Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
“Sorella” disse una voce sconosciuta “Noi non siamo i semi di Lapageria.”
Scarlet Mars non si era ancora abituata alla gravità terrestre, perciò il movimento che fu costretta a
compiere per alzare la testa le dette le vertigini per un breve momento. La donna che le aveva rivolto la
parola sembrava perfettamente normale: un cappotto di lana e una grossa sciarpa arrotolata attorno al
collo la proteggevano dal freddo limpido e artificiale di Central Park. Scarlet purtroppo non poteva dire
altrettanto di sé stessa: era rimasta ore imbambolata a fissare le proprie dita diventare violacee, soltanto
perché il sangue denso sotto la pelle le ricordava il colore di una nebulosa che aveva visto una volta, nello
spazio profondo.
Ma quei tempi erano finiti per sempre.
“Sono figlia unica” rispose Scarlet, nel tono più brusco che le fosse riuscito di sputare. La sconosciuta non
dette segno di voler desistere, per sua sfortuna. “Non conosci il nemico, Sorella?”
Il suo abbigliamento era tanto consono al contesto, quanto poco lo erano le sue parole per l’umore di
Scarlet, perciò pensò bene di sorridere e non urlarle in faccia che se l’avesse di nuovo chiamata in quel
modo, la sconosciuta si sarebbe ritrovata la sua bella e consona sciarpa dritta giù per la gola. Come risultato
della sua gentilezza, la sconosciuta le si sedette accanto sulla panchina che Scarlet aveva cominciato a
considerare di sua proprietà nell’ultima mezz’ora.
“Oh no, conosco Lapageria” sospirò Scarlet, alla fine “Ci sono stata una volta. Pianeta adorabile.”
La sconosciuta sgranò gli occhi come se avesse avuto davanti un alieno, o almeno come li sgranano quel
tipo di persone che non trovano normale trovarsi davanti un alieno. Raddrizzò la schiena e strinse i pugni
comodamente guantati all’altezza del grembo, dando l’impressione di star covando un uovo o un altro
tentativo di essere la persona più fastidiosa di tutta New York.
“Non sai, Sorella” continuò la sconosciuta, in un tono così grave da non adattarsi per niente ad un
tranquillo pomeriggio invernale a Central Park “che Lapageria non ha più semi?”
Scarlet sapeva di cosa la stralunata sconosciuta stesse parlando, ma era rimasta così a lungo su quella
panchina a fantasticare di nebulose e meraviglie dello spazio profondo che la solitudine le aveva fatto
perdere la ragione. Le ricordò quando una tuta spaziale l’aveva lasciata senz’aria per mezzo minuto, ed era
stato come se la sua testa si fosse riempita di ovatta infilata a forza da dita estranee attraverso dei fori nella
scatola cranica. Provò quella sensazione che ti spinge ad aggrapparti a qualsiasi cosa, pur di non andare alla
deriva nell’oscurità.
Scarlet sorrise ancora alla sconosciuta, e finse di non sapere niente: “Da quel che ho potuto vedere, ci sono
pianeti più aridi di quello nell’Universo Conosciuto.”
La sconosciuta girò la testa a destra e a sinistra, temendo evidentemente che qualcuno stesse ascoltando la
loro conversazione e che quel qualcuno si sarebbe presto palesato per farle smettere di parlare. Si avvicinò
con la bocca all’orecchio di Scarlet, e Scarlet vide i suoi occhi troppo neri dilatarsi mentre le afferrava con
forza una spalla. “Manchi da molto dalla Madre Terra?”
“Non abbastanza” rispose Scarlet.
La sconosciuta decise che quello era il momento di rivelarle una grande verità, e che una simile rivelazione
richiedesse di avvicinarsi ulteriormente e afferrare con forza una delle sue mani ancora violacee come una
nebulosa. “Lo sai che l’Eritrea ha stretto un accordo con quei bastardi? Hanno preso quelle povere donne
dalle loro case di notte, in gran segreto, e hanno puntato una pistola laser alla testa dei loro familiari che
protestavano.”
“Che cosa c’entriamo noi con l’Eritrea?” chiese Scarlet, dandole corda.
“Gli Stati Uniti d’Europa faranno lo stesso. Nazioni avanzate ed esempi di civiltà avanzate faranno lo stesso,
faranno qualunque cosa affinché Lapageria stringa accordi con loro. E noi, Sorella” la sconosciuta le strinse i
polsi così forte da farle sbiancare le dita “Noi saremo la loro moneta di scambio.”
Scarlet non ebbe il tempo di scrollarsela di dosso che la sconosciuta le fece scivolare un oggetto nella tasca
del cappotto, per poi alzarsi e allontanarsi in tutta fretta dalla panchina. Scarlet non si mosse subito per
afferrare l’oggetto nella sua tasca, rimase immobile mentre il sangue ricominciava a fluire dai polsi ai palmi
delle sue mani e la brezza controllata artificialmente smuoveva i rami spogli degli alberi.
Sapeva cosa c’era nella sua tasca come sapeva che non sarebbe mai più tornata nello spazio profondo, e
tutt’ad un tratto sentì un nodo alla gola. Si alzò a sua volta dalla panchina e camminò, sperando che il suo
modo di camminare sembrasse abbastanza umano. Ignorò il fruscio dei suoi stivali sul terreno e il ronzio
nelle orecchie dei rumori così dannatamente terrestri che Scarlet era certa li avrebbe distinti dal fruscio che
i suoi stivali avrebbero prodotto su Calathea, o da come le sue orecchie avrebbero ronzato su Nepenthes.
Sfiorò l’oggetto con le dita mentre si dirigeva verso l’appartamento spartano che era stata costretta a
chiamare casa, le ultime parole che la sconosciuta le aveva sussurrato all’orecchio le rimbombavano nella
testa sovrapponendosi al resto dei suoni che l’assillavano.
“Usala, Sorella. Usala quando verranno a prenderti.”
Nella sua tasca c’era una pistola laser, ultimo modello, con raggio inibitore dei centri del dolore incorporato
e perfettamente illegale. Il rivestimento in titanio le sfiorava le punte delle dita mentre camminava, freddo,
ma non più freddo delle sue mani rese viola dalla simulazione di un pomeriggio d’inverno a Central Park.
Scarlet Mars temeva di seguire quel consiglio prima ancora che un Lapageriano bussasse alla sua porta.
***
Scarlet Mars era stata assunta come funzionaria all’Ambasciata Terrestre in Orbita su Calathea all’età di
ventisette anni, ben oltre l’età in cui si era aspettata di lasciare la Terra quando si era laureata a Harward. Il
suo era stato tutto sommato un buon avvio di carriera, benché il suo primo incarico avesse comportato
poco più che preparare caffè terrestri e la bevanda tipica Calatheana per i suoi superiori.
Su un’Astronave Ricevimenti in orbita sulla Nebulosa di Laelia, come ultima di sette assistenti
dell’Ambasciatore Jones, Scarlet si era ritrovata coinvolta nell’attentato che le aveva rovinato la vita.
“L’Attentato di Laelia” era il titolo affibbiato all’evento dai Spaziogiornali in seguito: un commando di
separatisti Sud Terrestri avevano fatto irruzione ad un Ricevimento di beneficenza, uccidendo quasi
cinquanta persone tra le più alte cariche di quel settore dello spazio.
Scarlet rievocò il ricordo della testa dell’Ambasciatore Jones che veniva fatta esplodere da una pistola laser.
La sua morte, nonostante l’arma fosse stata quasi sicuramente sprovvista di raggio inibitore, era stato un
gesto di grazia in confronto al trattamento ricevuto dal resto degli ospiti meno illustri.
Scarlet era tuttavia così poco importante nel disegno dell’universo da essere sopravvissuta, e per questo
malediceva il destino ogni giorno. Se fosse morta quel giorno Scarlet non avrebbe dovuto inventarsi di
essere stata su Lapageria, né avrebbe trascorso un intero pomeriggio a soppesare una pistola laser ultimo
modello tra le sue mani ormai scarlatte, chiedendosi se non fosse il caso di dare una bella spinta al destino.
Non che potesse rendere la sua bugia una verità, ma Scarlet aveva conosciuto un Lapageriano che le aveva
raccontato tutto del proprio pianeta. Un individuo imponente come lo sono in genere i Lapageriani, con
cassa toracica tre volte più grande di quella di un essere umano e la pelle della gola simile a quella di un
coccodrillo terrestre. Scarlet rimpiangeva di non aver riservato un momento per chiedergli il nome, nelle sei
ore di terrore che avevano trascorso compressi nell’armadio di una cabina di terza classe di un’Astronave
Ricevimenti.
Scarlet posò la pistola e accese l’Olotelevisione.
“… il Presidente Morris ha accolto l’Ambasciatore Rosme questa mattina allo Spazioporto di Washington. La
notizia ha indotto numerosi altri capi di Stato terresti a rifiutare di prendere parte al Vertice” disse
l’ologramma di un giornalista piuttosto stempiato.
“Questo è il primo contatto diplomatico mai intrapreso da Lapageria da oltre cento anni” rispose
l’ologramma di un’attraente giornalista coi capelli biondi. “Gli esponenti dei conservatori e dei contrari ai
viaggi intergalattici considerano quest’apertura da parte del Governo Sud Lapageriano una sorta di
specchietto per le allodole.”
“I Lapageriani sono in effetti molto diversi dagli esseri umani a livello fisico” considerò il giornalista
stempiato, agitando una tazza quasi vuota per darsi enfasi e facendo finire l’ologramma di una goccia di
caffè sulla guancia di Scarlet.
“Non soltanto a livello fisico” ribatté la giornalista bionda “C’è chi sostiene che le loro richieste non possano
essere accolte da nessun pianeta o nazione che possa dirsi civile.”
“Lapageria è il principale pianeta produttore di carburante per astronavi” disse il giornalista stempiato “E
anche un mondo civilmente arretrato nel quale si è verificata la quasi estinzione di metà della popolazione
a causa di politiche su nascita e riproduzione a dir poco sconsiderate.”
Scarlet spense l’Olotelevisione e sospirò. Non si stupì come se quei giornalisti avessero in qualche modo
letto nella sua mente, perché in effetti quella era la notizia principale di ogni telegiornale da circa una
settimana, e probabilmente anche il motivo per cui una pazza complottista le aveva infilato una pistola
nella tasca a Central Park.
Scarlet si preparò dei noodles istantanei e li mangiò sul suo divano, al buio, con un’arma illegale che faceva
bella mostra di sé sul suo vecchio tavolino da soggiorno.
Il Lapageriano nell’armadio non aveva negato che non ci fossero quasi più femmine sul suo pianeta,
d’altronde ormai non si potevano più tenere nascosti segreti a livello intergalattico per più di un secolo.
Scarlet provò ad immaginarsi il Lapageriano di cui non aveva mai conosciuto il nome mentre faceva
irruzione in una casa in Eritrea, in piena notte, per strappare una madre, o magari una giovane ragazza dalla
sua famiglia, e si accorse di non riuscirci.
Lasciò la confezione vuota di noodles sul tavolino da soggiorno accanto alla pistola e si mise a letto senza
nemmeno cambiarsi i vestiti. Scarlet si addormentò con l’idea che non mancasse un ché di spiccatamente
umano dall’atto di strappare un seme dalla propria terra.
***
Scarlet sognava spesso quelle sei ore trascorse rinchiusa in un armadio, mentre terroristi armati
pattugliavano l’Astronave alla ricerca di fuggitivi. Ricordava il petto che le rimbombava come un enorme
cattedrale e i passi degli assassini che parevano rintocchi di campane; i palmi delle mani viscide di sudore e
il piede sinistro che, per quanto lei ordinasse al proprio corpo di rimanere immobile, non voleva saperne di
smettere di tremare. Il piede destro era rimasto incastrato in un cassetto interno quando il Lapageriano
senza nome l’aveva scaraventata nel guardaroba di raffinati vestiti da seta, e Scarlet non aveva avuto il
coraggio di muoverlo per ore a causa dell’incredibile stazza del suo compagno di prigionia che la schiacciava
sul fondo.
Quando Scarlet si svegliò nel proprio letto, tutto il suo intero corpo era immobile e solo il suo piede destro
tremava come fosse stato attraversato da una scarica elettrica.
‘Inadatta al servizio nello Spazio o nelle basi in orbita’, così veniva definita Scarlet Mars dalla diagnosi del
suo psicanalista. Eppure Scarlet Mars aveva camminato tra le stelle ed era riuscita a tornare viva.
C’erano centinaia di cadaveri, cinquanta esseri che si sarebbero potuti ancora definire viventi, pistole
cariche a volontà e tredici tute spaziali. Uno degli assassini pensò che sarebbe stato divertente tagliare i tubi
interni di dodici delle tute spaziali, mischiarle come carte di un saltimbanco e vedere chi tra quegli esseri
viventi avrebbe gradito farsi una passeggiata nello spazio aperto.
L’onore era capitato a Scarlet Mars. Altre cinque tute spaziali, riempite ciascuna con un cadavere ancora
caldo, erano già state gettate nel vuoto cosmico. Lei sopravvisse per vederle orbitare l’una contro l’altra
come bambole di pezza immerse in un liquido denso e scuro.
Negli anni di servizio nello spazio Scarlet aveva capito quanto in realtà poco le importasse di scalare le
gerarchie, poiché tutto ciò che bastava per renderla felice era sedersi sul ponte di osservazione a fine
giornata e ammirare Calathea, o meglio cercare di ammirarlo attraverso i brevi spiragli che s’intravedevano
attraverso le fitte nubi che ne oscuravano quasi perennemente la superficie.
Alla deriva nello spazio, sotto la chiglia di un enorme astronave che incombeva su di lei come una balena
dell’oceano, Scarlet Mars per poco non rimase uccisa dalla sua stessa libertà.
Si era convita che le stelle sarebbero esplose, se Scarlet avesse tentato di camminarci sopra per trovare la
via di casa.
Scarlet tentò di tenere fermo il proprio piede destro con entrambe mani, senza riuscirci per lunghi minuti.
Riuscì ad alzarsi dal letto con fatica e a trascinarsi fino al suo tavolino da soggiorno. Il rivestimento in titanio
della pistola laser emanava un fievole scintillio nel buio profondo che precedeva l’alba. Scarlet l’afferrò, ne
valutò il peso e la superficie gelida sulla pelle, pensò di provare a sentire se la temperatura della sua testa in
subbuglio non fosse per caso più rigida. Se la puntò alla tempia.
Il cervello le andò in fiamme e il suo piede destro riprese a tremare. Le campane rintoccavano dentro la
cattedrale nel suo petto.
Usala, Sorella. Usala quando verranno a prenderti.
“Sono già venuti a prendermi” sussurrò Scarlet tra sé e sé.
In quel momento, il campanello suonò.
Scarlet posò la pistola sul tavolino. Le tremavano entrambi i piedi.
Il campanello suonò altre due o tre volte prima che Scarlet si decidesse finalmente ad andare ad aprire la
porta. Quando lo fece, sulla soglia del suo appartamento c’era un Lapageriano, con un enorme torace e la
pelle da rettile della gola sulla quale era annodato un curioso farfallino storto.
Per un momento Scarlet si chiese se la sconosciuta a Central Park non avesse avuto per caso ragione, se
l’enorme Lapageriano non fosse lì per rapirla e costringerla a ripopolare il suo pianeta ormai arido. Tutte le
sue membra erano curiosamente rilassate quando si accorse di non temere poi molto quella prospettiva.
“Posso fare qualcosa per te?” chiese Scarlet, come se non fosse stata sul punto di spararsi un colpo in testa
soltanto pochi secondi prima.
“Io… sono… Pratel” disse il Lapageriano, e Scarlet riconobbe la sua voce: ricordava di averlo sentito cantare.
Aveva sentito dire una volta che alcuni dei Lapageriani immigrati sulla Terra, coi loro polmoni elastici, cassa
toracica retrattile e corde vocali straordinariamente resistenti, erano diventati cantanti lirici molto stimati
in Italia o in Germania. La voce di Pratel era così forte da aver provocato lamentele tra alcuni degli
occupanti degli appartamenti limitrofi al 31f, ma Scarlet non aveva mai avuto nulla da ridire.
Nonostante Scarlet si fosse spesso addormentata cullata dal suono del suo canto, però, non le era mai
capitato d’incrociare Pratel neanche in ascensore.
“Cosa posso fare per te, Pratel?”
“Puoi darmi… zucchero…” disse Pratel, le scaglie argentate sulla gola si contraevano ogni volta che la sua
bocca si apriva per far uscire un suono. “Zucchero, per favore.”
“Mi pare di averne un pacchetto, da qualche parte” disse Scarlet, ben certa di avere un pacchetto di
zucchero pieno per tre quarti nella credenza. “Vuoi entrare, mentre lo cerco?”
Pratel fece un cenno della testa in assenso. Dovette stringere le spalle e incrociare le braccia sul petto
affinché la parte superiore del suo corpo potesse passare attraverso l’uscio della porta, ma alla fine si
ritrovò nell’appartamento buio di Scarlet.
Non appena osservò l’enorme Lapageriano in piedi davanti al suo attaccapanni, la mente di Scarlet fu
travolta da una cascata d’immagini: l’armadio, il suo piede destro incastrato nel cassetto, pelle da rettile
argentata, la pistola che scintillava in soggiorno. Si chiese cosa mai le fosse passato per la testa quando
aveva deciso di far entrare un perfetto estraneo in casa sua, soltanto perché le era sembrato di tanto in
tanto che il suo canto riuscisse a tener lontani gli incubi.
Scarlet evitò il soggiorno e si diresse in cucina, dove invitò Pratel a sedersi mentre prendeva il pacchetto dal
fondo della credenza e un piatto dallo sportello accanto. Pratel sgranò gli occhi quando la vide porgergli il
piatto dal quale svettava una piccola montagna di zucchero.
“Non si fa così, da voi?” chiese Scarlet, tutt’ad un tratto dubbiosa.
Pratel si limitò a fare un cenno con il capo e ad accettare la sua cortesia. Prese una manciata di granelli
bianchi con le grosse dita e se li spalmò sulle gengive come un unguento, facendo in modo che le scaglie
interne alla bocca lo assorbissero.
Ripeté il gesto tre volte prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione a Scarlet: “Come lo sapevi?”
“Non sei il primo Lapageriano che incontro” rispose Scarlet, e quell’ammissione non mancò di farle tremare
il piede destro per un attimo. “Ma non è esattamente zucchero quello che cercavi, vero?”
Pratel sorrise, o almeno tentò di farlo con le sue impressionanti fauci. Scarlet accettò il suo ghigno pieno di
buone intenzioni e si sedette accanto a lui, osservando il monticello di zucchero diventare man mano una
piccola pianura. Scarlet sapeva che agli occhi di chiunque altro quel comportamento sarebbe parso quello
di un tossicodipendente, ma il Lapageriano nell’armadio le aveva parlato di quanto il cibo fosse amaro sul
suo pianeta; su Lapageria c’era solo una sostanza simile allo zucchero che si usava spalmare sulle scaglie
interne della bocca nei giorni di festa o durante i riti religiosi.
Scarlet si chiese cosa stesse festeggiando o rimpiangendo Pratel con quel gesto.
Quando anche l’ultimo granello fu assorbito, Pratel fece un cenno del capo e fece per alzarsi dalla sedia.
Scarlet non tentò né di trattenerlo né di offrirgli ulteriore ospitalità, un po’ perché temeva che la strana
calma che si era impossessata delle sue membra fosse passeggera, un po’ perché le parole della
sconosciuta di Central Park risuonavano ancora in qualche parte della sua mente.
Se fosse stato tutto un inganno Pratel avrebbe potuto sorprenderla con facilità, caricarsela in spalla e
portarla via in un battito di ciglio verso angoli remoti della Galassia di Lapageria dove le stelle non
splendevano e dove le donne venivano portate in dono come pacchetti di zucchero.
“Se hai bisogno di aiuto, non esitare a chiedere” Scarlet non sapeva dove avesse trovato il coraggio di dirlo.
Pratel fece un cenno con la testa, ancora sull’uscio con le spalle contratte e le braccia sul petto. Se ne
ritornò al suo appartamento senza ringraziare e senza dire un’altra parola.
Scarlet, di nuovo sola, ritornò in soggiorno.
Prese la pistola laser, vide che lo scintillio del rivestimento di titanio non risaltava più nella luce dell’alba
che filtrava dalle finestre.
Scarlet sospirò e ripose la pistola in un cassetto interno del suo armadio.
Era l’ora ideale per una passeggiata a Central Park.