soldati
americani si erano rifiutati di aprire il fuoco.
Almeno otto civili, tra cui una bambina di undici
anni, furono uccisi, anche se il numero esatto di
vittime è incerto. Un’indagine riservata è stata
presentata,ma McCaffrey non è mai stato accusato
di un reato che riguardi l'incidente. Morì nel 1954.
Questo incidente è rimasto praticamente
sconosciuto finché fu pubblicata la testimonianza di
Joseph S. Salemi della New York University, il cui
padre aveva assistito alla strage.
15
Fra i 20 paesi più belli d’ Italia
nella classifica 2015
La Guerra dei Vespri Siciliani, ebbe fine sul monte
Castello, altrimenti conosciuto come il "Pizzo di
Caltabellotta".
Il 31 agosto dell'anno 1302, probabilmente nel
castello del Pizzo, si firmò il trattato di pace, per il
quale Federico III venne riconosciuto Re di
Trinacria, con l'impegno a convolare a nozze con
Eleonora d'Angiò, sorella di Roberto Re di Napoli,
ponendo termine alla guerra del vespro.I Vespri
siciliani furono una ribellione scoppiata a Palermo
all'ora dei vespri di Lunedì dell'Angelo nel 1282.
Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi
dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori
stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto
all'intera Sicilia, espellendone la presenza francese.
Tutto ebbe inizio in concomitanza con la funzione
serale dei Vespri del 30 marzo 1282, lunedì
dell'Angelo, sul sagrato della Chiesa del Santo
Spirito, a Palermo. A generare l'episodio fu secondo la ricostruzione storica - la reazione al
gesto di un soldato dell'esercito francese, tale
Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa a
una giovane nobildonna accompagnata dal consorte,
mettendole le mani addosso con il pretesto di
doverla perquisire.A difesa di sua moglie, lo sposo
riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e a
ucciderlo. Tale gesto costituì la scintilla che dette
inizio alla rivolta.
Nel corso della serata e della notte che ne seguì i
palermitani - al grido di "Mora, mora!" - si
abbandonarono a una vera e propria "caccia ai
francesi" che dilagò in breve tempo in tutta l'isola,
trasformandosi in una carneficina.
I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi
riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate
lungo la costa.
Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi
che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso
a uno shibboleth*, mostrando loro dei ceci
(«cìciri», nella lingua siciliana e chiedendo di
pronunziarne il nome; quelli che venivano traditi
dalla loro pronuncia francese (sciscirì), venivano
immediatamente uccisi.
« Se mala segnoria, che sempre accora
li
popoli
suggetti,
non
avesse
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". »
Caltabellotta, località antichissima nell’entroterra
in provincia di Agrigento, che vi stupirà per la sua
incredibile posizione: il paese si trova infatti tutto
abbarbicato su dei picchi montuosi, con un’alta rupe
che domina le case e una conformazione che segue
il pendio irregolare e aspro del territorio.
Data l’origine e la lunga storia di Caltabellotta, non
mancano monumenti e testimonianze di molte
epoche diverse, tra cui resti archeologici greci e
romani, le rovine del castello normanno sotto la
rupe, un antico monastero benedettino, numerose
chiese e molto altro ancora.
Per la sua posizione geografica ed i suoi capisaldi
territoriali, venne identificata con l'antica città
Sicana di Camico, sulle cui rovine sorse la greca
Triocala. Triocala deve il suo nome a tre
caratteristiche naturali che la circondano: la Rocca
che la rendeva inespugnabile, l'abbondanza delle
acque e la fruttuosità delle sue campagne. Triocala
fu una potente città antica, ma la sua potenza
massima fu raggiunta all'epoca di Salvio Trifone,
che a capo di servi fuggitivi, installò in questa città
la sua corte. Eresse un regale palazzo e regnò
inespugnato fino al 99 a.C., quando il Console
romano Aquilio, in una delle guerre servili, la rase
al suolo. "Et mox servili vastata Triocala bello"
(Silio Italico, 14, 270). Riedificata, subì ancora la
sorte della devastazione per mano degli Arabi, i
quali di eressero il "Castello delle querce, in arabo
"Qal'at Al-Ballut" e, dal quale, come certamente si
intuisce, discende l'attuale nome di Caltabellotta.
Quando in Sicilia giunsero i Normanni, Triocala
venne conquistata da Ruggero d'Altavilla nel 1090.
Il sovrano inflisse una dura sconfitta agli Arabi ed a
perenne ricordo edificò sul monte un tempio in
onore di San Giorgio con doppio ordine di
colonnati, di cui oggi non rimane traccia.
(Dante, Divina Commedia, canto VIII del Paradiso)
* Si tratta di catena di suoni particolarmente
difficile da articolare, ma solo per gli stranieri:
infatti, uno shibboleth si distingue da uno
scioglilingua, la cui pronuncia è difficile per
chiunque.
16
- Colui che vede in se stesso tutte le cose è al
tempo stesso tutte le cose
- Dio è in ogni luogo e in nessuno, fondamento di
tutto, di tutto governatore, non incluso nel tutto, dal
tutto non escluso, di eccellenza e comprensione egli
il tutto, di defilato nulla, principio generatore del
tutto, fine terminante il tutto. Mezzo di
congiunzione e di distinzione a tutto, centro ogni
dove, fondo delle intime cose. Estremo assoluto,
che misura e conchiude il tutto, egli non misurabile
né pareggiabile, in cui è il tutto, e che non è in
nessuno neanche in se stesso, perché individuo e la
semplicità medesima, ma è sé.
-E noi, per quanto ci troviamo in situazioni inique
tuttavia serbiamo il nostro invincibile proposito
tanto da non temere la morte stessa.
- Avete più paura voi ad emanare questa sentenza
che non io nel riceverla.
Ricordiamo l’illustre filosofo arso vivo il 17
febbraio del 1600, attraverso le sue parole:
- Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della
città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia [...] et la
professione mia è stata et è di littere et d'ogni
scienzia [...] e nacqui, per quanto ho inteso dalli
miei, dell'anno '48.
- Certamente voi preferite questa sentenza contro
me con più timore di quello che io provo
nell'accoglierla.
- Il timore che provate voi a infliggermi questa pena
è superiore a quello che provo io a subirla.
-Io stetti in Noli, come ho detto di sopra, circa
quattro mesi, insegnando la grammatica a figliuoli e
leggendo la Sfera a certi gentilomini; e doppoi me
partii de là ed andai prima a Savona, (1577) deve
stetti circa quindici giorni. Andai a Paris, dove me
messi a legger una lezione straordinaria per farmi
conoscere e a far saggio di me.
- Ho lottato, è molto; ho creduto nella mia vittoria
È già qualcosa essere arrivati fin qui Non aver
temuto di morire,aver preferito coraggiosa morte a
vita imbelle.
- I filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i
poeti sono pittori e filosofi, i pittori sono filosofi e
poeti. Donde i veri poeti, i veri pittori e i veri
filosofi si prediligono l'un con l'altro e si ammirano
vicendevolmente.
-Parlando cristianamente e secondo la teologia e che
ogni fidel cristiano e catolico deve creder, ho in
effetti dubitato circa il nome di persona del
Figliuolo e del Spirito santo, non intendendo queste
due persone distinte dal Padre se non nella maniera
che ho detto de sopra, parlando filosoficamente.
Quando alla seconda persona io dico che realmente
ho tenuto essere in essenzia una con la prima, e cusì
la terza; perché essendo indistinte in essenzia, non
possono patire inequalità [...] solo ho dubitato come
questa seconda persona se sia incarnata [...], ma non
ho però mai ciò negato né insegnato.
Io credo che nelle mie opere si troveranno scritte
molte cose, quali saranno contrarie alla fede
catolica [...] ma però io non ho detto né scritto
queste cose ex professo, né per impugnar
direttamente la fede catolica, ma fondandomi
solamente nelle raggioni filosofiche o recitando le
opinion de eretici.
- Italia, Napoli, Nola; quella regione gradita dal
Cielo, e posta insieme talvolta a capo e destra di
questo globo, governatrice e dominatrice de l'altre
generazioni, e sempre da noi et altri stimata maestra
e madre di tutte le virtudi, discipline et umanitadi.
- L'amante di Dio, dottore della più alta teologia,
professore di cultura purissima e innocente, noto
filosofo, accolto e ricevuto presso le prime
accademie d'Europa, vincitore dell'ignoranza
presuntuosa e persistente, che tuttavia protesta che
nelle sue azioni c'è amore per tutti i suoi simili, per i
britanni non meno che per gli italiani, per le donne
non meno che per gli uomini, per i sovrani non
meno che per i prelati.
17
- La sapienza ha dunque tre dimore: la prima
inedificata, eterna, perché è essa stessa la sede
dell'eternità; la seconda, sua primogenita, è questo
mondo visibile; la terza, sua secondogenita, è
l'anima dell'uomo.
vergogno d'aver sopportato la povertà, la
malevolenza e l'odio dei miei, le esecrazioni, le
ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e
giovai, gli effetti d'un'estrema barbarie e
d'un'avarizia sordidissima.
Per il che non mi duole d'esser incorso in fatiche,
dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci
esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in
breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza
gaudio immenso, in un angusto esilio una patria
grandissima
« Quando aviene che un poltrone o forfante monta
ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma
per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume
e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste
prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente,
o almeno appresso lo vegnate a purgar della
forfantesca poltronaria, a fine che un tale non
presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma
che sia fatto prencipe un forfante. »
- Non è dunque filosofo se non chi immagina e
riproduce.
- Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti
in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre
i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa,
improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di
avere vinto.
- Ogni volta, infatti, che riteniamo che rimanga una
qualche verità da conoscere, un qualche bene da
raggiungere, noi sempre ricerchiamo un'altra verità
ed aspiriamo ad un altro bene. Insomma l'indagine e
la ricerca non si appagheranno nel conseguimento
di una verità limitata e di un bene definito.
Nello stesso modo la materia particolare, sia essa
corporea o incorporea, non assume mai una
struttura definitiva, e non essendo paga delle forme
particolari assunte in eterno, aspira nondimeno in
eterno al conseguimento di nuove forme.
(Spaccio de la bestia trionfante) dialogo II, parte II
- Per ciò che si riferisce alle discipline intellettuali
possa io tener lontano da me non solo la
consuetudine di credere, instillata da maestri e
genitori, ma anche quel senso comune che in molti
casi e luoghi (per quanto ho potuto giudicare io
stesso) appare colpevole di inganno e di raggiro;
possa io tenerli lontani in maniera da non affermare
mai
nulla,
nel
campo
della
filosofia,
sconsideratamente e senza ragione; e siano per me
ugualmente dubbie tutte le cose, tanto quelle che
sono reputate astrusissime e assurde, quanto quelle
che sono considerate le più certe ed evidenti, tutte le
volte che vengono messe in discussione.
- Se questa scienza che grandi vantaggi porterà
all'uomo, non servirà all'uomo per comprendere se
stesso, finirà per rigirarsi contro l'uomo.
- Verrà un giorno che l'uomo si sveglierà dall'oblio
e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi
ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente
fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene
schiavo... l'uomo non ha limiti e quando un giorno
se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo
mondo.
Portico del Palazzo comunale di Noli, dove Bruno
soggiornò per un breve periodo. Sotto il portico una
lapide ricorda il soggiorno del filosofo: Giordano
Bruno / Prima d'insegnare all'Europa / Le leggi
dell'ordine universale / Fu maestro in Noli / Di
grammatica e cosmografia"
- Venni, tra gli altri io, attratto dal desiderio di
visitare la casa della sapienza, ardente di
contemplare codesto Palladio, onde non mi
18
Della pubblicazione e della curiosa storia si persero
però le tracce tanto che il Dizionario biografico
degli italiani lo indica come disperso.
È stato soltanto per caso, durante una consultazione,
che nella «Busta A 260/11» della Biblioteca
nazionale di Bari è comparsa una copia del
volumetto che oggi secondo il Catalogo del servizio
bibliotecario nazionale è l’unica autentica
sopravvissuta.
Sulla copertina è impressa la scritta «Dono
Cotugno» per ricordare che proveniva da Raffaele
Cotugno, nipote dell’illustre medico pugliese
settecentesco Domenico Cotugno.
Il ritrovamento e la sua lettura hanno destato
interesse per alcuni aspetti del racconto che si
ritrovano anche nel famoso romanzo Dalla Terra
alla Luna di Jules Verne pubblicato otto anni dopo.
Verne conosceva quel testo?
Lo aveva letto?
Sono proprio questi elementi a suscitare la domanda
se non ci fosse stato qualche misterioso filo capace
di collegare le due storie e i loro autori.
Il Viaggio alla Luna di Capocci è una sorta di lunga
lettera-resoconto inviata da Urania, protagonista
della traversata cosmica assieme ad Arturo, il pilota
dell’astronave «astronomo artigliere».
Con loro viaggia un equipaggio di sei uomini
«eterizzati», cioè addormentati con l’etere, durante
gli otto giorni del volo.
Così non avevano bisogno di mangiare e bere
riducendo le riserve nel poco spazio della navicella
«ingombro di cronometri, anemometri, termometri,
bussole, cannocchiale ecc.».
Il ricorso all’eterizzazione è curioso perché anticipa
l’idea di ibernare gli astronauti nelle future, lunghe
esplorazioni interplanetarie.
Ma l’idea che avvicina di più Capocci a Verne è il
ricorso al cannone per proiettare la navicella verso
l’obiettivo.
Lo colloca nelle profondità di un vulcano spento
sulle Ande per proteggere in questo modo la
navicella dai disturbi atmosferici incontrati nelle
prime fasi del decollo.
Urania è affascinata dalle nuove tecnologie e
sottolinea, ad esempio, «il più grande trionfo della
meccanica moderna» rappresentato dalla gomena
che unisce il proiettile sparato dal «gran mortaio»
alla capsula abitata trascinandola nello spazio
vantando doti di «leggerezza, elasticità e forza onde
reggere all’immenso impulso» fino a imprimere
«una velocità incredibile».
L’impresa è organizzata dalla Compagnia della
Luna che molto assomiglia al Gun Club di
Baltimora di Verne.
Il viaggio sulla Luna?
Ideato a Napoli otto anni prima di Jules Verne
Riscoperto (e ristampato da LB edizioni) il
libriccino di «fantascienza» del 1857 redatto da
Ernesto
Capocci,
al
tempo
direttore
dell’Osservatorio di Capodimonte
Ernesto Capocci
principe di Belmonte
Direttore della specola
napoletana tra il
1833-1850 e il 1860-1864.
La Luna da sempre ha portato in volo la fantasia di
illustri scrittori e scienziati: Luciano di Samosata
nel II secolo a.C. e Dante Alighieri, Ludovico
Ariosto e Giovanni Keplero e Cyrano de Bergerac.
Ma è nella prima metà dell’Ottocento, nel vento del
positivismo filosofico e dello sviluppo tecnologico
legato alla rivoluzione industriale, che alcuni
sognatori del satellite naturale della Terra iniziano a
immaginare i viaggi con le innovazioni necessarie
per raggiungerlo.
A Napoli dirigeva dal 1833 l’osservatorio di
Capodimonte Ernesto Capocci principe di
Belmonte, astronomo di buona cultura letteraria,
educato alla scienza delle stelle dallo zio Federico
Zuccari che lo aveva preceduto alla guida della
Specola partenopea.
Capocci nel 1857 scrisse un libricino dal titolo
Viaggio alla Luna – Anno 2057: la prima donna
nello spazio stampato dalla tipografia di Teodoro
Cottrau.
Un frame da «Viaggio sulla luna»di Georges Méliès
19
Durante il viaggio la navicella «fornita di grandi
lastre di cristallo trasparentissimo» permette una
stupefacente visione e il racconto, ricco di
emozioni, potrebbe essere quello pronunciato dai
nostri astronauti.
Tra ironie, parole di soddisfazione e qualche
inquietudine, Urania arriva sulla Luna descritta
nelle sue meraviglie con grande dettaglio.
La discesa dell’astronave è aiutata da un paracadute
e lo sbarco, dopo il risveglio degli eterizzati, è
salutato dagli applausi di una quarantina di
esploratori.
Erano giunti in precedenti missioni e nelle lande
deserte, tra montagne ricoperte di muschi e licheni,
avevano insediato in oasi rigogliose le loro colonie.
Ernesto Capocci era un esperto di comete e aveva
collaborato alla compilazione di una nuova mappa
celeste coordinata dall’Accademia di Berlino.
Nel 1836 compì un viaggio scientifico in Europa
soggiornando a Parigi, Londra e Bruxelles.
Ma è soprattutto nella capitale francese che stringe
buoni rapporti con François Arago, astronomo
dell’Osservatorio nazionale francese e famoso, oltre
che per i suoi contributi scientifici, per l’opera di
divulgazione con i libri di Astronomie populaire .
Arago e il fratello, esploratore, erano per Verne
grandi amici e fonte preziosa di argomenti.
Altrettanto intenso si sviluppa il rapporto di
Capocci con Arago, del quale traduce e commenta
Lezioni di astronomia professate nell’osservatorio
di Parigi .
«L’astronomo francese — nota Massimo Della
Valle, direttore dell’osservatorio di Capodimonte e
appassionato storico dell’astronomia — era
certamente a conoscenza del libro dell’amico
napoletano e non è difficile immaginare che ne
abbia parlato con Verne. Non esistono finora prove
che il grande romanziere della fantascienza ne
abbia poi tenuto conto nell’ideazione della sua
celebre opera, ma non si può certo escludere data
la stretta coincidenza di alcune idee».
Etna 5 dicembre 2015
Walter Morando
Ernesto Capocci amava scrivere ed era autore di
numerose opere di divulgazione scientifica
(compresa l’illustrazione della Divina commedia
dal punto di vista astronomico) e pure di romanzi
storici tradotti a Parigi. Ma rimane anche uno dei
primi autori della fantascienza italiana e il suo
Viaggio alla Luna è ora meritatamente ristampato
da LB Edizioni di Bari.
di Giovanni Caprara
per gentile concessione del Corsera 4 gennaio 2016
20
davanti al dito che indica la luna, si concentra sul
dito”.
“Roberto Vecchioni – aveva concluso Orlando – ci
ha ricordato che la Sicilia, tutta la Sicilia è davanti
ad un bivio e che prendere la strada giusta o
sbagliata dipende soprattutto dai siciliani”.
POLEMICA
La Sicilia? “Un’isola di merda” perché non si
ribella. Parola di Roberto Vecchioni, ospite della
Facoltà di Ingegneria di Palermo per un
incontro organizzato dall’associazione ‘Genitori e
figli: istruzioni per l’uso’, in collaborazione con il
Cidi di Palermo, dove era stato invitato per parlare
di cultura. Il cantautore-professore se la prende con
i siciliani, che definisce la “razza più intelligente al
mondo”: “Non amo la Sicilia che rovina la sua
intelligenza e la sua cultura, che quando vado a
vedere Selinunte, Segesta non c’e’ nessuno. Non
amo questa Sicilia che si butta via“, dice mentre le
telecamere lo riprendono. Molti hanno pensato le
stesse cose, vagando fra gli antichi templi puntellati,
le chiese meravigliose e abbandonate, i siti
archeologici immersi nel silenzio.
«Dovrei dire che siete la culla della Magna
Grecia? Ma la storia antica, la poesia antica, la
filosofia antica hanno insegnato a tutto il mondo
cosa è l' originalità della vita. Questo in Sicilia non
c'è». Un giudizio impietoso, o forse una
provocazione, quella lanciata nell’aula magna
davanti a centinaia di ragazzi e docenti, qualcuno
dei quali lascia la sala per protesta. Mentre il
sindaco di Palermo Leoluca Orlando gli dà
ragione: “Roberto Vecchioni conferma di essere un
grande amico della Sicilia e dei siciliani”. Perché,
sostiene il primo cittadino, “con le sue parole ci ha
ricordato che la Sicilia merita di più di ciò che ha
oggi”. Nel suo intervento, il cantautore non
risparmia dure critiche: “La filosofia e la poesia
antiche hanno insegnato cos’è la bellezza e la
verità, la non paura degli altri, in Sicilia questo non
c’è, c’è tutto il contrario – aggiunge – E mi sono
chiesto prima di arrivare qui, se dovevo dirle
queste cose a voi ragazzi”.
Poi rincara: “Non avete idea di cosa sia la civiltà, la
colpa è vostra”. Mentre in sala, qualcuno si alza e
una insegnante urla: “Canta, canta, evita di
parlare, oppure te ne vai”. Ma Vecchioni prosegue:
“Da 150 anni qui non succede nulla”.
Poi se la prende con la presunta mancanza di senso
civico: “Arrivo dall’aeroporto e 400 persone su 200
sono senza casco, questo significa che non si
conosce il senso dell’esistenza con gli altri.
E’ inutile che ti mascheri dietro al fatto che hai il
mare più bello del mondo, non basta, sei un’isola di
merda perché non ti ribelli”. Parole che scatenano
sui social network la rabbia di molti.
Ma c’è anche chi sostiene che “ha assolutamente
ragione. Chi punta l’attenzione su alcune parole
forti e colorite usate dal cantautore fa come chi,
Il motivo principale forse sta nela notizia appena appresa
da Vecchioni dell’ “Inchino” davanti alla casa di un
boss. Di nuovo. È accaduto durante la processione a
Paternò, in provincia di Catania. Si stava festeggiando la
patrona, Santa Barbara, quando due cerei, portati a spalla
da alcuni portantini, si sono fermati davanti alla casa
della famiglia di un pluripregiudicato degli «Assinnata»,
vicini alla cosca Santapaola. L’uomo si trova
attualmente in carcere per associazione a delinquere di
stampo mafioso. La processione si è fermata ed è stata
intonata la musica del Padrino. Il comando provinciale
dei carabinieri ha segnalato l’episodio e i due «cerei»
sono stati fermati. Il Questore di Catania Marcello
Cardona ha definito l’episodio «una chiara
manifestazione della forza intimidatrice, tipica del potere
mafioso»
Fa da controcanto, dal suo blog, Roberto Alaymo
GIOIE DEL CILICIO
La voluttà è cominciata con Vecchioni e la
polemica dal titolo "Sicilia, isola di merda".
Poi la questione del concerto in piazza la notte di
capodanno. Ora le barricate contrapposte sulla ZTL
di Palermo. Tutte violentissime tempeste
internettiane nelle quali ognuno sembra avere
un'opinione precisa e ultimativa, ferocemente
impermeabile a quella degli avversari.
La voluttà consiste non tanto nel non avere opinioni
in proposito, ma nel tenersele.
All'inizio era uno scrupolo istituzionale: visto che
ricopro un ruolo di vertice in un ente pubblicamente
partecipato, mi sono dato la regola di non
intervenire sui temi caldi della politica regionale e
cittadina. Questo per non rischiare di coinvolgere
l'ente che dirigo in opinioni che sono e devono
restare soltanto mie.
Ma poi mordersi la lingua è diventato un piacere
sottile che si è impadronito di me.
Come la corsa dopo aver rotto il fiato.
Come la felice fatica dello scrivere.
Come la mortificazione della carne che certi asceti
medievali praticavano ricavandone un'estasi così
difficile da comprendere, per noi figli della
modernità.
Ma davvero: non immischiarsi in un'epoca in cui
tutti pensano di doversi immischiare su tutto, è un
privilegio sottile e impagabile.
21
Notizie dal “Sodalizio”
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
Alle Officine Solimano
SCIENZA SAVONA
Siamo fraternamente vicini al nostro caro amico e
socio Filippo Giusto per la perdita della sua amata
Stella Acquaviva Venturino, che gli ha dato tre
magnifici figli, a uno dei quali, Lorenzo, ha
trasmesso la vena artistica dei suoi genitori il
futurista Giovanni Acquaviva e la poetessa Anna
Maria Traverso (in arte Annaviva).
Stella ha trascorso gli ultimi venti anni della sua
vita combattendo strenuamente contro un male
insidioso che minava le sue resistenze, talchè più
volte ha rischiato il peggio, riprendendosi sempre
caparbiamente con l'aiuto della sua splendida
famiglia e della cugina-sorella Rosemarie Traverso
(anche Lei nostra socia), finchè l'ultima crisi, sia
pur banale - le è stata fatale.
Coraggio, determinazione e amore per la vita
l'hanno portata a godere i suoi periodi di buona
salute seguendo i figli e partecipando alla vita
culturale savonese (non è molto che l'avevamo vista
al Nuovofilmstudio). Le abbiamo voluto, Le
vogliamo, Le vorremo bene.
Martedi 16 febbraio ore 17,00
in collaborazione col Liceo Scientifico e gli Amici
del festival della Scienza, il M° Angelo MULE’,
nostro socio, presenterà
PRIMA LA MUSICA, POI LE PAROLE
Spettacolo nell’ambito di un progetto musicale
Con doppia replica mattutina per le scuole
Mercoledi 10 e Giovedi 11 febbraio
Alle Officine Solimano
MONDOVISIONI
I documentari di INTERNAZIONALE
Rassegna Cinematografica Umanitaria
Tutti in anteprima Italiana
Ingresso gratuito ore 20,30
21 gennaio CARTEL LAND
28 gennaio LIFE IS SACRED
4 febbraio VOYAGE EN BARBARIE
11 febbraio EN TIERRA EXTRANA
26 FEBBRAIO Sala Rossa Comunale ore 16,30
Giuseppe LO PILATO
Direttore del Giardino della KOLYMBETRA
(sito FAI nella Valle dei Templi di Agrigento),
presenterà anche con immagini, le bellezze del
luogo e le attività FAI che vi si svolgono.
20 dicembre 2015
Consegna dei premi «A Campanassa ringrassia», al
nostro Giusto Franco, illustre Maestro, pianista e
compositore. Un “giusto” riconoscimento.
Abbiamo il piacere di comunicare che ENZO
MOTTA è stato eletto Presidente della Croce
Bianca, a riprova del suo e nostro felice
radicamento in Savona e di una ulteriore
cooperazione alle attività cittadine.
Rinnoviamo gli auguri per un sereno 2016
Santuzzo
Buon lavoro Presidente !
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