Primo rapporto ANMIL sulla tutela delle vittime del lavoro. Sintesi

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Primo rapporto ANMIL sulla tutela delle vittime del lavoro. Sintesi
Sintesi Rapporto ANMIL su tutela Vittime del Lavoro
Nel muoversi attraverso il mercato i lavoratori devono avere nel proprio “portafoglio”
alcune certezze: la sicurezza sui luoghi di lavoro, la sicurezza della pensione quando sarà
il momento, la sicurezza di poter continuare a crescere in formazione ed aggiornamento
professionale con ammortizzatori sociali funzionali allo scopo, la sicurezza di poter
recuperare presto e al meglio la propria identità fisica e professionale in caso di infortunio,
la sicurezza di avere di che vivere – ed in modo adeguato come dice la Costituzione – con
la propria famiglia qualora si resti invalido.
L’occasione della Conferenza sulla sicurezza sul lavoro di Napoli, a nostro avviso,
deve quindi essere colta come un’eccezionale opportunità per riaffermare in uno
scenario di eccezionale partecipazione istituzionale, politica e sociale la centralità
della tutela della dignità del lavoro di cui sono parte integrante la garanzia di
sicurezza e la unitarietà del processo di presa in carico del lavoratore. Presa in
carico che parte dagli essenziali momenti di protezione contro i rischi sul lavoro a quelli,
altrettanto essenziali, di garanzia per il futuro in caso di incidente a quelli, infine di pronta
reazione con interventi curativi, rieducativi, riabilitativi ed indennitari all’atto del verificarsi
dell’infortunio e - ovviamente ma è bene ricordarlo - del manifestarsi della malattia
professionale.
Oggi, oltretutto, si coglierebbe la straordinaria occasione della parallela costruzione
del Testo unico per la prevenzione, creando già a livello normativo un “continuo”
fra i due mondi a dimostrazione che sono “due” solo per i profili scientifici e
gestionali, ma non per quelli della qualità complessiva delle tutele accomunate dal
rivolgersi alla stessa persona del lavoratore.
UNIFICAZIONE ENTI E PASSAGGIO DELL’INAIL ALLA GESTIONE A RIPARTIZIONE
Il Presidente Prodi ha recentemente preannunciato il superamento del sistema a
capitalizzazione della gestione INAIL per adeguarlo a quello degli altri Paesi d’Europa
ove l’assicurazione è gestita a ripartizione, mentre da parte di alcuni settori della
maggioranza si propone la creazione di un unico ente che assorba le competenze di
INPS, INAIL, INPDAP, IPSEMA, ecc..
Proposte che ci preoccupano non tanto per motivazioni gestionali ed organizzative che
appartengono ad altri - a meno che non si riflettano negativamente sulla qualità del
servizio - quanto per la filosofia di fondo della proposta. Infatti si unificherebbe o si
cambierebbe gestione finanziaria non per dare un servizio migliore, ma per
risparmiare ed utilizzare il “tesoro dell’INAIL” (così sulla stampa) al fine di migliorare i
trattamenti di pensione minimi oppure – e nella nostra ottica sarebbe almeno senz’altro più
corretto – per valorizzare ammortizzatori sociali.
Siamo in presenza di due colpi di piccone al sistema di tutela per i rischi
professionali, nel senso che:
- sarebbe formalizzata la fine della assicurazione per ricondurre tutto ad un generico
contesto previdenziale/assistenziale nel quale i soldi si acquisiscono a vario titolo e
diverse motivazioni e poi si spendono per finalità – certamente importanti – sganciate
dall’acquisizione delle risorse: in questo modo verrebbe meno qualsiasi garanzia in
costanza di lavoro per i livelli di indennizzo, a regime condizionati dall’esigenza, parimenti
essenziale, di mantenere e migliorare i livelli delle pensioni;
- verrebbe meno la credibilità stessa del progetto di presa in carico e continuità di
servizio fra prevenzione ed assicurazione che si troverebbero “incapsulate” in un
sistema previdenziale gigantesco, senza alcuna possibilità di effettivo collegamento in
continuità con il mondo dei servizi e gestione della prevenzione.
LA
SPESA PER PRESTAZIONI ALLE VITTIME DI INCIDENTI SUL LAVORO E DI MALATTIE
PROFESSIONALI
La riforma realizzata con il Decreto legislativo 38/2000 - con il quale è stata introdotta in
via sperimentale la copertura del danno biologico, salutata come un intervento che si
annunciava migliorativo per la definizione delle rendite, - nella sua applicazione concreta
si è ritrovata invece a garantire prestazioni migliori per le grandi invalidità e per quelle
permanenti (che, fortunatamente, rappresentano un numero esiguo rispetto alla gran
massa degli infortuni), ma per la stragrande maggioranza degli incidenti con esiti di
minore gravità, ha comportato un netto ridimensionamento del livello delle
prestazioni in rendita se non addirittura la trasformazione dell’indennizzo da rendita,
a capitale liquidato una tantum.
Per fare un esempio: un lavoratore infortunato che perde tutte le dita della mano destra,
nel caso abbia moglie, un figlio “a carico” e una “retribuzione superiore alla media”,
percepisce il 14,33% di rendita in meno (2.440 euro l’anno) rispetto al regime
precedente al Decreto 38/2000 (nelle tabelle n. 1 e n. 2 sono riportati ulteriori
esemplificazioni).
Dunque, grazie a questa riforma che da sperimentale si è trasformata in definitiva senza
alcuna verifica intermedia, l’INAIL ha potuto risparmiare negli anni tra il 2001 ed il
2006 oltre 272 milioni di euro, considerato che la spesa per rendite agli infortunati,
depurata degli adeguamenti previsti per legge, è calata del 5% (vedi tabella n. 3). Un
risparmio al quale deve aggiungersi un sostanzioso aumento dei premi versati dalle
imprese per l’assicurazione dei lavoratori dai rischi professionali (+15,4% in termini reali,
pari a 859 milioni di euro).
In poche parole, i risparmi sulle prestazioni erogate in favore degli invalidi del lavoro
ed il surplus di risorse costituite dai premi assicurativi pagati dai datori di lavoro e dai
lavoratori autonomi hanno contribuito al risanamento del deficit di finanza pubblica,
andando a fronteggiare finalità non rispondenti ai compiti statutari dell’INAIL, che è
andato perdendo, via, via, la propria autonomia finanziaria e di bilancio, trasformandosi in
un tesoro da circa 12 miliardi di euro al quale attingere da più parti.
Tutte favole, quindi, quelle sul fatto che i soldi dell’INAIL sono dei lavoratori: nella realtà,
sono soldi come le imposte che entrano nel “patrimonio” della pubblica amministrazione
per essere gestiti nel modo più idoneo rispetto alle strategie di quest’ultima.
Sono cinque anni che l’Associazione ripropone con fermezza ed in tutti i modi possibili
(abbiamo promosso anche una proposta di legge di iniziativa popolare che giace in
Parlamento) l’esigenza di rimediare all’arretramento dei livelli di tutela complessiva
provocati dalla riforma del decreto 38/2000 (il danno biologico).
Una riforma ottima e rivoluzionaria che andava, però, monitorata per i suoi effetti,
assestata sulla base delle prime esperienze, con un aggiornamento continuo dei
valori da essa espressi. Ma così non è stato.
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E non solo non si è messo mano alla riforma del Testo unico del 1965, la legge base
ormai del tutto squilibrata nella sua logica generale dai continui ed essenziali interventi di
modifica, ma non si è provveduto nemmeno a quei piccoli aggiustamenti sollecitati
dall’ANMIL che avrebbero consentito di rimediare alle più palesi incongruenze.
Ogni volta abbiamo avuto assicurazioni dal Governo e Parlamento di turno che hanno
mostrato attenzione ed interesse sempre però naufragati di fronte alla “onerosità”
dell’intervento per la finanza pubblica (circa 130 milioni di euro). Una motivazione
stringente e preoccupante, nella misura in cui da essa traspare una forte contraddizione: il
bilancio dell’INAIL è in attivo, le innovazioni costano pochi soldi, si conviene che le
prestazioni vanno adeguate, ma non si fa nulla perché le riforme devono essere a
costo zero per la finanza pubblica nel suo insieme.
Senza contare che dal 1995, con la riforma delle pensioni del Governo Dini, agli infortunati
sul lavoro è precluso anche l’accesso all’assegno di invalidità ed alla pensione di inabilità
dell’INPS, con il risultato che il risarcimento per il danno subito diventa mezzo di
sostentamento. Ed anche in questo caso, nonostante la volontà unanime delle forze
politiche di abolire questa norma, sembra impossibile reperire le poche risorse finanziarie
necessarie (circa 20 milioni).
Occorre dunque che il Governo affronti al più presto anche il problema della tutela
delle vittime degli incidenti e delle malattie professionali, aprendo un tavolo con le
forze sociali, per rimediare ai guasti prodotti dopo il 2000 dalla normativa
sperimentale allora varata con tante buone intenzioni, rivelatesi poi del tutto sbagliate.
LA SICUREZZA SUL LAVORO E I DATI PIÙ RECENTI SULL’ANDAMENTO DEGLI INCIDENTI
Non è soltanto una questione di numeri: che gli infortuni sul lavoro siano una piccola
percentuale in più o in meno rispetto all’anno precedente non è la cosa più importante,
non aiuta a cambiare: sono sempre tanti, troppi. Nell’era della tecnologia digitale, gli operai
edili e metalmeccanici, come ieri e forse di più, muoiono o rimangono colpiti con gravi,
invalidanti, esiti permanenti dagli infortuni sul lavoro.
Tra gennaio e novembre dello scorso anno, secondo i dati provvisori disponibili,
abbiamo dovuto contare 1141 morti sul lavoro, appena 14 in meno di quelli che
segnalano i dati ben più consolidati dello stesso periodo del 2005, con un aspetto
preoccupante da sottolineare: il calo è in agricoltura, mentre nel settore industria e
servizi (in cui si contano il 90% degli incidenti) si registra una crescita che è costata
24 morti in più (oltre il 2% di aumento).
Senza contare il fatto che le statistiche ufficiali non riportano mai il numero dei morti
per malattie professionali: tra il 2001 ed il 2006 sono stati 873 i decessi riconosciuti
dall’INAIL come provocati da malattie contratte nei luoghi di lavoro e, di questi, ben 619
dovuti a tumori causati dall’esposizione ad amianto.
Anche uno sguardo all’Europa dovrebbe dirci che quello che facciamo non basta.
Negli ultimi 10 anni, secondo i dati EUROSTAT, i morti sul lavoro sono diminuiti del
46% in Germania e del 34% in Spagna, ma solo del 25 % nel nostro Paese. Il risultato
è che nel 2004 (l’anno più recente su cui fare un confronto) nessuno ci batte per morti
sul lavoro: 944 in Italia, 804 in Germania, 743 in Francia e 722 in Spagna.
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E non si venga a dire che in Francia il tasso di incidenza è più alto che in Italia: di fronte a
200 morti in più non ci facciamo molto con il tasso di incidenza, se non forse
anestetizzare le coscienze.
Nella recente finanziaria abbiamo rilevato segnali positivi: l’azione di contrasto al lavoro
nero; l’adeguamento delle sanzioni per le violazioni alle norme sulla sicurezza nei luoghi di
lavoro; il potenziamento dei servizi di controllo, la semplificazione amministrativa di alcune
forme di tutela delle vittime di infortuni, per citare quelli più rilevanti.
Tuttavia, i numeri ci dicono che occorre fare di più e siamo fiduciosi che sarà fatto:
coordinando le attività ispettive, applicando puntualmente le sanzioni previste,
formando e informando i lavoratori ed i datori di lavoro, mantenendo i riflettori
puntati sul fenomeno.
E magari con un occhio di particolare riguardo per le malattie professionali, per il loro
silenzioso accumularsi di morti per tumori noti e per patologie che riconosceremo, di
questo passo, magari fra dieci o venti anni.
Marinella de Maffutiis - Resp. Ufficio Stampa ANMIL - 06.5419620-5/1 – 335.6870875
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