Approfondimento

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Quanto sono bravo. Quanto mi sbagliavo.
Benjamin Graham, economista considerato il padre del value investing, nel 1949 affermava: “Il maggior
problema nonchè il peggior nemico di ogni investitore è se stesso”. Meir Statman, professore di finanza
presso la Santa Clara University, sostiene che “in teoria, le persone sono razionali; in pratica, sono normali”.
Bastano queste due citazioni per capire quanto sia importante conoscere i nostri meccanismi mentali.
Siamo giunti alla quarta puntata dedicata alla finanza comportamentale. Nelle settimane scorse, abbiamo
introdotto la disciplina (per approfondire clicca qui), parlato della “paura di perdere” (per leggere clicca qui)
e dell’endowment effect (clicca qui). Chiudiamo con la distorsione cognitiva forse più comune: la
overconfidence, ovvero la troppa fiducia in sé stessi.
Come me nessuno mai
Il modo più comune in cui la overconfidence è stata studiata è quello di chiedere alle persone quanto sono
fiduciose sulle loro convinzioni o sulle risposte che forniscono. I dati dimostrano che la fiducia supera
sistematicamente la precisione, il che significa che la gente è più sicura di sè stessa di quanto dovrebbe. In
teoria, se la fiducia avesse una perfetta calibratura, le decisioni con una fiducia del 100% sarebbero corrette
il 100% delle volte, con una fiducia del 90% sarebbero corrette il 90% delle volte, e così via. Com’è possibile
che l’80% degli automobilisti, quando intervistati, rispondono di essere dei guidatori sopra la media?
Questo è matematicamente impossibile. Eppure, è quello che succede anche in finanza. In uno studio del
2006 intitolato “Behaving Badly”, il ricercatore James Montier dimostrò che il 74% dei 300 gestori
professionisti intervistati credevano di aver fornito prestazioni superiori alla media. Del restante 26% degli
intervistati, la maggioranza si considerava nella media. In pratica, quasi il 100% del gruppo di studio
riteneva di aver raggiunto risultati nella media o superiori. Chiaramente, solo il 50% del campione può
essere superiore alla media, il che dimostra il livello irrazionalmente elevato di overconfidence dei
manager. Nel corso degli anni, molti studi hanno confermato l’esistenza della “troppa fiducia” e molte delle
sue proprietà sono state chiarite. In particolare, ci sono alcuni punti fermi: meno si sa, più si è sicuri (vale
anche il contrario: più si sa, meno si è sicuri); con domande più difficili, si tende a essere più fiduciosi; la
overconfidence non è correlata con l’età, il sesso, l’intelletto o la razza. Per riassumere, tutti sono soggetti,
soprattutto quando il problema in esame è difficile e la conoscenza personale limitata. Vale la pena
sottolineare che l’attività d’investimento presenta entrambe le caratteristiche. Da un punto di vista
psicologico, la overconfidence scaturisce dall’asimmetria nel peso che gli investiori danno alle informazioni
di cui dispongono. In pratica, quando abbiamo un’idea d’investimento, le informazioni che potrebbero
supportare la nostra tesi sono mentalmente considerate più attendibili delle informazioni che vanno nella
direzione contraria. Non solo, se col passare del tempo la nostra tesi non si avvera, anche in questo caso la
fiducia nella nostra scelta tende a rimanere stabile. Questa distorsione è conosciuta anche come
confirmation bias, la tendenza cioè a ignorare i dati e le informazioni che potrebbero convincerci di aver
avuto torto.
Fanatici del trading, attenzione
Nel periodo 1991-1996, Terrance Odean e Brad Barber, due ricercatori accademici statunitensi,
impostarono uno studio su oltre 66.000 soggetti, investitori che praticavano attività di trading, per cercare
un modello di overconfidence nell’acquisto di azioni comuni. La loro ipotesi era che gli investitori troppo
sicuri di sè tendono a modificare i loro portafogli più frequentemente rispetto a quelli meno fiduciosi. Non
a caso, chi vende azioni A per comprare azioni B, di solito lo fa perché è convinto che l’azione B produrrà un
rendimento migliore in futuro. I ricercatori cercarono quindi di verificare se un alto turnover di portafoglio
(quindi una forte fiducia nelle proprie capacità di previsione) portasse a eventuali differenze nei rendimenti
realizzati. L’idea era che la differenza tra i rendimenti di portafoglio potrebbe essere considerata come una
funzione di fiducia degli investitori. Secondo la teoria tradizionale, espressa nel 1980 da Grossman e
Stieglitz, un soggetto razionale scambierebbe un titolo per un altro, solo se il ricavo marginale del titolo
acquistato fosse maggiore del costo marginale associato all’operazione di trading. In parole povere, se
vendo A e compro B è perchè ci guadagno al netto dei costi di transazione. Ergo, i portafogli con un’alta
attività di trading dovrebbero, in teoria, fornire dei rendimenti maggiori di quelli con un basso turnover.
Tuttavia, l’esperimento di Odean e Barber dimosta proprio il contrario. I portafogli facenti parte del quartile
con più alto turnover hanno in media sottoperformato quelli del quartile con più basso turnover del 5,5%
annuo (46 basis point su base mensile). Inoltre, i portafogli del quartile con più alto turnover hanno
sottoperformato in media il benchmark di oltre 6 punti (11,2% contro 17,9%; la media dell’intero campione
si è attesta nel periodo al 16,4%). In sostanza, i dati suggeriscono che chi ha un’intensa attività di trading
(ovvero un eccesso di fiducia nelle proprie capacità di giudizio) tende in media a incassare minori
performance, a prescindere dall’andamento dei mercati o dallo stile d’investimento.
Lo strumento non conta
“Negli ultimi anni gli investitori hanno cominciato a rendersi conto che l’attività di trading, quando
eccessiva, può essere dannosa, in primo luogo per gli alti costi che comporta”, commenta Lee Davidson,
analista Etf di Morningstar. “Man mano che il dibattito ha preso piede, si è sviluppato anche l’utilizzo degli
Exchange traded product (Etp), proprio grazie ai loro costi contenuti”. Tuttavia, la possibilità di scambiarli in
Borsa come le azioni, li rende soggetti alla overconfidence degli investitori. “Anche un portafoglio di soli Etp
è soggetto alle conseguenze di un turnover troppo elevato, come quasiasi altro strumento”, afferma
l’analista. Abbiamo concluso il nostro viaggio al cuore della finanza comportamentale. Forse, tenere a
mente le distorsioni cognitive discusse ci potrebbe aiutare a battere il nostro peggior nemico in materia di
investimenti: noi stessi.