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Jojo Moyes
L’ULTIMA LETTERA D’AMORE
Traduzione di Anna Tagliavini
Per Charles, che con il suo messaggio
ha scatenato tutto questo
Buon compleanno! C’è anche il regalo, che spero ti piacerà…
Ti ho pensato molto, oggi… perché ho deciso che, per quanto ti voglia bene, non sono innamorata di te. Non credo che tu
sia la mia anima gemella. In ogni caso spero davvero che il regalo ti piaccia e che tu trascorra un compleanno fantastico.
Donna a uomo, lettera
Prologo
A poi. X
Ellie Haworth scorge i suoi amici tra la folla e si fa strada attraverso il
bar. Lascia cadere la borsa per terra e posa il telefonino sul tavolo davanti a loro. Sono già brilli – si intuisce dal tono delle voci, dal gesticolare esagerato, dalle risate accese, dalle bottiglie vuote che hanno davanti.
«Sei in ritardo». Nicky alza il braccio mostrando l’orologio, e agita un dito in segno di rimprovero. «E non rifilarci il solito “Dovevo
finire un articolo”».
«Intervista con la moglie cornuta di un parlamentare. Scusate. Era
per l’edizione di domani» dice infilandosi nell’unico posto vuoto e
riempiendosi il bicchiere con il fondo di una bottiglia. Spinge il telefono in mezzo al tavolo. «Okay. Vi propongo l’espressione irritante di oggi: “A poi”».
«A poi?».
«Come saluto. Significa a domani o a più tardi? O è solo un orrido intercalare da adolescenti, e in realtà non vuol dire un bel niente?».
Nicky scruta il display. «“A poi” seguito da una X. La X sta per
“kiss”, bacio. È tipo “buonanotte”. Quindi direi a domani».
«Domani, sicuro» dice Corinne. «“Poi” è sempre domani». Esita. «Oppure potrebbe addirittura significare dopodomani».
«È molto sciolto».
«Sciolto?».
«Una cosa che potresti dire anche al postino».
«Manderesti un bacio al tuo postino?».
Nicky fa un gran sorriso. «Io sì. È stupendo».
Corinne studia il messaggio. «Non credo sia giusto. Potrebbe significare solo che aveva fretta di fare qualcos’altro».
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«Seee. Farsi sua moglie, per esempio».
Ellie lancia a Douglas un’occhiata ammonitrice.
«Che c’è?» ribatte lui. «Volevo solo dire: non credi di aver superato la fase in cui devi decrittare il testo?».
Ellie vuota il bicchiere, poi si sporge in avanti sopra il tavolo.
«Okay. Se devo sorbirmi la predica, allora ho bisogno di bere qualcos’altro».
«Quando si è intimi di qualcuno tanto da fare sesso nel suo ufficio, direi che gli si potrebbe chiedere in modo diretto quando andare
a prendere un caffè».
«Cosa dice il resto del messaggio? E ti prego, dimmi che non riguarda il sesso in ufficio».
Ellie controlla il telefono, fa scorrere i messaggi. «“Telefonata
complicata da casa. Settimana prossima Dublino ma non so ancora
i programmi. A poi. X”».
«Si tiene aperte tutte le opzioni» dice Douglas.
«Forse non sa esattamente… come dire… quali sono i programmi».
«Allora poteva dire “Ti chiamo da Dublino”. O addirittura “Vieni con me a Dublino”».
«Ci porta sua moglie?».
«Non lo fa mai. È un viaggio di lavoro».
«Forse ci porta qualcun’altra» mormora Douglas guardando la
sua birra.
Nicky scuote la testa, pensierosa. «Dio, non era tutto più semplice quando dovevano telefonarti e parlare con te? Se non altro potevi
fiutare dal tono della voce se stavano pensando di scaricarti».
«Già» sbuffa Corinne. «E potevi restartene in casa, accanto al
telefono per ore e ore ad aspettare che chiamassero».
«Ah, le notti che ci ho passato…».
«…a controllare se c’era la linea…».
«…e poi buttar giù di corsa, casomai ti stesse chiamando proprio in quel preciso momento».
Sentendoli ridere, Ellie riconosce la verità nelle loro battute; una
piccola parte di lei aspetta ancora di vedere il display illuminarsi
per una chiamata. Chiamata che, data l’ora e le “complicazioni a
casa”, non arriverà.
Douglas la scorta verso il suo appartamento. È l’unico dei quat10
tro a convivere con qualcuno, ma la sua compagna, Lena, è un pezzo grosso delle pubbliche relazioni nel settore tecnologico, e spesso
rimane in ufficio fino alle dieci o alle undici di sera. A Lena non dispiace che lui esca con i vecchi amici: qualche volta l’ha anche accompagnato, ma per lei è difficile penetrare la barriera fatta di vecchie
battute e di allusioni che risalgono a un decennio e mezzo di amicizia; di solito lascia che ci vada da solo.
«Allora… E tu che mi dici?». Ellie gli dà un colpetto col gomito
nelle costole, mentre scansano un carrellino per la spesa che qualcuno ha abbandonato sul marciapiede. «Non hai raccontato niente
di te, stasera. A meno che non mi sia persa tutto all’inizio».
«Non c’è molto» dice lui, poi esita. Si infila le mani in tasca. «A
dire il vero, non è proprio così. Ehm… Lena vuole un figlio».
Ellie alza lo sguardo su di lui. «Wow!».
«E anch’io» si affretta ad aggiungere. «Ne parliamo da secoli,
ma adesso abbiamo deciso che non ci sarà mai un momento giusto,
quindi tanto vale farlo e basta».
«Vecchio romanticone».
«Sono… mah… abbastanza felice, sul serio. Lena si terrà il lavoro, e io baderò al bambino a casa. Certo, ammesso che tutto vada
come deve andare e…».
Ellie cerca di mantenere un tono neutro. «E tu sei contento
così?».
«Sì. Tanto il mio lavoro non mi piace nemmeno. Non mi piace
più da anni. Lei guadagna una barca di soldi. Penso che sarà divertente passare la giornata a sfaccendare per casa con un bambino».
«Essere genitori è qualcosa di più che sfaccendare per casa…»
comincia lei.
«Lo so. Attenta… sul marciapiede». Con delicatezza la sposta per
scansare quello schifo. «Ma io sono pronto. Non ho bisogno di uscire tutte le sere per andare al pub. Voglio passare al livello successivo. Questo non significa che non mi piaccia uscire con voialtri, ma
a volte mi chiedo se non dovremmo tutti… cerca di capirmi… crescere un po’».
«Oh, no!». Ellie gli stringe il braccio. «Non dirmi che sei passato al lato oscuro».
«Be’, io non provo per il mio lavoro quello che provi tu. Per te è
tutto, no?».
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«Quasi tutto» ammette lei.
Percorrono in silenzio un paio di strade, ascoltando le sirene in
lontananza, gli sportelli delle macchine che sbattono, il chiacchiericcio soffocato della città. Ellie adora questo momento della sera,
rallegrato dall’amicizia, momentaneamente libero dalle incertezze
che circondano il resto della sua esistenza. Ha trascorso una bella
serata e adesso è diretta a casa, al suo appartamento così accogliente. È sana come un pesce. Ha una carta di credito da cui può ancora attingere in abbondanza, ha progetti per il weekend, ed è l’unica
dei suoi amici a non essersi ancora scoperta nemmeno un capello
bianco. La vita è bella.
«Pensi mai a lei?» chiede Douglas.
«A chi?».
«Alla moglie di John. Credi che lo sappia?».
Solo sentendola nominare, la felicità di Ellie svanisce. «Non lo
so». E visto che Douglas non commenta, aggiunge: «Sono sicura
che io al suo posto lo avrei capito. Si interessa di più ai bambini che
al marito, a sentir lui. A volte mi dico che forse una piccola parte di
lei è contenta di non doversi preoccupare per lui. Di doverlo rendere felice, capisci?».
«Sì, ti piacerebbe!».
«Può darsi. Ma se proprio devo essere onesta, la risposta è no.
Non penso a lei e non mi sento in colpa. Perché sono convinta che
non sarebbe successo se fossero stati felici o… come dire… legati».
«Voi donne avete un’idea degli uomini così distorta».
«Secondo te è felice con lei?» chiede, studiando la sua espressione.
«Non ne ho idea. Solo, non credo che debba essere infelice con
sua moglie per venire a letto con te».
L’atmosfera è un po’ alterata e lei, forse rendendosene conto,
con la scusa di sistemarsi la sciarpa gli lascia il braccio. «Tu pensi
che io sia una poco di buono. O che lo sia lui».
Ecco, ha sputato il rospo. Le brucia il fatto che a dirglielo sia
Douglas, il meno intransigente di tutti i suoi amici.
«Non giudico nessuno. Penso solo a Lena, e a cosa significherebbe per lei portare in grembo mio figlio. E l’idea di andare in giro
a spassarmela perché lei ha scelto di dedicare a mio figlio le attenzioni che credevo fossero riservate a me…».
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«Quindi lo consideri davvero un poco di buono».
Douglas scuote la testa. «Volevo solo…». Si interrompe. Prima di
formulare la sua risposta alza gli occhi al cielo notturno. «Penso che
tu debba stare attenta, Ellie. Questi tentativi di decifrare che cosa
intende dire, che cosa vuole, sono tutte stronzate. Stai sprecando il
tuo tempo. Nel mio mondo, di solito, le cose sono piuttosto semplici. Qualcuno ti piace, tu piaci a qualcuno, vi mettete insieme e in
sostanza è tutto qui».
«Carino, il mondo in cui vivi, Doug. Peccato che non somigli a
quello vero».
«Okay, cambiamo argomento. Questo è pessimo da tirar fuori
dopo aver alzato il gomito».
«No». C’è una nota stridula nella sua voce adesso. «In vino veritas
eccetera eccetera. Va bene così. Se non altro so come la pensi. Fermiamoci qui. Salutami Lena». Percorre di corsa le ultime due vie prima della sua, senza voltarsi a guardare il vecchio amico alle sue spalle.
Stanno impacchettando The Nation, uno scatolone dopo l’altro,
in vista del trasloco nella nuova sede, un edificio con la facciata in
vetro nella zona est della città, su una banchina da poco riqualificata, tutta scintillante. L’ufficio è stato spogliato una settimana dopo l’altra: dove una volta c’erano cataste di comunicati stampa, cartelline e
ritagli d’archivio, ora ci sono solo scrivanie vuote, sorprendenti e lucide distese di superfici laminate esposte al bagliore impietoso delle
luci al neon. Sono stati recuperati ricordi di storie passate, come reliquie di scavi archeologici: bandierine per celebrare anniversari di incoronazioni, elmetti di metallo tutti ammaccati risalenti a guerre remote, certificati incorniciati di premi da tempo dimenticati. Ammassi di cavi giacciono esposti, riquadri di moquette sono stati rimossi e
grandi buchi sono stati aperti nei soffitti, provocando le visite istrioniche di esperti di salute e sicurezza, nonché di una sfilza infinita di
visitatori armati di blocchi per gli appunti. I settori Pubblicità, Annunci economici e Sport sono già stati trasferiti sulla Compass Quay.
L’inserto del sabato e la redazione Economia e finanza personale si
stanno preparando a traslocare nelle prossime settimane. Cultura e
società, il settore di Ellie, seguirà insieme alla Cronaca, con un gioco
di mano studiato come una coreografia, in modo che mentre l’edizione della domenica sarà pubblicata nella vecchia redazione di Tur13
ner Street, quella del lunedì salterà fuori, come per magia, dal nuovo
indirizzo.
Lo stabile, sede del giornale da quasi cent’anni, non è più adatto
allo scopo, per usare un’espressione poco gradita. Secondo l’amministrazione non riflette la natura dinamica ed efficiente della moderna selezione delle notizie. Ha troppi buchi in cui nascondersi, osservano di malumore gli scribacchini quando vengono fatti sloggiare dalle loro posizioni, come patelle che si aggrappano ostinatamente a
uno scafo bucato.
«Dovremmo festeggiare» dice nel suo ufficio semivuoto Melissa, caporedattrice di Cultura e società. È vestita di seta color vinaccia. Addosso a Ellie l’abito sembrerebbe la camicia da notte di sua
nonna; su Melissa sembra esattamente quello che è: sfacciatissima ultima moda.
«Il trasloco?». Ellie guarda accanto a sé il cellulare, impostato in
modalità silenziosa. Intorno a lei i colleghi del settore restano in silenzio, con i blocchi per gli appunti sulle ginocchia.
«Sì. L’altra sera parlavo con uno degli archivisti. Dice che ci sono
un sacco di vecchi schedari che non vengono consultati da anni. Voglio qualcosa sulle pagine femminili di cinquant’anni fa. Come sono
cambiate la mentalità, la moda, le preoccupazioni delle donne. Casi
concreti messi a confronto, allora e adesso». Melissa apre una cartellina e ne estrae diverse fotocopie in formato A3. Parla con la tranquilla
sicurezza di chi è abituato a essere ascoltato. «Per esempio, dalle nostre pagine della posta dei lettori: “Che diavolo posso fare per convincere mia moglie a vestirsi meglio e a rendersi più attraente? Guadagno 1500 sterline all’anno, e sto iniziando a fare carriera in una società di vendite. Ricevo spesso inviti dai clienti, ma nelle ultime
settimane sono stato costretto a declinare perché mia moglie, detto
francamente, è un disastro”».
Si sentono delle risatine sommesse in giro per la stanza.
«“Ho cercato di dirglielo con gentilezza, ma lei risponde che
non gliene importa un fico secco di moda, gioielli e trucco. In tutta
sincerità, non ha per niente l’aspetto della moglie di un uomo di
successo, come invece vorrei io”».
John aveva detto a Ellie, una volta, che, con l’arrivo dei bambini,
sua moglie aveva perso ogni interesse per il proprio aspetto. Aveva
cambiato argomento quasi subito e non ci era mai più tornato sopra,
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come se intuisse che quelle affermazioni rappresentavano un tradimento ancora peggiore dell’andare a letto con un’altra. Ellie era stata
infastidita da quell’accenno di lealtà da gentiluomo, ma una piccola
parte di lei lo ammirava per questo.
E comunque ne era rimasta colpita. Si era immaginata la moglie:
sciatta nella sua camicia da notte macchiata, con in braccio un bambino, mentre rimproverava al marito qualche presunta mancanza. Aveva avuto voglia di dirgli che lei, con lui, non si sarebbe mai comportata così.
«Si potrebbe girare la domanda a una moderna Donna Letizia».
Rupert, il direttore del supplemento del sabato, si sporge in avanti
per sbirciare le altre fotocopie.
«Non sono sicura che sia necessario. Sentite la risposta: “Forse a
sua moglie non è mai venuto in mente di dover far parte della sua
vetrina. Ammesso che dedichi un pensiero a queste cose, può darsi
che dica a se stessa che è sposata, sicura, felice, quindi perché preoccuparsene?”».
«Ah» commenta Rupert. «La straordinaria pace del letto nuziale».
«“L’ho visto succedere, e anche molto in fretta, sia a ragazze appena innamorate che a donne intente a crogiolarsi nel comodo involucro di un matrimonio stagionato. Un attimo prima sono perfette
come una parete dipinta di fresco, mentre combattono eroicamente
con il girovita, raddrizzano le cuciture delle calze, si improfumano
ansiosamente. Poi un uomo dice ti amo e un attimo dopo quella splendida ragazza si trasforma in una sciattona. Una sciattona felice”».
La stanza si riempie per qualche istante di educate risatine di
apprezzamento.
«Cosa scegliete, ragazze? Combattere eroicamente con il girovita o diventare una sciattona felice?».
«Mi pare di aver visto un film con quel titolo, poco tempo fa»
dice Rupert. Il suo sorriso svanisce quando si accorge che le risate
si sono spente.
«Possiamo tirar fuori un sacco di roba da materiale come questo». Melissa indica la cartellina. «Ellie, potresti andare un po’ a
scavare, questo pomeriggio? Vedi cos’altro riesci a trovare. Teniamoci sui quaranta, cinquant’anni fa. Cento sarebbe troppo alienante. Il direttore vuole che mettiamo in risalto il trasloco in modo che
i lettori sentano di spostarsi insieme a noi».
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«Vuoi che vada a spulciare l’archivio?».
«È un problema?».
No, se ti piace sederti in scantinati bui pieni di carta ammuffita
sorvegliati da uomini disfunzionali con una mentalità stalinista, che
sembra non vedano la luce del giorno da trent’anni. «Assolutamente no» dice tutta allegra. «Sono sicura che troverò qualcosa».
«Portati qualche praticante per farti dare una mano, se vuoi. Ho
sentito dire che ce ne sono un paio che si aggirano nella redazione
Moda».
Ellie non si accorge della soddisfazione malevola che attraversa
l’espressione della caporedattrice al pensiero di spedire l’ultima nidiata di aspiranti Anna Wintour nelle viscere del quotidiano. È troppo impegnata a pensare: Merda. Sottoterra il telefonino non prende.
«A proposito, Ellie, dov’eri stamattina?».
«Cosa?».
«Stamattina. Volevo farti riscrivere quel pezzo sui bambini e il
lutto. Hai presente? Nessuno sembrava sapere dove fossi».
«Ero uscita per un’intervista».
«Con chi?».
Un esperto del linguaggio del corpo, pensò Ellie, avrebbe giustamente interpretato il sorriso vacuo di Melissa come denti scoperti in un ringhio.
«Un avvocato. Una gola profonda. Speravo di preparare qualcosa sul sessismo in tribunale». Le è venuto fuori quasi senza averci
pensato prima.
«Sessismo nella City. Non mi sembra certo pionieristico. Cerca di
essere alla tua scrivania in orario, domani. I colloqui per sondare il
terreno li fai nel tempo libero. Okay?».
«Certo».
«Bene. Voglio un paginone doppio per il primo numero da Compass Quay. Una cosa del tipo plus ça change…». Scarabocchia qualcosa sul suo taccuino rilegato in pelle. «Preoccupazioni, pubblicità,
problemi… portami qualche pagina più tardi nel pomeriggio, così
vediamo cos’hai trovato».
«D’accordo». Il sorriso di Ellie è il più radioso e il più solerte in
tutta la stanza, mentre segue gli altri fuori dall’ufficio.
Giornata trascorsa nell’equivalente moderno del purgatorio, digi16
ta sulla tastiera prima di fermarsi per un sorso di vino. L’archivio del
giornale. Ringrazia il cielo, tu che sei libero di inventarti tutto.
Lui le ha mandato un messaggio da hotmail. Si è ribattezzato Penpusher, “imbrattacarte”; una loro vecchia battuta. Ellie si raggomitola sulla poltroncina e rimane in attesa, sperando che il computer le
notifichi la sua risposta.
Sei proprio un’incivile. Io adoro gli archivi, risponde lo schermo.
Ricordami di portarti alla British Newspaper Library, al nostro prossimo appuntamento.
Lei sorride. Tu sì che sai come far divertire una ragazza.
Faccio del mio meglio.
L’unico archivista umano che c’era mi ha rifilato un pacco di carte
sparse. Non è certo la più eccitante delle letture da fare a letto…
Per paura di sembrare sarcastica aggiunge uno smile, ma si dà
della cretina appena le torna in mente che lui ha scritto un articolo
per la Literary Review sulle emoticon come emblema di tutto ciò
che non va nella comunicazione moderna.
Era uno smile ironico, aggiunge, premendosi la mano a pugno
contro la bocca.
Aspetta.Telefono. Lo schermo si blocca.
Telefono. La moglie? Lui è in una camera d’albergo a Dublino.
Vista mare, le ha detto. Ti piacerebbe. Come avrebbe dovuto replicare? Allora portami con te la prossima volta? Troppo impegnativo.
Sono sicura di sì? Sembrava quasi ironico. Sì, era stata alla fine la
sua risposta, accompagnata da un lungo sospiro che nessuno poteva sentire.
Gli amici dicono che la colpa è solo sua. Una volta tanto, non può
contraddirli.
Lo aveva incontrato a una fiera del libro nel Suffolk. Era stata
inviata a intervistare un autore di thriller che aveva fatto fortuna
dopo aver rinunciato ad ambizioni più letterarie. Lui si chiamava
John Armour, e Dan Hobson, il suo eroe, era una miscela quasi da
cartone animato di tratti virili fuori moda. Lo aveva intervistato durante un pranzo, aspettandosi da lui una difesa trita e ritrita della
letteratura di genere e forse qualche piagnisteo sull’industria editoriale: intervistare gli scrittori la sfiancava sempre. Si era immaginata
un panzone di mezza età, inflaccidito da anni di sedentarietà alla scri17
vania. Ma l’uomo alto e abbronzato che si era alzato per darle la
mano era asciutto e lentigginoso, e assomigliava piuttosto a un agricoltore sudafricano abituato all’asprezza del clima. Era simpatico, affascinante, dotato di autocritica e attento. Aveva rovesciato i ruoli
facendole domande personali, poi le aveva parlato delle sue teorie
sull’origine del linguaggio e della sua convinzione che la comunicazione si stesse trasformando in qualcosa di moscio e orrendo.
Quando arrivò il caffè, si era resa conto di non aver più preso
appunti da almeno quaranta minuti.
«Ma non le piace il suono di certe lingue?» aveva detto lei appena fuori dal ristorante, mentre tornavano alla fiera. Era quasi la fine
dell’anno e il sole invernale era già sprofondato dietro ai bassi edifici
della strada sempre più silenziosa. Lei aveva bevuto troppo, era al
punto in cui la bocca se ne andava per conto suo, in atteggiamento
di sfida, prima ancora che lei avesse deciso che cosa dire. Le era dispiaciuto uscire dal ristorante.
«Per esempio?».
«Lo spagnolo. Soprattutto l’italiano. Sono certa che è quello il
motivo per cui mi piace l’opera italiana, mentre non sopporto quella tedesca. Tutti quei suoni duri, gutturali». Lui era rimasto zitto a
riflettere, e quel silenzio l’aveva irritata. Aveva cominciato a balbettare: «Lo so che è terribilmente fuori moda, ma io adoro Puccini.
Adoro le emozioni intense. Adoro le R italiane, lo staccato…». Si
era interrotta, accorgendosi di quanto apparisse ridicolmente pretenziosa.
Lui si era fermato sotto un androne, aveva dato una rapida occhiata alla strada dietro di loro, poi era tornato a rivolgersi a lei. «L’opera non mi piace». L’aveva guardata dritto negli occhi, mentre lo
diceva. Come per sfidarla. Lei aveva sentito qualcosa che cedeva, proprio giù in fondo allo stomaco. Oddio, aveva pensato.
«Ellie» aveva detto lui dopo un minuto che stavano fermi lì. Era
la prima volta che la chiamava per nome. «Ellie, devo andare a prendere una cosa in albergo, prima di rientrare alla fiera. Ti va di accompagnarmi?».
Ancor prima che lui chiudesse la porta della camera alle loro spalle, erano già avvinghiati; i corpi premuti l’uno contro l’altro, le bocche intente a divorarsi mentre le mani eseguivano l’urgente, frenetica coreografia necessaria a spogliarsi.
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In seguito, ripensando al suo comportamento, si era meravigliata di
sé come di una qualche aberrazione osservata con distacco. Si era fatta passare la scena davanti agli occhi centinaia di volte fino a cancellarne l’importanza, l’emozione che l’aveva sopraffatta, lasciando solo i
particolari. La sua biancheria di tutti i giorni, inadeguata, lanciata a
cavallo del servomuto; le folli risatine di entrambi, dopo, sul pavimento, coperti dalla trapunta sintetica e sgargiante dell’albergo; il modo
in cui lui, verso la fine del pomeriggio, aveva restituito allegramente la
chiave alla receptionist, con un’ostentazione di fascino fuori luogo.
L’aveva chiamata due giorni dopo, quando la scioccante euforia
di quella giornata cominciava a trasformarsi in qualcosa di più deludente.
«Che sono sposato lo sai» aveva detto. «Avrai letto i pezzi sul
mio conto».
Ho cercato su Google fino all’ultima noticina, gli aveva risposto
in silenzio.
«Non sono mai stato… infedele, prima. Ancora non riesco a spiegarmi come sia successo».
«Sarà stata la quiche» aveva scherzato lei, con una smorfia di
sofferenza.
«Tu mi hai fatto qualcosa, Ellie Haworth. Non sono riuscito a
scrivere una parola in quarantott’ore». Silenzio. «Mi fai dimenticare quello che voglio dire».
Allora sono spacciata, aveva pensato. Perché appena aveva sentito il peso di lui contro di sé, aveva capito – a dispetto di tutto quello che aveva ripetuto ogni volta ai suoi amici in merito agli uomini
sposati, a dispetto di tutte le sue convinzioni di sempre – che le sarebbe bastato sentire da lui il più piccolo accenno all’accaduto, per
perdersi completamente.
A distanza di un anno, non aveva ancora iniziato a cercare una via
d’uscita.
Lui torna online circa tre quarti d’ora dopo. Nel frattempo lei
ha lasciato il computer, si è preparata un altro drink, ha gironzolato
per l’appartamento senza niente da fare, si è guardata allo specchio
del bagno e ha raccolto delle calze scompagnate che ha ficcato nel cesto della roba sporca. Sente il ping di un messaggio e si precipita a
sedere.
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Scusa. Non volevo metterci tanto. Spero che potremo parlare domani.
Niente telefonate al cellulare, aveva detto. La bolletta è dettagliata.
Sei in albergo, adesso? Digita in fretta. Potrei chiamarti in camera. Parlarsi a voce era un lusso, un’opportunità rara. Dio, aveva soltanto bisogno di sentire la sua voce.
Devo andare a cena, bellissima. Scusami, ma sono già in ritardo.A
poi. X.
E se n’è andato.
Lei fissa lo schermo vuoto. Adesso starà attraversando con passo atletico l’atrio dell’hotel, ammaliando il personale della reception,
per poi salire nella macchina messa a disposizione dall’organizzazione dell’evento. Stasera a cena farà un intervento brillante e spontaneo, e poi si comporterà come al solito, divertito e appena un po’
malinconico, con i fortunati che siedono a tavola con lui. Sarà là
fuori, a vivere la sua vita al cento per cento, mentre lei sembra aver
messo la sua in attesa perenne.
Che cazzo stava facendo?
«Che cazzo sto facendo?» dice ad alta voce, spegnendo il computer. Grida la sua frustrazione al soffitto della camera, lasciandosi
cadere sul grande letto vuoto. Non può chiamare i suoi amici: hanno sopportato queste conversazioni già troppe volte ed è molto facile indovinare quale sarebbe la loro reazione – l’unica reazione possibile. Quel che le ha detto Doug le ha fatto male. Ma lei avrebbe detto le stesse identiche cose a ciascuno di loro.
Si siede sul divano, accende la televisione. Infine, lanciando un’occhiata al mucchio di carte che ha di fianco, se le mette in grembo
maledicendo Melissa. Una miscellanea, aveva detto l’archivista, ritagli senza data non riconducibili alle categorie più ovvie. «Non ho avuto tempo di esaminarli tutti. Sapessi quante pile come questa stanno
saltando fuori». Era l’unico archivista sotto i cinquanta, là sotto. Di
sfuggita, si chiese come mai non l’avesse mai notato prima.
«Vedi se c’è qualcosa che ti può servire». Si era sporto in avanti
con aria complice. «Tutto quello che scarti buttalo pure, ma non
dirlo al capo. Siamo arrivati al punto in cui non possiamo permetterci di esaminare ogni singolo pezzo di carta».
Il perché le fu subito evidente: qualche recensione di rappresen20
tazioni teatrali, un elenco dei passeggeri di una nave da crociera, alcuni menù di cene organizzate dal giornale per festeggiare un evento. Sfoglia tutto quanto, buttando di tanto in tanto un occhio alla
televisione. Qui non c’è niente di esaltante per Melissa.
Ora sta passando in rassegna uno schedario malconcio, sembrano cartelle cliniche. Tutte malattie polmonari, nota distrattamente.
C’entra il lavoro in miniera. Sta per buttare l’intero pacco nel cestino
quando il suo sguardo cade su un angolino azzurro pallido. Lo prende tra indice e pollice e tira, estraendo una busta scritta a mano. È
stata aperta, e la lettera all’interno è datata 4 ottobre 1960.
Mio adorato e unico amore,
dicevo sul serio. Uno di noi deve prendere una decisione, oggi
ho finalmente capito che è l’unico modo per andare avanti.
Io non sono forte come te. Quando ci siamo conosciuti, ho
pensato che tu fossi un essere fragile, una persona da proteggere. Ora mi rendo conto di quanto avessi torto. Tra noi due, sei
tu ad avere più forza: tu, che sei capace di accettare la possibilità di vivere un amore come questo, e di sopportare il fatto che
non ci sarà mai permesso viverlo.
Ti supplico, non giudicarmi per la mia debolezza. La mia sola
possibilità di sopravvivere è andare dove non potrò vederti mai
più, dove non sarò più ossessionato dall’eventualità di vederti in
sua compagnia. Ho bisogno di stare in un posto in cui altre necessità mi costringano a scacciarti dai miei pensieri un minuto
dopo l’altro, un’ora dopo l’altra. Questo, qui, non può accadere.
Accetterò quel posto. Sarò a Paddington Station, binario 4,
alle 19.15 di venerdì. Se trovassi il coraggio di venire con me,
niente al mondo mi farebbe più felice.
Se non verrai saprò che, per quanto forte sia quello che proviamo, non lo è abbastanza. Non te ne faccio una colpa, amor
mio. So che nelle ultime settimane hai dovuto sopportare una
pressione intollerabile, che schiaccia anche me. L’idea di averti
potuto causare la minima infelicità mi è odiosa.
Aspetterò al binario dalle sette meno un quarto. Sappi che
tieni tra le tue mani il mio cuore e ogni mia speranza.
Con amore,
B
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Ellie la legge una seconda volta, e si ritrova, inspiegabilmente, con
gli occhi pieni di lacrime. Non riesce a smettere di guardare quella
scrittura larga, dalle curve ampie; nella loro immediatezza, quelle parole balzano verso di lei più di quarant’anni dopo essere state nascoste. Rigira il foglio, controlla la busta in cerca di indizi. L’indirizzo è una casella postale: PO Box 13, Londra. Potrebbe essere un
uomo o una donna. Che ne è stato di te, PO Box 13? si chiede silenziosamente Ellie.
Infine si alza, rimette con cura la lettera nella busta e torna al
computer. Apre la finestra della posta e preme AGGIORNA. Più niente, dopo il messaggio delle diciannove e quarantacinque.
Devo andare a cena, bellissima. Scusami, ma sono già in ritardo.A
poi. X.
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