sodalizio siculo savonese
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sodalizio siculo savonese
2016 numero 1 – Gennaio -Febbraio Email: [email protected] Picciotti carissimi,vasamu li mani. Buon 2016 a tutti - Fra i buoni propositi….. Quanto più bella sei,vecchia Savona, Dal dì che a Roma desti Pertinace La cieca Dea giammai non abbandona Gente come la tua forte e tenace. Intorno a te perennemente tuona Alto il fragor delle arti della pace E sull’onda del tuo porto risuona Dei baldi marinai il grido audace. Madre di Grandi in terra e in mar ti vanti, Dei due Papi e Pancaldo ognor favella Il mondo e di Chiabrera e de’ suoi canti. Il 12 gennaio scorso il nostro socio e amico Manlio Cammarata ha compiuto in buona salute 95 anni , a riprova che essere Soci del “Pirandello” fa bene. Auguri. Col tuo poeta alla Benigna Stella Ancora alzan la prece i naviganti “In mare irato in subita procella” L. Graffagni Inviateci dall’amico Giuse Cervetto che collabora nella segnalazione di prezioso materiale , ecco tratto - dal Numero Unico "SAVONA e SPEZIA di notte" del 15.09.1907 un Sonetto dedicato a Savona e - dalla rivista "CINEMA-quindicinale di divulgazione cinematografica" del 10.09.1936 – (XIV) Immagini di Luigi Pirandello e di Angelo Musco, sul set di “Pensaci Giacomino” 1 Altamura ha anche un ricco museo di tradizioni popolari. Poi prosecuzione per Gravina: imponente castello federiciano sulla collina che domina l'abitato e ammirevole cattedrale Gravina fa onore al suo nome anche con una vasta rete di vie sotterranee, in gran parte visitabile. Domenica a Metaponto; qui la Magna Grecia domina museo e siti archeologici meritano una visita accurata. Sulla via del ritorno visita a Bernalda: bello il paese e imponente come sempre il castello che domina la pianura sottostante. Passiamo anche da Montescaglioso attratti dalle grande Abbazia di S. Michele una guida molto preparata ce ne racconta la storia - veramente affascinante - fra fondazione distruzioni e ricostruzioni. Il 4 gennaio, passiamo da Massafra: una grande gravina disseminata di grotte e di chiese; un castello in restauro, una imponente cattedrale medioevale, guide competenti e appassionate. Infine Gioia del Colle: in pieno centro oltre alle (ormai) solite belle chiese, uno straordinario castello normanno- svevo dallo stile diverso da tutti gli altri (due grandi torri a parallelepipedo con bugnature scure arrotondate) e un imponente corpo centrale. Nel suo interno sale splendide anche se spoglie e un museo archeologico alimentato esclusivamente da un sito soprastante la città. Come sempre la mia caccia ai centri del Sud scarsamente reclamizzati, ma di grande attrattive, ha dato buon esito. Peraltro si stanno moltiplicando iniziative di giovani locali per la valorizzazione del territorio che, battendosi spesso anche contro l'inattività della burocrazia e della politica restaurano e gestiscono siti trascurati da secoli. Un discorso a parte merita la gastronomia apulolucana (non ci sono grandi differenze fra le due regioni nelle zone confinanti). Quasi tutti i ristoranti hanno un orto proprio e la cucina è fatta prevalentemente da verdure: ci sono serie di antipasti che valgono un pasto intero: legumi, purè di fave e cicoria, tortini di patate e funghi, peperoncini "cruschi" sformati verdi di tutti i tipi, le famose cime di rapa, e via coltivando. Eccellenti anche i primi (sempre pasta fatta in casa) e i secondi di carne (il pesce sulle coste). Il tutto armonizzato dall'ottimo rosso primitivo di Manduria (buonissimo anche quello servito sfuso), e prezzi sempre modici. Ancora una volta il Sud ci ha rivelato le sue attrattive nascoste. DIARIO DI VIAGGIO di ENZO MOTTA Decisione all'ultimo minuto: A Capodanno si va a Matera; la notte festa quale anteprima dell'anno 2019, in cui la città sarà capitale europea della cultura, e poi in giro per castelli, musei e monumenti di cui la regione è ricchissima. Grazie alla dedizione di Vilma Pennino, nota agente di viaggi e già assessore al Turismo, di Savona, troviamo fortunatamente voli, alberghi e auto. Il 30 dicembre volo Genova-Bari; il 31 siamo a Matera che si sta facendo bella, ma già ora è estremamente interessante e godibile; visita al Sasso Barisiano e al Duomo (purtroppo chiuso) sosta per la cena e poi in piazza (e dintorni) per seguire la diretta RAI di capodanno sulla scena e sui teleschermi disposti strategicamente. Il 1° gennaio (tardi) visita del centro città ricco di chiese (magnifica la chiesa di S. Giovanni Battista, romanico puro all'esterno e all'interno) e di bei palazzi; nel maestoso Palazzo Lanfranchi il grande quadro dedicato a Matera e a Rocco Scotellaro da Carlo Levi, e mostre di arte medioevale e ottocentesca; in un ex convento restaurato il ricchissimo e ben ordinato Museo Archeologico (le testimonianze della Magna Grecia sono copiose in tutte le città e i paesi della Basilicata e della Puglia). La sera presepe vivente nel Sasso Caveoso: una indimenticabile suggestione. Il 2 gennaio escursione ad Altamura con l'unica cattedrale fatta costruire personalmente da Federico II (la Puglia fu la sua terra d'elezione, come la Sicilia era stata quella della sua formazione) la cattedrale molto bella all'esterno, è stata pesantemente rimaneggiata al suo interno. Rimane comunque bellissima. 2 Il riflettore sarà robotico e fruibile “in remoto”, in pratica studenti, ricercatori e scienziati da qualsiasi luogo del pianeta potranno collegarsi on line e accedere al centro operativo di controllo per effettuare ricerche astronomiche, osservazioni di pianeti extrasolari. La scelta di Isnello come punto di osservazione ideale risale agli inizi degli anni ’70, quando gli astronomi italiani indicarono Piano Battaglia come il luogo migliore per osservare il cielo e ospitare il telescopio nazionale. Dopo 40 anni, la stazione planetaria e’ diventata realtà: il Pam sorge, infatti, sulla sommità di Monte Mufara, che con i suoi 1.865 metri d’altezza e’ il sito osservativo astronomico piu’ alto d’Italia, nel parco delle Madonie. “Il progetto del Parco astronomico di Isnello e’ un gioiello dell’umanità: il suo telescopio sarà capace di osservare uno spazio di cielo dieci volte il diametro della luna piena e di esaminare 50 miliardi di galassie” ha detto il premio Nobel George Fitzgerald Smoot, le cui ricerche hanno permesso di comprendere la struttura dell’universo. Per il sindaco di Isnello Giuseppe Mogavero, che ogni anno riunisce sulle Madonie i maggiori astronomi ed astrofisici internazionali, il Pam permetterà un’immersione a 360 gradi nel mondo dell’astronomia a curiosi, studenti, scienziati ed appassionati che potranno seguire sul campo il lavoro degli studiosi”. In Sicilia nasce il Parco astronomico più innovativo d’Europa: sarà una stazione planetaria. Sara’ inaugurato ad Isnello, nel palermitano, in primavera il Parco astronomico delle Madonie (Pam), che vanta il primato di essere la piu’ innovativa stazione astronomica d’Europa. A presentarlo a Palermo e’ stato il premio Nobel per la Fisica George Fitzgerald Smoot, l’astrofisico e cosmologo statunitense che e’ stato il primo a fornire una prova della correttezza della teoria del Big Bang. Il Pam e’ stato realizzato con un finanziamento di 15 milioni di euro (di cui 7,5 a carico del Cipe); e’ dotato di una stazione osservativa per la ricerca, un grande planetario digitale con 75 posti, una terrazza osservativa con 12 strumenti di osservazione, un radiotelescopio con parabola di 2,3 metri, un laboratorio astronomico all’aperto con orologi solari di vario tipo, un mappamondo monumentale con supporto ed asse di rotazione, un planisfero, laboratori didattici e un museo multimediale. La stazione di ricerca ospiterà un telescopio dotato di uno spettro visivo pari a dieci volte il diametro della luna quando e’ piena. 500 catanese simil carretto 3 famiglia: per adesso è un'azienda a conduzione familiare". Da quanto tempo c’è? "Siamo aperti al pubblico dal 15 dicembre 2013. Ma ho iniziato nel 2012 Hai avuto aiuti pubblici? Chi lavora a questo progetto? "Non ho ricevuto nulla né da enti pubblici che statali, né progetti europei né a fondo perduto. Abbiamo fatto tutto con le nostre forze: cosa che, se da un lato ci rende orgogliosi, dall'altro ci porta a lavorare spesso con una certa lentezza. Ovviamente siamo seguiti da commercialisti, legali e agronomi". Che cosa produce un allevamento del genere? "Un allevamento del genere produce latte, che viene venduto come latte fresco crudo o come prodotti derivati. Infatti l'azienda ha tre linee di produzione, una lattiero casearia, una dolciaria e una cosmetica. Tre laboratori artigianali già collaborano per la linea dolciaria, che produce biscotti e cioccolato. Poi c'è quella cosmetica che ha prodotti per il bagno e per la cura della persona. Inoltre in azienda facciamo attività didattica per bambini ed adulti". Insomma, un bel da fare. Dici che questo tuo percorso era scritto nel destino…perché? "Diciamo che sono una persona molto determinata e testarda, quando voglio una cosa la ottengo. Era scritto nel destino perché Fragalà, il mio cognome, deriva dall'arabo. Apparteniamo alla seconda dominazione araba in Sicilia, e significa Gioia di Allah. Dunque il rapporto con i dromedari era scritto nel mio Dna". Hai investito soldi? Quanti? “Tanti". E’ la tua attività principale? Ti permette di guadagnare? "Sta divenendo la mia attività principale, perché richiede molto tempo. Per adesso tante uscite e poche entrate: speriamo bene nel futuro. Ovviamente è una cosa che sapevamo, abbiamo iniziato da poco, stiamo lanciando un prodotto nuovo, adesso aspettiamo la risposta del mercato". Mettersi in proprio in Italia si può? "L''Italia è un bel paese, potrebbe dare tanto, ma in questo momento sta vivendo non solo una crisi economica e politica, ma una vera e propria crisi di identità. Più volte ho pensato di fuggire, scappare oltre i confini, magari verso una meta fatta di certezze, ma poi ripenso a quello che lascio a quello che qui ho, e che fuori dall'Italia non avrei più. Allora ho deciso di mettermi in gioco, scommettere qui, soprattutto nella mia Sicilia. Speriamo di non essere deluso". "Contro la crisi allevo dromedari" Una favola araba in terra sicula Lui si chiama Santo Fragalà: classe 1988, catanese, medico veterinario laureato con 110 e lode che ha deciso di aprire un'azienda agricola tutta sua. Il primo in Italia e secondo allevamento di dromedari in Europa è a Trecastagni, in provincia di Catania. La fattoria "Gjmàla", di contrada Ronzini, produce già cosmetici e dolciumi a base di latte di dromedario per adesso importato nella sua versione in polvere dall'Olanda, ma il latte fresco viene prodotto proprio dagli animali - due femmine e un maschio - che costituiscono il primo nucleo della fattoria etnea. Come ti è venuta l’idea di un allevamento di dromedari in Sicilia? "Durante il dottorato, facendo una ricerca sui fosfolipidi nel latte di diverse specie, mi capitò di leggere un articolo sulle qualità del latte di dromedario. Fu quella la scintilla che ha scatenato in me la voglia di proseguire nella ricerca e di realizzare l'idea di aprire un allevamento qui in Italia. Inoltre mi occupo di animali esotici, dunque la possibilità di lavorare ogni giorni con i dromedari mi ha reso felice!" Quanti animali hai? Li curi tu? "Per adesso abbiamo tre esemplari, un maschio e due femmine. Carmen, Jamila e Mustafà sono i tre mammiferi di provenienza europea (due animali sono italiani e uno olandese).Una femmina riesce a produrre sino a 20 litri di latte al giorno, dunque in una fase di startup, ho deciso di iniziare con una produzione minima allo scopo di evitare l'invenduto non sfruttando esageratamente gli animali. "Ogni femmina produce dai quattro ai venti litri di latte al giorno, in media sono sette. Il Camelusdromedarius produce più latte dell'asina, l'animale con il quale compete sul mercato per la produzione di latte alternativo a quello vaccino spiega Fragalà - Il suo latte è adatto per gli intolleranti perché povero di caseina, ottimo per i bimbi, cinque volte più ricco in calcio e tre volte più ricco in vitamina B di quello vaccino. Utilissimo anche per i malati nefropatici in dialisi e persino per i malati terminali con difficoltà di deglutizione".Se la richiesta del mercato aumenterà sono già pronto a prendere altri animali. I paddock e le strutture sono già pronte. Li curo io e la mia 4 L’ANGOLO DELLA POESIA ASSOLUZIONI URBI ET ORBI (dialugu) Durante la programmazione natalizia, Rai5 (complimenti alla rete) ha presentato lo spettacolo teatrale “Napoli legge Napoli”, con un grande Toni Servillo che ha recitato fra gli altri, i seguenti splendidi versi: - Iu nun capisciu, cumpari Mircioni, pirchì lu Papa, di lu Vaticanu, affaccia e duna l’assoluzioni all’orbi e no a li Surdi...è un fattu stranu ! A mia ‘un pari una giusta azioni, puru lu Surdu è un bonu cristanu, e merita rispettu, attinzioni, e un trattamentu nobili ed umanu. - Mai cumpari, facitivi scienti: l’Orbu ‘un ci viri, ma teni la ‘ntisa e l’assoluzioni si la prendi! Lu Surdu, inveci, puru ch’è prisenti, d’una assoluzioni nun cumprisa chi nn’havi a fari siddu nun la senti?? Nfnunno Vulesse cammenà pe’ sottoterra striscianno cumm’ ‘a vverme int’ ‘o turreno zucanno ‘o grasso ca scenness’ ‘a coppa e me facesse chiatto tunno e forte. Pò scennesse cchiú sotto e me mpizzasse sotto sempe cchiú sotto sotto nfunno fino a quanno truvasse l’ummetore ca me dicesse: sotto ce sta ll’acqua. AdS E quanno ce arrivasse dint’ a ll’acqua me ce menasse ‘a rinto cumm’a pesce, cumm’a pesce cecato e me magnasse ‘e pisce piccerille ca truvasse senza manco ‘e verè. Po’ che facesse? 5 gennaio 2016 Rinasce Peppino Impastato, dopo avere compiuto centomila passi nelle nostre coscienze fragili e terremotate. Rimane, tornando al mondo, nella traiettoria di luce in cui l'hanno tenuto tante buone persone, nutrite dall'ansia della giustizia e dall'orrore per il disonore. E si ritrova contento di trovarsi ancora dove aveva messo piede in terra nel 1948, perché quel suolo, sempre sull'orlo dell'abisso, è sempre più scaldato dal sole e dall'amore di tanti uomini buoni che camminano sulle orme dei suoi passi, seguendo le onde delle sue parole. Roppo me menasse sempe cchiú sotto anzin’ ca sentesse ‘a puzz’ ‘e zurfo e finalmente ‘o ffuoco! Me ce menasse ‘arinto e me sperdesse vulanno e zumpettianno ncopp’ ‘e ffiamme e ce campasse, gnorsí, cumm’a diavule! Eduardo Versi, suoni,che diventano canto e che solo grandi autori e grandi interpreti fanno giungere al cuore. Angelo Guarnieri ANNU NOVU La storia si ripeti... gran discursi abbrazzi e vasi ccu chistu e ccu chidda, poi passanu li jorna e s’arrifridda lu beddu slanciu e riturnamu URSI. E ‘ncuminciamu arreri!... una faidda e torna l’astiu di li jorna scursi, l’armamenti farannu li so’ cursi, minazzi, ‘nzurti e la guerra fridda!! E l’atomica spara in Orienti, l’America rispunni lesta lesta, e radiu-attività a li quattru venti. Si li popoli ‘un scippanu la testa a quattru criminali dilinquenti lu munnu è sempri navi in gran timpesta. 5 gennaio 1948 - 9 maggio 1978 AdS 5 Devoto solo alla Tua bellezza, ora m’accorgo che troppa grazia occorre per suffragare i miei sogni, rosa fresca e aulentissima, baciata dalla rugiada del pianto. Mi resta la solitudine dell’acqua ch’è solitudine di morte, quella dell’isola che visita solo se stessa nell’infinità della sua corte. ELEGIA SICILIANA In un fiotto di dolore, una lacrima m’è sfuggita dal volto ed è caduta in mare come tormento di speranza lontana L’onda peregrina senza mai sostare, la donerà alla Sicilia, posandola dolcemente sulla sua marina che bacia la terra con il seme dell’eterno sorriso. Accoglietela uomini della mia regione avita fino a quando tutto se ne andrà e non sappiamo chi verrà a vivere la nostra verità qui nella misera contrada del creato. Le stagioni prendono il posto d’altre stagioni nel tempo che mai più sarà come inquieta tenerezza che turbina e non appare, e l’infelicità ha già usurato il mio animo d’uomo, rimasto un’ identità di pietra come una ceramica a lustro, di Liguria. Alimento che ancora mi conforta e subito non scompare è il ricordo dell’Etna che si fa luce con il suo fuoco, cantato da chi il volgare ha reso lingua dei dotti, tra i confidenti delle umane signorie. Il palpito amato della poesia allora torna a prendermi e si ridesta viva la memoria d’antiche brame che mi gettano di slancio dove regna la malia suggestiva del mito di Arione tra ombre di voluttà e raffinate ebrietà. Il tempo m’assedia come l’onda che s’infiltra tra i tuoi bastioni rocciosi ed io vorrei rivederti isola bella in una sinfonia di silenzi per ascoltare il palpito del mio cuore alle più alte frequenze dell’amore che giungono dal cielo. Tutto si stempera nel nulla in un’armonia fugace ma l’Ave Maria ancora mi ammanterà di fede devotissima sotto il fulgido diadema del duomo di Messina. Così ogni mio cruccio d’uomo sarà irretito da una dolce sorte e la verità sovrana che libera da quel mondo ch’è niente porterà la mia anima dubbiosa ad una vita nuova, giammai corrosa dalle lacrime come riverbero di luce per le mie rughe e della morte come approdo all’isola celeste. Mi resta l’anelito dell’isola celeste d’ellenica memoria dal fertile suolo,ingemmato di buganvillee, per primo amato dai Sicani. Paradiso in terra, fecondato dal profumo delle zagare, è stato cantato dai coloni d’Alceste come fornace sempre infuocata dall’amore per la vita, pur trascinata dal fato gravoso del dolore. Così t’ho conosciuta e risorgi ogni giorno fatalmente bella nel mio amore lontano che sempre anela nutrirsi alla cornucopia dei tuoi sapori, fecondi della civiltà del nostro mare. Non potrà dissolversi nel silenzio la Tua fiera tempra d’Anteo. Come la bellezza d’Antinoo, la Magna Curia di Federico II non perirà così come il tempio normanno che ha sposato con l’oro fino il credo mussulmano. I Tuoi germogli dell’italica parola continueranno a fecondare civiltà, fedeli al suo desco regale, il cui ricordo mi rende lieto, come il senno di giustizia d’antico lume, donato dalla terra liberata alla nostra Costituzione. Tu resti nel mio cuore come leggenda senza fine che pare vera mentre tutto passa e rinnega l’effige d’ogni piacere, desiderato invano. Etna gennaio 2016 6 Continua la pubblicazione del libro dell’amico Umberto Gugliotta: DETTI E PROVERBI Sapiri quattru coccia di littra. Saccu vacanti nun po’ stari a l’additta. S’avissi lu culu comu la vucca, cacassi vucciddati. S’avissi pignateddu, ogliu e sali mi facissi lu pani cottu…e s’avissi lu pani. S’avissi….. e si fussi……mureru poviri. Saggizza e donna cchiù ci ‘nnè, cchiù ni abbisogna. Sant’Antoni gran friddura,San Lorenzu gran calura;l’unu e l’autru picca dura. Sapi ‘cchiassà lu pazzu ‘ncasa sò…..ca lu ‘saggiu’ ‘ncasa d’atru.…… S’arripara dunni chiovi. Sceccu e maritu accattilu puddithru. Sciatara e materedda e funnu di quadaredda. Sciroccu chiaru e tramuntana scura, mettiti a mari senza paura. Sciumi chi grida passalu sicuru….scantati di chiddu chi dormi. Scrivicci…’carni di porcu’. Scrusciu di carta assà e cubata nenti.. Secunnu pagaziu, serviziu. Sedi, sedi cà bedda vintura ti veni. Sempri tri vutti ci fà la vigna. Senza dannu miu Diu. Servu d’atru si fa,cu ccì dici lu sigretu chi sà. Si arrivu a capud’annu campu natr’annu. Si cchiù vecchiu di la Bibbia. Si c’è ogliu a la lampa, lu malatu campa. Si la furtuna ‘nnì vulissi aiutari, avissi a moriri vostru maritu e mè muglieri. Si lu ‘mmernu nun ‘mmirnìa, si l’estati nun estatìa,nun và a versu la massaria. Si ‘mpiduglia. Si ‘mpristari fussi un beni, s’impristassiru anchi li muglieri. Si fici lu ‘cucchiareddu’. Si hà la ‘prostata’ mettiti lu cori mpaci…cu li fimmini nun sì cchiù capaci. Si junceru gasparu, minzioni e panzamodda. Si mi vidi, tì jucavu, si nun mi vidi t’arrubbavu. Si nuddu ‘mmiscatu cù nenti. Si nun ccì fussi lu viddanu, nun purria campari lu galantomu. Si nun fussi pi lu nostru ‘ntentu, nun si dicissi lu patrinostru a un santu. Si nun si vidi lu miraculu, nun si cridi a lu Santu. Si si metti a tramuntana….attacca a chioviri pi ‘na simana. IL ROSARIO DEL VESCOVO CAPITOLO 2 Donna Gerardina Tornabene d’Altomare scendeva dal piano nobile verso l’imponente androne, quando udì la campana dell’orologio della vicina Cattedrale di San Giovanni Battista sonare la mezza delle ore sette pomeridiane; allora s’arrestò sul quarto dei ventisei gradini di cui si componeva il monumentale scalone e, sorridendo, si congratulò con sé stessa per avere -come le piaceva dire“l’orologio in testa”: la decisione pronosticata “scenderò alle diciannove e trenta in punto”- aveva avuto, ancora una volta, giusto riscontro. Questo pensiero la accompagnò per i restanti ventidue gradini che, come d’abitudine, percorse a testa alta e con naturale flemma; il brusio, che fino ad allora era salito dal piano terra, d’un tratto tacque. Segno, questo, che agli invitati era giunto il cadenzato echeggiare dei passi della padrona di casa. Il sole, ormai al tramonto, con i suoi ultimi guizzi sfuggiti alle incerte trasparenze dei vetri, inondava di rosso le pareti dell’atrio, mentre i cristalli di sei lampadari collocati ai lati della gradinata, sopra il marmo delle balaustre, li rimandavano moltiplicandone lo splendore. Non a caso donna Gerardina aveva scelto quell’ora per mostrarsi; era quella -e lei lo sapeva bene- l’ora in cui la luce metteva in risalto, al meglio, la magnificenza del palazzo e dello straordinario parco che lo circondava. Proprio quando gli estremi bagliori frugavano, ad uno ad uno, alberi, cespugli, arbusti, fiori, tutte piante le cui progenitrici erano state acquistate, nel corso di secoli, in ogni parte del mondo, e nel momento in cui le statue di tufo antico, sparse qua e là sull’erba accuratamente rasata, sembravano prendere vita, l’architettura del palazzo, esponendosi alla dolce aria dell’incipiente estate, accoglieva su ogni cosa, l’intonaco, le finestre, le porte, gli archi, i chiostri, i legni dei bersò sulle terrazze, i balconi, i tetti, un fulgore languido che le rendeva, agli occhi, quasi evanescenti. Distante dal palazzo almeno cinquecento metri, quasi sul confine della tenuta, vicino al prezioso cancello che interrompeva il muro di cinta, vi era la dependance che ospitava parte del personale di servizio, quello meno qualificato; la restante parte alloggiava nel sottotetto ed in alcune stanze del 7 piano terreno attigue alle cucine; ciò tuttavia non escludeva che, all’occorrenza, i servitori svolgessero mansioni diverse da quelle normalmente assegnate: così gli stallieri potevano divenire cocchieri, i servitori di sala lavapiatti, i giardinieri contadini e così via. Appena discosti dagli alloggi della servitù, erano stati edificati i magazzini, le stalle per i cavalli, le rimesse delle carrozze e i ricoveri per gli arnesi da giardinaggio. Vi era anche una cappella, anzi una piccola chiesa, alla quale era possibile accedere, percorrendo un passaggio sotterraneo, direttamente dall’edificio padronale dal quale essa distava una ventina di passi; la costruzione, ricavata utilizzando quel che restava di un’antica abitazione, probabile prima dimora della famiglia d’Altomare, eretta nel primo periodo del regno normanno-svevo, ne testimoniava l’antico lignaggio. L’aspetto definitivo del palazzo, quello ancora visibile agli inizi del XX secolo, era stato assunto allorché, distrutto o, quanto meno, gravemente lesionato durante gli eventi sismici del 1693, fu riaccomodato. Per secoli, il magnifico edificio, attorno al quale era nata e cresciuta la città, era stato il luogo in cui regnanti, nobili, autorità civili e religiose, avevano trovato, ciascuno secondo necessità e circostanze, ospitalità, rifugio, ristoro; l’apertura del cancello, se necessaria, non era negata neppure a coloro che, bisognosi, chiedevano di sostare per rifocillarsi e riposare. Quel che si raccontava sulle origini della casata, e quel che gli stessi appartenenti ad essa amavano narrare, null’altro era se non leggenda. In effetti, comunque, sul muro esterno dell’iniziale residenza, fu rinvenuto durante i lavori di trasformazione in luogo di culto, coperto da intonaci e rampicanti, l’antico stemma -uno scudo in pietra- , che, riprodotto ed esposto ovunque nei secoli successivi, raffigurava, in varie tonalità d’azzurro e blu, un’ampia distesa di mare sovrastata dal cielo, perforato nel centro da una stella d’oro zecchino a sette punte, simbolo di gloriosa nobiltà; in basso, appena sopra la punta dello scudo, un cartiglio con la scritta “E maris fragore siderum silentium”. Lo stemma, dunque, ben si accordava con le antiche narrazioni che ravvisavano nell’appellativo d’Altomare il significato di un capostipite venuto da lontano, probabilmente dai territori del medio oriente, percorsi alla ventura con l’impegno guerriero di liberatore della Terrasanta; là, voleva la tradizione, il Crociato era giunto dalle terre, ancor più lontane, del nord Europa; ne faceva fede il significato del nome che portava, Gustavo, che nella lingua svedese ha il significato di “scettro del Re”. Gustavo non tornò nella sua patria; il suo errare senza meta fra terre e mari, lo portò ad approdare casualmente in uno dei tanti porti naturali della Sicilia sud-orientale, dove, ormai stanco e disincantato, decise di stabilirsi, dando così inizio alla sua stirpe. Intorno agli anni 1870/1875, incaricati alcuni ben remunerati studiosi d’araldica, ai d’Altomare fu possibile non solo delineare l’albero genealogico ma anche ricostruire, a partire dai primi anni del 1600, gran parte della loro storia nobiliare, vera e provata, popolata soprattutto da prelati e navigatori; molti di loro, effigiati in ricche tele dipinte con rara perizia, si affacciavano con sussiego dalle pareti della pinacoteca, e non solo. La famiglia d’Altomare, che per ragioni inesplicate persino dagli esperti gentilizi, aveva acquisito, intorno alla metà del XVIII secolo, anche il cognome Tornabene, era sempre stata, nel corso dei secoli, una delle casate più facoltose di tutta la Sicilia; le uniche complicazioni economiche della sua storia le conobbe, com’era naturale che fosse, con l’avvento del Regno d’Italia, complicazioni del resto superate, parecchi decenni dopo, grazie alla dote di donna Gerardina, di cui il defunto marito era stato ottimo amministratore. Quando donna Gerardina giunse al piano terra, nel grande atrio, voltò decisa alla sua sinistra, dirigendosi verso il salotto d’attesa, già rischiarato dai lumi a petrolio, dai ricchi candelabri e da una gran quantità di candele fissate sui lampadari e sulle appliques; tre servitori stavano immobili a discreta distanza dagli ospiti. Sui tavolini addobbati bottiglie di ogni possibile bevanda, bicchieri e piatti di ogni forma e dimensione, scatole di cristallo ed argento con sigari e sigarette, dolci e salatini, frutta, e molte altre cose ancora, riempivano ogni spazio possibile. Donna Gerardina passò fra i parenti del defunto Principe, tutti in piedi, senza pronunciare parola, e si avvicinò al cognato Ignazio, Vescovo di Fontìspano, l’unico rimasto seduto su un’accogliente poltrona; si fermò a circa un metro e disse: - Monsignore, siete il benvenuto nella casa dei vostri avi. Rimase ferma, in attesa, per un paio di minuti, fino a che il Prelato, in silenzio, le tese la mano, adornata da tre anelli, da baciare. La cognata avanzò quanto necessario e si inchinò; poi, avendogli sollevato lievemente la mano con la propria, ne sfiorò con le labbra il dorso; infine, indietreggiata di quattro o cinque passi, rivolse la sua attenzione agli altri ospiti. I rapporti fra donna Gerardina, i tre cognati e le due cognate, anche se non particolarmente intensi erano sempre stati buoni; ciò, d’altronde, era stato quanto 8 di meglio la vedova potesse ottenere, nel rispetto del proprio orgoglio, dai congiunti del defunto marito che, comunque, raramente perdevano l’occasione di sottolinearne l’origine borghese. Solo per i due nipoti, un maschio ed una femmina, la padrona di casa nutriva una tenera ricambiata benevolenza, la stessa che avrebbe avuto per i propri figli, se mai il desiderio di metterne al mondo fosse stato appagato. Il defunto Gioacchino Tornabene Principe d’Altomare, primogenito, aveva avuto, quindi due sorelle delle quali una, donna Palmina, rimasta nubile, gli era premorta, e tre fratelli; anche uno di questi, uno scapolo gaudente chiamato Fofò, diminutivo di Alfonso, gli era premorto. Donna Carolina, l’unica sorella ancora in vita, era presente con la quasi diciassettenne figlia Sofia, ma senza il marito don Gaetano Ajello, impegnato per affari nel Nord Italia. I fratelli superstiti, Monsignor Ignazio, il Vescovo, e don Giovanni, detto Vannino, professore di humanae litterae, avevano accettato di buon grado l’invito, forse non tanto per sincero cordoglio, quanto per l’opportunità, che ne veniva, di poter costatare con i propri occhi, ad un anno di distanza, se e come la cognata Gerardina riuscisse a gestire l’immenso patrimonio di famiglia, senza l’aiuto di chicchessia. Con don Vannino non era venuta la moglie, la baronessa Angelica Arangio, a causa di dissapori, insorti molti anni prima, fra lei e alcuni congiunti del marito. Era invece intervenuto il figlio Errico, vulgo Ricuzzu, un giovinetto di qualche mese più piccolo della cugina Sofia. I primi ad essere salutati furono i nipoti, Sofia e Ricuzzu: li abbracciò e baciò con forza, quasi con violenza, tenendoli stretti ai suoi fianchi e guardandoli con gli occhi pieni di lacrime; rivolse poi ai loro genitori poche parole di circostanza, sedette e fece cenno agli altri di fare altrettanto: i due nipoti li volle vicino a sé, sul divano. Rimase in silenzio qualche minuto, ascoltando i vari rumori che giungevano dai punti più reconditi del palazzo e attribuendo ad essi un significato noto solo a lei; erano suoni rassicuranti perché le dicevano che ogni cosa procedeva secondo gli ordini impartiti. Senza darlo a vedere annusò anche l’aria per verificare che le essenze, insieme all’odore della cera delle candele e del petrolio dei lumi, vi si fossero diffuse. Infine, rivolta ai servitori, fece loro cenno di allontanarsi. Prima di parlare, rivolse uno sguardo attento agli ospiti. - Vi ringrazio per aver accettato la mia ospitalità. Come sapete incaricai Tanu, due settimane fa, di pigliare il calesse e di venire da voi a Fontereale, per portarvi il mio invito per stasera. Tanu partì la mattina presto e tornò a pomeriggio inoltrato, digiuno, stanco e tutto bianco di polvere: “nun avia manciatu nenti, pi paura ca ci veniva notte, mischinu!” E questo per causa vostra! Io vi devo fare un rimprovero, un rimprovero vi devo fare. Tanu mi ha detto che la strada è terribile, che è stato un miracolo se il cavallo non si è azzoppato e se non si sono spaccate le balestre del cabriolet. Io, certo sono un po’ d’anni che non ci passo, me la ricordo buona, tenuta bene. Perché non ci avete fatto mai nessuna sistemazione? Cosa ci vuole a mandare qualche manovale a aggiustarla? Tanu impiegò quasi una giornata per fare, fra andata e ritorno, venti …venticinque chilometri, oltre, naturalmente, al tempo perduto nell’attesa di essere ricevuto da ognuno di voi. Vi pare giusto? Mi chiedo come avete fatto voi ad arrivare, con le vostre carrozze così pesanti, senza che succedesse qualche disastro. - In verità qualcosa successe: si ruppe una ruota alla vettura di Carolina tant’è vero che, con Sofia, dovette approfittare di quella di Ignazio che viaggiava da solo. Là ci restò Mimmo, il suo sovrintendente, per l’occasione cocchiere, a vedere cosa poteva fare…certo che se non ci capita qualcuno a dare una mano, non gli resta che passare la notte accucciato nella carrozza, oppure tornarsene a piedi a Fontereale o venire qua, che tanto è la stessa distanza. Comunque la carrozza può restare dov’è, anche incustodita, ché nessuno “s’a futti”.A meno che donna Gerardina non ci voglia mandare qualcuno a farci l’incontro. Così disse don Vannino, per una volta tralasciando il suo lessico forbito e continuando a ridacchiare nonostante la disapprovazione che si atteggiava sul viso della cognata che subito rimbrottò: - E vi sta bene, vi sta! Ora ci penserete che le cose non si possono lasciare andare alla malora! Dopo aver pronunciato queste parole la padrona di casa tacque stizzita. Don Vannino divenne serio e si schiarì la voce: - Questo lo può fare Voscenza, “ca avi i piccioli!” E pure mio fratello Monsignore, con le spettanti rendite del vescovato e senza contare i lasciti. Un onorato professore come me, anche se Tornabene d’Altomare, certe spese non le può fare e non ci sono speranze che le cose cambino in meglio: le giornate passano e portano solo problemi. Crescere un figlio che tra poco andrà all’Università…non mi ci fate pensare. Per fortuna che un po’ di terra ce l’ho ancora e così il mangiare non ci manca. A 9 me la sorte non mi ha sorriso…si vede che sorride a una sola persona per ciascuna famiglia e nella famiglia d’Altomare toccò a Gioacchino, che incontrò Vossignoria… - Siete monotono, don Vannino. Vi conosco non so da quanti anni, ma di sicuro tanti e tutti pieni di lamenti. Insomma fate quel che volete…se la volete aggiustare, aggiustatela…per me non cambia niente…al vostro paese…a Fontereale…ci sono venuta tanto poco…vuol dire che d’ora in poi non ci verrò affatto. Ricuzzu e Sofia si stanno facendo grandi; fra un anno, un anno e mezzo, potranno venire a farmi visita anche senza di voi.Io, intanto, per la tranquillità di Carolina, qualcuno ce lo mando a portare l’occorrente per aggiustare la carrozza…principalmente i lumi, visto che tra poco annotta. Ciò detto, donna Gerardina si raccolse in sé, mentre lentamente sul suo viso assorto compariva un’espressione di dolcezza che, nei tanti anni trascorsi al palazzo, ben poche persone avevano avuto l’occasione di vedere. Don Gioacchino lo aveva notato subito, quando la conobbe, quel distendersi improvviso della pelle che conferiva al suo volto una levigatezza pari a quello di un ritratto di Madonna. Fu probabilmente quel particolare che rivelò al futuro marito quanta tenerezza celava il suo piglio risoluto. E fu con questo atteggiamento che riprese a parlare: - Domani, sette giugno millenovecentoventitré, sarà trascorso un anno dal giorno della morte di mio marito, di vostro fratello. Non è il primo lutto che, da quando sono entrata sposa in questa dimora, ha colpito la famiglia d’Altomare alla quale appartengo ormai da tanto tempo. Nel giro di pochi anni ci hanno lasciato vostra sorella Palmina, poi vostro fratello Fofò e infine, l’anno passato, il primogenito Gioacchino, mio adorato sposo. Troppe volte i lutti ci hanno costretto a chiudere imposte e porte delle nostre case. Troppe volte. Ho pensato di riunirvi per ricordare mio marito, insieme a Palmina e Fofò, recitando un rosario che possa essere di conforto alle loro anime; Monsignore Ignazio ci guiderà nel dire le preghiere, sempre che lo voglia. L’invito che Tanu portò vi ha già dato notizia dello scopo di questa riunione. Al termine del rosario ceneremo tutti insieme come abbiamo fatto tante volte, in passato. Mi pare che ora possiamo salire…ah, no…dimenticavo,…non ancora. Il tempo di sospirare prima di riprendere a parlare rivolta al cognato vescovo: Monsignore, nella terrazza sulla quale si apre la sala dove ci riuniremo per la cena, ci sono almeno due dozzine di persone che vi stanno aspettando fin dal primo pomeriggio, per avere udienza. Non so come sia uscita la notizia della vostra venuta…e sì che mi ero tanto raccomandata con la servitù…per riceverli tutti occorre tempo, lo so… Sospirò ancora e continuò: Il rosario lo diremo chissà quando…e la cena poi…è meglio non pensarci…visto che andremo a tavola ancora più tardi del previsto, che era già tardi; vi consiglio di mangiare ancora qualcosa…io intanto farò in modo di ritardare la preparazione dei piatti, sennò va a finire che mangeremo roba scotta. segue….. In ricordo di un amico Taranta 10 olio su tela 2012 G.P.Parini una flotta che toccava i porti di New York, Boston, Londra, Liverpool, Marsiglia e Genova. In pochi anni la ditta si trasformò in una holding, che spaziava dal commercio all’attività finanziaria, dal tonno (quasi inutile ricordare a questo proposito l’altro intreccio -relativo alle Egadi- di cui abbiamo già avuto occasione di parlare in un precedente articolo, con i genovesi Pallavicini e i savonesi Brignone) al vino (Marsala, ovviamente, per la commercializzazione del quale i Florio puntarono prevalentemente sul mercato nazionale, posto che Ingham controllava già il mercato americano e Woodhouse quello nordeuropeo; con i successivi investimenti per modernizzare la produzione, tuttavia, Ignazio sottrarrà quote di mercato anche ai concorrenti britannici) e allo zolfo, dove invece il rapporto della famiglia con Ingham è di collaborazione, così come nei trasporti marittimi: nel 1840 Vincenzo fonda, insieme all’inglese, cogliendo tra i primi la necessità di superare la navigazione a vela, la Società dei Battelli a Vapore Siciliani, che sopravvivrà fino al 1936, data di incorporazione nella Tirrenia. Da ricordare, infine, nel 1841, l’acquisizione della fonderia Oretea, destinata ad operare in sinergia con le attività armatoriali della famiglia (si noti anche in questa scelta il parallelismo con quanto avveniva a Genova, dove l’orientamento di Rubattino per la meccanica, in un’ottica inizialmente prevalente di supporto al navale, determinò lo sviluppo dell’Ansaldo) . A queste iniziative seguì anche la costituzione della Società in Accomandita Piroscafi Postali, che in convenzione con il Governo nazionale gestì il servizio verso Genova, Napoli e Malta. Nel 1877 la flotta Florio contava già 41 navi. Nel 1880 iniziò anche il trasporto verso il Nord America, lungo una delle principali rotte dell’emigrazione, fortissima in quegli anni. Seguì, nel 1881, la fusione con l’unica concorrente confrontabile: la Rubattino, nella Navigazione Generale Italiana. Il percorso di Raffaele Rubattino inizia invece con la gestione della corriera postale tra Genova e Milano, in società con i parenti Gavino e Rebizzo, cui si aggiungerà, nel ’41, la vettura di trasporto pubblico ciitadino tra Sampierdarena e Borgo Pila (Bisagno). Intanto, nel 1837, era nata, con gli stessi soci, la Compagnia Lombarda di Assicurazione Marittima, che l’anno dopo, modificata la ragione sociale in “De Lucchi, Rubattino & C.” cambierà anche l’oggetto, mirando esclusivamente all’armamento. L’aprirsi del Regno di Sardegna al liberoscambismo, con la riduzione del dazi doganali In tema di rapporti fra Sicilia e Liguria Dalla penna dell’amico PierGuido Quartero Florio e Rubattino: La nascita della Navigazione Generale Italia Volendo parlare dei più significativi rapporti determinatisi tra Siciliani e Liguri, è inevitabile toccare il tema dell’importante connubio marittimo celebratosi nel 1881 tra Ignazio Florio e Raffaele Rubattino, che diede luogo alla nascita della N.G.I., la compagnia di Navigazione Generale Italiana. A questo importante accordo, sia i Siciliani che il Genovese arrivano dopo una lunga storia che ha visto entrambi impegnati in diversi campi dell’economia, ma sempre con una comune propensione per il rischio, l’innovazione e l’ampliamento degli orizzonti. Se si deve individuare la differenza tra gli uni e l’altro, questa va cercata semmai nella grandiosa e ben nota signorilità dei Florio, che li pose tra i primi attori della Belle Epoque (inevitabile, a questo punto, citare la Targa Florio, istituita nel 1906, ma anche, sotto un profilo culturale anziché sportivo, la fondazione, nel 1900, dell’Ora di Palermo), a fronte della quale si deve riscontrare invece un più preciso impegno politico del Rubattino, coinvolto fortemente nelle lotte per l’unificazione del Paese (e qui in consonanza con altri siciliani famosi di cui abbiamo già parlato e che anche oggi torneranno in ballo per argomenti che vedremo dopo: gli Orlando). Vediamo ora come si sviluppò il percorso delle due parti, prima di raggiungere il momento della fusione. La storia dei Florio ebbe inizio a metà del ‘600 con Tommaso, in Calabria, a Melicuccà e poi a Bagnara. Essendo seguiti a questo il figlio Domenico e il nipote Vincenzo, l’ascesa della famiglia cominciò con Paolo e Ignazio, figli di Vincenzo. Infatti, tra il 1800 e il 1801 Paolo, chiamato anche il fratello Ignazio, si stabilì a Palermo, avviando un florido commercio di spezie e merci rare. Successivamente Vincenzo, figlio di Paolo, approfittando dell’arricchimento della famiglia, acquistò quote del Brick-Schooner Santa Rosalia, iniziando commerci con il Maghreb e poi acquistando altre imbarcazioni, fino a disporre di 11 verso l’Inghilterra, oltre alle dimensioni drammatiche della emigrazione verso il sud e il nordamerica, favoriva una ripresa della navigazione, e peraltro richiedeva un ammodernamento del naviglio. In questi anni, infatti, Genova aveva una flotta poderosa, sia per la navigazione mediterranea che per quella atlantica, ma con natanti esclusivamente di legno e a vela. Tre sole compagnie, nel mediterraneo, possedevano piroscafi: tre ne aveva la flotta napoletana, tre quella di Marsiglia e due quella toscana. Le prime navi a vapore di Rubattino furono il Virgilio e il Dante, cui seguirono Castore e Polluce. Nel 1846, la Compagnia, modificato ulteriormente il nome in “Società dei Vapori Sardi della Ditta Raffaele Rubattino”, acquisirà il Lombardo. Tra il ’52 e il ’53 si sviluppa l’idea di una Compagnia Transatlantica (con linee per il nord e il Sudamerica) e di una Compagnia Orientale (verso Alessandria e Costantinopoli). Gli stessi anni vedono il nostro impegnato nella costituzione dell’Ansaldo. Negli anni ’50 lo sviluppo delle ferrovie, la realizzazione in corso dei trafori alpini, il taglio dell’istmo di Suez, la prospettiva di un grande stato unitario italiano, spingono alla visione ottimistica di Genova come crocevia nei traffici tra oriente e occidente. Tuttavia occorre un ammodernamento delle flotte: nel ’62, Marsiglia da sola dispone di navi a vapore per un tonnellaggio che è pari a dieci volte quello di tutte le compagnie della penisola. Con la crescita, anche da noi, della navigazione a vapore, cresce anche Rubattino, che si è ripreso dal fallimento dell’esperienza transatlantica anche grazie all’intervento di Garibaldi. Questi infatti, nel corso della spedizione dei Mille, in qualità di dittatore, gli riconosce un congruo indennizzo per la sottrazione del Cagliari (sequestrato da Pisacane) e per quella del Piemonte e del Lombardo. Vale la pena di ricordare qui, a proposito di intrecci tra liguri e siciliani, il ruolo avuto da Giuseppe Orlando, fratello del Luigi cui abbiamo dedicato un altro pezzo. Questi, che alla partenza da Quarto era imbarcato sul Lombardo come capitano di macchina, una volta giunto a Marsala, ebbe l’ordine di rimanere a bordo, per difendere i due piroscafi da eventuali attacchi nemici. Vedendo sopraggiungere i borbonici, impedì che questi si impossessassero delle navi, affondandole. E non si è detto tutto, di questo personaggio, che ritroveremo più oltre. Ulteriori sviluppi dell’attività di Rubattino riguardano, prima, l’acquisizione del servizio postale tra Genova, Sardegna e Arcipelago toscano, con estensioni a Marsiglia e Tunisi, e poi l’acquisto, con la collaborazione di Giuseppe Sapeto, savonese di Carcare, della baia di Assab, Mar Rosso, battendo ogni concorrenza internazionale, all’atto dell’apertura del canale di Suez. Questa operazione, finalizzata all’acquisto di una base lungo la nuova linea diretta a Bombay (e successivamente portata fino a Singapore), innescherà la successiva avventura coloniale italiana nel Corno d’Africa. Nel 1880 diviene evidente l’opportunità di operare una fusione delle due società di navigazione più importanti del paese. Lo stesso Francesco Crispi ne è convinto e con lui collabora quel Giuseppe Orlando già citato in precedenza, il quale funge da intermediario tra Ignazio Florio e Raffaele Rubattino (che nel frattempo, nel ’77, è stato eletto deputato). Il 18 marzo 1881 i due sottoscrivono il compromesso di fusione, che prevede la nascita di un nuovo soggetto: la Navigazione Generale Italiana, società riunite Florio & Rubattino, cui i siciliani contribuiscono con 32.000 tonnellate di naviglio contro 30.000 dei genovesi. La sede è prevista in Roma, con due direzioni operative, una a Palermo e una a Genova. Il progetto viene approvato dalla Camera il 5 luglio 1881 e, sette giorni dopo, segue l’approvazione del Senato. Raffaele Rubattino morirà di febbri malariche neanche quattro mesi dopo. Ignazio Florio, anche lui entrato in Parlamento, ma come Senatore, nel 1883, vivrà fino al 1891. La Navigazione Generale Italiana, nel 1832, darà vita, con Lloyd Sabaudo e con Cosulich Società Triestina di Navigazione, alla società Italia Flotte Riunite. 12 Ognuno di loro rappresenta un paese e cerca di promuovere le sue istanze e i suoi interessi sullo scacchiere internazionale. Discutono di sicurezza informatica, di potenza nucleare, ma anche del conflitto siriano, dell’affermazione del gruppo Stato islamico, del ruolo della diplomazia globale, propongono mozioni, prendono la parola, votano risoluzioni. Fuori delle aule climatizzate e oltre le mura del campus di 450mila metri quadrati della New York University, inaugurato nel maggio del 2014 dopo quattro anni di lavori, si stende il deserto. La zona di Saadiyat Island, dove sorge il campus, si trova lungo la costa appena fuori Abu Dhabi. In lontananza si scorgono i profili dei grattacieli che arrivano fino al lungomare della città e intorno ai ventuno edifici che compongono il campus è pieno di cantieri, gru, camion che trasportano materiali. Il governo ci tiene molto a rispettare la scadenza del 2020 fissata nell’ambito di un progetto da quasi 25 miliardi di euro per trasformare questo lembo di deserto in un complesso commerciale, residenziale e ricreativo dove dovrebbero essere costruite anche le sedi dei musei del Louvre e il Guggenheim. Per ora la strada che arriva al campus finisce contro un muro e torna indietro. L’inaugurazione in pompa magna dell’università, cui ha partecipato anche l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, e l’iscrizione per l’anno accademico 2015-2016 di oltre novecento studenti di più di cento paesi del mondo hanno cercato di mettere a tacere le polemiche scoppiate dopo le inchieste del New York Times e del Guardian sulle dure condizioni di vita degli operai impiegati nella costruzione del campus. Ragazze di Abu Dhabi con il capo coperto siedono accanto alle loro coetanee di Catania in minigonna, perché, come sostiene Morgan Whitfield, insegnante di storia e geografia alla Cranleigh school di Abu Dhabi, “i ragazzi nel profondo sono tutti uguali, ci sono più analogie che differenze”. Durante il laboratorio formativo i ragazzi si confrontano e acquisiscono quelle soft skill, come la capacità di parlare in pubblico, di lavorare in gruppo e di esprimersi in una lingua straniera, che troppo spesso restano fuori di programmi scolastici. È una generazione molto pratica, che vuole la concretezza, e che purtroppo è anche cinica. Ma soprattutto “imparano il rispetto per gli altri, il rispetto per le culture diverse dalla propria”, spiega Claudio Corbino, presidente dell’associazione Diplomatici e fondatore nel 2011 del progetto Change the world, che a marzo porterà per il quinto anno di seguito circa duemila ragazzi al palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York. Una iniziativa nata a Catania *L’associazione Diplomatici è una scuola di formazione costituita da personalità della cultura italiana e internazionale, da studenti e docenti, universitari e delle scuole, e da giovani professionisti. Sin dal 2000 organizza, a New York, Roma e Dubai, laboratori formativi incentrati sul funzionamento dell’ONU e di altri organismi governativi complessi, cui prendono parte migliaia di studenti provenienti da oltre 80 diversi paesi che agiscono in qualità di delegati degli Stati Membri riproducendo il meccanismo e le dinamiche di funzionamento delle principali Commissioni delle Nazioni Unite. Le iniziative dell’associazione sono oggi sostenute da prestigiose istituzioni nazionali e internazionali tra le quali il Ministero degli Affari Esteri, la Camera dei Deputati, la Missione Permanente Italiana presso le Nazioni Unite. Attraverso tali percorsi formativi, incentrati sul metodo del “learning by doing,” e legati all’orientamento e alle carriere internazionali, e a sostegno della “young occupability”. Bianca ha 13 anni e frequenta il liceo scientifico Leone XIII di Milano. Da grande vuole fare la pediatra. Rahzadie ha 15 anni, è nata in Australia da genitori colombiani. Frequenta la Cranleigh school di Abu Dhabi e vuole diventare una giornalista esperta di questioni umanitarie. Anche Felix è un australiano trapiantato ad Abu Dhabi con la famiglia. Ha 13 anni e gli occhialetti tondi lo fanno somigliare a Harry Potter. Da grande vuole fare il diplomatico ed entrare in politica, ma vuole anche diventare giocatore di cricket e di basket. Oggi è molto impegnato a delineare la strategia diplomatica che il Venezuela deve tenere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Un compito molto complesso perché, come spiega lui con serietà, “il paese si trova in una situazione critica e deve cercare di restare il più possibile neutrale”. Bianca, Rahzadie e Felix fanno parte dei 180 giovani tra i 14 e i 26 anni di varie nazionalità che a novembre hanno partecipato al progetto Change the world model United Nations, organizzato dall’associazione italiana Diplomatici in collaborazione con la New York University di Abu Dhabi. Due giorni in cui i ragazzi riproducono il funzionamento degli organi delle Nazioni Unite. 13 “Per questo motivo Change the world è utile al livello educativo, è importante per sollecitare degli interessi che poi sono coltivati in futuro. Consente ai ragazzi di ampliare i loro orizzonti e di abbracciare il mondo intero”, spiega Novelli. Nell’aula del consiglio di sicurezza si sta discutendo dell’intervento delle Nazioni Unite in Siria “Ciò che è diverso attrae e qui c’è una grande sete di conoscenza”, commenta Salvatore, che ha vent’anni, studia giurisprudenza a Catanzaro e insieme al suo collega Giuseppe, di 19 anni, fa parte della commissione di peacebuilding. “È bello poter parlare con ragazzi che vengono da paesi diversi e farmi spiegare come vivono, qual è la loro religione e la loro cultura”. Diplomatici vuole sostenere la formazione di una nuova classe dirigente ispirata ai valori del rispetto, della tolleranza reciproci e dell’impegno sociale per uno sviluppo sostenibile del pianeta. Un progetto “nato per sbaglio”, come dice Corbino che nel 2000 era uno studente di giurisprudenza all’università di Catania e per caso ha partecipato a New York a un Model United Nation, una conferenza in cui sono simulate le assemblee dell’Onu. “Una volta arrivato lì mi sono accorto che era un mondo fantastico, un vero laboratorio delle scienze umane”. Così, rientrato in Italia, Corbino ha deciso di creare un’associazione in grado di far precedere la partecipazione all’evento di New York da una formazione che unisse i contenuti alle capacità relazionali. Dopo dieci anni è nato il progetto Change the world, attraverso il quale l’associazione ha cominciato a organizzare un proprio evento a New York e, negli anni successivi, anche a Bruxelles, a Roma, ad Abu Dhabi e a Barcellona. Abbracciare il mondo intero Negli anni hanno partecipato migliaia di ragazzi da tutto il mondo. Il contatto con loro porta Corbino a definirli “una generazione di ragazzi con le palle”. Si tratta di una generazione “totalmente post ideologica, non gliene frega niente di aderire a una verità precostituita. È una generazione molto pratica, che vuole la concretezza, e che purtroppo è anche cinica, perché mancano i grandi ideali di riferimento, ma la colpa è nostra che non siamo più capaci di trasmetterglieli”, prosegue Corbino. Nell’aula del consiglio di sicurezza si sta discutendo dell’intervento delle Nazioni Unite in Siria. I delegati prendono la parola a favore e contro l’intervento, presentano emendamenti e li votano. Felix ascolta concentrato le opinioni degli altri ma alla fine si oppone alla risoluzione perché, spiega “non risolverebbe i problemi e si tornerebbe al punto di partenza”. Emma, statunitense di 14 anni che da grande vuole fare la chef, invece è favorevole e il paese che rappresenta, la Spagna, sta cercando di creare un summit promuovere il dialogo tra paesi con posizioni divergenti. Alla fine la risoluzione passa. Gabriele, 18 anni di Catania e rappresentante della Malesia, è molto soddisfatto. Ha vinto la diplomazia. E i ragazzi escono dall’aula parlottando tra loro, i fogli degli appunti appallottolati in mano, lo zainetto in spalla. VESPA SICILIANA Anche Marina Novelli, preside del liceo scientifico Vitruvio Pollione di Avezzano, che ha accompagnato nove studenti ad Abu Dhabi, pensa che il cambiamento dei ragazzi ponga una sfida continua alla scuola, che a volte non è in grado di rispondere in modo adeguato. 14 Da una mera indicazione di punto di partenza e punto di arrivo si passò man mano, nell'immaginario collettivo, ad una indicazione metaforica di un Nord, sede della civiltà e dell'opulenza, e di un lontano Sud da esplorare, studiare e, se possibile, civilizzare. Dalla seconda metà dell'Ottocento ad oggi, Canicattì è diventata, suo malgrado, toponimo di una località forse inesistente o, se reale, collocata oltre le colonne d'Ercole, misteriosa ed irraggiungibile. Un luogo della fantasia ove "spedire" metaforicamente le persone meno gradite o meritevoli di punizioni. Per citare solo un esempio, in un film-rivista del 1950, Renato Rascel confidava amorevolmente alla compagna Tina De Mola, in uno spassoso duetto: "Ti amo tanto, mia cara, ci sposeremo a Canicattì", sottintendendo in verità che quel matrimonio non si sarebbe mai celebrato per l'inesistenza del luogo. Famosa la battuta di un giornalista: L'onorevole Canicattì disse al collega Dentice: "Beato tu che sei una bestia sola". CANICATTI', una cittadina di trentacinquemila abitanti, e' spesso oggetto di battute ironiche sulla stampa, alla radio, in TV e al cinema, ma pochi sanno che tutto ciò deriva non solo dal nome certamente originale, ma soprattutto da un fatto storico legato allo sviluppo della rete ferroviaria nazionale. Il 24 settembre 1876 fu inaugurata, fra le prime in Italia, la tratta ferroviaria Caltanissetta-Canicattì. Perché il suo tracciato rispondesse meglio alle esigenze dello sviluppo economico della città, era stato a suo tempo interessato Antonio Starrabba marchese di Rudini' che era stato eletto per la prima volta deputato proprio nel Collegio di questa cittadina dell'Agrigentino. Di Rudinì aveva lasciato subito la Germania, ove si trovava per motivi di famiglia, e si era recato a Firenze e Roma per perorare la causa. Nel 1877 Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici decideva di collegare Canicattì anche alla stazione ferroviaria di Aragona-Caldare. Canicattì diveniva così uno degli snodi ferroviari più importanti della Sicilia. Il 3 novembre 1880 fu inaugurata la tratta Aragona Caldare-Canicattì Madonna dell'Aiuto. La stazione ferroviaria di Canicattì fu infatti realizzata nei pressi di quella chiesetta campestre, lontana dal centro qualche chilometro e il fatto determinò la reazione della cittadinanza. Per protesta alla cerimonia di inaugurazione la Giunta Municipale, in attuazione di un deliberato del Consiglio Comunale, decise di non partecipare. Alla cerimonia nessuno dei canicattinesi presenziò, anzi ironicamente fu mandato Masi Latona, lo scemo del paese. Solo nel 1880 sarebbe stata realizzata l'attuale stazione ferroviaria, all'interno della città'. Canicattì usciva così dal secolare isolamento e rappresentava, nella rete ferroviaria nazionale, il punto di arrivo, un vero avamposto nel profondo Sud. Sulle carrozze ferroviarie si leggevano questi cartelli: Torino-Canicattì, Milano-Canicattì , Venezia-Canicattì, Roma-Canicattì. GAETANO AUGELLO Ma la bella cittadina siciliana è anche famosa per un brutto episodio di storia recente: La strage di Canicattì (conosciuta anche come "macello di Canicattì") fu un crimine di guerra accaduto a Canicattì.Dopo la presa della città da parte delle truppe americane durante l'invasione della Sicilia Il 14 luglio 1943, circa otto civili Siciliani inermi furono uccisi dalle truppe statunitensi a Canicattì. La città di Canicattì si era già arresa quando le truppe USA entrarono, a seguito di pesanti bombardamenti tedeschi durante il loro ritiro. Al loro arrivo, le truppe statunitensi ricevettero un rapporto che diceva che i civili stavano saccheggiando una fabbrica bombardata, la Saponeria Narbone-Garilli, riempiendo secchi con i prodotti della fabbrica: cibo e sapone liquido. Verso le ore 18 il tenente colonnello Herbert McCaffrey, il governatore militare di Canicattì, e alcuni agenti della polizia militare arrivarono in fabbrica. McCaffrey sparò sulla folla dopo che la stessa era riuscita a disperdersi e che gli stessi soldati americani si erano rifiutati di aprire il fuoco. Almeno otto civili, tra cui una bambina di undici anni, furono uccisi, anche se il numero esatto di vittime è incerto. Un’indagine riservata è stata presentata,ma McCaffrey non è mai stato accusato di un reato che riguardi l'incidente. Morì nel 1954. Questo incidente è rimasto praticamente sconosciuto finché fu pubblicata la testimonianza di Joseph S. Salemi della New York University, il cui padre aveva assistito alla strage. 15 Fra i 20 paesi più belli d’ Italia nella classifica 2015 La Guerra dei Vespri Siciliani, ebbe fine sul monte Castello, altrimenti conosciuto come il "Pizzo di Caltabellotta". Il 31 agosto dell'anno 1302, probabilmente nel castello del Pizzo, si firmò il trattato di pace, per il quale Federico III venne riconosciuto Re di Trinacria, con l'impegno a convolare a nozze con Eleonora d'Angiò, sorella di Roberto Re di Napoli, ponendo termine alla guerra del vespro.I Vespri siciliani furono una ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri di Lunedì dell'Angelo nel 1282. Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto all'intera Sicilia, espellendone la presenza francese. Tutto ebbe inizio in concomitanza con la funzione serale dei Vespri del 30 marzo 1282, lunedì dell'Angelo, sul sagrato della Chiesa del Santo Spirito, a Palermo. A generare l'episodio fu secondo la ricostruzione storica - la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa a una giovane nobildonna accompagnata dal consorte, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire.A difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e a ucciderlo. Tale gesto costituì la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani - al grido di "Mora, mora!" - si abbandonarono a una vera e propria "caccia ai francesi" che dilagò in breve tempo in tutta l'isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa. Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso a uno shibboleth*, mostrando loro dei ceci («cìciri», nella lingua siciliana e chiedendo di pronunziarne il nome; quelli che venivano traditi dalla loro pronuncia francese (sciscirì), venivano immediatamente uccisi. « Se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". » Caltabellotta, località antichissima nell’entroterra in provincia di Agrigento, che vi stupirà per la sua incredibile posizione: il paese si trova infatti tutto abbarbicato su dei picchi montuosi, con un’alta rupe che domina le case e una conformazione che segue il pendio irregolare e aspro del territorio. Data l’origine e la lunga storia di Caltabellotta, non mancano monumenti e testimonianze di molte epoche diverse, tra cui resti archeologici greci e romani, le rovine del castello normanno sotto la rupe, un antico monastero benedettino, numerose chiese e molto altro ancora. Per la sua posizione geografica ed i suoi capisaldi territoriali, venne identificata con l'antica città Sicana di Camico, sulle cui rovine sorse la greca Triocala. Triocala deve il suo nome a tre caratteristiche naturali che la circondano: la Rocca che la rendeva inespugnabile, l'abbondanza delle acque e la fruttuosità delle sue campagne. Triocala fu una potente città antica, ma la sua potenza massima fu raggiunta all'epoca di Salvio Trifone, che a capo di servi fuggitivi, installò in questa città la sua corte. Eresse un regale palazzo e regnò inespugnato fino al 99 a.C., quando il Console romano Aquilio, in una delle guerre servili, la rase al suolo. "Et mox servili vastata Triocala bello" (Silio Italico, 14, 270). Riedificata, subì ancora la sorte della devastazione per mano degli Arabi, i quali di eressero il "Castello delle querce, in arabo "Qal'at Al-Ballut" e, dal quale, come certamente si intuisce, discende l'attuale nome di Caltabellotta. Quando in Sicilia giunsero i Normanni, Triocala venne conquistata da Ruggero d'Altavilla nel 1090. Il sovrano inflisse una dura sconfitta agli Arabi ed a perenne ricordo edificò sul monte un tempio in onore di San Giorgio con doppio ordine di colonnati, di cui oggi non rimane traccia. (Dante, Divina Commedia, canto VIII del Paradiso) * Si tratta di catena di suoni particolarmente difficile da articolare, ma solo per gli stranieri: infatti, uno shibboleth si distingue da uno scioglilingua, la cui pronuncia è difficile per chiunque. 16 - Colui che vede in se stesso tutte le cose è al tempo stesso tutte le cose - Dio è in ogni luogo e in nessuno, fondamento di tutto, di tutto governatore, non incluso nel tutto, dal tutto non escluso, di eccellenza e comprensione egli il tutto, di defilato nulla, principio generatore del tutto, fine terminante il tutto. Mezzo di congiunzione e di distinzione a tutto, centro ogni dove, fondo delle intime cose. Estremo assoluto, che misura e conchiude il tutto, egli non misurabile né pareggiabile, in cui è il tutto, e che non è in nessuno neanche in se stesso, perché individuo e la semplicità medesima, ma è sé. -E noi, per quanto ci troviamo in situazioni inique tuttavia serbiamo il nostro invincibile proposito tanto da non temere la morte stessa. - Avete più paura voi ad emanare questa sentenza che non io nel riceverla. Ricordiamo l’illustre filosofo arso vivo il 17 febbraio del 1600, attraverso le sue parole: - Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia [...] et la professione mia è stata et è di littere et d'ogni scienzia [...] e nacqui, per quanto ho inteso dalli miei, dell'anno '48. - Certamente voi preferite questa sentenza contro me con più timore di quello che io provo nell'accoglierla. - Il timore che provate voi a infliggermi questa pena è superiore a quello che provo io a subirla. -Io stetti in Noli, come ho detto di sopra, circa quattro mesi, insegnando la grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini; e doppoi me partii de là ed andai prima a Savona, (1577) deve stetti circa quindici giorni. Andai a Paris, dove me messi a legger una lezione straordinaria per farmi conoscere e a far saggio di me. - Ho lottato, è molto; ho creduto nella mia vittoria È già qualcosa essere arrivati fin qui Non aver temuto di morire,aver preferito coraggiosa morte a vita imbelle. - I filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i poeti sono pittori e filosofi, i pittori sono filosofi e poeti. Donde i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si prediligono l'un con l'altro e si ammirano vicendevolmente. -Parlando cristianamente e secondo la teologia e che ogni fidel cristiano e catolico deve creder, ho in effetti dubitato circa il nome di persona del Figliuolo e del Spirito santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre se non nella maniera che ho detto de sopra, parlando filosoficamente. Quando alla seconda persona io dico che realmente ho tenuto essere in essenzia una con la prima, e cusì la terza; perché essendo indistinte in essenzia, non possono patire inequalità [...] solo ho dubitato come questa seconda persona se sia incarnata [...], ma non ho però mai ciò negato né insegnato. Io credo che nelle mie opere si troveranno scritte molte cose, quali saranno contrarie alla fede catolica [...] ma però io non ho detto né scritto queste cose ex professo, né per impugnar direttamente la fede catolica, ma fondandomi solamente nelle raggioni filosofiche o recitando le opinion de eretici. - Italia, Napoli, Nola; quella regione gradita dal Cielo, e posta insieme talvolta a capo e destra di questo globo, governatrice e dominatrice de l'altre generazioni, e sempre da noi et altri stimata maestra e madre di tutte le virtudi, discipline et umanitadi. - L'amante di Dio, dottore della più alta teologia, professore di cultura purissima e innocente, noto filosofo, accolto e ricevuto presso le prime accademie d'Europa, vincitore dell'ignoranza presuntuosa e persistente, che tuttavia protesta che nelle sue azioni c'è amore per tutti i suoi simili, per i britanni non meno che per gli italiani, per le donne non meno che per gli uomini, per i sovrani non meno che per i prelati. 17 - La sapienza ha dunque tre dimore: la prima inedificata, eterna, perché è essa stessa la sede dell'eternità; la seconda, sua primogenita, è questo mondo visibile; la terza, sua secondogenita, è l'anima dell'uomo. vergogno d'aver sopportato la povertà, la malevolenza e l'odio dei miei, le esecrazioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti d'un'estrema barbarie e d'un'avarizia sordidissima. Per il che non mi duole d'esser incorso in fatiche, dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio una patria grandissima « Quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe un forfante. » - Non è dunque filosofo se non chi immagina e riproduce. - Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto. - Ogni volta, infatti, che riteniamo che rimanga una qualche verità da conoscere, un qualche bene da raggiungere, noi sempre ricerchiamo un'altra verità ed aspiriamo ad un altro bene. Insomma l'indagine e la ricerca non si appagheranno nel conseguimento di una verità limitata e di un bene definito. Nello stesso modo la materia particolare, sia essa corporea o incorporea, non assume mai una struttura definitiva, e non essendo paga delle forme particolari assunte in eterno, aspira nondimeno in eterno al conseguimento di nuove forme. (Spaccio de la bestia trionfante) dialogo II, parte II - Per ciò che si riferisce alle discipline intellettuali possa io tener lontano da me non solo la consuetudine di credere, instillata da maestri e genitori, ma anche quel senso comune che in molti casi e luoghi (per quanto ho potuto giudicare io stesso) appare colpevole di inganno e di raggiro; possa io tenerli lontani in maniera da non affermare mai nulla, nel campo della filosofia, sconsideratamente e senza ragione; e siano per me ugualmente dubbie tutte le cose, tanto quelle che sono reputate astrusissime e assurde, quanto quelle che sono considerate le più certe ed evidenti, tutte le volte che vengono messe in discussione. - Se questa scienza che grandi vantaggi porterà all'uomo, non servirà all'uomo per comprendere se stesso, finirà per rigirarsi contro l'uomo. - Verrà un giorno che l'uomo si sveglierà dall'oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo... l'uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo. Portico del Palazzo comunale di Noli, dove Bruno soggiornò per un breve periodo. Sotto il portico una lapide ricorda il soggiorno del filosofo: Giordano Bruno / Prima d'insegnare all'Europa / Le leggi dell'ordine universale / Fu maestro in Noli / Di grammatica e cosmografia" - Venni, tra gli altri io, attratto dal desiderio di visitare la casa della sapienza, ardente di contemplare codesto Palladio, onde non mi 18 Della pubblicazione e della curiosa storia si persero però le tracce tanto che il Dizionario biografico degli italiani lo indica come disperso. È stato soltanto per caso, durante una consultazione, che nella «Busta A 260/11» della Biblioteca nazionale di Bari è comparsa una copia del volumetto che oggi secondo il Catalogo del servizio bibliotecario nazionale è l’unica autentica sopravvissuta. Sulla copertina è impressa la scritta «Dono Cotugno» per ricordare che proveniva da Raffaele Cotugno, nipote dell’illustre medico pugliese settecentesco Domenico Cotugno. Il ritrovamento e la sua lettura hanno destato interesse per alcuni aspetti del racconto che si ritrovano anche nel famoso romanzo Dalla Terra alla Luna di Jules Verne pubblicato otto anni dopo. Verne conosceva quel testo? Lo aveva letto? Sono proprio questi elementi a suscitare la domanda se non ci fosse stato qualche misterioso filo capace di collegare le due storie e i loro autori. Il Viaggio alla Luna di Capocci è una sorta di lunga lettera-resoconto inviata da Urania, protagonista della traversata cosmica assieme ad Arturo, il pilota dell’astronave «astronomo artigliere». Con loro viaggia un equipaggio di sei uomini «eterizzati», cioè addormentati con l’etere, durante gli otto giorni del volo. Così non avevano bisogno di mangiare e bere riducendo le riserve nel poco spazio della navicella «ingombro di cronometri, anemometri, termometri, bussole, cannocchiale ecc.». Il ricorso all’eterizzazione è curioso perché anticipa l’idea di ibernare gli astronauti nelle future, lunghe esplorazioni interplanetarie. Ma l’idea che avvicina di più Capocci a Verne è il ricorso al cannone per proiettare la navicella verso l’obiettivo. Lo colloca nelle profondità di un vulcano spento sulle Ande per proteggere in questo modo la navicella dai disturbi atmosferici incontrati nelle prime fasi del decollo. Urania è affascinata dalle nuove tecnologie e sottolinea, ad esempio, «il più grande trionfo della meccanica moderna» rappresentato dalla gomena che unisce il proiettile sparato dal «gran mortaio» alla capsula abitata trascinandola nello spazio vantando doti di «leggerezza, elasticità e forza onde reggere all’immenso impulso» fino a imprimere «una velocità incredibile». L’impresa è organizzata dalla Compagnia della Luna che molto assomiglia al Gun Club di Baltimora di Verne. Il viaggio sulla Luna? Ideato a Napoli otto anni prima di Jules Verne Riscoperto (e ristampato da LB edizioni) il libriccino di «fantascienza» del 1857 redatto da Ernesto Capocci, al tempo direttore dell’Osservatorio di Capodimonte Ernesto Capocci principe di Belmonte Direttore della specola napoletana tra il 1833-1850 e il 1860-1864. La Luna da sempre ha portato in volo la fantasia di illustri scrittori e scienziati: Luciano di Samosata nel II secolo a.C. e Dante Alighieri, Ludovico Ariosto e Giovanni Keplero e Cyrano de Bergerac. Ma è nella prima metà dell’Ottocento, nel vento del positivismo filosofico e dello sviluppo tecnologico legato alla rivoluzione industriale, che alcuni sognatori del satellite naturale della Terra iniziano a immaginare i viaggi con le innovazioni necessarie per raggiungerlo. A Napoli dirigeva dal 1833 l’osservatorio di Capodimonte Ernesto Capocci principe di Belmonte, astronomo di buona cultura letteraria, educato alla scienza delle stelle dallo zio Federico Zuccari che lo aveva preceduto alla guida della Specola partenopea. Capocci nel 1857 scrisse un libricino dal titolo Viaggio alla Luna – Anno 2057: la prima donna nello spazio stampato dalla tipografia di Teodoro Cottrau. Un frame da «Viaggio sulla luna»di Georges Méliès 19 Durante il viaggio la navicella «fornita di grandi lastre di cristallo trasparentissimo» permette una stupefacente visione e il racconto, ricco di emozioni, potrebbe essere quello pronunciato dai nostri astronauti. Tra ironie, parole di soddisfazione e qualche inquietudine, Urania arriva sulla Luna descritta nelle sue meraviglie con grande dettaglio. La discesa dell’astronave è aiutata da un paracadute e lo sbarco, dopo il risveglio degli eterizzati, è salutato dagli applausi di una quarantina di esploratori. Erano giunti in precedenti missioni e nelle lande deserte, tra montagne ricoperte di muschi e licheni, avevano insediato in oasi rigogliose le loro colonie. Ernesto Capocci era un esperto di comete e aveva collaborato alla compilazione di una nuova mappa celeste coordinata dall’Accademia di Berlino. Nel 1836 compì un viaggio scientifico in Europa soggiornando a Parigi, Londra e Bruxelles. Ma è soprattutto nella capitale francese che stringe buoni rapporti con François Arago, astronomo dell’Osservatorio nazionale francese e famoso, oltre che per i suoi contributi scientifici, per l’opera di divulgazione con i libri di Astronomie populaire . Arago e il fratello, esploratore, erano per Verne grandi amici e fonte preziosa di argomenti. Altrettanto intenso si sviluppa il rapporto di Capocci con Arago, del quale traduce e commenta Lezioni di astronomia professate nell’osservatorio di Parigi . «L’astronomo francese — nota Massimo Della Valle, direttore dell’osservatorio di Capodimonte e appassionato storico dell’astronomia — era certamente a conoscenza del libro dell’amico napoletano e non è difficile immaginare che ne abbia parlato con Verne. Non esistono finora prove che il grande romanziere della fantascienza ne abbia poi tenuto conto nell’ideazione della sua celebre opera, ma non si può certo escludere data la stretta coincidenza di alcune idee». Etna 5 dicembre 2015 Walter Morando Ernesto Capocci amava scrivere ed era autore di numerose opere di divulgazione scientifica (compresa l’illustrazione della Divina commedia dal punto di vista astronomico) e pure di romanzi storici tradotti a Parigi. Ma rimane anche uno dei primi autori della fantascienza italiana e il suo Viaggio alla Luna è ora meritatamente ristampato da LB Edizioni di Bari. di Giovanni Caprara per gentile concessione del Corsera 4 gennaio 2016 20 davanti al dito che indica la luna, si concentra sul dito”. “Roberto Vecchioni – aveva concluso Orlando – ci ha ricordato che la Sicilia, tutta la Sicilia è davanti ad un bivio e che prendere la strada giusta o sbagliata dipende soprattutto dai siciliani”. POLEMICA La Sicilia? “Un’isola di merda” perché non si ribella. Parola di Roberto Vecchioni, ospite della Facoltà di Ingegneria di Palermo per un incontro organizzato dall’associazione ‘Genitori e figli: istruzioni per l’uso’, in collaborazione con il Cidi di Palermo, dove era stato invitato per parlare di cultura. Il cantautore-professore se la prende con i siciliani, che definisce la “razza più intelligente al mondo”: “Non amo la Sicilia che rovina la sua intelligenza e la sua cultura, che quando vado a vedere Selinunte, Segesta non c’e’ nessuno. Non amo questa Sicilia che si butta via“, dice mentre le telecamere lo riprendono. Molti hanno pensato le stesse cose, vagando fra gli antichi templi puntellati, le chiese meravigliose e abbandonate, i siti archeologici immersi nel silenzio. «Dovrei dire che siete la culla della Magna Grecia? Ma la storia antica, la poesia antica, la filosofia antica hanno insegnato a tutto il mondo cosa è l' originalità della vita. Questo in Sicilia non c'è». Un giudizio impietoso, o forse una provocazione, quella lanciata nell’aula magna davanti a centinaia di ragazzi e docenti, qualcuno dei quali lascia la sala per protesta. Mentre il sindaco di Palermo Leoluca Orlando gli dà ragione: “Roberto Vecchioni conferma di essere un grande amico della Sicilia e dei siciliani”. Perché, sostiene il primo cittadino, “con le sue parole ci ha ricordato che la Sicilia merita di più di ciò che ha oggi”. Nel suo intervento, il cantautore non risparmia dure critiche: “La filosofia e la poesia antiche hanno insegnato cos’è la bellezza e la verità, la non paura degli altri, in Sicilia questo non c’è, c’è tutto il contrario – aggiunge – E mi sono chiesto prima di arrivare qui, se dovevo dirle queste cose a voi ragazzi”. Poi rincara: “Non avete idea di cosa sia la civiltà, la colpa è vostra”. Mentre in sala, qualcuno si alza e una insegnante urla: “Canta, canta, evita di parlare, oppure te ne vai”. Ma Vecchioni prosegue: “Da 150 anni qui non succede nulla”. Poi se la prende con la presunta mancanza di senso civico: “Arrivo dall’aeroporto e 400 persone su 200 sono senza casco, questo significa che non si conosce il senso dell’esistenza con gli altri. E’ inutile che ti mascheri dietro al fatto che hai il mare più bello del mondo, non basta, sei un’isola di merda perché non ti ribelli”. Parole che scatenano sui social network la rabbia di molti. Ma c’è anche chi sostiene che “ha assolutamente ragione. Chi punta l’attenzione su alcune parole forti e colorite usate dal cantautore fa come chi, Il motivo principale forse sta nela notizia appena appresa da Vecchioni dell’ “Inchino” davanti alla casa di un boss. Di nuovo. È accaduto durante la processione a Paternò, in provincia di Catania. Si stava festeggiando la patrona, Santa Barbara, quando due cerei, portati a spalla da alcuni portantini, si sono fermati davanti alla casa della famiglia di un pluripregiudicato degli «Assinnata», vicini alla cosca Santapaola. L’uomo si trova attualmente in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. La processione si è fermata ed è stata intonata la musica del Padrino. Il comando provinciale dei carabinieri ha segnalato l’episodio e i due «cerei» sono stati fermati. Il Questore di Catania Marcello Cardona ha definito l’episodio «una chiara manifestazione della forza intimidatrice, tipica del potere mafioso» Fa da controcanto, dal suo blog, Roberto Alaymo GIOIE DEL CILICIO La voluttà è cominciata con Vecchioni e la polemica dal titolo "Sicilia, isola di merda". Poi la questione del concerto in piazza la notte di capodanno. Ora le barricate contrapposte sulla ZTL di Palermo. Tutte violentissime tempeste internettiane nelle quali ognuno sembra avere un'opinione precisa e ultimativa, ferocemente impermeabile a quella degli avversari. La voluttà consiste non tanto nel non avere opinioni in proposito, ma nel tenersele. All'inizio era uno scrupolo istituzionale: visto che ricopro un ruolo di vertice in un ente pubblicamente partecipato, mi sono dato la regola di non intervenire sui temi caldi della politica regionale e cittadina. Questo per non rischiare di coinvolgere l'ente che dirigo in opinioni che sono e devono restare soltanto mie. Ma poi mordersi la lingua è diventato un piacere sottile che si è impadronito di me. Come la corsa dopo aver rotto il fiato. Come la felice fatica dello scrivere. Come la mortificazione della carne che certi asceti medievali praticavano ricavandone un'estasi così difficile da comprendere, per noi figli della modernità. Ma davvero: non immischiarsi in un'epoca in cui tutti pensano di doversi immischiare su tutto, è un privilegio sottile e impagabile. 21 Notizie dal “Sodalizio” APPUNTAMENTI DA NON PERDERE Alle Officine Solimano SCIENZA SAVONA Siamo fraternamente vicini al nostro caro amico e socio Filippo Giusto per la perdita della sua amata Stella Acquaviva Venturino, che gli ha dato tre magnifici figli, a uno dei quali, Lorenzo, ha trasmesso la vena artistica dei suoi genitori il futurista Giovanni Acquaviva e la poetessa Anna Maria Traverso (in arte Annaviva). Stella ha trascorso gli ultimi venti anni della sua vita combattendo strenuamente contro un male insidioso che minava le sue resistenze, talchè più volte ha rischiato il peggio, riprendendosi sempre caparbiamente con l'aiuto della sua splendida famiglia e della cugina-sorella Rosemarie Traverso (anche Lei nostra socia), finchè l'ultima crisi, sia pur banale - le è stata fatale. Coraggio, determinazione e amore per la vita l'hanno portata a godere i suoi periodi di buona salute seguendo i figli e partecipando alla vita culturale savonese (non è molto che l'avevamo vista al Nuovofilmstudio). Le abbiamo voluto, Le vogliamo, Le vorremo bene. Martedi 16 febbraio ore 17,00 in collaborazione col Liceo Scientifico e gli Amici del festival della Scienza, il M° Angelo MULE’, nostro socio, presenterà PRIMA LA MUSICA, POI LE PAROLE Spettacolo nell’ambito di un progetto musicale Con doppia replica mattutina per le scuole Mercoledi 10 e Giovedi 11 febbraio Alle Officine Solimano MONDOVISIONI I documentari di INTERNAZIONALE Rassegna Cinematografica Umanitaria Tutti in anteprima Italiana Ingresso gratuito ore 20,30 21 gennaio CARTEL LAND 28 gennaio LIFE IS SACRED 4 febbraio VOYAGE EN BARBARIE 11 febbraio EN TIERRA EXTRANA 26 FEBBRAIO Sala Rossa Comunale ore 16,30 Giuseppe LO PILATO Direttore del Giardino della KOLYMBETRA (sito FAI nella Valle dei Templi di Agrigento), presenterà anche con immagini, le bellezze del luogo e le attività FAI che vi si svolgono. 20 dicembre 2015 Consegna dei premi «A Campanassa ringrassia», al nostro Giusto Franco, illustre Maestro, pianista e compositore. Un “giusto” riconoscimento. Abbiamo il piacere di comunicare che ENZO MOTTA è stato eletto Presidente della Croce Bianca, a riprova del suo e nostro felice radicamento in Savona e di una ulteriore cooperazione alle attività cittadine. Rinnoviamo gli auguri per un sereno 2016 Santuzzo Buon lavoro Presidente ! 22