Confessioni di un gatto killer

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Confessioni di un gatto killer
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Prima edizione a stampa: febbraio 2013
Prima edizione in versione digitale: febbraio 2013
© 2013 by Edizioni Sonda, Casale Monferrato (Al)
in accordo con
DAVID HIGAM ASSOCIATES LTD., London
e LUIGI BERNABO' ASSOCIATES SRL, Milano
Tutti i diritti riservati
ISBN 978 88 7106 914 2
Traduzione dall'inglese di Maria Teresa Sirna
Illustrazioni di Andrea Musso
Coordinamento: Antonio Monaco
Copertina: Sonia Lacerenza
Redazione digitale: Andrea Costanzo
Implementazione: Sonia Lacerenza
È vietata la riproduzione
anche parziale o a uso interno o didattico
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compresa la fotocopia, non autorizzata.
Non è altresì consentito copiare e divulgare l’e-book
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Anne Fine
CONFESSIONI
DI UN GATTO KILLER
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Autrice
Anne Fine (Leicester, 1947), laureata in Scienze politiche alla University of Warwick e membro della
Royal Society of Literature, è una scrittrice inglese per bambini e adulti tradotta in ben 27 lingue. In Italia,
tra gli altri, sono stati pubblicati: Lo diciamo a Liddy? (Adelphi, Milano 1999); Villa Ventosa (Adelphi,
Milano 2000); Quell’arpia di mia sorella (Salani, Milano 2010); Come scrivere da cani (Bur, Milano 2010).
Da Un padre a ore (Mrs. Doubtfire) è stato tratto il film omonimo con Robin Williams.
Confessioni di un gatto killer ha ricevuto i premi: Nottinghamshire Libraries Award (1995); Louisiana
Y oung Readers’ Choice Award for Grades 3-5; Parents’ Choice Recommended Award (U SA , 2006); Prix
Sorcières premières lectures (Francia, 1998); Prix Bernard Versele (Belgio, 1998).
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Illustratore
Andrea Musso (Novi Ligure, 1973), diplomato al Liceo artistico L. Canina e all’Istituto Europeo del Design
di Milano, è un illustratore di libri per bambini, di riviste dedicate agli animali come «Quattro Zampe
Magazine», di libri di cucina e di progetti editoriali tradotti e pubblicati anche in Giappone e Usa. In Italia,
tra gli altri, sono stati pubblicati con Sonda Cenerentola nel mondo (2009) e Dizionario bilingue
Bambino/Cane (2010).
Ha insegnato e lavora come free-lance per la pubblicità; appassionato di gatti e musica, condivide il suo
lavoro sui social network e nel sito www.andreamusso.it
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1. Lunedì
Okay, okay. Allora mettetemi un cappio al collo. Ho ucciso io quell’uccello. Per amor del cielo, sono un
gatto. In fondo è il mio lavoro inseguire strisciando in giardino gli uccellini, quei fagottini piccini picciò che
riescono a malapena a volare da una siepe all’altra.
Quindi cos’altro dovrei fare quando una di quelle povere e soffici pallette svolazzanti quasi si butta
dentro la mia bocca? Insomma, praticamente è atterrato sulle mie zampe. Avrebbe potuto ferirmi.
Okay, okay. Allora l’ho colpito. Ma che motivo c’era che Ellie affondasse il viso nella mia pelliccia
piangendo così forte che a momenti annegavo, e che mi stringesse così forte che a momenti soffocavo?
«Oh, Tuffy!», singhiozzava, col naso che colava, gli occhi rossi e montagne di fazzoletti bagnati. «Oh,
Tuffy. Come hai potuto farlo?».
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Come ho potuto farlo? Sono un gatto. Come potevo sapere che si sarebbe scatenato un pandemonio del
genere? La madre di Ellie è schizzata via a prendere fogli di vecchi giornali, e suo padre ha riempito un
secchio di acqua saponata.
Okay, okay. Forse non avrei dovuto trascinarlo dentro casa e abbandonarlo sulla moquette. E forse le
macchie non verranno mai via.
Allora mettetemi un cappio al collo.
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2. Martedì
Mi sono quasi divertito al piccolo funerale. Non credo che abbiano particolarmente apprezzato la mia
presenza ma, dopotutto, il giardino appartiene tanto a me quanto a loro. Anzi, ci passo un sacco di tempo
più di loro. Sono l’unico in famiglia a usarlo come si deve.
Non che me ne siano riconoscenti. Dovreste sentirli.
«Il gatto mi sta distruggendo le aiuole. Si è salvata solo qualche petunia».
«Avevo appena piantato le lobelie che ci si è subito sdraiato sopra, spianandomele tutte».
«Come vorrei che non scavasse buche tra gli anemoni».
Sbuff, sbuff, sbuff, sbuff. Non capisco perché si siano presi il disturbo di tenere un gatto, dato che tutti
non fanno altro che lamentarsi.
Tutti tranne Ellie. Era troppo impegnata a sciogliersi in lacrime per quell’uccello. L’ha messo in una
scatola avvolto nell’ovatta e ha scavato una piccola buca; poi ci siamo riuniti tutti intorno mentre lei
pronunciava un breve discorso, augurando all’uccello buona fortuna in paradiso.
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«Pussa via», mi ha sibilato il padre di Ellie. (Lo trovo piuttosto maleducato). Io, però, mi sono limitato a
lanciare un colpetto di coda nella sua direzione. A lanciargli un’occhiataccia. Chi si crede di essere? Se voglio
assistere al funerale dell’uccellino, lo faccio. Dopotutto, lo conoscevo da molto più tempo di ognuno di loro.
Lo conoscevo quando era vivo.
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3. Mercoledì
Allora sculacciatemi!
Ho portato un topo morto dentro la loro preziosa casa.
Non l’avevo neanche ucciso io. Quando me lo sono trovato di fronte, era già spacciato. Nessuno è al
sicuro qui intorno. Ogni angolo della via è stato cosparso di veleno per topi, le auto sfrecciano su e giù a
tutta velocità a ogni ora del giorno e della notte, e io non sono l’unico gatto del quartiere. Non so nemmeno
cosa è accaduto a quel cosetto. So solamente che l’ho trovato. Già morto. (Morto da poco, ma morto). E sul
momento mi è sembrata una buona idea portarlo a casa. Non chiedetemi perché. Dovevo essere impazzito.
Come potevo immaginare che Ellie mi avrebbe acchiappato per farmi una delle sue ramanzine?
«Oh, Tuffy! È la seconda volta questa settimana. Non lo sopporto. So che sei un gatto, ed è nella tua
natura eccetera eccetera. Ma per favore, fallo per me, smettila».
Mi ha fissato dritto negli occhi.
«La smetterai? Per favore?».
Le ho lanciato un’occhiataccia. (Be’, ci ho provato. Ma non le ha fatto né caldo né freddo).
«Dico sul serio, Tuffy», ha proseguito. «Ti voglio bene, e capisco come ti senti. Ma devi smetterla di
comportarti così, okay?».
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Mi ha preso per le zampe. Cos’avrei potuto rispondere? Allora ho cercato di mostrarmi molto dispiaciuto.
E poi lei è scoppiata di nuovo a piangere, e c’è stato un altro funerale.
Questo posto sta diventando la Città del Sorriso. Sul serio.
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4. Giovedì
Okay, okay! Proverò a spiegarmi sulla faccenda del coniglio.
Tanto per cominciare, credo che nessuno mi abbia riconosciuto il merito di averlo trascinato attraverso
la gattaiola.
Non è stato facile. Parola mia, c’è voluta quasi un’ora per far passare quel coniglio in quel buchetto.
Quel coniglio era terribilmente grasso. Aveva la stazza di un maiale più che di un coniglio, se proprio devo
essere sincero.
Non che a qualcuno importasse della mia opinione. Erano tutti fuori di testa.
«È Tippete!», ha strillato Ellie. «È Tippete, il coniglio dei vicini!».
«Accidenti!», ha esclamato il padre di Ellie. «Ora siamo nei guai. Cosa facciamo?».
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La madre di Ellie mi guardava fisso.
«Come ha potuto un gatto fare questo?», ha chiesto. «Voglio dire, non si tratta di un uccellino, un topo
o qualcosa del genere. Quel coniglio ha le stesse dimensioni di Tuffy. Pesano entrambi una tonnellata».
Carina. Molto carina. Questa è la mia famiglia, tanto per essere chiari. Be’, la famiglia di Ellie. Ma avete
capito cosa intendo.
Ellie, ovvio, si è agitata. È diventata una furia.
«È terribile», ha urlato. «Terribile. Non ci posso credere che Tuffy abbia fatto una cosa del genere.
Tippete era nostro vicino da anni e anni e anni».
Certo. Tippete era un amico. Lo conoscevo bene.
Si è rivolta verso di me.
«Tuffy! Questo è troppo. Quel povero, povero coniglio. Guardalo!».
E Tippete effettivamente era un po’ messo male, lo ammetto. Voglio dire, era diventato una palla di
fango. Con qualche macchia di erba, suppongo. E c’erano rametti e altra roba conficcati nella sua pelliccia.
E aveva una striscia di olio su un orecchio. Ma nessuno, dopo essere stato trascinato per l’intero giardino,
attraverso una siepe, un altro giardino, e infine una gattaiola oliata di fresco, avrebbe l’aspetto di chi sta
andando a una festa.
E poi a Tippete non importava il suo aspetto. Era morto.
Ma al resto della famiglia importava, eccome. Importava un sacco.
«Cosa facciamo?».
«Oh, è terribile. I vicini di casa non ci rivolgeranno più la parola».
«Dobbiamo pensare a qualcosa».
E l’hanno fatto. Lo ammetto, era un piano geniale, da tutti i punti di vista. Per prima cosa, il padre di
Ellie è andato di nuovo a prendere un secchio e poi lo ha riempito di acqua calda saponata.
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Nel mentre mi ha lanciato una mezza occhiataccia, cercando di farmi sentire in colpa perché aveva
dovuto bagnarsi le mani nel detersivo liquido puzzolente due volte in una settimana. Mi sono limitato a
lanciargli in risposta la mia solita occhiata «Non-mi-fai-paura».
Poi la madre di Ellie ha immerso Tippete nel secchio, lavandolo per benino in mezzo alle bolle e
risciacquandolo.
L’acqua è diventata di un marrognolo piuttosto disgustoso. (Colpa del fango). Poi, fissandomi come se
fosse tutta colpa mia, l’hanno buttata nello scarico del lavandino e hanno ricominciato da capo con nuova
schiuma pulita.
Ellie stava frignando, ovviamente.
«Smettila, Ellie», ha detto sua madre. «Mi fai venire i nervi. Se vuoi renderti utile, vai a prendere il fon».
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Allora Ellie si è trascinata di sopra, senza smettere di singhiozzare.
Io sono saltato sopra a una credenza, e li osservavo.
Hanno raddrizzato il povero Tippete e l’hanno immerso una seconda volta nel secchio. (Meno male che
non era più in sé. Avrebbe odiato tutti quei lavaggi).
E quando l’acqua finalmente è rimasta limpida, l’hanno tirato fuori e l’hanno asciugato.
Poi l’hanno sistemato su un giornale e hanno passato il fon a Ellie.
«Ecco», hanno detto. «Cotonagli la pelliccia con delicatezza».
Be’, lei ha fatto veramente un bel lavoro, non c’è che dire. Dal modo in cui l’ha cotonato, la mia Ellie ha
davvero la stoffa per diventare una parrucchiera coi fiocchi. Devo ammetterlo, non ho mai visto Tippete
così carino, e sì che ha vissuto nella conigliera dei vicini per anni e anni, e io lo vedevo ogni giorno.
«Ciao ciao, Tippy». Gli ho fatto un breve cenno mentre passeggiavo sul prato per controllare se erano
rimasti avanzi nelle ciotole più in là, in fondo alla via.
«Ciao, Tuff», mi ha risposto con un fremito del naso.
Sì, eravamo buoni compagni. Eravamo amici. E quindi era proprio un piacere vederlo così tirato a
lucido e in ghingheri dopo l’intervento di Ellie.
Sembrava bello.
«E adesso?», ha chiesto il padre di Ellie.
La madre di Ellie gli ha lanciato un’occhiata - il tipo di occhiata che riserva ogni tanto a me, solo più
gentile.
«Oh, no», ha detto lui. «Non io. Oh, no, no, no, no, no».
«O io o tu», ha risposto lei. «E non posso certo farlo io, giusto?».
«Perché no? Sei più piccola di me. Puoi strisciare attraverso la siepe più facilmente».
A quel punto ho capito cos’avevano in mente. Ma cos’avrei potuto dire? Cos’avrei potuto fare per
fermarli? Per spiegare?
Niente. Sono solo un gatto.
Mi sono messo a sedere e li ho osservati.
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5. Venerdì
Ho dedotto che fosse venerdì perché sono usciti molto tardi. Le lancette dell’orologio avevano già superato
da un po’ la mezzanotte, quando il padre di Ellie si è finalmente alzato dalla sua comoda poltrona di fronte
alla tele ed è salito al piano di sopra. Poi è ridisceso vestito di nero. Nero dalla testa ai piedi.
«Certo che sei proprio di umore nero», ha commentato la madre di Ellie.
«Magari potessi fare nero il nostro gatto», ha brontolato lui.
Mi sono limitato a ignorarlo. Era la cosa migliore.
La madre e il padre di Ellie si sono diretti alla porta sul retro.
«Non accendere la luce fuori», l’ha avvertita lui. «Non si sa mai, qualcuno potrebbe spiare».
Nel frattempo avevo cercato di sgattaiolare fuori anch’io, ma la madre di Ellie mi ha trattenuto col
piede.
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«Tu resti dentro stanotte», mi ha detto. «Questa settimana hai già combinato abbastanza guai».
Mi sembra giusto. E comunque sono venuto a sapere tutto, più tardi, da Bella, Tigro e MicioMicio.
Mi hanno riferito ogni dettaglio. (Sono buoni compagni). Hanno visto tutti il padre di Ellie procedere
gattoni lungo il prato, reggendo un sacco di plastica con dentro Tippete (avvolto delicatamente in un
asciugamano perché non si sporcasse).
L’hanno visto tutti farsi strada attraverso il buco nella siepe e strisciare sulla pancia fino al prato dei
vicini.
«Non crederai mai a cosa stava facendo», ha aggiunto MicioMicio subito dopo.
«Ha distrutto il buco nella siepe», si è lamentata Bella. «L’ha allargato così tanto che adesso anche il
Rottweiler dei Thompson ci può passare attraverso».
«Di notte la vista del padre di Ellie dev’essere la peggiore del mondo», ha detto Tigro. «Ci ha messo
un’eternità a trovare quella conigliera al buio».
«E ha forzato la porticina».
«E ci ha ficcato dentro il povero vecchio Tippete».
«E l’ha adagiato delicatamente sul suo letto di paglia».
«Tutto raggomitolato».
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«E lo ha avvolto nella paglia».
«Così sembrava che stesse dormendo».
«In un modo molto, molto naturale», ha detto Bella. «Quasi quasi ci cascavo anch’io. Se qualcuno si
fosse ritrovato a passare di lì, avrebbe davvero creduto che il povero vecchio Tippete fosse semplicemente
morto nel sonno sereno e in pace, di vecchiaia, dopo una lunga vita».
Sono scoppiati tutti a ridere.
«Sshh!», ho detto. «Abbassate il volume, amici. Vi sentiranno, e stanotte non ho il permesso di stare
fuori. Sono in castigo».
Si sono messi tutti a fissarmi.
«Stai scherzando!».
«In castigo?».
«Per cosa?».
«Omicidio», ho risposto. «Per coniglicidio a sangue freddo».
A quel punto non ci siamo più trattenuti. Abbiamo riso e riso a crepapelle. Le ultime cose che ho sentito
prima che ci muovessimo in gruppo verso Beechcroft Drive sono state la finestra della camera da letto che
si spalancava e il padre di Ellie che strillava: «Come hai fatto a uscire, diavolo d’un gatto?».
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Cos’avrebbe potuto fare? Forse sprangare la gattaiola?
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6. Sempre venerdì
Ha sprangato la gattaiola. Ci credereste? Questa mattina scende dalle scale, e prima ancora di togliersi il
pigiama è già al lavoro con chiodo e martello.
Stump, stump, stump, stump!
Gli lancio un’occhiataccia, sul serio. Ma poi si gira rivolgendosi proprio a me.
«Ecco», dice. «Che ti serva di lezione. Ora oscilla da questa parte...». Spinge pesantemente col piede la
gattaiola. «... Ma non oscilla da quella parte».
In effetti, è impossibile far dondolare la porticina all’indietro. Va a colpire il chiodo.
«Allora», continua. «Puoi uscire. Sentiti libero di uscire. Anzi, non solo sentiti libero di uscire, ma anche
di restare fuori, di smarrirti, o di sparire per sempre. Semmai ti prendessi il disturbo di tornare indietro, non
darti la pena di portare niente con te. Perché ora questa gattaiola è a senso unico, quindi dovrai aspettare
sullo zerbino finché uno di noi non ti farà entrare».
Mi fissa a occhi stretti, tentando di fare il duro.
«E guai a te, Tuffy, se ci sarà mai qualcosa di morto dietro di te sullo zerbino».
«Guai a te»! Che frase stupida. E poi, cosa cavolo vorrà mai dire? Guai a lui.
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7. Sabato
Odio il sabato mattina. È così stressante, tutto quel chiasso e le porte che sbattono, e «Hai preso la borsa?»;
«Dov’è la lista della spesa?»; «Abbiamo bisogno di cibo per gatti?». Certo che abbiamo bisogno di cibo per
gatti. Cos’altro dovrei mangiare tutta la settimana? Aria?
A ogni modo, oggi erano tutti abbastanza calmi. Ellie, seduta al tavolo, stava intagliando una lapide
piuttosto graziosa per Tippete dalla metà avanzata di una tegola di sughero. Recitava:
Tippete
Riposa in pace.
«Non devi ancora farla vedere ai vicini, però», l’ha avvisata il padre. «Non prima, almeno, che ci
abbiano detto che Tippete è morto».
Alcune persone sono di natura ipersensibile. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime.
«Ecco la vicina», ha detto la madre di Ellie, guardando fuori dalla finestra.
«Dove sta andando?».
«A fare la spesa».
«Bene. Se ci teniamo a debita distanza, possiamo portare Tuffy dalla veterinaria senza incrociarla».
Tuffy? Veterinaria?
Ellie era persino più terrorizzata di me. Si è gettata sul padre, picchiandolo con quei suoi piccoli pugni
leggeri.
«Papà! No! Non puoi».
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Con i miei artigli ho fatto un vero combattimento corpo a corpo.
Quando finalmente mi ha tirato fuori dalla credenza buia sotto il lavello, il suo maglione era a brandelli
e le mani piene di graffi sanguinanti.
Non era molto contento.
«Vieni fuori di lì, grassa palla di pelo psicopatica. È solo la vaccinazione programmata da tempo purtroppo!».
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Voi gli avreste creduto? Io non ero per niente tranquillo. (E neppure Ellie, che ha deciso di seguirci passo
passo). Quando siamo arrivati dalla veterinaria ero ancora molto sospettoso. È l’unico motivo per cui ho
sputato contro la ragazza alla reception. Non c’era alcuna ragione al mondo di scrivere «Maneggiare con
cura» sulla mia cartella. Nemmeno il Rottweiler dei Thompson ha la scritta «Maneggiare con cura» sulla
sua cartella. Perché ce l’hanno con me?
Allora sono stato un po’ scortese nella sala d’attesa. Embe’? Odio aspettare. Soprattutto odio aspettare
rinchiuso in un trasportino con la grata. È stretto lì dentro. Fa caldo. Ed è noioso.
Dopo essere rimasto seduto fermo in silenzio per un milione di minuti, chiunque inizierebbe a fare i
dispetti a chi gli sta intorno. Non avevo intenzione di spaventare praticamente a morte quel cuccioletto
malato di gerbillo. In fondo, lo stavo solo guardando.
È un paese libero, no? Un gatto non può nemmeno guardare un piccolo, tenero cucciolo di gerbillo?
E se mi stavo leccando i baffi (cosa che non stavo facendo) è solo perché avevo sete. Giuro.
Non intendevo fargli credere che me lo sarei voluto pappare.
Il problema con i cuccioli di gerbillo è che non sanno stare allo scherzo.
Proprio come tutti gli altri lì intorno.
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Il padre di Ellie ha alzato gli occhi dal depliant che stava leggendo, Il tuo animale domestico e i vermi.
(Oh, carino. Molto carino). «Gira il trasportino dall’altra parte, Ellie», ha detto. Ellie ha girato il mio
trasportino dall’altra parte.
Ora stavo guardando il Terrier dei Fisher. (E se c’è un animale al mondo che dovrebbe avere la scritta
«Maneggiare con cura» sulla sua cartella, è proprio il Terrier dei Fisher).
Okay, allora gli ho soffiato contro. Era solo un soffietto. Praticamente ci volevano le orecchie bioniche
per sentirlo.
E ho ruggito un pochino. Ma il mio ruggito in fondo gli ha fatto un baffo. È un cane, dopotutto. Io sono
solo un gatto.
E sì, okay, ho sputato un pochino. Ma appena un pochino. Niente di cui vi sareste accorti, a meno che
non aveste voluto prendervela con qualcuno.
Be’, come potevo sapere che non si sentiva tanto bene? Non tutti quelli che aspettano dalla veterinaria
sono malati. Io non ero malato, giusto?
A dire il vero, non mi sono mai ammalato. Non so neanche cosa si prova a esserlo. Ma credo che, anche
se stessi per morire, un cosetto peloso rinchiuso in un trasportino potrebbe rivolgermi un flebile verso senza
farmi scoppiare a piangere, a tremare e a rannicchiarmi sotto la sedia, per nascondermi dietro le ginocchia
del mio compagno umano.
Un comportamento più da coniglio che da Scottish Terrier, se proprio devo essere sincero.
«Potreste per favore tenere a bada quel vostro gatto schifoso?», ha chiesto sgarbata la signora Fisher.
Ellie si è subito alzata in mia difesa.
«È nel trasportino!».
«Sta comunque spaventando a morte metà degli animali qui dentro. Non potete mettergli, che so?, una
coperta sopra?».
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Ellie aveva tutte le intenzioni di controbattere, ve lo posso assicurare. Senza nemmeno alzare gli occhi
dal depliant sui vermi, però, suo padre ha semplicemente fatto scivolare l’impermeabile sul mio trasportino,
come se fossi un vecchio pappagallo spelacchiato o qualcosa del genere.
E tutto è diventato nero.
Non c’è da stupirsi se, quando la veterinaria mi si è avvicinata con il suo lungo e spaventoso ago, fossi
leggermente di cattivo umore. Non avevo intenzione di graffiarla così in profondità, comunque.
O di rompere tutte quelle bottigliette di vetro.
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O di far cadere giù dal tavolo la costosa bilancia per gatti nuova di zecca.
O di rovesciare tutto quel liquido smacchiatore.
In ogni caso, non sono stato io ad aver stracciato in mille pezzi la mia cartella clinica. È stata la
veterinaria.
Quando ce ne siamo andati, Ellie si è di nuovo sciolta in lacrime. (Alcune persone sono di natura
ipersensibile). Si è portata il mio trasportino stretto stretto al petto.
«Oh, Tuffy! Finché non troviamo un nuovo veterinario che ci garantirà di prendersi cura di te, devi
stare molto attento a non finire investito».
«Molto improbabile!», ha borbottato suo padre.
Lo stavo giusto guardando storto attraverso la grata del trasportino, quando ha avvistato la madre di
Ellie, in piedi fuori dal supermercato, sommersa fino alle ginocchia dalle borse della spesa.
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«Siete molto in ritardo», ci ha rimproverato. «Ci sono stati problemi dalla veterinaria?».
Ellie è scoppiata in lacrime. D’altronde è una pappamolle. Ma suo padre ha la scorza più dura. Stava
giusto per inspirare a pieni polmoni, pronto a spifferare l’accaduto, quando di colpo ha buttato fuori tutta
l’aria.
Con la coda dell’occhio aveva intercettato un altro tipo di guaio.
«Svelti!», ha sussurrato. «C’è la vicina alla cassa del supermercato».
Ha preso metà delle borse della spesa. La madre di Ellie ha preso l’altra metà. Ma prima che potessimo
filarcela, la vicina stava uscendo dalle porte di vetro.
Quindi adesso tutti noi quattro eravamo obbligati a fare conversazione.
«’Giorno», ha detto il padre di Ellie.
«’Giorno», ha detto la vicina.
«Bella giornata», ha detto il padre di Ellie.
«Deliziosa», ha confermato la vicina.
«Più bella di ieri», ha detto la madre di Ellie.
«Oh, sì», ha detto la vicina. «Ieri è stato terribile».
Probabilmente si riferiva solo al tempo, accidenti.
Eppure gli occhi di Ellie si sono riempiti di lacrime. (Non so perché volesse così bene a Tippete. Si
suppone che io sia il suo animale domestico, non lui). E poiché non riusciva più a vedere bene dove metteva
i piedi, è andata a sbattere contro la madre, e metà dei barattoli di cibo per gatti sono caduti fuori dalle borse
della spesa, rotolando giù per la strada.
Ellie ha posato il mio trasportino a terra, e si è lanciata all’inseguimento. Ma ha commesso l’errore di
leggere l’etichetta.
«Oh, nooo!», ha strillato. «Bocconcini di coniglio!».
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Davvero, quella bambina è una valle di lacrime. Non potrebbe mai entrare a far parte della nostra
banda. Non durerebbe una settimana.
«A proposito di conigli», ha detto la vicina, «ci è proprio capitata una cosa incredibile».
«Veramente?», ha risposto il padre di Ellie, guardandomi storto.
«Ah, sì?», ha risposto la madre di Ellie, guardandomi storto pure lei.
«Sì», ha continuato la vicina. «Lunedì, il povero Tippete sembrava un po’ malaticcio, così l’abbiamo
portato in casa. Martedì è peggiorato. E mercoledì è morto. Era davvero anziano, e ha vissuto una vita
felice, così non ci siamo rimasti troppo male.
Anzi, abbiamo organizzato un piccolo funerale, e l’abbiamo seppellito dentro una scatola in fondo al
giardino».
A quel punto mi sono messo a guardare le nuvole.
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«E giovedì era sparito».
«Sparito?».
«Sparito?».
«Sì, sparito. E tutto quello che era rimasto di lui era una buca nel terreno e una scatola vuota».
«Davvero?».
«Santo cielo!».
Il padre di Ellie mi stava lanciando un’occhiata sospettosissima.
«E poi, ieri», ha proseguito la vicina, «è successo qualcosa di ancora più straordinario. Tippete era
tornato. Tutto lisciato per benino, di nuovo nella sua conigliera».
«Di nuovo nella sua conigliera, dice?».
«Tutto lisciato per benino? Che strano!».
Bisogna ammetterlo, sono bravi attori. E hanno continuato la recita per tutta la strada verso casa.
«Che storia incredibile!».
«Com’è potuto accadere?».
«Stupefacente!».
«Davvero strano!».
Finché non siamo arrivati sani e salvi alla porta d’ingresso. Poi, ovviamente, la madre e il padre di Ellie
si sono rivolti verso di me.
«Gatto disonesto!».
«Farci credere di averlo ucciso!».
«Fingere per tutto questo tempo!».
«Sapevo che un gatto non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Quel coniglio era persino più
grasso di lui!».
Veniva quasi da pensare che tutti volessero che a uccidere il vecchio Tippete fossi stato io.
Tutti tranne Ellie. Lei era uno zuccherino.
«Non vi azzardate a prendervela con Tuffy!», ha detto. «Lasciatelo in pace! Scommetto che non ha
nemmeno disseppellito il povero Tippete. Scommetto che è stato il Terrier brutto e cattivo dei Fisher. Tuffy
ce lo ha solo portato, così che gli garantissimo una degna sepoltura una seconda volta. È un eroe. Un eroe
gentile e premuroso».
Mi ha abbracciato teneramente.
«È andata così, vero, Tuffy?».
Io però non ho detto niente, giusto? Sono un gatto. A quel punto mi sono limitato a sedermi e li ho
osservati mentre estraevano il chiodo dalla gattaiola.
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