P. Di Troia BURQA
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P. Di Troia BURQA
Burqa: il sindaco non può vietarne l’uso – di Pietro Di Troia E’ quanto emerge da una recente sentenza del consiglio di Stato (CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 19 giugno 2008 n. 3076 ) che ha ritenuto legittimo il decreto con cui un Prefetto ha annullato l’ordinanza con la quale il Sindaco di un Comune, in qualità di Ufficiale del Governo, ha ordinato di adeguarsi alle norme che fanno divieto di comparire mascherati in pubblico, includendo tra i mezzi idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona anche il velo che copre il volto (c.d. burqa). Con la parola burqa si indica un capo d'abbigliamento tradizionale delle donne di alcuni paesi di religione islamica. Il termine burqa individua due tipi di vestiti diversi: il primo è una sorta di velo fissato sulla testa, che copre l'intera testa permettendo di vedere solamente attraverso una finestrella all'altezza degli occhi e che lascia gli occhi stessi scoperti. L'altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, è un abito, solitamente di colore blu, che copre sia la testa sia il corpo. All'altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi della donna. Si differenzia dal Chador, o Hijab, o velo islamico: infatti, quest’ultimo comporta una copertura della donna, non aderente, lungo tutto il corpo, compresi seno e capelli restando scoperti soltanto le mani, il viso e i piedi. L’uso di tali capi d’abbigliamento da parte di donne di religione islamica ha fatto sorgere la necessità di una verifica della compatibilità e laicità di tale uso. Al riguardo si nota come la questione investe diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti: da un lato la necessità di garantire la libertà religiosa e le sue manifestazioni dall’altro la tutela della sicurezza pubblica e i limiti che si possono apporre ai diritti costituzionali come è quella della libera esplicazione del sentimento religioso. Mentre per i capi diversi dal Burqua la questione è stata risolta nella legittimità dell’uso, dubbi restano per quest’ultimo. Così con la circolare n. 4/95 del 14 marzo 1995, il Ministero dell’Interno ha autorizzato l’uso del copricapo nelle fotografie destinate alle carte di identità di cittadini professanti culti religiosi che impongano l’uso di tali copricapo. Con altra circolare del 24 luglio 2000 il Ministero dell’Interno ha precisato che il turbante, il chador e il velo, imposti da motivi religiosi, “sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purchè mantenga il volto scoperto” e pertanto tali accessori sono ammessi, anche in ossequio al principio costituzionale di libertà religiosa, purchè i tratti del viso siano ben visibili. Tale circolare, in conseguenza, estende il principio della precedente, riferita alla carta d’identità, anche alle fotografie da apporre sui permessi di soggiorno. E’ evidente che questi atti si basano sulla diversa struttura dei capi citati:mentre il burqa, oltre ad essere un simbolo religioso, nasconde il volto di chi lo indossa, i chador e i copricapo mante ngono il loro significato simbolico e religioso ma non occultano il volto della persona. La necessità di tutela dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza potrebbero quindi impedire l’uso pubblico del burqua. In Italia la nozione di ordine pubblico no n è normativamente definita. La definizione d’ordine pubblico è stata resa in una nota sentenza della Corte Costituzionale ( sentenza 16 marzo 1962 n. 19) : “l’ordine pubblico è un valore costituzionalmente protetto, quale patrimonio dell’intera collettività; sono pertanto costituzionalmente legittime le norme che effettivamente, ed in modo proporzionato, siano rivolte a prevenire e a reprimere i turbamenti all’ordine pubblico (intesi come insorgere di uno stato concreto ed effettivo di minaccia all’ordine legale mediante mezzi illegali idonei a scuoterlo) eventualmente anche mediante la limitazione di altri diritti costituzionalmente garantiti”. Secondo il Supremo Collegio è possibile limitare un diritto costituzionalmente garantito (quale quello della libertà religiosa), ma solo con norme che in modo proporzionato reprimano uno stato concreto ed effettivo di minaccia all’ordine legale mediante mezzi illegali idonei a scuoterlo. Proprio basandosi su un presunto pericolo per l’ordine pubblico, alcuni sindaci hanno emesso ordinanze simili, con le quali vietano di indossare in luoghi pubblici veli, caschi integrali o altri accessori che coprano il volto rendendolo non riconoscibile. Queste ordinanze si basano sulla normativa di pubblica sicurezza: in particolare l’art. 85 del R.d. 18 giugno 1931 n. 773 precisa: “E’ vietato comparire mascherato in luogo pubblico”. Invece, l’art. 5 della Legge 22 maggio 1975 n.152 proibisce “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. Proprio sulla legittimità di una di queste ordinanze (annullate d’ufficio dal Prefetto) si è recentemente pronunciato il consiglio di Stato con la sentenza citata . In particolare i giudici notano come nel caso in cui il Sindaco emetta ordinanze agendo non già come organo del Comune, ma in materia di pubblica sicurezza, in funzione di Ufficiale di Governo e, quindi, nell'ambito di un rapporto di dipendenza rispetto al Prefetto, a quest’ultimo spetta l’adozione di ogni misura atta a garantire l’unità dell’ordinamento in materia ed in particolare anche il potere di annullamento d’ufficio degli atti adottati dal Sindaco che risultano essere illegittimi o che comunque minano la menzionata unità di indirizzo. Pertanto, è legittimo il decreto con cui un Prefetto ha annullato l’ordinanza con la quale il Sindaco di un Comune, in qualità di Ufficiale del Governo, ha ordinato di adeguarsi alle norme che fanno divieto di comparire mascherati in pubblico, includendo tra i mezzi idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona anche il velo che copre il volto (c.d. burqa). Secondo i Supremi giudice amministrativi, il divieto di comparire mascherato in luogo pubblico, di cui all’art. 85 del R.D. n. 773 del 1931, non ricomprende l’uso del burqa, in quanto è evidente che il burqa non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa. Ma non è applicabile neanche l’art. 5 della legge n. 152 del 1975, che vieta l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo: questa norma ha lo scopo di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento; tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene "senza giustificato motivo". Tale norma non è applicabile al "velo che copre il volto", ed in particolare al burqa, il quale generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. In conclusione, si nota come l ’art. 5 della legge n. 152/1975 consente nel nostro ordinamento che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Lasciando aperto uno spiraglio, forse per le nuove norme in materia attribuite ai Sindaci in materia dal cd “pacchetto sicurezza” i giudici osservano che “resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze”. Peraltro questa sentenza riprende i principi stabiliti dal TAR FRIULI VENEZIA GIULIA sentenza 16 ottobre 2006 n. 645 con la quale era stato ritenuto legittimo il provvedimento prefettizio di annullamento di un’ordinanza del sindaco del comune di Azzano Decimo (Pordenone). Secondo il TAR, “E’ illegittimo un provvedimento con la quale il Sindaco di un Comune, in qualità di Ufficiale di Governo, ha ordinato di adeguarsi alle norme che fanno divieto di comparire mascherati in luogo pubblico (art. 5, 1° comma, della L. 152/1975), espressamente includendo tra i "mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona" anche "il velo che copre il volto". Non sussiste infatti una competenza generale del Sindaco in materia di pubblica sicurezza, nè il Sindaco può effettuare una sorta di interpretazione autentica delle norme di legge e cioè un’operazione che può essere effettuata dal legislatore con un atto avente lo stesso valore di quello interpretato. Per i giudici, “Nel caso in cui il Sindaco di un Comune emetta un atto generale in materia di pubblica sicurezza, si deve ritenere che egli agisca in funzione di Ufficiale di Governo e, quindi, nell’ambito di un rapporto gerarchico rispetto al Prefetto; quest’ultimo, pertanto, ove ritenga l’atto sindacale illegittimo, può esercitare in via gerarchica il potere di annullamento che gli compete (alla stregua del principio è stato ritenuto che il Prefetto poteva annullare una ordinanza emessa da un Sindaco in materia di sicurezza pubblica)”. I principi ricavabili da questa pronuncia si possono così sintetizzare: • un provvedimento che interpreta il divieto ex art. 5 primo comma della L. n. 152/1975 di uso di caschi protettivi o di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona come espressamente riferibile al "velo che copre il volto", non può essere considerato come una mera diffida al rispetto di una norma già esistente nell’ordinamento, ma finisce per novare una disposizione di legge: infatti all’ordine (di legge) di non usare mezzi atti a rendere difficile il riconoscimento della persona si sovrappone l’ordine (sindacale) di considerare tali - a prescindere da ogni altra interpretazione - anche i tradizionali veli tipici delle donne musulmane comprensivi di burqua e chador. • a prescindere dai singoli casi concreti in cui ogni ufficiale di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi, il che è tra l’altro in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione. • è stato ritenuto legittimo il decreto del Prefetto della Provincia di Pordenone che, sulla base di un parere del Ministero dell’Interno (anch’esso impugnato), aveva annullato il provvedimento adottato dal Sindaco Azzano Decimo, in qualità di ufficiale di governo che aveva ordinato alla cittadinanza di adeguarsi alle norme che fanno divieto di comparire mascherati in luogo pubblico, espressamente includendo tra i "mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona" anche "il velo che copre il volto".