LETTURA effettuata da Adriano Fabris alla

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LETTURA effettuata da Adriano Fabris alla
Jean Paul
(Johann Paul Friedrich Richter)
Discorso del Cristo morto,
il quale, dall'alto
dell'edificio del mondo,
proclama che non vi è Dio alcuno
Proemio
Lo scopo di quest'opera è la giustificazione della sua audacia. Gli
uomini negano l'esistenza di Dio con la stessa pochezza di sentimento che,
ai più, consente di ammetterla. Persino nei nostri veraci sistemi
raccogliamo, come avidi collezionisti di numismatica, unicamente parole,
gettoni e medaglie; – e solo successivamente trasformiamo le parole in
sentimenti e le monete in possessi. Si può credere per vent'anni
all'immortalità dell'anima – – ma solo al ventunesimo, in un istante
grandioso, ci si stupisce del ricco contenuto di questa fede, del calore che
offre una tale sorgente di combustibile.
Allo stesso modo sono rimasto inorridito dal velenoso miasma che
spira soffocante incontro al cuore chi, per la prima volta, s'avventura
nell'edificio dottrinario dell'ateismo. La negazione dell'immortalità mi fa
meno male di quella della divinità: in quel caso, non perdo nient'altro che
un mondo coperto da coltri nebbiose; in questo, vengo a perdere il mondo
presente, il sole che lo illumina; l'intero universo spirituale viene spaccato
e frantumato in innumerevoli punti-io, come di mercurio, i quali brillano,
stillano, errano, fuggono, incontrandosi e separandosi, senza unità né
consistenza. Nessuno è così solo nel Tutto come colui che nega Dio –
costui, avendo perduto il Padre più grande, si trova in lutto, con il cuore
orfano, accanto allo smisurato cadavere della natura, il quale non è più
animato e unito dallo spirito del mondo, e che s'accresce nella tomba; e il
miscredente s'affligge così a lungo, fino a quando egli stesso non si stacca,
sfaldandosi, da quel cadavere. Davanti a lui sta immobile il mondo intero,
come la grande sfinge egizia di pietra semisdraiata sulla sabbia; e il Tutto è
la fredda maschera di ferro dell'informe eternità.
Con il mio scritto intendo anche mettere paura ad alcuni magistri che
fanno lezione o hanno seguito lezioni all'università, perché oggi queste
persone, da quando sono andate a lavorare a giornata, come i forzati,
all'impianto idraulico e ai cunicoli di miniera della filosofia critica,
esaminano in verità l'esistenza di Dio in maniera così flemmatica e
insensibile come se si trattasse di quella di un mostro marino o
dell'unicorno.
Alle altre persone, le quali non la sanno così lunga come un
dottorando che mette in mostra la propria dottrina, voglio solo far notare
come dalla fede nell'ateismo può discendere senza contraddizione anche
quella nell'immortalità; infatti, la stessa necessità, che in questa vita gettò
nel calice di un fiore e sotto l'astro del sole la lucente goccia di rugiada del
mio io, può appunto ripetersi una seconda volta; – anzi, questa seconda
volta si può incarnare in me più facilmente della prima.
*
Quando nell'infanzia sentiamo raccontare che a mezzanotte, nell'ora
in cui il nostro sonno sfiora l'anima fino a toccarla, oscurando anche i
sogni, i morti si levano dal sepolcro e scimmiottano nelle chiese il servizio
divino dei vivi: allora, al pensiero di essi, rabbrividiamo della morte, e
nella solitudine notturna distogliamo lo sguardo dai lunghi finestroni della
chiesa silenziosa, paurosi di indagare se il loro baluginare sia proprio un
riflesso della luna.
Nel sogno l'infanzia, e di essa più i terrori che gli incantamenti, di
nuovo mette le ali, e risplende e gioca, come le lucciole, nella piccola notte
dell'anima. Non calpestate queste scintille svolazzanti! – Lasciateci perfino
i sogni cupi, tormentosi: quella penombra in cui meglio risalta la realtà! –
E che cosa potrà mai ripagarci di quei sogni i quali, togliendoci dal
frastuono della cascata che scroscia giù in basso, ci elevano alle quiete
altezze dell'infanzia, allorché il fiume della vita scorre silenzioso nella sua
piccola pianura e, rispecchiando il cielo, va incontro al proprio abisso? –
Una volta, in una sera d'estate, giacevo in cima a un monte, in faccia
al sole, e mi addormentai. Mi prese un sogno, e in esso mi risvegliai al
camposanto. Era stato il muoversi degli ingranaggi dell'orologio della
torre, che batteva le undici, a destarmi. Nel cielo deserto della notte cercai
il sole, credendo che la luna lo nascondesse in un'eclissi. Tutte le tombe
erano scoperchiate, e le porte di ferro dell'ossario si aprivano e si
chiudevano spinte da mani invisibili. Sui muri fluttuavano ombre che
nessuno proiettava, e altre ombre vagavano ritte nell'aria. Dentro le tombe
aperte c'erano soltanto bambini che dormivano. Dal cielo scendeva, a
grandi falde, una grigia nebbia soffocante, che un'ombra enorme, a mo’ di
rete, traeva a sé, sempre più vicino, stringendo sempre di più e con
crescente violenza. Sopra di me sentivo un rumore lontano di valanghe,
sotto di me la prima scossa di un immenso terremoto. La chiesa oscillava,
in su e in giù, sull'onda dell'inaudita dissonanza di due note che si
scontravano al suo interno, anelando invano all'armonia. Talvolta un livido
lucore baluginava dalle sue vetrate, e sotto quella luce si liquefacevano il
piombo e il ferro dei finestroni, colando giù. La rete della nebbia e la terra
che tremava mi sospinsero nel tempio; davanti al suo portale due basilischi
scintillanti se ne stavano a covare in nidi velenosi. Avanzai fendendo
ombre sconosciute, che recavano i segni di secoli antichi. – Tutte le ombre
stavano in piedi intorno all'altare e a tutte, invece che il cuore, tremava e
pulsava il petto. Solo un morto, che era stato in precedenza sepolto nella
chiesa, giaceva ancora sui suoi cuscini, senza che il petto gli tremasse, e
sul suo viso sorridente aleggiava un sogno felice. Ma non appena un
vivente fece il suo ingresso, egli si ridestò e smise di sorridere: sollevò a
fatica, con una contrazione, le gravi palpebre, sotto le quali non v'erano
occhi, così come, nel petto palpitante, una piaga era al posto del cuore.
Levò le mani e le giunse in preghiera: ma le braccia gli si allungarono e si
distaccarono, e le mani, fra loro congiunte, ricaddero lontano. Alla
sommità della chiesa era posto il quadrante dell'eternità, sul quale non
c'erano numeri e che era la sua propria lancetta; solo un dito nero lo
indicava, e i morti si sforzavano di leggervi il tempo.
Ed ecco, da lassù, discendere sull'altare una figura alta e nobile,
accompagnata da un dolore inestinguibile, e tutti i morti gridarono:
«Cristo! Non c'è Dio alcuno?».
Egli rispose: «Non c'è».
L'ombra di ogni defunto tremò tutta intera, non solamente nel petto, e
per questo tremito ciascuna fu disgiunta dall'altra.
Cristo proseguì: «Ho attraversato i mondi, sono salito fino ai soli e
ho percorso a volo, lungo le vie lattee, i deserti del cielo; ma non c'è Dio
alcuno. Sono disceso fin dove l'essere proietta le sue ombre e ho scrutato
nell'abisso gridando: “Dove sei tu, Padre?”. Ma ho udito solamente l'eterna
tempesta che nessuno governa, mentre il variopinto arcobaleno degli
esseri, senza che vi fosse un sole a crearlo, s'inarcava e sgocciolava sopra
l'abisso. E quando levai lo sguardo al mondo sconfinato, cercando l'occhio
divino, esso mi fissò con una vuota orbita senza fondo; e l'eternità si
stendeva sopra il caos e lo erodeva e ruminava se stessa. – Continuate a
risuonare, o note dissonanti, stridete fino a dissolvere le ombre; poiché
Egli non c'è!».
Le ombre sbiadite volarono via, e scomparvero come il bianco
vapore del gelo si dissolve a un soffio caldo; e tutto si fece vuoto.
Giunsero allora nel tempio, spettacolo orribile per il cuore, i bambini morti
che si erano svegliati nel camposanto, e si gettarono davanti all'alta figura
presso l'altare e dissero: «Gesù! non abbiamo noi un padre?» – Ed egli
rispose, piangendo: «Siamo tutti orfani, io e voi, siamo tutti senza padre».
Ed ecco che le note in dissonanza stridettero più forte – i muri
oscillanti del tempio si squarciarono – e il tempio e i bambini
sprofondarono – e la terra tutta e il sole li seguirono nell'abisso – e l'intero
edificio del mondo, in tutta la sua immensità, sprofondò dinnanzi a noi – e
in alto, al culmine della natura sconfinata, stava Cristo e guardava giù
l'edificio del mondo trivellato da mille soli, quasi una miniera scavata nella
notte eterna, percorsa da quegli astri simili a lanterne di minatori e
attraversata da vie lattee come da filoni d'argento.
E quando Cristo contemplò il tumultuoso accalcarsi dei mondi, e
scorse la fiaccolata danzante dei fuochi fatui celesti e i banchi corallini dei
cuori palpitanti, e vide come i globi dei pianeti, uno dopo l'altro, andavano
disperdendo sul mare dei morti le loro anime non del tutto spente, allo
stesso modo in cui una boa marina dissemina sulle onde luci che paiono
nuotare: allora, grande come il sommo fra gli esseri finiti, egli levò gli
occhi al nulla e alla vuota immensità e disse: «O fisso, muto nulla! Fredda,
eterna necessità! Folle caso! Conoscete voi ciò che vi soggiace? Quando
farete a pezzi l'universo, e anche me? – O caso, sei forse tu a conoscerlo,
mentre tempestoso procedi nel turbinante pulviscolo di stelle, come fosse
di neve, e col tuo soffio spengi un sole dopo l'altro, e al tuo passaggio
s'abbuia la sfavillante rugiada delle costellazioni? – Com'è solo ciascuno di
noi nel vasto catafalco del Tutto! Solo me stesso io ho vicino. – O Padre!
O Padre! Dov'è il tuo petto infinito, affinché vi possa posare il capo? – Ah,
se ogni io è padre e creatore di se stesso, perché non può essere anche il
proprio angelo sterminatore? .....
«Questi, che mi è vicino, è ancora un uomo? Oh sventurato! La
vostra breve vita è il sospiro della natura, o solamente la sua eco – uno
specchio concavo getta i suoi riflessi sulla vostra terra, in quelle nuvole
polverose formate dalla cenere dei morti, e così nascete voi, immagini
offuscate, vacillanti. – Guarda dentro l'abisso, sopra il quale si stendono le
cineree nubi – Nebbie colme di mondi salgono dal mare dei morti, il futuro
è una nebbia che monta, e il presente una che cala. – Riconosci tu la tua
terra?».
A questo punto Cristo guardò giù, e i suoi occhi si riempirono di
lacrime, e disse: «Ah, un tempo io fui sulla terra: allora ero felice, avevo
ancora il Padre mio infinito e volgevo lieto lo sguardo dai monti al cielo
sconfinato, e premevo ancora il mio petto trafitto sulla Sua immagine
consolatrice dicendo, nel crudo momento della morte: “Padre, trai tuo
figlio dalle sue spoglie sanguinanti e innalzalo fino al tuo cuore!” ... Ah
voi, troppo felici abitatori della terra, voi che ancora credete in Lui. Forse
ora il vostro sole sta tramontando, e cadete in ginocchio tra i fiori, lo
splendore e le lacrime, e sollevate le mani beate e fra mille lacrime di gioia
gridate, rivolti al cielo spalancato: “Anche me tu conosci, Infinito, e
conosci tutte le mie piaghe, e dopo la morte Tu mi accoglierai,
risanandomele tutte” ... O voi infelici: dopo la morte esse non saranno
affatto risanate. Quando il miserabile, col dorso piagato, si corica nella
terra, egli si assopisce fidando di andare incontro a un mattino più bello,
pieno di verità, ricco di virtù e di gioia: e invece si risveglia nel caos della
tempesta, nella mezzanotte eterna – e non viene mai mattina, non giunge la
mano salvatrice, non arriva il Padre infinito! – Mortale che mi sei vicino,
se ancora tu vivi, adoraLo: altrimenti, Lo avrai perduto per l'eternità».
E quando m'abbattei a terra e volsi lo sguardo al rilucente edificio del
mondo, vidi levarsi gli anelli del gigantesco serpente dell'eternità, che
stava accovacciato tutt'intorno all'universo – e le sue spire ricaddero, ed
esso s'avvolse doppiamente attorno al Tutto – poi s'avvoltolò in mille giri
intorno alla natura – e strinse i mondi l'uno sull'altro – e schiacciò il
tempio infinito, e lo frantumò riducendolo a una chiesa con il suo
camposanto – e tutto divenne angusto, tetro, angoscioso – e un battaglio
smisurato stava per scoccare l'ultima ora del tempo e schiantare l'edificio
del mondo .... quando mi svegliai.
La mia anima pianse dalla gioia di poter di nuovo adorare Dio – e la
gioia e il pianto e la fede in Lui furono la mia preghiera. E quando mi alzai
il sole riluceva ancora, al fondo, dietro le colme spighe purpuree, e gettava,
in pace, il riflesso del suo tramonto sulla piccola luna, che, senza aurora, si
levava da oriente; e fra cielo e terra distendeva le sue brevi ali un gioioso
mondo transeunte, che viveva, come me, al cospetto del Padre infinito; e
da tutta la natura che mi circondava fluivano suoni di pace, come da
campane remote nella sera.