Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo
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Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo
http://www.repubblica.it/politica/2015/11/15/news/come_possiamo_vincere_la_barbarie_del_terrorismo _disumano-127389822/?ref=HRER2-2 Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo disumano di EUGENIO SCALFARI SIAMO di fronte, e non solo nella strage parigina di due giorni fa, ad una guerra globale che, almeno in apparenza, sembra una guerra di religione. Infatti, prima di uccidere le loro vittime, i terroristi dell'Is invocano il loro Dio: Allah è grande, gridano, e poi sparano a raffica o si fanno saltare in aria in mezzo alla gente che hanno scelto come agnelli da sacrificare. Muoiono essi stessi pur di uccidere. Sembra appunto una guerra di religione. ECOME tale i carnefici usano la strategia di colpire gli altri; non importa chi sono, giovani, vecchi, bambini; non importa in quale Paese: hanno colpito a New York, a Parigi, in Turchia, in Egitto, nel Bangladesh, in Pakistan, nelle Filippine, in Afghanistan, in Tunisia, in Iraq ed ora minacciano Roma e Londra. Tra le persone occasionalmente uccise ci potrebbero essere perfino musulmani. Quindi, sotto le apparenze della guerra di religione, la realtà è un'altra: c'è voglia di distruggere, in modo cieco, una barbarie che sogna la fine di un'epoca senza però un solo barlume d'una civiltà futura. Qualcuno ha paragonato questo terrorismo a quello che insanguinò l'Italia e la Germania negli anni Settanta del secolo scorso; da noi furono chiamati gli anni di piombo, ma è un paragone totalmente sbagliato. Quei terroristi conoscevano il nome e perfino l'indirizzo della vittima che avevano scelto; avevano ripudiato un passato che avevano vissuto e si proponevano un futuro, un'ideologia, un assetto diverso della società. I terroristi di oggi non si propongono alcun futuro e non hanno alcun passato sociale e politico da ricordare. Vivono soltanto un presente e alcuni di loro, ma certamente non tutti, vagheggiano forse un aldilà dove un Allah che soddisfi i loro desideri; non è quello dei veri musulmani che le loro sacre scritture hanno descritto. Non sono persone libere. Certamente hanno fatto liberamente una scelta che è quella che Etienne de La Boétie chiamò il servo arbitrio: loro hanno scelto di essere schiavi di chi li dirige, le cellule d'uno Stato che non ha confini stabili, non ha una sua Costituzione, ma ha un gruppo di comando, scuole di preparazione alla disumanità, campi dove si insegna il maneggio delle armi, le tecnologie necessarie, i modi di camuffarsi, le comunicazioni sofisticate tra loro e con il comando del gruppo e gli obiettivi da colpire. Questo è il gruppo di comando e i suoi soldati-schiavi hanno scelto di soggiacere ai loro padroni. Qui si pone la domanda del perché questa scelta l'abbiano fatta. *** La questione è assai complessa, riguarda la libertà, che cosa significa, da dove ci viene. Non mi pare oggi il giorno adatto ad esaminare uno dei concetti più complessi e più importanti della ricerca filosofica e perfino religiosa, ma qualche parola va detta per tentare di capire l'essenza di quanto sta accadendo e il modo con il quale reagire perché se d'una guerra si tratta, caratterizzata da modalità del tutto nuove, la questione della libertà e dell'arbitrio, libero o servo che sia, deve esser capita per poterla affrontare in modo appropriato e vincente. Ebbene, noi non siamo liberi se non per un istinto e per la natura che contraddistingue la nostra specie da quella degli altri animali. La nostra natura possiede la capacità di guardare noi stessi mentre viviamo. È questa capacità che ci fa diversi da tutti gli altri animali. Noi ci guardiamo agire, vivere, invecchiare e sappiamo anche di dover morire. L'istinto principale che abbiamo e che condividiamo con tutte le altre specie vitali, è quello della sopravvivenza. In più abbiamo la memoria, altro segno che ci distingue dalle altre specie viventi. Tutte queste caratteristiche fanno sì che il nostro istinto di sopravvivenza è duplice: vogliamo sopravvivere come individui e vogliamo anche sopravvivere come specie. All'individuo che ciascuno di noi ha scelto di essere abbiamo dato un nome che è il nome dell'Io che siamo. L'Io è una costruzione, è il nostro sentirci individui e c'è sempre, in qualunque momento, dalla nascita fino alla morte. Quindi la sopravvivenza e l'amore per noi stessi è automatico, fa parte della nostra natura. L'amore per la specie, o se volete chiamatela il prossimo, deriva anch'esso dall'istinto della sopravvivenza perché nessuno di noi può concepire d'essere il solo abitante umano del globo terrestre. Tuttavia il livello dell'amore per la specie oscilla fortemente da persona a persona. Ce n'è sempre una scintilla in ciascuno, ma può essere scintilla o fiamma o brace coperta di cenere. Le nostre scelte dipendono dal rapporto tra la fiamma che abbiamo per noi stessi e quella che abbiamo per gli altri e l'estensione di quell'amore. Una scintilla, l'ho già detto, c'è sempre, se resta soltanto tale vuol dire che quell'amore si restringe a pochi, a volte pochissimi, a volte una sola persona. Se tiriamo le somme di questo ragionamento la conclusione è che la barbarie dei terroristi attuali deriva dal fatto che non hanno alcun amore, anzi odiano, la specie cui appartengono, odiano tutti gli altri, mentre amano solo quei pochi che condividono con loro l'odio per gli altri e vogliono distruggerli. E qui appare il servo arbitrio: l'amore tra pochi si differenzia tra chi ha il talento per comandare e quelli che sentono verso di lui un sentimento di devozione quasi religioso e si mettono al servizio del suo talento e del suo carisma. Come si vede, la nostra libertà è pressoché inesistente ed è la natura che comanda. *** Si direbbe che la grande maggioranza delle persone è animata da caratteristiche diverse pur avendo in partenza i medesimi istinti. È certamente vero. I barbari sono pochi numericamente parlando, ma molti per le modalità del loro operare e stanno crescendo di numero. In Francia per esempio i musulmani sono 7 milioni. In gran parte moderati, ma pur sempre musulmani. I capi delle comunità sono, salvo pochi, desiderosi di inserirsi nella società dove hanno scelto di vivere; ma nelle loro file specie tra i giovani, il gusto dell'avventura, di imporsi, di valorizzare il loro esser "diversi", è diffuso. Questo modo di sentire si trova soprattutto nelle "banlieue" di Parigi e nelle grandi città non soltanto in Francia. Ci troviamo dunque di fronte ad un piccolo esercito, anzi piccolissimo, ma estremamente mobile e difficilmente individuabile prima che agisca. Aggiungo anche che questa guerra "sui generis" è la causa di due effetti assai pericolosi. Il primo è che la guerra contro i barbari impone vincoli molto stretti alla nostra vita privata. Il secondo è che dal punto di vista politico questa situazione rende molto più forti i movimenti e partiti di una destra xenofoba: guadagna terreno ed è un pericolo evidente per la democrazia. Concludo ponendomi una domanda: poiché bisogna sgominare l'Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere? Le nazioni aggredite ed i loro alleati debbono scendere sul terreno che sta tra Siria, Iraq e Libia, ma non solo con bombardamenti aerei ma con truppe adeguate. Ci vuole un'alleanza politica e militare che metta insieme tutti i membri della Nato a cominciare dagli Usa e in più i Paesi arabi, la Turchia (che nella Nato c'è già), la Russia e l'Iran. Credo che sia questo il modo di agire nell'immediato futuro. Se non si fa, la nostra guerra con labarbarie terrorista non vincerà. Molto tempo per decidere non c'è. Nel frattempo l'Europa federale dev'essere rapidamente costruita a cominciare dalla difesa comune e dalla politica estera. Sono questi i soli modi per difenderci dal terrore e dalla sua disumanità. http://www.famigliacristiana.it/articolo/francia-almeno-smettiamola-con-le-chiacchiere.aspx Francia: almeno smettiamola con le chiacchiere 15/11/2015 Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali. Fulvio Scaglione fulvioscaglionefulvioscaglione Un biglietto di cordoglio sul luogo della strage, a Parigi (Reuters). E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava. Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa. Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità. Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni. Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia. Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia. Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza. Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più. http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-tempo-perduto-81527c48-8b63-11e585af-d0c6808d051e.shtml IL COMMENTO Gli attentati di Parigi e il tempo perduto Undici mesi fa l’assalto al settimanale «Charlie Hebdo». Lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan di Paolo Mieli Questa volta, per carità, evitiamo di consolarci urlando «Siamo tutti al Bataclan». Sappiamo come andò undici mesi fa dopo l’attentato a Charlie Hebdo: due settimane di lutto e poi tutto tornò come prima. Per parlare del grado di consapevolezza a cui si era giunti giova ricordare che nei giorni precedenti alla sanguinosa notte di Parigi alcuni intellettuali francesi avevano trovato da ridire sul fatto che François Hollande avesse rifiutato di bandire il vino da una cena a cui era stato invitato l’iraniano Hassan Rouhani (era già accaduto nel 1999 con Jacques Chirac e Mohammed Khatami). Un piccolo episodio, certo. Che vale però un encomio al Presidente francese per il rifiuto a una di quelle forme di cedimento culturale e di sottomissione sempre più diffuse in Occidente e soprattutto in Europa. Ma torniamo al gennaio scorso. A ridosso dell’attacco islamico a Charlie Hebdo, la Oxford University Press ritenne di emanare «linee guida» per i suoi autori in cui raccomandava di eliminare le parole «maiale» e «carne di maiale» (in tutte le forme: salsicce, salame, prosciutto e così via) nei testi scolastici «in modo da non offendere musulmani ed ebrei». Molti israeliti presero le distanze dall’improvvida iniziativa. Passano cinque mesi e (come ha ben ricordato Pierluigi Battista) sei membri del Pen Club, Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi si sono dissociati dal conferimento di un premio a Charlie Hebdo. A loro si sono uniti altri scrittori tra i quali Joyce Carol Oates con questa dichiarazione: «L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. La sua sì che è una satira indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Nessun paragone con le vignette di Charlie Hebdo». «C’è una sporca, viscida correttezza politica qui», si scandalizzò il regista David Cronenberg. Inascoltato. Solo Ian McEwan ha protestato poi per il fatto che la Brandeis University avesse ritirato l’offerta di una laurea honoris causa ad Ayaan Hirsi Ali: qui ormai evitiamo di schierarci con Charlie Hebdo «perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra del terrore” di George Bush», ha detto. Secondo McEwan un tale atteggiamento va considerato come frutto di un «tribalismo intellettuale soffocante». Inascoltato anche lui. Ha avuto molta più eco la scrittrice tunisina Azza Filali quando ha spiegato perché secondo lei Seifeddine Rezgui, aveva provocato, a fine giugno, l’orrenda strage sulla spiaggia di Sousse: Seifeddine, secondo l’autrice di Ouatann , era un ragazzo povero di Gaafour appassionato di danza che si era «offerto volontario per iniziare altri adolescenti della sua regione». Ma ecco che «un piccolo burocrate del comune prende una decisione amministrativa tanto rigida quanto imbecille»: fa chiudere la sala che serviva al ragazzo per allenarsi e dare lezioni ai compagni». «Cosa resta da amare a ventitré anni quando non si hanno mezzi ma tantissimi sogni?», si domandava Azza Filali. Per poi trarre questa morale: «Il killer di Sousse riassume in sé tutti gli elementi del fallimento di un sistema educativo che ha chiuso le porte agli studi umanistici e all’arte e ha condannato la danza, un’attività ove il corpo esulta». Ecco come e perché si diventa terroristi nel mondo islamico. E quanto a Charlie Hebdo, ha voluto aggiungere di recente Régis Debray, evitiamo di trasformarlo «in un erede di Carlo Magno». A luglio, il nuovo direttore di Charlie Hebdo Laurent Sourisseau (che ha preso il posto dell’ucciso Stéphane Charbonnier), capisce l’antifona e annuncia a Stern che non pubblicherà più vignette dedicate a Maometto o all’Islam. Dopodiché la sua rivista ha dato alle stampe una copertina con la quale ironizzava su Aylan, il bambino in fuga dalla Siria, trovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum: «C’est la rentrée», era il titolo per una volta assai poco dissacrante del settimanale. A settembre, il cabarettista olandese Hans Teeuwen, amico del regista di Submission Theo van Gogh ucciso ad Amsterdam nel 2004 (ne aveva tenuto l’orazione funebre impegnandosi a continuare la battaglia contro i «fascioislamici»), annuncia che non si occuperà più di Islam nella sua satira. E noi italiani? In circostanze di questo genere lasciamo passare il momento del cordoglio e poi annunciamo al mondo che il nostro contributo alla lotta al terrorismo è imperniato su un piano per il ristabilimento dell’ordine in Libia. Un piano che, per merito di noi italiani, è prossimo a realizzarsi. Ma Bernardino León il diplomatico spagnolo che per conto dell’Onu ha seguito fino ad ora le trattative di pace nel Paese che fu di Gheddafi, ha testé abbandonato il campo rivelando di aver accettato già dal mese di giugno il ruolo di direttore generale dell’«accademia diplomatica» di Abu Dhabi dove la sua famiglia si è prontamente trasferita. A dire il vero, il Guardian ha raccontato che a giugno era stata fatta a Leon una prima offerta e lui aveva chiesto più soldi. Il compenso soddisfacente sarebbe adesso di cinquantamila euro mensili (più spese di alloggio e varie). È stata anche resa pubblica una mail del rappresentante dell’Onu al ministro degli Esteri di Abu Dhabi, Sheik Abdullah bin Zayed, in cui è scritto: «Come lei sa non penso di restare a lungo ... Sono considerato come sbilanciato a favore di Tobruk; ho consigliato gli Usa, il Regno Unito e la Ue di lavorare con voi». Insomma León strizzava l’occhio a uno dei contendenti. E il presidente del Parlamento di Tripoli, Nouri Abu Sahmain dice adesso che approvare il suo piano equivarrebbe a «offendere i martiri della rivoluzione libica». Solo Angelo Panebianco su queste pagine e pochissimi altri si sono scandalizzati per questo caso increscioso. Tristi storie di quelli che si dissero «Charlie». Se in queste ore di lutto vogliamo darci coraggio, ricordiamo il giorno in cui Hollande ha conferito la legion d’onore ai tre cittadini americani (Spencer Stone, Anthony Sadler, Alek Skarlatos) e al britannico Chris Norman che sabato 22 agosto bloccarono disarmati il ventiseienne terrorista marocchino Ayoub alQuazzani mentre era in procinto di compiere un attentato nel treno superveloce sulla linea Amsterdam Parigi. Il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve aveva provato a dire che il primo ad aver «individuato» l’attentatore era stato un «cittadino francese». E pudicamente aveva evitato di soffermarsi su quegli uomini del personale che si erano blindati in uno scompartimento e avevano rifiutato di aprire la porta ai passeggeri impauriti. Che dire? Che al momento della verità i comportamenti dei concittadini di quegli eroi del treno sono, in genere, più coerenti. Quanto a noi, stavolta lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan. 15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 07:47) © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_15/attentato-parigi-questa-guerra-nostre-vite-5dd3dca48b62-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml L’EDITORIALE L’attentato a Parigi: questa guerra nelle nostre vite Proteggeremo molto meglio i cittadini europei se l’indispensabile innalzamento del livello di sicurezza sarà attuato tenendo saldi i nostri principi e i nostri valori di libertà di LUCIANO FONTANA La notte del 13 novembre 2015 non riusciremo mai a cancellarla dalla nostra memoria. Non potremo andare avanti, come noi europei abbiamo fatto tante volte, rimuovendo le tragedie, pensando che in fondo si trattava di un attacco contro un singolo obiettivo: un supermercato kosher, la redazione di un giornale satirico, un regista dissacrante. C’è un salto enorme: i terroristi fondamentalisti hanno portato la guerra in una delle città simbolo della nostra civiltà. L’Isis non è solo un’organizzazione fanatica e crudele tra la Siria e l’Iraq. È nelle nostre strade, è tra di noi. Nei nostri teatri, davanti allo stadio, nei ristoranti e nei luoghi del divertimento serale. Terrorizza i cittadini europei per costringerli a non uscire più di casa, a sentirsi impotenti, a chiudersi in un sentimento di paura. Il cosiddetto Stato Islamico ha i propri nuclei organizzati nelle nostre società. Ragazzi spesso cresciuti nelle case accanto alla nostra, alimentati da un odio inesauribile verso l’Occidente, i suoi costumi di vita, le sue libertà. Siamo in una guerra globale e l’Europa è uno dei suoi campi di battaglia. Ma è una guerra difficile da combattere: sappiamo dove sono le roccaforti dei fondamentalisti in Medio Oriente ma sappiamo poco o nulla del «nemico interno» che ha dimostrato di poterci colpire in ogni momento. Anche perché non ha alcuno scrupolo nel giustiziare persone indifese nei loro momenti di normalità e di vita quotidiana. La Francia, per l’impegno militare in Siria, è diventata uno degli obiettivi principali. Ma le rivendicazioni e le minacce dell’Isis hanno detto chiaramente che nel mirino ci sono anche Roma e Londra. C’è l’Europa, c’è l’Occidente con i suoi valori. Parigi siamo noi, i morti della Capitale francese sono i nostri morti. Nessuno può volgere lo sguardo da un’altra parte. La prima scossa deve arrivare dall’Europa politica e dalla comunità occidentale. Nessuno può combattere da solo la guerra all’Isis, serve un’assunzione di responsabilità collettiva per costruire una coalizione internazionale che decida gli strumenti più efficaci per rovesciare il Califfato, diventato centrale e punto di riferimento di tutto il terrorismo islamico. La strategia dei bombardamenti aerei e del sostegno ai combattenti anti Isis ha dimostrato di essere insufficiente. C’è bisogno di una svolta che coinvolga pienamente gli Stati della regione nella lotta all’Isis. Che va isolato e colpito. Questa svolta non può non riguardare anche il nostro governo che finora si è impegnato solo parzialmente nel sostegno alle forze alleate sul campo. «Non faremo sconti, non consentiremo che chi ci attacca resti impunito», ha dichiarato il presidente della Repubblica francese Hollande. Molto giusto. Ma proteggeremo molto meglio i cittadini europei, quelli di Londra, quelli di Parigi, quelli di Roma (che vivranno tra poco l’evento mondiale del Giubileo) se l’indispensabile innalzamento del livello di sicurezza sarà attuato tenendo saldi i nostri principi e i nostri valori di libertà. È un sentiero stretto ma possiamo riuscirci. Dopo la notte di Parigi, per molto tempo, nulla potrà essere come prima. Lo sappiamo. Ma sappiamo anche che quello che non potrà cambiare è la nostra forza nel reagire alla violenza e all’intolleranza senza sconfessare noi stessi. 15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 09:32) © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-quel-complesso-colpa-che-ispira-lequivoco-buonista-0e5ec956-8b65-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml NOI E L’ISLAM Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno di Claudio Magris Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato. In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati. Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene. È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb. A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo. È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana. La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato. 15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 08:23) © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-11-14/combattere-uniti-difendere-civilta065259.shtml?uuid=ACKCn2ZB Combattere uniti per difendere la civiltà di Roberto Napoletano 14 novembre 2015 Potremmo dire siamo tutti francesi, ma non basterebbe. Potremmo dire siamo tutti europei, ma dovremmo subito prendere atto che nessuno ha avuto la dignità di dare a noi cittadini europei almeno un esercito. Potremmo ripetere, come dicemmo il giorno dell’attentato alla libertà di ridere di tutto, la “bestemmia” che costò la vita a donne e uomini della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi, che questa macchina del male non appartiene alla religione ma al terrorismo organizzato, una minoranza pericolosissima che vuole sfruttare le contraddizioni del mondo democratico e chiudere spazi vitali alla comunità musulmana che ha dentro di sé il Corano della tolleranza e della pace, conosce in profondità la sua identità ma vuole rispettare quella del mondo Occidentale e integrarsi con essa sia pure nella diversità. No, questa volta, diciamo che la “terza guerra mondiale che si combatte a pezzi” da troppo tempo è tornata a colpire Parigi, è arrivata dentro casa, nel cuore della casa europea, con la forza brutale dell’atto di guerra all’Occidente, qui la risacca sanguinosa del Medio Oriente si arma con un esercito di combattenti nati e cresciuti in Francia. Brucia Parigi, brucia l’Europa. Nulla, proprio nulla, sarà come prima. A questa guerra l’Occidente e i suoi alleati devono rispondere con altrettanta forza combattendo uniti senza se e senza ma il Califfato, lì dove è armato e organizzato, Siria, Iraq, Libia, e lì dove l’esercito dei suoi seguaci in casa nostra si è mobilitato. Il seme del male è cresciuto nella pancia del Medio Oriente, ma è penetrato e si è diffuso nella pancia dell’Europa tra l’ignavia dei più. L’Europa dormiente dei troppi egoismi e delle mille miserie ragionieristiche riscopra le ragioni ideali della sua civiltà e le difenda con la forza militare e con le armi della sicurezza e della coscienza perché i valori della vita e della convivenza civile non sono negoziabili, sono valori fondanti che abbiamo costruito nei secoli e appartengono al capitale umano più importante del mondo. Per questi valori, si combatte uniti e a viso aperto, c’è scritto nell’atto anagrafico costitutivo, a meno che si decida di sostituirlo con quello di morte. L’Europa dimostri di esistere almeno nelle tragedie, affermi con i fatti che è finita la stagione in cui ognuno combatte la sua guerra e chiude le sue frontiere, questa guerra la può combattere e vincere solo l’Occidente, tutto l’Occidente insieme, avendo la forza di distinguere tra alleati e nemici e chiamando a rispondere delle proprie responsabilità, di questi attentati contro l’umanità, di certo il Califfato, ma anche i troppi alleati nascosti di quel Califfato, in casa e fuori. La lezione della storia ci indica la strada da seguire, i 129 morti sulle strade di Parigi ci dicono che il tempo è scaduto e che senza l’intelligenza e la forza degli Stati Uniti d’Europa non riusciremo a superare il nostro 11 settembre.