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ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I SEMINARIO VI – 3.4.2007 L’acquisto della proprietà in forza del possesso Dott.ssa Francesca Parola MATERIALI 1. possesso di buona fede e beni mobili: art. 1153 c.c. (Cass., 14.9.1999, n. 9782)…………...p. 1; 2. usucapione abbreviata (Cass., 20.7.2005, n. 15252)………………………………………...p. 6; 3. usucapione ordinaria (Cass., 10.7.2007, n. 15446)…………………………………………p. 10. Possesso di buona fede di beni mobili: art. 1153 c.c. IL CASO Tizio acquista ad un’asta un dipinto di un celebre pittore. Successivamente si scopre che il dipinto era stato rubato al suo legittimo proprietario, il quale ne chiede la restituzione a Tizio. Assunte le vesti, rispettivamente, di Tizio e del proprietario, si illustrino le ragioni a favore e contro la richiesta di restituzione. Cass., sez. II, 14-09-1999, n. 9782. MASSIME 1) Il concetto di buona fede, di cui all’art. 1153 c.c., che rileva - in base a tale norma - ai fini dell’acquisto della proprietà di beni mobili a non domino, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c. e, pertanto, ai sensi del 2º comma di questa norma, la buona fede non giova a chi compie l’acquisto ignorando di ledere l’altrui diritto per colpa grave, la quale è configurabile quando quell’ignoranza sia dipesa dall’omesso impiego, da parte dell’acquirente, di quel minimo di diligenza, proprio anche delle persone scarsamente avvedute, che gli avrebbe permesso di percepire l’idoneità dell’acquisto a determinare la lesione dell’altrui diritto, poiché non intelligere quod omnes intellegunt costituisce un errore inescusabile, incompatibile con il concetto stesso di buona fede. 2) La buona fede rilevante, ai sensi dell’art. 1153 c.c., per l’acquisto a non domino della proprietà di beni mobili, deve ricorrere in capo all’acquirente al momento dell’acquisto (mala fides superveniens non nocet) e la relativa presunzione di sussistenza, può essere vinta in concreto anche tramite presunzioni semplici, le quali siano gravi, precise e concordanti e forniscano, in via indiretta (com’è normale, trattandosi di accertare l’esistenza o meno di uno stato psicologico), il convincimento della esistenza in capo all’acquirente del ragionevole sospetto di una situazione di illegittima provenienza del bene; gli elementi sui quali si possono fondare dette presunzioni possono essere costituiti (oltre che da circostanze coeve) anche da circostanze estrinseche precedenti all’acquisto (nella specie, concernente l’acquisto del dipinto «Natura morta con pesci» del De Chirico, avvenuto ad un’asta di Sotheby’s dopo un precedente furto nella casa della proprietaria, la suprema corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse desunto per presunzione che l’acquirente era stato in una situazione psicologica di sospetto dell’illegittima provenienza del dipinto, sì da doversi escludere la sua buona fede, argomentando dal fatto che egli, essendo, quale gallerista ed esperto d’arte, un esperto conoscitore della opere di De Chirico - come emergeva da una serie di circostanze, quali l’esistenza di una collezione di quadri di quell’autore a lui facente riferimento, la redazione della prefazione e presentazione per la relativa mostra e una lettera indirizzatagli dallo stesso De Chirico - era stato nelle condizioni di accertare se il suddetto quadro rientrava tra quelli oggetto delle indagini penali scaturite dal furto). 3) Perché possa ritenersi correttamente desunta una presunzione semplice è sufficiente che i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, già accertato in giudizio, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità, dovendosi cioè ravvisare una connessione fra la verificazione del fatto già accertato e quella del fatto ancora ignoto secondo regole di esperienza che convincano il giudice circa la probabilità e verosimiglianza della verificazione del secondo quale conseguenza del primo, potendo, dunque, il relativo accertamento presentare qualche margine di opinabilità, poiché il procedimento logico di deduzione non è quello rigido che è imposto, viceversa, in caso di presunzione legale; il giudizio in 1 base al quale il giudice di merito ragiona per presunzione semplice si sottrae al sindacato di legittimità, se convenientemente motivato alla stregua di detti criteri (principi affermati dalla suprema corte con riguardo ad un caso, in cui, in relazione ad acquisto a non domino, si era desunta per presunzioni la prova dell’inesistenza della buona fede dell’acquirente). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto notificato il 14 marzo 1989 Edmondo Sacerdoti conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, Elena Albini Trissino per sentir dichiarare cessati gli effetti del sequestro penale del dipinto "Natura morta con pesci" di De Chirico e per sentir dichiarare il suo diritto alla restituzione del dipinto, anche al fine di restituirlo alla proprietaria Corinne Hummel. Costituitasi, la convenuta contestava il fondamento di ogni avversa domanda, chiedendone il rigetto. Interveniva volontariamente in giudizio Corinne Hummel per sentire accogliere, in principalità, le domande formulate dall’attore e, in subordine, dichiarare il suo diritto ad ottenere la restituzione del quadro quale unica, attuale proprietaria. Interveniva volontariamente in giudizio anche Paola Albini Trissino, quale legittima erede, insieme alla sorella Elena, dei genitori proprietari del dipinto in questione, e contestava il fondamento delle domande proposte dal Sacerdoti e dalla Hummel, chiedendone il rigetto ed instava per l’accertamento del diritto di proprietà suo in ragione della metà con la sorella Elena sul dipinto in sequestro. Elena Albini Trissino, a sua volta, svolgeva domanda riconvenzionale per ottenere la declaratoria della comproprietà alla sorella Paola sul dipinto "de quo". In esito all’istruttoria, con sentenza 22.4. - 6.5.93 il Tribunale respingeva le domande proposte dal Sacerdoti e dalla Hummel, dichiarando Elena e Paolo Albini Trissino comproprietarie del dipinto di De Chirico in ragione di metà per ciascuna. Proposto gravame dai soccombenti, la Corte d’appello di Milano, con sentenza 15.5 - 21.6.96, rigettava l’impugnazione condannando gli appellanti, in solido, alle maggiori spese del grado. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione Edmondo Sacerdoti, sulla base di tre motivi, illustrati da memoria. Resistono con controricorso Corinne Hummel (che ha aderito al ricorso principale del Sacerdoti, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad un’unica censura) e Paola Albini Trissino, che resiste altresì con controricorso al ricorso incidentale della Hummel. Non ha spiegato attività difensiva in questa sede Elena Albini Trissino. MOTIVI DELLA DECISIONE Va preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi, in quanto proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.). 1. Ciò posto, con il primo motivo del ricorso principale si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 346 e 112 c.p.c., nonché omessa o comunque insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia. Osserva il ricorrente che nonostante il Tribunale avesse affermato la sussistenza del fatto storico dell’avvenuto acquisto e ricezione del quadro da parte di esso Sacerdoti all’asta Sotheby’s del 14 maggio 1980, e che tale affermazione non fosse stata posta in discussione da chicchessia sino alla fase collegiale d’appello, tal che ogni indagine in proposito era ormai preclusa perché coperta dal giudicato, i giudici del gravame di merito, senza effettuare la benché minima disamina diretta a stabilire in concreto quale fosse stata la decisione del Tribunale sul punto, si erano invece limitati ad una formulazione di mero stile priva di qualsiasi concreto riferimento al contenuto della decisione di primo grado uscendo nella pura e semplice affermazione secondo cui il primo giudice aveva escluso che fosse stata raggiunta la prova sulla circostanza addotta dall’attore e dalla sua amica con puntualizzazioni da ritenersi esatte e quindi condivise e fatte proprie dal Collegio d’appello. In sostanza la Corte del merito non aveva minimamente chiarito quale fosse la conclusione alla quale ì primi giudici erano pervenuti sulla base della "esclusione" dell’avvenuto raggiungimento della prova sulle circostanze per le quali non sarebbe stato "fornito alcun riscontro obiettivo", se cioè il tribunale, per effetto di tale esclusione, avesse negato la sussistenza dell’avvenuto acquisto del dipinto da parte di esso Sacerdoti all’asta di Sotheby’s, ovvero - come dedotto invece da esso ricorrente principale e dalla ricorrente incidentale, allora appellanti - affermando preliminarmente la sussistenza di tale acquisto, avesse invece considerato il mancato 2 "riscontro obiettivo" di dette circostanze unicamente per inferirne la mancata dimostrazione dell’acquisto della proprietà del dipinto da parte della Hummel. La doglianza è infondata. Va rilevato in proposito che per consolidata giurisprudenza di legittimità (v. tra le tante Cass. N. 5262/88, n. 2621/95), costituendo capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato (anche) interno, quello che risolva una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente, la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorra a formare un capo unico della decisione. Ebbene nel caso di specie, avendo il giudice di primo grado affermato nella sua pronunzia che "ammessa la prospettazione della coppia Sacerdoti - Hummel in ordine all’acquisto del dipinto da Sotheby’s, il problema realmente decisivo e(ra) costituito dalla buona o mala fede del Sacerdoti al momento dell’acquisto", è evidente che, concorrendo il presupposto di fatto dell’acquisto del dipinto all’asta americana a formare il capo unico della decisione circa l’insussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 1153 c.c. per l’acquisto "a non domino", su di esso non poteva di certo formarsi il giudicato interno. Tal che irrilevante è, ad avviso di questo Collegio, il dilemma postosi dal ricorrente sul mancato chiarimento da parte del giudice d’appello circa la reale efficacia probatoria dell’acquisto all’asta del dipinto da parte del Sacerdoti, in proprio ovvero quale mandatario della Hummel, posto che quel giudice, come il giudice di primo grado, si era preoccupato di valutare se nella fattispecie esaminata ricorresse o meno il decisivo requisito della buona fede dello stesso Sacerdoti al momento dell’acquisto, risolvendo la questione in senso a lui negativo. 2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., nonché omessa ed insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia. Contesta il Sacerdoti le ragioni addotte dalla Corte territoriale a sostegno della negazione della sussistenza in capo ad esso ricorrente principale del requisito della buona fede richiesto dall’art. 1153 c.c.. Le affermazioni a tal proposito dei giudici del gravame di merito si rivelerebbero innanzi tutto immotivate non essendovi, da una parte, alcun riferimento a concreti elementi di prova dai quali risulterebbe l’"ampia pubblicizzazione" ricevuta dal furto in casa Albini Trissino ed il "clamore" che lo stesso avrebbe destato, tanto da farne presumere la conoscenza da parte di esso Sacerdoti quale "esperto" di De Chirico e dall’altra non indicandosi minimamente quale avrebbe dovuto essere la consistenza della "diligenza" la cui omissione veniva attribuita ad esso ricorrente, giacché non si diceva nella gravata sentenza quale fosse la "particolare natura" del bene della quale "tenere conto" né si indicava quale avrebbe dovuto essere in concreto la condotta caratterizzata da "quel minimo di diligenza" che esso Sacerdoti avrebbe dovuto tenere e che invece non avrebbe tenuto, così incorrendo nella "colpa grave che ai sensi dell’art. 1147 comma 2º c.c. esclude la buona fede. Inoltre l’affermazione di conoscenza da parte di esso ricorrente della provenienza illecita del dipinto (coincidente con l’elemento soggettivo costitutivo del reato di ricettazione a suo tempo imputatogli) era stata formulata dalla Corte milanese presuntivamente sulla base degli stessi elementi la cui inidoneità a fondare anche il solo semplice "sospetto" di tale conoscenza era già stata affermata in sede penale. Il che, se pure non vincolante nel giudizio civile, costituiva comunque indice preciso della incongruità del ragionamento dei giudici d’appello non essendo i principi che reggono la prova presuntiva nel processo penale diversi da quella che la regolano in quello civile. Osserva ancora che i giudici del gravame di merito erano pervenuti ad affermare (cioè a ritenere provata) la conoscenza del furto da parte di esso ricorrente principale sulla base di una inammissibile "praesumptio de praesumpto" laddove da una parte avevano ritenuto in via presuntiva (anzi di mera congettura) l’"ampia pubblicizzazione" ed il "clamore" del furto del dipinto, e dall’altra stante la qualità di esso Sacerdoti di "studioso e appassionato" di De Chirico, avevano ricavato l’ulteriore presunzione ("non poteva essergli sfuggito") di conoscenza del furto del dipinto stesso, da parte del medesimo. La doglianza non può essere accolta. Come è noto, il concetto della buona fede, di cui all’art. 1153 c.c., che determina l’acquisto della proprietà di beni mobili da parte dell’acquirente "a non domino", per effetto del solo acquisto del possesso, corrisponde a quello dell’art. 1147 c.c.. La buona fede rilevante per il diritto ha carattere psicologico e portata etica, per cui si concreta in un comportamento conforme ai criteri della normale diligenza e prudenza (Cass. N. 100/64, n. 516/66, n. 906/80, n. 3971/84). 3 Essa, pertanto, non giova all’acquirente, se l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipende da colpa grave, questa essendo configurabile ogni qualvolta il possessore abbia omesso di usare anche quel minimo di diligenza, proprio delle persone scarsamente avvedute, al fine di accertare la lesione del diritto di terzi sulla cosa medesima, perché "non intelligere quod omnes intelligunt" costituisce errore inescusabile che esclude la buona fede (Cass. N. 957/62). La buona fede dell’acquirente "a non domino" viene presunta ed è sufficiente che ricorra al momento dell’acquisto ("mala fides superveniens non nocet") e una tale previsione di carattere generale può esser vinta in concreto anche da presunzioni semplici, le quali siano gravi, precise concordanti e forniscano, sia pure soltanto in via indiretta (proprio perché si tratta di accertare uno stato psicologico) elementi di fatto, impeditivi dell’acquisto "a non domino", di cosa mobile da parte del possessore, attraverso illazioni desumibili da circostanze estrinseche, precedenti o coeve all’acquisto stesso (Cass. N. 3754/68, n. 1203/69, n. 2961/71, n. 3195/71, n. 1301/73, n. 2178/76 n. 4374/79, n. 7202/95). Ciò premesso, secondo giurisprudenza di questa Corte regolatrice (per tutte Cass. N. 2790/85, n. 4878/89, n. 9717/91) in tema di prove per presunzioni è sufficiente che i fatti sui quali la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come conseguenza dei fatti accertati in giudizio alla stregua di canoni di ragionevole probabilità con riferimento cioè ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti ritenuti probanti dal giudice secondo regole di esperienza, che lo convincano circa detta probabilità e circa la compatibilità del fatto supposto con quello accertato. In sostanza la legge, attraverso lo schema logico della presunzione, offre all’interprete uno strumento di accertamento dei fatti che può anche presentare qualche margine di opinabilità; infatti, quando quest’ultima è esclusa per la rigidità della previsione della deduzione, si ha il diverso fenomeno della presunzione legale. Nel caso in esame l’impugnata sentenza, a pag. 13, ha valorizzato, ai fini della prova presuntiva, l’ampia pubblicizzazione ed il clamore destato dal furto in casa Albini Trissino, soprattutto per il numero e l’importanza dei dipinti sottratti, furto che non poteva di certo essere sfuggito all’attenzione del Sacerdoti, gallerista ed esperto d’arte, appartenente "al ristretto novero di studiosi ed appassionati dell’opera di De Chirico", secondo quanto si evinceva "agevolmente dalla stessa esistenza di una collezione di quadri del Maestro a lui facente riferimento (esposti, appunto, nel 1982 alla Galleria La Medusa), dalla prefazione - presentazione del Catalogo della mostra del 1982.... e dalla lettera 9.5.1970 dal De Chirico al Sacerdoti...", come specificato in prime cure. Il complesso di tali elementi indiziari ha permesso al giudice di appello di risalire, sempre su base presuntiva, al convincimento della esistenzain capo all’acquirente del ragionevole sospetto di una situazione illegittima, tale da escludere la di lui buona fede (in particolare il Sacerdoti era nelle condizioni, quale esperto conoscitore delle opere di De Chirico, di accertare se il quadro in questione rientrasse tra quelli oggetto di indagini da parte degli organi di polizia o dei carabinieri ad esse preposti, tal che era fondato ritenere che il predetto avesse omesso di usare anche quel minimo di diligenza proprio delle persone non competenti in tale settore). Non si tratta perciò di una "praesumptio de praesumpto", come denunziato dal ricorrente, fondandosi nella specie il convincimento del giudice su una "praesumptio hominis" in forza della quale il medesimo ha motivatamente dedotto l’assenza della buona fede dell’"accipiens a non domino" dai fatti accertati, interpretandoli secondo regole di esperienza, in base ad un criterio di probabilità. E tale giudizio, convenientemente motivato, si sottrae, essendo immune da vizi giuridici, al sindacato di legittimità (vedi sulla incensurabilità in cassazione del giudizio sulla sussistenza o meno della buona fede nel possesso ex artt. 1147 e 1153 c.c., Cass. N. 100/64, n. 1570/67, n. 3230/71, n. 13920/91, nonché, sul più generale principio della insindacabilità in quella sede dell’apprezzamento del giudice del merito circa la sussistenza degli elementi posti a fonte di presunzione e circa la rispondenza di questi ai prescritti requisiti di precisione, gravità e concordanza, Cass. N. 2245/66, n. 1824/67, n. 2986/67, n. 694/68, n. 2643/68, n. 4021/68, n. 4 1274/69, n. 1354/69, n. 2179/69, n. 2329/69, n. 2792/69, n. 3100/69, n. 1204/71, n. 2944/78, n. 6850/82, n. 3402/83, n. 4878/89, n. 7202/95). 3. Con il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente all’unico motivo del ricorso incidentale della Hummel, avente identico oggetto, si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., nonché omessa motivazione su punto decisivo della controversia. Osservano i ricorrenti che una volta incontestabilmente stabilito dal Tribunale l’avvenuto acquisto del dipinto da parte del Sacerdoti all’asta Sotheby’s, da ciò conseguiva che i soli possibili acquirenti della proprietà del bene erano, alternativamente, la Hummel per conto della quale il Sacerdoti aveva dichiarato di avere acquistato il quadro ovvero lo stesso Sacerdoti. E del resto una volta che i ricorrenti avevano individuato concordemente in uno di essi il titolare del diritto di proprietà sul bene in questione, non esisteva alcun problema di prova di tale titolarità. E poiché nella specie i due avevano concordemente dedotto che in seguito all’acquisto del dipinto da parte del Sacerdoti la proprietà dello stesso era pervenuta alla Hummel, ne conseguiva che la proprietà in capo a quest’ultima costituiva un fatto specifico non necessitante di alcun riscontro probatorio. Anche tale ultima doglianza non si sottrae alla sorte delle precedenti. Invero, a parte i rilievi esposti in relazione al primo motivo del ricorso principale circa la dedotta intangibilità del giudicato del Tribunale, appare del tutto singolare l’assunto che non ci sarebbe bisogno di prova per ritenere la proprietà del dipinto in capo alla Hummel, avendo il Sacerdoti e la predetta Hummel concordamente dedotto che, in seguito all’acquisto del quadro all’asta di Sotheby’s da parte del primo, la proprietà dello stesso era pervenuta alla seconda, onde tale circostanza costituiva ormai un fatto pacifico. Trattasi infatti di affermazioni apodittiche che non valgono di certo a sminuire la sentenza impugnata. Oltre tutto il Sacerdoti e la ricorrente incidentale non censurano nemmeno le argomentazioni svolte nella predetta sentenza alle pagine 13 e 14 a proposito della esclusione degli elementi costitutivi del diritto di proprietà vantato dalla Hummel, anche ai sensi dell’art. 1153 c.c.. Conclusivamente, entrambi i proposti ricorsi vanno respinti nella loro integralità, con la condanna dei ricorrenti, in solido, alle spese di questo giudizio, liquidate come da dispositivo. PER QUESTI MOTIVI La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore di Paola Albini Trissino, delle spese 5 Usucapione abbreviata IL CASO. Tizio, venuto a conoscenza che un garage di sua proprietà era stato venduto da Caio a Sempronio e Mevia come pertinenza di un appartamento, agisce in giudizio al fine di far accertare il suo diritto di proprietà. Avverso tale domanda resistono i coniugi, eccependo l’intervenuta usucapione. Assunte le vesti dei legali di Tizio e dei coniugi acquirenti, si illustrino le ragioni dei rispettivi clienti. Cass., sez. II, 20-07-2005, n. 15252. In tema di usucapione decennale di beni immobili, la buona fede di chi ne acquista la proprietà in forza di titolo astrattamente idoneo è esclusa soltanto quando sia in concreto accertato che l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipenda da colpa grave (art. 1147 c.c.); in linea generale, non può affermarsi che versi in colpa grave colui il quale, rivoltosi a un notaio per la redazione di un atto traslativo e non avendolo esonerato dal compiere le c.d. visure catastali ed ipotecarie, addivenga all’acquisto in considerazione delle garanzie di titolarità del bene e di libertà dello stesso fornite dall’alienante, o apparente tale, e nella ragionevole presunzione che l’ufficiale rogante abbia compiuto le opportune verifiche, atteso che il notaio, pur fornendo una prestazione di mezzi e non di risultato, è tenuto a consentire la realizzazione dello scopo voluto dalle parti con la diligenza media, riferibile alla categoria professionale di appartenenza, curando le adeguate operazioni preparatorie all’atto da compiere, senza ridurre la sua opera alla passiva registrazione delle altrui dichiarazioni (nella specie, è stata cassata la sentenza impugnata che, senza compiere alcuna specifica indagine in ordine alla colpa in concreto ascrivibile, aveva escluso la buona fede di coloro i quali avevano posseduto per oltre dieci anni l’immobile acquistato con atto regolarmente trascritto, sulla astratta considerazione che i predetti avrebbero potuto verificare attraverso le visure dei registri immobiliari l’esistenza - al momento del loro acquisto - della trascrizione della domanda giudiziale di accertamento del trasferimento della proprietà del medesimo bene a favore di terzi, che l’avevano in precedenza comprato dallo stesso dante causa in forza di atto non trascritto). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I grado. Tribunale. - Con atto notificato in data 4.11.93 Giovanni D'Annibale citò al giudizio del Tribunale di Frosinone i coniugi Raffaele Carnesecchi ed Anna Maria Amati, al fine di sentir dichiarare l'inopponibilità nei propri confronti dell'atto di compravendita per notar Seraschi in Ceccano del 22.6.77, registrato il successivo 11.7, ad oggetto di un immobile e relative pertinenze sito in Filettino, nella parte in cui i convenuti si erano resi acquirenti, da tale Domenica Gabrielli, anche di un "box-garage" di mq 22, bene quest'ultimo di cui essi attori rivendicano la proprietà, in forza di sentenza del Tribunale medesimo n. 363/78, successivamente confermataci 1980, dalla Corte d'Appello di Roma; tale sentenza, precisava l'attore, aveva dichiarato che la scrittura privata in data 30.8.1975 stipulata tra lui e la Gabrielli, ad oggetto, tra l'altro, del suddetto "box-garage", aveva natura di contratto definitivo di compravendita, e che il bene, come aveva appreso all'atto di porre in esecuzione il giudicato era stato di fatto accorpato dall'alienante ad altro appartamento e venduto ai convenuti. 6 - Costituitisi questi ultimi [= coniugi], eccepivano l'usucapione decennale ex art. 1159 c.c.. - Con sentenza del 4.1.99, all'esito di istruttoria documentateci Tribunale respingeva la domanda, in accoglimento dell'eccezione riconvenzionale suddetta, con compensazione delle spese. II grado. Appello. - Proposto appello dall'attore, resistito dai convenuti, con sentenza del 24.1. - 12.2.92, la Corte d'Appello di Roma accoglieva il gravame e, per l'effetto, dichiarava l'inefficacia della compravendita già citata, relativamente al "box-garage" in contestazione, nei confronti dell'attore, per essere il medesimo di proprietà di quest'ultimo, e condannava i convenuti al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Tale decisione si basa sull'essenziale considerazione che la "buona fede", che ai sensi dell'art. 1159 cod. civ. deve connotare il possesso utile all'acquisto per usucapione di beni immobili in forza di titolo astrattamente idoneo a trasferirne la proprietà, doveva ritenersi nella specie esclusa dalla circostanza che la domanda del D'Annibale proposta nei confronti della Gabrielli al fine di sentirsi dichiarare proprietario, tra l'altro, di quel bene, risultava debitamente trascritta nei registri immobiliari fin dal 23.12.1976. Di tale trascrizione i coniugi Carnesecchi - Amati ben avrebbero potuto acquisire conoscenza, "personalmente o per il tramite del notaio rogante l'atto ... mediante misura e verifica catastale e ipotecaria", prima di rendersene, a loro volta, acquirenti; pertanto il mancato "adempimento a tutti gli oneri derivanti dal principio della normale diligenza e della buona fede in particolare" impediva che l'acquisito possesso potesse valere ai fini dell'usucapione abbreviata. Cassazione. Avverso tale sentenza il Carnesecchi e la Amati [= coniugi] hanno proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo, articolato su due censure. Resiste con controricorso il D'Annibale. MOTIVI DELLA DECISIONE - Nei due profili di censura, strettamente connessasi deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 1159 cod. civ. e quella dell'art. 47 co. 3 della L. 16.2.13 n. 89, sull'Ordinamento del Notariato, nonchè dell'art. 67 del relativo regolamento, R.D. 10.9.14 n. 1326. Le doglianze, corredate da massime della corrente giurisprudenza in materia di possesso utile all'usucapione, partendo dalle premesse di fatto - pervero incontestate - che la materiale disponibilità dell'immobile acquistato era stata pacificamente esercitata, con il carico dei relativi oneri anche fiscali, per oltre sedici anni, senza che prima, all'atto e dopo l'acquisto, alcuno avesse mai esternato o comunicato alcuna contestazione al riguardo, possono compendiarsi nell'assunto che la buona fede, che deve qualificare il possesso agli effetti dell'art. 1159 c.c., non possa essere esclusa dalla circostanza della precedente avvenuta trascrizione della domanda giudiziale ad oggetto del bene, tenuto conto che la relativa ignoranza sarebbe stata determinata dal comportamento malizioso della venditrice e dalla negligenza professionale del notaio rogante, ordinariamente tenuto a compiere le cd. "visure ipocatastali", a meno di espressa dispensa delle parti, nella specie non intervenuta. Così delineati i termini della vicenda, caratterizzata da due trasferimenti successivi, da parte della stessa alienante, di un medesimo bene immobile, il primo dei quali con scrittura privata non registratale trascrittala seguita da trascrizione della relativa domanda giudiziale e da successiva sentenza dichiarativa dell'avvenuta alienazione, ed il secondo, in forza di atto pubblico, trascritto successivamente alla trascrizione dell'anzidetta domanda, ma seguito da immissione in possesso dell'acquirente, poi protrattasi per oltre un decennio, considerato altresì che la sentenza dichiarativa della proprietà del D'Annibale, in forza della priorità acquisita con la trascrizione della domanda, 7 era opponibile ai Carnesecchi - Amatici cui titolo di acquisto era stato successivamente trascritto, il thema decidendum attiene alla ricorrenza o meno del requisito della buona fede, nel comportamento osservato dai successivi acquirenti, ai fini dell'utilità del successivo possesso richiesto per l'usucapione. A tal proposito, considerato che l'art. 1147 c.c., dopo aver definito, al primo comma, possesso in buona fede il fatto di "chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto", tuttavia precisa, al secondo, che "la buona fede non giova, se l'ignoranza dipende da colpa grave", compito dei giudici territoriali sarebbe stato quello di stabilire, con valutazione discrezionale di merito adeguatamente motivata, se l'intervenuta omissione degli accertamenti, diretti a stabilire la persistente appartenenza del bene alla venditrice, potesse in concreto integrare gli estremi di una culpa lata, dolo proxima, tale da inquinare l'apparente acquisto del bene alieno ed il conseguente possesso ad usucapionem. A tale quesito i giudici di appello, premesso che "era onere degli acquirenti verificare la corrispondenza ipocatastale tra il bene trasferito e quello ricevuto", si sono limitati a fornire una sbrigativa risposta compendiata nella considerazione secondo la quale " se il Carnesecchi e la Amati avessero adempiuto a tutti gli oneri derivanti dal principio della normale diligenza, e della buona fede in particolare (ex art. 1147 cod. civ.), effettuando le dovute visure, sarebbero stati in grado di apprendere che parte dell'immobile da loro acquistato era di pertinenza di altra unità abitativa ... e su cui l'odierno appellante fin dal 23.12.1976 aveva provveduto a trascrivere la domanda giudiziale nei confronti della venditrice Gabrielli". L'affermazione, oltre che carente sul piano della concreta indagine in ordine all'elemento psicologico degli acquirenti nella particolare vicenda in questione, si appalesa insufficiente anche sotto il profilo giuridico, laddove fa riferimento alla "normale diligenza", vale a dire a quella mediarla cui mancata osservanza tuttavia integra gli estremi della colpa lieve o ordinaria, e non anche di quella "grave", che invece richiede la violazione delle più elementari regole di prudenza ed avvedutezza (non intelligere quod omnes intelligunt), che costituiscono patrimonio minimo dell'esperienza anche delle persone meno dotate (in proposito v. Cass. 2^ n. 7202/95, n. 9762/99). I giudici territoriali, in altri termini, hanno ritenuto di affermare una sorta di principio, generale ed astratto, in virtù del quale dovrebbe presumersi sempre la colpa grave nell'acquirente di un immobile che non abbia, personalmente, compiuto accertamenti presso i registri immobiliari ed il catasto, al fine di accertare l'effettiva appartenenza del bene all'alienante. Ma è di tutta evidenza come l'affermazione di un siffatto principio si risolverebbe nella vanificazione pressocchè totale della portata della norma di cui all'art. 1159 c.c., rendendo praticamente impossibile nella maggior parte dei casi l'acquisto per usucapione abbreviata degli immobili, oggetto di trasferimento a non domino, considerato che normalmente le indagini cd. "ipocatastali" consentono, attraverso l'individuazione dell'intestatario o la successione dei trasferimenti, di accertare l'effettiva titolarità del bene nell'alienante. Da tale considerazione e da una corretta applicazione del concetto di gravita della colpa, quale intesa secondo i correnti, già menzionati, canoni giurisprudenziali e dottrinari, discende che la sussistenza della "buona fede", indispensabile agli effetti della particolare fattispecie acquisitiva in questione, non possa essere sempre e tout court esclusa dal mancato compimento delle indagini atte ad individuare l'appartenenza del bene a chi se ne affermi proprietario, ma soltanto nei casi in cui siffatta omissione sia, in concreto, connotata da quei caratteri di macroscopicità ed eclatanza che ne giustifichino, in virtù della regola dettata dal secondo comma dell'art. 1147 c.c., la parificazione al dolo. Così delineati i criteri direttivi dell'indagine, ai quali deve attenersi il giudice di merito, decisiva rilevanza assume, ai fini dell'accertamento del grado della colpa, il particolare atteggiarsi dei rapporti tra l'acquirente, o apparente tale, ed il notaio, soggetto istituzionale al quale il primo deve necessariamente rivolgersi per la formalizzazione di tali atti di acquisto (posto che, tra i requisiti prescritti all'art. 1159 cit. figura quella della trascrizione del "titolo idoneo") e che, in base ai doveri professionali è tenuto, salvo che non sia stato espressamente dispensato dalle partila compiere tutte 8 le verifiche atte ad accertare l'appartenenza del bene a chi intenda alienarlo e la libertà dello stesso da ipoteche trascrizioni, pesi et similia. A tal riguardo, costituisce principio giurisprudenziale costante quello secondo il quale il notaio, pur fornendo una prestazione di mezzi e non di risultato, è tuttavia tenuto a perseguire il conseguimento dello scopo voluto dalle parti con la diligenza media, riferibile alla categoria professionale di appartenenza, in virtù della quale, non potendo la sua opera ridursi alla passiva registrazione delle altrui dichiarazioni, è tenuto a compiere anche le adeguate operazioni preparatorie all'atto da rogare; ne consegue che, nei casi di trasferimento immobiliare, tra compiti rientra pure quello di procedere, senza la necessità di uno specifico incarico - salvo che, per concorde ed espressa dispensa delle parti, per l'urgenza o per altre particolari ragioni contingenti, non ne sia stato esonerato - alle cosiddette visure, dirette ad individuare il bene, accertarne la titolarità e la libertà (v., ex multis, Cass. Sez, 1^ n. 10493/99, sez. 2^ n. 475/94, n. 10482/95, n. 5233/00, n. 547/02, n. 8470/02, n. 1228/03, n. 7261/03, n. 4427/05, Sez. 3^ n. 4020/95, n. 5946 /99, n. 5158/01). Tali principi in virtù dei quali costituisce, nei rapporti con il cliente, colpa professionale il mancato espletamento delle suddette attività preparatorie dell'atto, che normalmente rientrano tra i doveri del notaio, per altro verso, implicano la normale aspettativa, in chi a quest'ultimo si sia rivolto per la stipula di un atto di acquisto immobiliare, che i menzionati adempimenti siano compiuti: ne consegue che non può, in linea generale, affermarsi che versi in colpa grave colui che, rivoltosi ad un notaio per la redazione di un atto traslativo di immobile e non avendolo esonerato dal compiere le ed "visure" catastali ed ipotecarie, addivenga all'acquisto, in cospetto delle garanzia di titolarità del bene e libertà dello stesso fornite dall'alienante o apparente tale, e nella ragionevole presunzione che l'ufficiale rogante abbia compiuto le opportune verifiche. Tale grado di colpa potrà, eventualmente, ravvisarsi nei casi in cui l'acquirente già dall'esame del titolo sia messo in grado di escludere o comunque dubitare della titolarità, in capo all'alienante, del diritto trasferito (in tal senso v. Cass. 1^ sez. n. 4215/87, 2^ sez. n. 7278/92), oppure, avendo esonerato il notaio dall'eseguire i suddetti ordinari accertamenti preliminari, non li abbia a sua volta compiuti, mentre nelle altre ipotesi la pur configurabile imprudenza nell'acquisto, compiuto fidandosi delle assicurazioni della controparte e nel convincimento che il notaio rogante ne abbia verificato la veridicità, senza chiederne tuttavia specifico conto, può integrare solo gli estremi della colpa lieve, inidonea ad escludere la buona fede, ai sensi dell'art. 1147 c.c. e, conseguentemente, non ostativa all'acquisto per usucapione decennale ex art. 1159 c.c. dell'immobile, il cui possesso sia stato acquisito in forza di titolo astrattamente idoneo a trasferirlo e debitamente trascritto. Il ricorso va conseguentemente, accolto per quanto di ragione, con cassazione della sentenza impugnata in relazione alle recepite censure e rinvio, per nuovo esame sulla scorta dei principi come sopra affermati, ad altra sezione della Corte territoriale di provenienza, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie, per quanto di ragione, il ricorso, cassa la sentenza impugnata il relazione alle accolte censure e rinvia, per nuovo esame e per il regolamento delle spese di questo giudizio, ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma. 9 Usucapione ordinaria IL CASO Tizio, Caio e Sempronio, dopo aver coltivato per otre vent’anni un terreno in realtà di proprietà di due società, Alfa e Beta, agiscono in giudizio per far dichiarare l’intervenuta usucapione. Le società resistono avverso la domanda proposta. Assunte le vesti dei legali delle due parti, si illustrino le ragioni, rispettivamente, dei coltivatori e delle società. Cass., sez. II, 10-07-2007, n. 15446. Ai fini della prova dell’intervenuta usucapione, la coltivazione di un terreno, in modo pubblico, pacifico, continuo ed ininterrotto per i venti anni richiesti dall’art. 1158 c.c. ben può configurare lo ius possessionis mentre la sussistenza dell’animus possidendi è desumibile in via presuntiva ed implicita dall’esercizio dell’attività materiale corrispondente al diritto di proprietà SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I grado. Tribunale. Con atto di citazione notificato il 18 e 19 aprile 1991 N., S., C.C. e S.N. convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma le società Parsitalia s.r.l., e Fillade S.p.a., e premesso: - che avevano posseduto "uti domini" per oltre venti anni, il terreno, sito nel territorio di questa città, in località "(OMISSIS)", esteso mq. 976,11 e distinto in catasto al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS), intestato alle convenute; - che essi l'avevano adibito ad orto e a deposito di materiali edili sin dall'inizio del possesso; - che questo possesso era stato esercitato in modo pacifico e pubblico ininterrottamente sin dal 29.1.1962 da parte di C.B., rispettivamente padre e marito degli attori, deceduto nel (OMISSIS), e successivamente dai medesimi, i quali erano i suoi eredi; - che la prescritta durata, per rivendicare l'acquisto dell'immobile per usucapione, era maturata già da tempo, e cioè prima del decesso del congiunto; - che gli eredi poi erano subentrati nel possesso e continuavano a mantenerlo; tutto ciò premesso, gli attori chiesero che il Giudice emettesse pronunzia declaratoria di acquisto della proprietà di tale bene per intervenuta usucapione. Le due società convenute si costituirono con comparsa di risposta, eccepirono l'infondatezza della domanda "ex adverso" proposta, di cui perciò chiedevano il rigetto. In particolare eccepirono che gli attori avevano occupato abusivamente il terreno in questione. Contestualmente svolsero domanda riconvenzionale, con la quale domandarono la condanna della controparte al rilascio del predio e al risarcimento del danno, da liquidare anche in via equitativa. Esperita l'istruttoria con l'acquisizione della documentazione e l'esame dei testimoni addotti da entrambe le parti. La causa venne decisa con la sentenza n. 24143 del 23.5.2000, con la quale il tribunale, in composizione monocratica, in accoglimento della domanda degli attori, dichiarò che la proprietà del predio era stata acquistata da loro a seguito di compiuta usucapione. II grado. Appello. 10 - Avverso tale sentenza la società Parsitalia propose appello dinanzi alla Corte territoriale di Roma, cui i tre C. e S. resistettero, mentre la società Fillade non si costituì e venne dichiarata la contumace. - La Corte di merito, con decisione del 30 gennaio 2003, in accoglimento dell'impugnazione (e della riconvenzionale già proposta in primo grado), ha rigettato la domanda degli appellati, condannandoli al rilascio del fondo e al rimborso delle spese dei due gradi del giudizio. Ha osservato non essere risultato con certezza che essi e il loro dante causa avessero avuto il possesso del terreno: in altre parole, non era risultato l'esercizio del potere di fatto sul fondo, in quanto la serra era stata realizzata in epoca recente, mentre la recinzione era stata collocata prima ancora che il predio venisse occupato. Non erano significativi per dimostrare che, di fatto, gli attori avessero esercitato la signoria sul terreno le altre, diverse risultanze - quali l'occupazione del terreno con materiali di scarto e con un mezzo di trasporto ivi abbandonato o gli altri comportamenti del tutto irrilevanti, potendo essere meramente tollerati. Cassazione. Avverso tale sentenza i C. e S. hanno proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi. La società Parsitalia ha resistito con controricorso. La Fillade non si è costituita. Le parti hanno illustrato le loro rispettive osservazioni e deduzioni con memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE - Con il primo ed il secondo motivo, enunciati in un unico contesto, e che perciò vengono esaminati congiuntamente, stante l'evidente connessione, i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1140, 1146, 1158 e 2697 c.c., oltre che omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in quanto la Corte di Appello, essendo stato dimostrato il fatto oggettivo del possesso del terreno, non ha considerato che l'animus possidendi doveva essere ritenuto implicito. Le emergenze processuali, invero, avevano provato non soltanto che il terreno era stato recintato, ma che era stato utilizzato in via esclusiva quale deposito di materiali e soprattutto coltivato come orto. La Corte di merito non ha valutato in modo corretto e adeguato le dichiarazioni dei vari testimoni esaminati ad istanza degli attori in primo grado, secondo i quali il bene era stato posseduto dal loro dante causa sin dal 1962, ed essi avevano continuato l'esercizio del possesso, usando il terreno come deposito di materiali e coltivandolo ad orto. Tali censure sono fondate, con riferimento ai rilievi, che seguono. La Corte d'Appello non ha speso una parola intorno al fatto della coltivazione del terreno ad orto: situazione questa presa in considerazione nella precedente fase del giudizio e riproposta nelle difese svolte in appello dagli odierni ricorrenti. Per la verità, la coltivazione del terreno ad orto configura una attività, specifica ed importante, senza dubbio corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà vantato dai ricorrenti. Coltivare il terreno, infatti, significa disporre materialmente di esso, nutrire la ragionevole aspettativa di raccogliere i frutti e l'intendimento di appropriarsi di essi. Se la coltivazione configura un comportamento pubblico, pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul predio un potere di fatto corrispondente a quello del proprietario. Pertanto, se la sussistenza di un corpus siffatto, accompagnata dall'animus possidendi desumibile in via presuntiva dalla specifica attività materiale, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà - si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell'usucapione, essa raffigura il fatto, cui la legge riconduce l'acquisto del diritto di proprietà. 11 L'abbandono di un mezzo di trasporto sul terreno e il suo utilizzo per il deposito di materiali di scarto può anche considerarsi equivoco e comunque riconducibile alla mera tolleranza del proprietario. Non così la coltivazione del terreno: questa sembra un dato univoco e non riferibile a mera tolleranza. La Corte doveva indicare le ragioni, in base alle quali la dedotta coltivazione del fondo da parte degli occupanti non fosse stata presa in considerazione, a meno che questo specifico elemento fosse stato ritenuto insussistente, ovvero sporadico, e comunque non significativo ai fini della relazione di fatto dei presunti occupanti col bene. Ma sul punto dedotto il giudice dell'impugnazione, fondata o meno che fosse la relativa questione, doveva comunque delibare. Ciò posto, la Corte Suprema rileva che la motivazione della sentenza relativamente ad esso si presenta insufficiente. Ne deriva che il ricorso, in relazione alla suindicata questione, va accolto, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello di Roma, altra sezione, per nuovo esame sul punto. Premesso che per la sussistenza del possesso utile per usucapire occorre il riscontro di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, il potere corrispondente a quello del proprietario, dirà la Corte se i ricorrenti abbiano o no coltivato il terreno ad orto per il tempo prescritto e se detta attività ininterrotta configuri o no un possesso utile per usucapire. Sulle spese di questo giudizio, deciderà il giudice del rinvio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma, altra sezione. Così deciso in Roma, il 15 marzo 2007. Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2007 12